L'Ottocento: biologia. La teoria cellulare
La teoria cellulare
Nel XIX sec. la teoria cellulare assume una posizione di primo piano in tutti i programmi di ricerca morfologici e fisiologici condizionando profondamente l'evoluzione della biologia. Con il termine 'cellula' si designa l'unità morfologica elementare degli organismi animali e vegetali, sia unicellulari sia aggregati complessi di cellule. Tale unità è, inoltre, la sede di processi vitali elementari morfogenetici, che determinano la strutturazione organica stessa, e metabolici, che implicano reazioni biochimiche e assicurano la regolazione delle funzioni all'interno delle cellule, delle relazioni tra le diverse cellule e dei rapporti tra queste ultime e il loro ambiente. Lo studio della riproduzione e del differenziamento cellulare ha rappresentato ed è ancora la via di accesso privilegiata alla comprensione dei fenomeni della morfogenesi, dell'ereditarietà e dell'evoluzione. La cornice fornita dalla teoria cellulare, che non ha mai cessato di integrare modelli analitici sempre più complessi, ha infine reso possibile la costituzione, nel corso del XX sec., di una biologia infinitamente più sottile, incentrata sulle strutture e sui processi molecolari.
Il concetto di cellula rinvia a oggetti rivelati dall'osservazione di organismi elementari e di elementi di tessuti appartenenti a organismi complessi attraverso una sofisticata strumentazione. Dalla metà del XVII sec. fino ai nostri giorni, il processo di scoperta empirica delle cellule come unità morfologiche e la rappresentazione sempre più raffinata delle loro microstrutture sono stati in realtà determinati non solo dallo sviluppo dei microscopi, ma anche da quello delle tecniche di dissezione, di colorazione, di preparazione e di marcatura. Tra le condizioni che hanno determinato l'emergere della teoria cellulare va inoltre menzionata l'identificazione sempre più circostanziata dei fenomeni fisici e dei processi chimici relativi alle microstrutture anatomiche. Ogni stadio di evoluzione tecnologica e di perfezionamento degli strumenti d'osservazione si coniuga tuttavia con la trasformazione della rappresentazione dell'attività cellulare offerta dalla teoria stessa.
La tesi di uno sviluppo empirico continuo, condizionato dall'evoluzione delle tecniche e degli strumenti di analisi, si contrappone in parte a quella secondo cui il concetto di cellula rinvia sin dalla sua origine ad alcuni modelli teorici, se non speculativi, concernenti la genesi dell'organismo, le sue modalità di costituzione e i suoi fenomeni caratteristici. In una certa misura, questi modelli teorici sono senza dubbio associati ad alcuni schemi speculativi esposti nel quadro delle dottrine della Naturphilosophie tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo. A nostro parere, tuttavia, occorre far ricorso a un altro tipo di analisi per descrivere l'infrastruttura teorica del programma di ricerca cellulare nel corso delle prime fasi della sua esistenza. In effetti, sin dai suoi esordi la teoria cellulare si è avvalsa di schemi presi a prestito da corpora scientifici relativi all'anatomia generale dei tessuti, all'embriologia e alla cristallografia, così come alla fisica e alla chimica degli scambi transmembrana. Quanto all'interpretazione globale dei processi, essa ha oscillato tra approcci decisamente riduzionistici o vitalistici, a seconda dei modelli metodologici prevalenti. Nell'insieme, gli schemi teorici in origine riconducibili ad alcune 'filosofie della Natura' hanno conosciuto, all'epoca della nascita della teoria cellulare propriamente detta, un processo di quasi completa riduzione a norme metodologiche di osservazione e di sperimentazione controllate in maniera più rigorosa.
Prima della nascita della teoria cellulare, segnata dagli studi di Matthias Jacob Schleiden (1804-1881) e di Theodor Schwann (1810-1882), numerosi naturalisti si erano dedicati all'osservazione delle cellule o di strutture microanatomiche considerate tali. Nella sua Micrographia (1665) l'inglese Robert Hooke aveva descritto la struttura alveolare del parenchima della quercia da sughero ricorrendo alla metafora della cellula per definire questo tipo di configurazione. Come testimoniano le numerose osservazioni delle vescicole, delle cellule, degli utricoli, dei sacculi e dei pori individuati nelle strutture vegetali in seguito ai lavori di Nehemiah Grew e di Marcello Malpighi, a partire da questo periodo i naturalisti iniziarono a descrivere alcune microparti di piante e di animali osservate al microscopio presentandole come strutture globulari o vescicolari. Per quanto riguarda gli animali, le osservazioni incentrate sui globuli del sangue e sulle cellule di pus e di grasso condotte da Jan Swammerdam, da Antoni van Leeuwenhoek e dai loro successori in seguito cedettero il passo alle osservazioni delle cellule epiteliali, tra le quali ricorderemo quelle effettuate nel 1781 da Felice Fontana. Parallelamente, molte caratteristiche microstrutturali e microfunzionali degli organismi animali si rivelarono grazie allo studio dei protisti, organismi viventi unicellulari, intrapreso da Abraham Trembley e da Charles Bonnet e alla descrizione delle fasi originarie vescicolari dell'embriogenesi, resa possibile dalla ricostruzione dell'epigenesi compiuta da Caspar Friedrich Wolff.
È ad Albrecht von Haller (1708-1777) e ai suoi successori, i teorici della fibra vivente, che spetta il merito di aver suggerito una concezione unitaria degli elementi morfologici costitutivi degli organismi viventi. Nelle loro teorie i diversi tipi di fibre elementari sono considerati unità strutturali, identificabili attraverso alcune proprietà vitali emergenti (l''irritabilità' e la 'sensibilità') e derivanti da un principio di formazione proprio. Con l'aiuto di queste fibre elementari, concepite come elementi lineari, sembrava possibile descrivere, attraverso un processo analogo a quello della composizione di superfici e di volumi, la strutturazione complessa di un organismo integrato, sede di funzioni globali sovradeterminanti le proprietà fibrillari propriamente dette. Come affermava Haller, "la fibra è per il fisiologo ciò che la linea è per il geometra, l'elemento da cui nascono tutte le figure" (1757-66, I, p. 2). La genesi delle fibre, però, rimaneva avvolta nel mistero, così come il loro presunto rapporto con un morfotipo elementare, sostrato di tutte le operazioni fisiologiche.
Nello stesso periodo emerse un altro modello teorico, la cui confluenza con quello fibrillare diede luogo ad alcune delle concezioni teoriche più interessanti dell'inizio del XIX secolo. Ispirandosi all'idea di monade, concetto ideato da Gottfried Wilhelm Leibniz e reinterpretato come rappresentazione dell'organismo elementare, molti naturalisti tentarono, sull'esempio di Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Georges-Louis Leclerc de Buffon, John Turberville Needham e Théophile de Bordeu, di capire come una struttura corpuscolare di base dotata di poteri funzionali e vitali avrebbe potuto produrre per combinazione strutture organiche complesse. In tal modo affiorò progressivamente la rappresentazione dell'integrazione organica in tutta la serie delle forme viventi; l'organismo iniziò a essere concepito come una combinazione più o meno complessa di monadi vitali in via di sviluppo e di interazione. Questa concezione sarà espressa in modi diversi da alcuni filosofi della Natura, tra i quali ricorderemo Lorenz Oken (1779-1851), che all'inizio del XIX sec. esaminò dal punto di vista speculativo il morfotipo unico come microrganismo alla base della costituzione dell'organismo. In Die Zeugung (La riproduzione, 1805) e soprattutto in Lehrbuch der Naturphilosophie (Trattato di filosofia della Natura, 1809-1811), Oken afferma che gli organismi complessi sono costituiti da una 'massa di infusori'; che questa massa si decompone in vescicole (Bläschen) formate da muco, a sua volta avvolto da un rivestimento solido; che queste vescicole costituiscono punti organici; che il mondo organico nel suo insieme, sia vegetale sia animale, ha come base architettonica un numero infinito di tali vescicole. I filosofi naturalisti che si richiamavano a questa tendenza tentarono allora di determinare a priori le leggi di trasformazione delle unità vitali elementari che si presumeva fossero alla base delle architetture organiche più complesse.
Tali speculazioni non conoscevano ostacoli soprattutto perché le osservazioni microscopiche erano in generale contaminate da una moltitudine di aberrazioni ottiche e dai fenomeni di alone dovuti alle caratteristiche degli strumenti disponibili. Questo stato di cose impediva, d'altra parte, di dimostrare a partire da osservazioni verificabili che la comprensione delle organizzazioni vegetali e animali si fondava su un unico tipo di struttura elementare, universalmente valida. Alla fine degli anni Venti del XIX sec. la costruzione dei primi microscopi acromatici, resa possibile soprattutto grazie alle indagini di Giovanni Battista Amici (1786-1863), ottico e naturalista, e dell'inglese Joseph J. Lister (1789-1869) diede luogo a una vera e propria rivoluzione tecnologica. Fabbricati da ditte prestigiose, tra cui la Plössl a Vienna e la Schenk & Pistor a Berlino, questi strumenti così perfezionati erano in grado di correggere le aberrazioni sferiche e l'effetto di alone causati da lenti di piccola apertura, consentendo di distinguere con maggiore precisione i dati fondati da quelli derivanti dall'illusione ottica delle molteplici osservazioni raccolte e utilizzate a partire dalla fine del XVII secolo.
In questo contesto di rinnovamento tecnologico degli strumenti di analisi, la ricerca del componente strutturale elementare degli organismi tese a fondarsi su schemi teorici d'ispirazione riduzionistica, nel solco delle speculazioni dei Naturphilosophen, che furono tuttavia adattate ad analogie empiricamente fondate o ritenute tali. I naturalisti degli anni Venti e Trenta del XIX sec. canalizzarono questa ispirazione nella cornice di uno sperimentalismo fisiologico decisamente più rigoroso, il cui canone fu fissato da François Magendie (1783-1855) in Francia e da Johannes Peter Müller (1801-1858) in Germania.
In questa prospettiva, l'immediato antecedente della teoria cellulare propriamente detta, come teoria unificata e fondata empiricamente, sembra essere rappresentato dalle teorie globuliste formulate dai naturalisti francesi Henri Dutrochet (1776-1847) e François-Vincent Raspail (1794-1878). Con le Recherches anatomiques et physiologiques sur la structure intime des animaux et des végétaux, et sur leur motilité (1824), con le pubblicazioni dedicate al meccanismo dell'osmosi (1826 e 1828) e, infine, con i Mémoires pour servir à l'histoire anatomique et physiologique des végétaux et des animaux (1837), Dutrochet pose le premesse di una teoria cellulare: (a) i vegetali e gli animali condividono una stessa struttura cellulare che è all'origine dei loro diversi tessuti; (b) agglomerate per mezzo della pressione, queste cellule possono ritrovare la loro autonomia quando la pressione diminuisce; (c) nello spessore della parete cellulare sono osservabili corpuscoli sferici; (d) questi corpuscoli sono piccole cellule globulose in grado di svilupparsi nella cellula madre. Dutrochet analizzò le diverse implicazioni di un 'fatto generale': ogni attività organica, che sia metabolica, funzionale o riproduttiva, si svolge secondo le disposizioni strutturali dell'unità morfologica di base. Lo scopritore dell'osmosi, che si richiamava alla tendenza riduzionistica, attribuiva alle pareti cellulari la capacità di determinare i processi fisico-chimici che davano origine ai processi vitali.
Raspail sviluppò un modello omologo in una serie di testi in cui prese in esame l'unità strutturale e funzionale degli organismi vegetali e animali, in modo particolare nell'Essai de chimie microscopique (1830), nel Nouveau système de chimie organique (1833) e nel Nouveau système de physiologie végétale et de botanique (1837). In questi studi, l'autore espone il proprio concetto di vescicole elementari, la cui struttura interna, di natura organica, conteneva allo stato latente strutture atte a svilupparsi formando nuove cellule. La parete cellulare, secondo Raspail, avrebbe esercitato un ruolo metabolico, mentre la vescicola imperforata avrebbe costituito il 'laboratorio' dei processi di cristallizzazione vitale. Egli pensava di poter ricostruire la morfogenesi organica a partire dalla vescicola elementare e dalla sua attitudine metabolica, tanto che non esitò ad affermare: "Datemi una vescicola organica dotata di vitalità e vi restituirò il mondo organizzato" (Raspail 1833, p. 546).
In via generale, si può dire che i globulisti francesi tentarono di analizzare la formazione di certe strutture organiche in termini di globuli, di vescicole o di utricoli, giustapposti o integrati. Tali studiosi pensavano che, per estensione analogica, questa stessa concezione dovesse essere valida per l'insieme delle strutture animali e vegetali, tuttavia non disponevano degli strumenti necessari a dimostrare la fondatezza di questa tesi attraverso dati empiricamente verificabili. Inoltre la loro concezione dell'organizzazione interna delle cellule, rimasta in larga misura speculativa, non teneva conto dell'importanza specifica del nucleo, messa in luce nel 1833 dal botanico Robert Brown (1773-1858). I globulisti, infine, non riuscivano a spiegare le modalità di derivazione delle strutture complesse da unità morfologiche del tipo di quelle che avevano descritto. Ciò nondimeno, questo approccio teorico li indusse a impiegare tutti gli strumenti di osservazione microscopica al fine di scoprire un tipo generale di struttura elementare che servisse da sostrato ai processi fisico-chimici degli organismi e ai meccanismi di produzione delle loro strutture complesse.
I contributi forniti da Schwann nel periodo in cui lavorava a Berlino come assistente di Müller si inseriscono nel quadro delle ricerche di fisiologia sperimentale. Nel 1838 egli pubblicò tre articoli nelle Notizen di Ludwig Friedrich von Froriep (1779-1847), in seguito riproposti e amplificati in un testo fondamentale, le Mikroskopische Untersuchungen über die Uebereinstimmung in der Struktur und dem Wachstum der Thiere und Pflanzen (Ricerche microscopiche sulla concordanza della struttura e della crescita negli animali e nelle piante, 1839). Benché le ricerche di Schwann e, in particolare quelle relative alla morfogenesi embriologica, abbiano avuto origine all'interno del programma mülleriano, esse furono tuttavia condotte in modo autonomo e con l'intento di dimostrare l'universalità del processo di formazione cellulare che, a suo parere, era alla base di tutte le strutture vegetali e animali. In seguito, queste ricerche furono reinterpretate in una chiave decisamente più vitalistica da Müller che le inserì nelle sezioni dell'Handbuch der Physiologie des Menschen (Manuale di fisiologia umana) date alle stampe dopo il 1839.
Come lo stesso Schwann osservò, furono le idee innovatrici del botanico Schleiden, con cui a quel tempo era in contatto, a offrirgli lo spunto da cui sarebbe nata la sua teoria. Quest'ultimo aveva ipotizzato che tutte le parti elementari dei vegetali si formassero intorno e a partire da nuclei attraverso un processo di costituzione di membrane che avvolgevano il contenuto mucoso delle cellule. Nei suoi Beiträge zur Phytogenesis (Contributi alla fitogenesi, 1838), Schleiden aveva suggerito l'esistenza di una correlazione tra i processi metabolici intra- e intercellulari e gli sviluppi morfogenetici responsabili della formazione dell'organismo globale. Secondo il suo modello, non solo le strutture elementari dei vegetali erano tutte di tipo cellulare, ma le cellule figlie si formavano a partire dal fluido presente all'interno della cellula madre, il 'citoblastema'. La sequenza di sviluppo cellulare ricostruita dal botanico prevedeva la formazione successiva del nucleolo, del nucleo e della membrana, e il deposito stratificato di materia organica all'interno della cellula. In questo contesto, l'organismo globale si definiva come la risultante della costruzione e del differenziamento cellulare.
Schwann che, sull'esempio di Karl Ernst von Baer (1792-1876) e di Müller, si era dedicato all'osservazione delle microstrutture fetali, intuì che lo schema di formazione delle parti vegetali elementari descritto da Schleiden avrebbe potuto essere alla base di tutte le strutture organiche animali, persino di quelle che sembravano sfuggire all'analogia quando erano osservate nelle formazioni istologiche derivate. In quei casi, sarebbe stato sufficiente risalire ai tipi di formazione embriologica che precedevano la derivazione e la specializzazione delle strutture. Benché l'idea dell'esistenza di una corrispondenza universale tra le strutture elementari dei vegetali e degli animali fosse già stata suggerita, non solo dai globulisti francesi, ma persino da certi contemporanei di Schwann, come per esempio, Pierre-Jean-François Turpin, Barthélemy-Charles Dumortier e Friedrich Gustav Jacob Henle, il merito di aver definito uno schema di dimostrazione di questa idea e di averlo applicato in modo sistematico spetta al discepolo renano di Müller.
A prima vista, questo schema si presenta come il risultato di una semplice estrapolazione, basata sull'accostamento tra le osservazioni morfogenetiche di Schleiden e quelle effettuate da Schwann sulla notocorda (chorda dorsalis) dell'embrione di batrace e sui tessuti cartilaginei del feto di maiale. Il principale problema era quello di riuscire a trasformare analogie parziali e disparate in una legge di portata universale, suscettibile di essere applicata con un sufficiente grado di attendibilità alla varietà a priori infinita di tutti i casi possibili. Supponendo di poter risolvere questo primo problema di ordine morfogenetico, bisognava poi affrontare quello relativo alla possibile riduzione dei processi fisiologici dell'organismo globale ai processi metabolici e morfogenetici delle unità strutturali di base. Erano queste le due questioni a cui Schwann intendeva dare una risposta con la sua teoria cellulare. La prima e la seconda sezione delle Mikroskopische Untersuchungen sono dedicate all'analisi dei diversi organismi nelle loro parti più elementari. Con questo tipo di indagine Schwann si proponeva di superare lo stadio metodologico della semplice descrizione (Beschreibung) delle microstrutture a cui si erano limitati i naturalisti che lo avevano preceduto, a eccezione dei casi in cui era stato dato spazio a sviluppi speculativi. Questa volta bisognava concentrarsi su fatti suscettibili di esprimere la 'legge dello sviluppo' di tutte le strutture elementari viventi, sia animali sia vegetali. I materiali organici presi in esame in certi casi sembravano formare fibre, in altri cellule o altre strutture di tipo vescicolare, senza contare le innumerevoli varietà di forme sotto le quali queste strutture si presentavano. Inoltre, nel caso degli animali, l'analisi era ostacolata soprattutto dall'apparente irriducibilità dell'organismo complesso globale a qualsiasi tipo di frammentazione del suo funzionamento in termini di processi cellulari. La sfida consisteva nel riuscire a invertire la situazione tentando di applicare un modello dinamico di formazione delle parti elementari, come quello ideato da Schleiden, alla genesi di tutte le strutture organiche, incluse le più complesse. Lo schema di sviluppo che in tal modo avrebbe assunto un valore universale nell'ordine degli esseri viventi era basato su una successione osservabile di fasi. I nucleoli si formavano per agglomerazione in una sostanza granulosa, il citoblastema; intorno ai nucleoli si coagulavano a loro volta i nuclei o 'citoblasti'; questi nuclei per un certo periodo crescevano, mentre alcune membrane tendevano a ricoprirli come 'vetri di orologi' (Uhrglass); le cellule così costituite subivano un processo di accrescimento per intussuscezione all'interno delle membrane che si ispessivano. Unità vivente elementare, la cellula doveva essere caratterizzata da un modo specifico di riproduzione. Quest'ultimo era concepito come una formazione di nuovi nuclei nella massa citoblastemica interna alle cellule esistenti (endogenesi) o esterna a queste ultime (esogenesi). Schleiden privilegiava il processo endogenetico e Schwann quello esogenetico, soprattutto nei casi delle cellule destinate a profonde metamorfosi e ad accentuati differenziamenti.
Questo errore, che finirà per essere corretto soltanto dopo il 1855, quando Robert Remak e Rudolf Virchow elaborarono la loro versione della teoria cellulare, può avere due possibili spiegazioni. Le vere e proprie membrane cellulari all'epoca non erano propriamente osservabili. Nel caso delle strutture vegetali, esse erano identificate con le pareti sedimentarie degli alveoli. I depositi sedimentari, tuttavia, erano molto meno frequenti alla periferia delle cellule animali: si spiega così la tendenza a percepire aree citoblastemiche all'interno delle quali si sarebbero formati nuovi nuclei oltre i confini del territorio protoplasmatico ricollegabile ai nuclei esistenti. Del resto, la fisiologia e la patologia degli organismi complessi erano a quel tempo dominate da concezioni di tipo umorale: si pensava che fosse a partire dai fluidi vitali che gli organi si strutturavano, si modificavano, si rigeneravano e si riproducevano sotto l'effetto di principî vitali o di forze analoghe. Malgrado la sua adesione a un approccio riduzionistico, Schwann rimaneva profondamente legato agli schemi teorici dominanti della fisiologia e della patologia mediche della sua epoca. Tuttavia, nonostante il limite relativo alla concezione esogenetica, egli ricorse a una strategia di analisi e di dimostrazione d'importanza cruciale.
Nella prima sezione della sua opera Schwann analizza due strutture tissulari: la notocorda e la cartilagine. Come aveva dimostrato Baer nel primo volume del trattato Über Entwickelungsgeschichte der Thiere. Beobachtung und Reflexion (Sulla storia dell'evoluzione degli animali. Osservazione e riflessione, 1828), la notocorda era una struttura transitoria dell'embrione che, segmentandosi, rivelava il piano originario delle vertebre. Sin dal 1837, Schwann aveva individuato nella notocorda di girino alcune cellule dotate di nucleo e si era servito di osservazioni analoghe effettuate da Müller sulle notocorde di pesci. I naturalisti che circondavano Müller erano molto interessati anche alle cellule della cartilagine. Schwann, per quanto lo concerneva, prese in esame le cartilagini branchiali di girino e di alcuni pesci, fra cui il Cyprinus erythrophtalmus. Le osservazioni sulle notocorde rivelavano che le metamorfosi che portavano alle formazioni derivate erano precedute da strutturazioni cellulari. Per quanto riguarda la dimostrazione dell'origine cellulare dei tessuti cartilaginei, essa presentava il vantaggio di ricondurre in modo esclusivo allo sviluppo cellulare la formazione di un'architettura tissulare complessa in cui d'altra parte intervenivano alcune reti vascolari. In entrambi i casi, Schwann identifica una sequenza morfogenetica tipo che prevede la strutturazione di nuclei a partire da nucleoli nel citoblastema, seguita dalla formazione di membrane periferiche avvolgenti e di depositi stratificati di materia organica all'interno della cellula, derivanti dalla nutrizione cellulare per intussuscezione. Pur notando la scomparsa occasionale del nucleo al termine di questo processo e il possibile incastro delle cellule figlie nella cellula madre, Schwann seguita a indicare la regola primordiale nell'esogenesi.
Una volta messo a punto il suo modello d'inferenza morfogenetica a partire dalle formazioni embrionali, nella seconda sezione delle sue Mikroskopische Untersuchungen, Schwann si propone di dimostrare che la struttura cellulare può essere presentata come la base di tutti i tessuti degli organismi animali. Le strutture complesse derivate devono essere considerate 'cellule secondarie'; ciò significava che in un gran numero di casi si era obbligati a ricorrere a materiali di osservazione embriologici. Lo studio della derivazione cellulare dei tessuti segue un piano razionale dettato dall'ordine di differenziamento e di complessità. La prima sottosezione ha come oggetto l'uovo e la membrana germinativa. Schwann non si limita alla descrizione dell'oogenesi, ma studia l'uovo liberato dal follicolo di Graaf e fecondato, per stabilire la composizione cellulare della membrana germinativa e dei foglietti embrionali cui essa dà origine. Sull'esempio di Baer, egli individua la separazione delle sfere di segmentazione, i blastomeri, senza tuttavia identificarla con il processo di divisione cellulare, dimostrando una cieca adesione al modello della formazione libera a partire dal citoblastema. In questo campo, il suo contributo positivo è stato soprattutto l'aver reso possibile, insieme a Gabriel Gustav Valentin (1810-1883), discepolo del ceco Jan Evangelista Purkynje (1787-1869), la determinazione della composizione cellulare dei foglietti. Ora, se i foglietti erano composti da cellule, era forse possibile dimostrare che anche tutti i tessuti formatisi a partire da essi rispondevano al modello della formazione cellulare. È questo lo scopo che l'autore si prefigge nella seconda sottosezione, in cui sono presi in esame i tessuti permanenti dell'organismo.
Un principio fondamentale governa la classificazione qui proposta, che è allo stesso tempo morfologica e fisiologica: più l'attività delle parti è specializzata in rapporto al metabolismo elementare della cellula, più le forme sono derivate, più hanno origine da profonde metamorfosi, più le cellule tendono a perdere la loro individualità morfologica. Schwann introduce anche un secondo principio, quello della formazione prevalentemente esogenetica delle cellule destinate a un'alta specializzazione funzionale e a metamorfosi complesse. Attraverso questo errato principio trova espressione una tesi molto interessante, che anticipa un concetto bernardiano, secondo cui la matrice citoblastemica delle cellule forma una sorta di 'ambiente interno' che dipende dai fluidi interagenti nell'organismo i quali, a loro volta, servono da intermediari nel processo di interazione cellulare. Questi citoblastemi assicuravano la correlazione tra i fenomeni plastici (o morfogenetici) e i fenomeni metabolici caratteristici delle cellule specializzate. Schwann costruisce quindi una vasta inferenza presentando le sue osservazioni e quelle di altri naturalisti contemporanei in modo da rendere verosimile il succedersi delle formazioni e delle derivazioni cellulari. Al termine del differenziamento si ottengono le 'cellule secondarie', strutture di maggiore complessità, alle quali l'autore tende naturalmente ad attribuire un ruolo architettonico e funzionale di ordine superiore nell'organismo globale. Tuttavia, ci si chiedeva se fosse possibile interpretare l'attività funzionale di tali organismi riducendola esclusivamente ai dispositivi della 'vita cellulare'.
Questo genere di interrogativi induceva a far ricorso a rappresentazioni teoriche che presentassero un sufficiente grado di conformità con i dati forniti dall'analisi empirica. È questo l'oggetto della terza sezione delle Mikroskopische Untersuchungen che si chiude con una sottosezione intitolata Theorie der Zellen (Teoria cellulare), in cui l'autore contrappone un'ipotesi speculativa riduzionistica ai modelli ereditati dalla fisiologia vitalistica del Bildungstrieb, promossa da Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) e dai suoi numerosi discepoli. Il punto di partenza della sintesi è costituito dal principio morfogenetico di cui era già stata dimostrata l'applicabilità a tutte le strutture organiche elementari. Si tratta ormai di legare la concatenazione dei fenomeni osservati a una serie di meccanismi soggiacenti; Schwann ricorre così ad alcuni dispositivi fisico-chimici per rendere conto dei processi morfogenetici e metabolici di cui la cellula è sede. I primi dipendono dalla disposizione delle molecole organiche che formano i costituenti cellulari; i secondi sono espressione delle reazioni chimiche che intervengono nel citoblastema interno o ambientale in seguito alla strutturazione dei costituenti cellulari. Le stratificazioni che interessano le cellule determinano diverse attività metaboliche che, a loro volta, interferiscono con il potenziale morfogenetico inerente alle cellule esistenti e al citoblastema da cui esse nascono. Tutte le proprietà fisiologiche che si manifestano nell'organismo e tutti i processi vitali dei sistemi organici devono poter essere spiegati attraverso le trasformazioni e le interazioni cellulari, a loro volta analizzabili in base all'analogia delle forze e dei processi che governano la natura inorganica. Lo sviluppo di una cellula, naturalmente, può dipendere dalle interazioni che hanno luogo nell'organismo globale, senza le quali la cellula in questione non potrebbe esistere, ma le proprietà dell'organismo dipendono da quelle delle cellule che lo compongono e di cui sono parti integranti; per comprendere l'organismo complesso bisognava quindi partire dall'analisi dei processi cellulari e non viceversa. Secondo Schwann "la crescita non dipende da un potere inerente all'organismo totale, ma ogni parte elementare è dotata, per così dire, di un potere, di una vita indipendente; in altre parole, le molecole presenti in ogni distinta parte elementare si combinano in modo da liberare il potere di attrarre nuove molecole e quindi di crescere; da parte sua, l'organismo globale sussiste soltanto attraverso l'interazione delle parti elementari individuali" (Schwann 1839 [1969, p. 191]). In ultima analisi, la cellula era il vero e proprio archetipo dell'organismo.
A sostegno di tale visione analitica e riduzionistica Schwann istituisce in questa sottosezione un raffronto tra cellule e cristalli. Egli, ovviamente, è consapevole delle differenze strutturali e funzionali che caratterizzano i due tipi di entità; il suo scopo è quello di accostare i processi metabolici e morfogenetici che caratterizzano il mondo cellulare a una forma speciale di cristallizzazione per intussuscezione a partire dal citoblastema, in cui interveniva un'ulteriore interazione delle cellule così prodotte sulle proprietà della matrice blastemica. L'organismo in tutte le sue forme non poteva essere compreso a partire dall'idea regolatrice di un principio vitale organizzatore, ma doveva essere analizzato in termini di strutturazione e di funzionamento cellulare. Il programma di ricerca messo a punto da Schwann prevedeva dunque lo sviluppo di modelli analitici di questi dispositivi elementari, modelli che avrebbero consentito di interpretare i fenomeni della vita cellulare facendo leva sull'analogia che li avvicinava e, al tempo stesso, li allontanava dai processi fisico-chimici che governavano la natura inorganica.
La genesi della prima versione della teoria cellulare non sarebbe considerata un evento scientifico di primo piano nella storia della biologia se non avesse suscitato una pletora di indagini empiriche particolari, accompagnate da una serie di tentativi di correzione dei modelli esplicativi basati sulle preferenze metodologiche dei diversi ricercatori. Un'importante revisione di questa teoria emerse dopo il 1855, periodo in cui Remak e Virchow, entrambi formatisi con Müller a Berlino, sostituirono la formazione citoblastemica con un nuovo principio di formazione cellulare, ossia la generazione delle cellule figlie a seguito della divisione dei nuclei e dei citoplasmi delle cellule madri, da cui nacque la legge di derivazione cellulare omnis cellula e cellula.
Remak impresse subito alla sua revisione della teoria cellulare un orientamento basato sul modello di riproduzione delle cellule. Non potendo aspirare a incarichi ufficiali all'interno dell'università prussiana a causa delle sue origini ebraiche, questo studioso di istologia e di embriologia ricco di talento iniziò a interessarsi alla sottile struttura delle fibre del sistema nervoso, giungendo all'identificazione del cilindrasse contemporaneamente a Jan Evangelista Purkynje (Kisch 1954). Studiando il sistema nervoso simpatico, Remak confutò le tesi di Henle e di Valentin, dimostrando la continuità delle fibre di tale sistema e delle cellule gangliari, e gettò le basi del concetto di regolazione centrale degli effetti 'simpatici'. Negli anni Quaranta Remak osservò la contrazione e poi la scissione dei globuli del sangue dotati di nucleo; in seguito, il suo interesse per la teoria cellulare si coniugò con numerose ricerche embriologiche incentrate sullo sviluppo e sulla trasformazione dei blastomeri o cellule primordiali dell'embrione. In opposizione alle inferenze schwanniane, Remak sottolineò che la replicazione della cellula presupponeva la conservazione di una disposizione unitaria dell'individualità organica, un processo spiegabile con la divisione ordinata della cellula a partire dal nucleo. Nuovo principio di formazione, la divisione cellulare coniugava così una sequenza morfogenetica debitamente specificata con una concezione integrativa e funzionale delle modificazioni di cui la cellula era teatro. Remak tentò di individuare a partire dall'uovo fecondato il processo di formazione e di moltiplicazione dei blastomeri, vale a dire delle sfere nate dalla segmentazione iniziale dell'uovo, con l'intento di ricostruire il differenziamento progressivo degli insiemi cellulari che costituivano le strutture dell'embrione. In definitiva, attraverso la derivazione cellulare, prevaleva un meccanismo uniforme di divisione; ma, correlativamente, nella forma unitaria dell'organizzazione cellulare, si iscrivevano i differenziamenti strutturali che condizionavano la formazione dell'organismo complesso con le sue diverse funzioni. Questo schema avrebbe consentito in via di principio di risolvere le questioni più problematiche, come per esempio quella della genesi dei vasi secondari o quella della formazione delle fibre nervose, suscettibili di essere integrate in sistemi complessi.
Tutto sommato, secondo Remak, la divisione cellulare dipendeva, dal punto di vista funzionale, dalla divisione nucleare. Lo schema dominante era quello della formazione delle cellule dal centro alla periferia; ma questa attività orientata suscitava in compenso una sequenza di fenomeni dalla periferia al centro. Remak sostenne così che lo stato del protoplasma condizionava lo svolgimento della divisione cellulare, influenzando la scissione riproduttiva e il differenziamento morfologico delle cellule che ne derivavano, e, sottolineando l'eterogeneità radicale delle cellule in rapporto ai cristalli, si propose di inficiare ciò che sussisteva dell'ipotesi di formazione citoblastemica avanzata da Schwann e Schleiden. Egli aveva l'impressione che il protoplasma fosse materia vitalizzata in base alle proprietà funzionali di reattività che gli erano conferite dalle strutture cellulari precedentemente attualizzate. Remak indirizzò così la teoria cellulare verso uno sviluppo originale, in quanto concentrò l'analisi sui processi funzionali congiunti degli organi cellulari, dipendenti dal nucleo o emergenti dal protoplasma. Nella misura in cui la morfogenesi dipendeva dall'organizzazione e dall'azione delle cellule preesistenti, la formazione cellulare per divisione (Zellenbildung durch Teilung) si presentava come il modello più adeguato. I processi funzionali in questione erano riconducibili alla scissione del nucleo, organo egemonico dell'organismo cellulare, e la divisione nucleare, correlativamente, dipendeva dal comportamento integrato della cellula. Da qui il ruolo funzionale assegnato alle metamorfosi del citoplasma, alle quali si ricollegavano quelle della membrana, concepita soprattutto come una sedimentazione periferica.
Nel 1855 Virchow enunciò il principio della riproduzione cellulare omnis cellula a cellula, che nel 1857 assumerà la sua forma definitiva nell'assioma omnis cellula e cellula enunciato da Franz von Leydig (1821-1908). Non si può dire tuttavia che il suo ruolo fu solamente quello di confermare, anche se in modo magistrale, le inferenze di Remak. Illustre anatomista e patologo formatosi a Berlino come assistente di Müller e di Johann Lucas Schönlein (1793-1864), Virchow fu in seguito costretto ad accettare la cattedra di anatomia patologica presso l'Università di Würzburg a causa della posizione assunta in favore dei movimenti di contestazione popolare all'epoca della Rivoluzione del 1848. Fu dunque in questa università, dove lavorava a stretto contatto con Rudolf Albert von Kölliker (1817-1905), che elaborò la sua revisione della teoria cellulare e affrontò un'area di ricerca empirica particolare, quella della patologia cellulare che, prima di lui, era stata appena sfiorata soltanto da Müller e dai suoi seguaci. Come il suo maestro, Virchow fonderà una disciplina autonoma, creando alcuni anni più tardi l'Istituto di Patologia dell'Università di Berlino, destinato ad affiancare l'Istituto di Fisiologia fondato da Müller, e di cui lo sperimentalista Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) assumerà la direzione a partire dal 1858. Virchow incentrò il suo programma di studio sull'analisi delle strutture elementari degli organismi viventi, inaugurando nel settore della patologia e della fisiologia cellulari una nuova tradizione di indagine che finì per prevalere su quella a cui aveva dato inizio Remak.
Esposta a grandi linee nel 1855, la teoria cellulare di Virchow fu sviluppata soprattutto nella sua opera maggiore Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre (La patologia cellulare fondata sulla dottrina fisiologica e patologica dei tessuti, 1858). Nella teoria di Virchow, la nozione di cellula presenta numerose connotazioni. Si tratta prima di tutto di una categoria morfologica e morfogenetica che assicura l'integrazione delle attività fisiologiche. All'interno della cellula si produce un insieme di scambi molecolari analizzabili in termini di processi fisico-chimici. Ora, lo sviluppo analitico della biologia non dipendeva solamente dall'aggiornamento di queste azioni e reazioni, ma necessitava di essere ancorato al concetto di individualità organica. La cellula si presentava come l'unica forma di integrazione che consentisse lo svolgimento dei processi vitali, a iniziare da quello della nutrizione, base di tutti i fenomeni metabolici e morfogenetici. L'analisi dei fenomeni era dunque circoscritta dalla forma d'individualità rappresentata dalla cellula, una forma che dava un senso all'insieme articolato dei processi vitali. Virchow privilegia una concezione protoplasmatica dell'entità cellulare; a suo parere, il protoplasma è la sede principale dei processi funzionali vitali, al nucleo invece è assegnato un ruolo architettonico decisivo per quanto riguarda la conservazione e la riproduzione della cellula, poiché è a cominciare dal nucleo che ha luogo la divisione delle cellule originarie. Protoplasma dotato di un nucleo, la cellula, indipendentemente dalle particolarità differenziate dei suoi dispositivi e del suo funzionamento interno, rappresenta la forma elementare dell'organizzazione vitale. Anche le cellule altamente differenziate, sulle quali si basano le funzioni specifiche, si distinguono soltanto per le forme originali del loro metabolismo trofico. Sede degli scambi molecolari dell'organismo, la cellula, come elemento vivente fondamentale, è la struttura su cui si basa il principio di totalità; l'organismo globale non è che un tutto derivato, costituito a partire da un'associazione di cellule strutturalmente e funzionalmente diversificate. Se le parti elementari viventi dipendono dall'integrazione nell'organismo globale, la legge di questa integrazione è analizzabile come somma di attività cellulari individualizzate.
Virchow aprì così alla sperimentazione e all'analisi il vasto campo dei dispositivi metabolici, nei termini in cui poteva essere studiata l'attività funzionale della cellula. Tale approccio si fondava, tuttavia, sull'esame della micromorfologia delle unità viventi in questione e dei processi a esse riconducibili. È in questo modo che Virchow giunse all'elaborazione del concetto di 'territorio cellulare' che designava l'area di intervento delle cellule di un dato tipo attraverso gli effetti metabolici da esse prodotti al di là delle loro presunte membrane, negli spazi intercellulari. I territori includevano quindi i fluidi organici e le sostanze interstiziali che le cellule stesse avevano contribuito a produrre per secrezione o attraverso altri processi. Virchow a questo punto intravide, per estensione, le modalità di influenza reciproca e di interazione delle cellule in relazione ai loro rispettivi sviluppi individuali e, di conseguenza, all'organismo globale.
L'identificazione dei territori cellulari permette di ricostruire le metamorfosi patologiche che subiscono i gruppi di cellule dei tessuti di tipo connettivo: alcuni gruppi di cellule devianti si sostituiranno così sistematicamente ai gruppi di cellule provenienti dalla morfogenesi normale. L'irregolarità dei processi legati ai territori cellulari poteva dunque essere alla base delle costituzioni cellulari patogene. Virchow presentò in tal modo una genealogia delle neoplasie omologhe ed eterologhe basata sul modello della derivazione embriologica dei tessuti connettivi, cartilaginei e ossei. Secondo la sua ipotesi generale, che in seguito sarà sistematicamente invalidata, tutte le neoplasie derivavano dalla struttura primordiale (embrionale) degli elementi dei tessuti connettivi, struttura che sarebbe servita da matrice alle altre formazioni istologiche. Remak, invece, che aveva studiato più a fondo le determinazioni strutturali embriogenetiche, tendeva a ricondurre le neoplasie a popolazioni cellulari ben definite sin dall'inizio nei tessuti dell'embrione, per esempio a gruppi di cellule epiteliali di origine embrionale per quanto riguardava gli epiteliomi che si formavano all'interno del midollo osseo. Al di là di questa divergenza, il tentativo di classificazione di Virchow indicava un modello di derivazione delle strutture cellulari suscettibile di inglobare l'insieme delle differenziazioni di forma che portavano dal normale al patologico.
In base a questo modello le 'neoplasie omologhe' si differenziavano dalla struttura cellulare normale a causa dell'espansione dimensionale (ipertrofia semplice) o numerica (ipertrofia numerica o iperplasia) delle cellule cancerose; per l'omologia quindi valeva la legge della continuità. In compenso, l''eterologia' era caratterizzata da processi di sostituzione istologica che prolungavano e amplificavano forme diverse di derivazione embriologica normale: le cellule neoplasiche si differenziavano così dalle cellule dei tessuti in cui erano inserite in funzione dell'ubicazione (eterotropia), della sequenza di sviluppo (eterocronia) e delle dimensioni specifiche (eterometria). Le alterazioni del processo di nutrizione delle cellule erano all'origine delle forme tipiche di metamorfosi. L'eteronomia funzionale poteva quindi derivare da una stimolazione patogena delle cellule: l'irritabilità (Erregbarkeit) che caratterizzava il potere endogeno di assimilazione provocava così una sequenza di trasformazioni morfologiche e poneva un dato insieme di cellule in uno stato di disfunzione metabolica in rapporto agli insiemi cellulari associati a esso. L'analisi dei processi di infiammazione e di formazione delle metastasi rivelava l'autonomia funzionale della cellula sottoposta a condizioni patogene e la necessità di ricorrere alla comparazione delle sequenze morfogenetiche per distinguere i fenomeni cellulari patogeni da quelli normali. Occorreva tenere conto dell''economia' cellulare per collegare gli scambi fisico-chimici al loro luogo istologico di integrazione. L'analisi meccanicistica e riduzionistica poteva essere impiegata, a condizione tuttavia di recepire la lezione preliminare impartita dall'istogenesi cellulare. La deviazione patologica nell'evoluzione delle cellule era, allo stesso titolo dei fenomeni metabolici normali, l'indice rivelatore di leggi di tipo fisiologico e queste ultime traducevano la trasposizione in forma integrativa dei processi materiali che intervenivano nelle cellule concepite come centri primordiali dell'attività vitale.
La realizzazione di un programma di ricerca come quello delineato dalla seconda teoria cellulare ammetteva ampi margini di modifica. I contemporanei e i successori di Remak e di Virchow proposero infatti diversi modelli di interpretazione della dottrina cellulare, più o meno meccanicistici, vitalistici od organicistici. Tuttavia, in ciascuno dei casi, l'analisi doveva rivelarsi compatibile con il principio dell'individualità complessa degli elementi vitali. Persino il materialista Ernst Wilhelm von Brücke (1819-1892), uno dei promotori di quella che era definita la teoria protoplasmica dell'entità organica primordiale, si vide costretto a conservare il principio della specificità funzionale degli organismi elementari denominati cellule, anche se, dal suo punto di vista, questa specificità si fondava su una serie di dispositivi molecolari complessi e, teoricamente, doveva poter essere ridotta nei termini di una spiegazione positiva.
Se analisi come quella di Virchow insistevano in particolare sul ruolo fisiologico delle cellule, nel corso delle fasi di elaborazione della teoria cellulare immediatamente successive, l'indagine empirica si concentrò soprattutto sull'evoluzione morfologica delle diverse unità vitali a seconda dei tessuti e degli organismi presi in esame. La citologia, come istologia cellulare, si era ormai costituita ed è in questa cornice che sarà intrapresa l'esplorazione metodica dei costituenti multipli e complessi dell'individualità organica di base.
Tale modello racchiudeva in sé il nucleo primitivo di una serie di sviluppi importanti. Grazie alle funzioni di metabolismo nutritivo che la caratterizzavano, la vita vegetativa della cellula assunse un ruolo di primo piano, come fondamento dell'integrazione organica complessa. Inoltre il mezzo organico ambientale che era prodotto dalle cellule individuali e, al tempo stesso, regolava l'interazione delle loro rispettive 'irritabilità', si impose come oggetto privilegiato dell'analisi. In questa situazione, non è sorprendente che Claude Bernard (1813-1878) abbia tentato di legare in forma ufficiale nelle Leçons sur les propriétés des tissus vivants (1866), e soprattutto nelle Leçons sur les phénomènes de la vie communs aux animaux et aux végétaux (1878-1879), il suo concetto di 'ambiente interno' a una teoria cellulare di impronta virchowiana.
Nelle Leçons sur les propriétés des tissus vivants Bernard accordò la teoria cellulare alla ricerca fisiologica, associandola al concetto di ambiente interno che affondava le sue radici nelle esperienze fisiologiche relative alle proprietà del sangue: "Bernard combinò il suo concetto di 'ambiente interno' con la teoria cellulare in modo da stabilire un legame concettuale e metodologico tra due aree d'indagine fino ad allora ben distinte" (Holmes 1963, p. 323). Le concezioni teoriche sviluppate da Bernard si pongono in stretta corrispondenza con la concezione della teoria cellulare, così come era stata esposta da Virchow. In definitiva, i processi fisiologici dell'organismo complesso derivavano dall'attività delle cellule e quest'attività non poteva essere ridotta esclusivamente a leggi di determinazione di carattere fisico-chimico. D'altro lato, l'interazione fra le cellule e l'ambiente interno assicurava la conservazione e l'equilibrio dell'ordine organico vitale. La nozione di regolazione attraverso l'ambiente interno non aveva un vero e proprio equivalente nella teoria di Virchow: il concetto virchowiano di 'territorio cellulare', infatti, la rappresentava soltanto in modo parziale e ambiguo, dal momento che tale territorio si presentava come un'area organica esterna alla cellula, all'interno della quale quest'ultima esercitava la sua azione metabolica. Il citoblastema di Schwann, termine con cui il naturalista aveva indicato l'ambiente nutritivo delle cellule che regolava la loro capacità di trasformazione e di riproduzione, era per certi versi più vicino all'ambiente interno di Bernard, anche se a quest'ultimo non era attribuita la funzione di produrre le cellule stesse per esogenesi.
Quanto alle leggi che governavano la vita cellulare, Bernard pensava che negli elementi organici si svolgessero due tipi di processi chimici: i primi erano distruttivi ed erano assimilati agli analoghi processi che si verificavano nella natura inorganica; gli altri erano processi sui generis di costruzione o di sintesi organica, che sfuggivano ai modelli riduzionistici, anche se potevano essere analizzati sperimentalmente attraverso la mediazione di alterazioni controllate dell'ambiente interno. Bernard si concentrò sulle modificazioni dell'ambiente interno attraverso le quali le cellule conservavano la loro attività vitale e funzionale, vale a dire operavano come sedi delle attività sintetiche (organogenetiche) e delle attività analitiche (funzionali o distruttive). La fisiologia privilegiata da Bernard studiava i processi per determinarne le leggi specifiche: si proponeva di collegare questi processi agli elementi strutturali che intervenivano nella loro interazione con l'ambiente interno, ma il suo scopo non era quello di sottoporli a uno studio morfologico accurato. Ispirandosi all'articolo Die Elementarorganismen (Gli organismi elementari, 1862) di Brücke e al tomo VIII (1863) delle Leçons sur la physiologie et l'anatomie comparée de l'homme et des animaux di Henri Milne-Edwards (1800-1885), Bernard presenta le cellule come organismi elementari dotati di una relativa autonomia funzionale, le cui proprietà specifiche si esercitano in base a meccanismi deterministici di tipo fisico-chimico.
Nelle Leçons sur les phénomènes de la vie communs aux animaux et aux végétaux Bernard integra in una sintesi originale e, al tempo stesso, problematica, elementi presi a prestito dall'istologia cellulare contemporanea e, in particolare, da quella tedesca. In effetti, la sua interpretazione della teoria cellulare è in funzione della distinzione fondamentale operata tra sintesi chimica e sintesi morfologica. Egli riprende da Schwann il principio della derivazione universale delle strutture viventi dall'organismo elementare, vale a dire dal 'radicale morfologico e fisiologico' rappresentato dalla cellula. Bernard prende atto della rivoluzione operata da Remak e da Virchow con l'introduzione del principio secondo cui ogni cellula deriva da una cellula preesistente e quindi rifiuta l'ipotesi schwanniana della formazione libera a partire dal citoblastema, che fornirebbe una spiegazione equivoca sulla generazione dei costituenti di certi organismi o di certe parti organiche. Senza discostarsi dal principio della seconda teoria cellulare, omnis cellula e cellula, Bernard adotta e adatta le concezioni emerse in seguito alla pubblicazione della Cellularpathologie di Virchow, concezioni che si basavano sulla predominanza funzionale e la priorità morfogenetica del protoplasma rispetto a tutte le strutture costituite e, in particolare, rispetto ai nuclei e ai loro componenti. I nuclei stessi erano quindi percepiti come strutture dipendenti dalle proprietà metaboliche del protoplasma. L'influenza esercitata su Bernard da Brücke e dagli altri promotori della teoria protoplasmica delle strutture organiche elementari è così profonda che il fisiologo inserì le scoperte relative ai processi di divisione e di replicazione dei nuclei effettuate negli ultimissimi anni della sua carriera in una cornice interpretativa che non consentiva la traduzione del presunto significato funzionale delle sequenze di trasformazione nucleare. Allo stesso modo, la genesi delle forme viventi, formazione e riproduzione delle cellule incluse, sfuggiva al quadro di un determinismo fisico-chimico specificamente fissato, al di là delle allusioni di carattere generale a una serie di attrazioni e repulsioni congiunte che si sarebbero esercitate sulle particelle organiche al momento della morfogenesi. In ogni caso, che la divisione cellulare implicasse le fasi di mutazione del nucleo descritte da Eduard Adolf Strasburger (1844-1912) o che fosse originata da una semplice divisione protoplasmatica in cui il nucleo era assente o non interveniva, il significato funzionale dei processi nucleari era assimilato alla predominanza dei processi di sintesi organica inerenti al protoplasma; bisognava accontentarsi di descrivere questi processi in termini di sequenze di stato e di disposizioni successive. Per quanto concerne la morfologia generale, Bernard si limita quindi a indicare nelle sequenze di riproduzione delle forme cellulari la giustificazione della morfogenesi: "Per quanto ci riguarda, ammettiamo l'esistenza di un reale processo morfologico soltanto quando vediamo lo stesso elemento organico seguire regolarmente a partire da un punto fisso un percorso evolutivo che lo conduce a un tipo di organizzazione ugualmente fisso e predeterminato. Ora, questa evoluzione inizia realmente soltanto a partire dalla cellula" (Bernard 1878-79 [1966, p. 299]). Per ciò che riguarda la morfologia speciale, che doveva indicare le leggi di derivazione delle diverse forme coinvolte nello sviluppo dell'organismo, Bernard adotta una concezione embriogenetica molto vicina a quella di Remak che, a sua volta, si basava sulla 'storia dello sviluppo' (Entwicklungsgeschichte) ereditata da Baer e da Müller. Conformemente a questa tradizione, egli tende a individuare una serie di piani morfogenetici distinti che si attualizzano attraverso il differenziamento progressivo delle strutture morfologiche elementari che costituiscono i blastomeri dell'uovo fecondato.
Bernard aprì in tal modo una serie di interessanti prospettive alla teoria delle strutture elementari dell'organismo. La complessità degli organismi, come aggregazioni di cellule autonome, si esprimeva attraverso il differenziamento delle attività nutritive delle diverse unità associate, in base a quello che può essere definito un processo di divisione del lavoro. L'ambiente interno appariva come l'elemento regolatore che consentiva la conservazione attiva di questo insieme funzionale. Il ruolo fondamentale delle cellule era, però, soprattutto quello di produrre un ambiente interno sempre più differenziato e autonomo in rapporto alle determinazioni esterne relative all'organismo globale. Di conseguenza, la cornice morfologica della cellula, che serviva da termine di riferimento obbligato, era destinata al superamento, dal momento che era necessario tenere conto delle interazioni complesse generate e subite dalle cellule attraverso l'interposizione dell'ambiente interno. L'economia normale e la deviazione delle attività cellulari dovevano rivelare le leggi fisiologiche dell'organismo in riferimento alla cellula in quanto cornice morfologica fondamentale dell'integrazione vitale.
Sulla morfologia cellulare così reinterpretata si innestarono alcuni programmi di ricerca le cui implicazioni sono ancora oggetto di studio. Un esempio illustrativo di tali programmi è costituito dalle prospettive metodologiche aperte dalle successive edizioni (1859, 1867 e 1889) dello Handbuch der Gewebelehre des Menschen (Manuale di istologia umana, 1852) di Kölliker. In seguito ai lavori di Max Johann Sigismund Schultze, di Brücke e di Lionel Beale, a partire dal decennio 1850-1860, l'indagine s'incentrò sempre di più sul protoplasma e sulle sue formazioni specifiche, in cui si scorgeva il sostrato dei dispositivi fisico-chimici che incarnavano l'attività funzionale della cellula, nel tentativo di individuare la base delle sequenze e dei cicli biochimici che caratterizzavano l'attività vitale. Va dunque riconosciuto a Kölliker il merito di aver sottolineato la complementarità strutturale e funzionale del nucleo e del protoplasma. Il 'citoplasma', termine coniato dallo stesso Kölliker per indicare il protoplasma dotato di nucleo, rappresentava una forma integrata di organizzazione elementare che condizionava sia la reattività vitale sia la trasformazione del mezzo organico ambientale. Si conclude così quella che abbiamo di recente definito l''embriogenesi' della teoria cellulare (Duchesneau 1987) che, pur sottoposta a significative revisioni, conserverà inalterati i suoi tratti distintivi. In questo contesto, i programmi di ricerca relativi alla citologia come disciplina biologica fondamentale poterono essere realizzati sotto diverse forme.
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