L'Ottocento: chimica. La chimica in mostra
La chimica in mostra
Nel corso dell'Ottocento, la chimica divenne molto più accessibile al vasto pubblico di quanto non lo fosse stata in precedenza. La sua diffusione avvenne principalmente attraverso due nuovi canali: le esposizioni universali e i musei didattici, i quali fecero entrambi la loro comparsa intorno alla metà del secolo. Naturalmente ciò non significa che non fossero già stati compiuti altri tentativi in questa direzione: l'insegnamento pubblico e privato delle diverse discipline scientifiche aveva infatti iniziato a diffondersi assai prima del XIX secolo.
La filosofia della Natura si prestava meglio a essere esposta al pubblico da conferenzieri itineranti, grazie al fascino dell'apparato dimostrativo utilizzato a questo scopo, e quindi non era del tutto inusuale assistere a conferenze divulgative di chimica. John Kay di Edimburgo, nei suoi Portraits, descrivendo l'attività di Henry Moyes (1750-1807), sosteneva che quest'ultimo, essendo il primo non vedente a proporsi come conferenziere chimico, avesse suscitato naturalmente molta curiosità e interesse. Tuttavia non era apparso affatto imbarazzato, aveva invece trattato con tale padronanza l'argomento della sua lezione da convincere il pubblico di trovarsi di fronte a un uomo estremamente preparato. L'infermità di Moyes non sembra averne ostacolato la carriera: dopo aver insegnato in Scozia, si trasferì in Inghilterra stabilendosi a Manchester; nel 1785 si recò in America, facendo ritorno in Scozia cinque anni dopo e, in seguito, tenne conferenze in Irlanda. Nei viaggi i conferenzieri erano soliti portare con loro le proprie apparecchiature per le dimostrazioni: un'incisione di Kay ritrae Moyes accanto a una panca su cui sono appoggiate una pompa ad aria e una candela e, probabilmente, per molti spettatori si trattava dei primi strumenti scientifici che avessero occasione di vedere. In seguito alla crescente istituzionalizzazione della scienza, tali apparecchi cominciarono a essere conservati in appositi edifici, dotati di sale per conferenze e di laboratori.
Negli anni a cavallo tra i due secoli, la Royal Institution di Londra, da poco fondata, acquistò una serie di strumenti destinati in modo specifico alla divulgazione scientifica. Tra i primi a farne un ottimo uso vi fu Humphry Davy (1778-1829), raffigurato in una vignetta a stampa di James Gillray (datata maggio 1802) mentre prende parte a un esperimento di chimica di natura piuttosto imbarazzante. Alcuni conferenzieri si trasformarono in uomini di spettacolo; per esempio, negli anni Venti dell'Ottocento, un professore di chimica dell'Università di Edimburgo, Thomas C. Hope, tenne una serie di conferenze aperte al pubblico, sia maschile sia femminile. I suoi sforzi gli valsero i sarcasmi di molti commentatori, come emerge da questo resoconto particolarmente malevolo: "Le signore dichiarano di non aver mai conosciuto nulla di più delizioso di queste civetterie chimiche. Il dottore va letteralmente in estasi di fronte al suo pubblico ornato di piume e velette e non si stanca mai di esporre le affinità". Nonostante tutto, le conferenze di Hope furono un successo e vi parteciparono centinaia di persone; gli esperimenti eseguiti miravano a stupire il pubblico, come nel caso della produzione apparentemente spontanea di una fiamma di idrogeno per mezzo della 'macchina della luce istantanea'.
Le prime collezioni di apparati e strumenti chimici di valore storico furono costituite con le apparecchiature da dimostrazione utilizzate nelle conferenze divulgative, poiché, una volta divenute obsolete, finirono per acquistare un interesse antiquario. Una delle più vaste raccolte di questo tipo fu quella realizzata da Martin van Marum (1750-1837) della Teylers Stichting di Haarlem, in Olanda. Nel 1782, van Marum propose al consiglio di amministrazione di quella fondazione di procedere all'acquisto di apparecchiature destinate alla ricerca scientifica, con una particolare attenzione alla completezza e alla precisione dei macchinari prescelti. Quando le apparecchiature raccolte fossero state in numero sufficiente, avrebbero dovuto essere utilizzate per eseguire esperimenti dimostrativi di filosofia naturale nel corso di conferenze pubbliche. Van Marum iniziò così a frequentare le aste e a finanziare i migliori fabbricanti di strumenti della sua epoca, compresi quelli di Londra e di Parigi. Nel 1795 la raccolta poteva considerarsi completata, e van Marum fu autorizzato dallo stesso consiglio di amministrazione a tenere una serie di conferenze divulgative.
Van Marum fu uno dei primi sostenitori della nuova chimica di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), di cui accettò sin dall'inizio la teoria della combustione basata sull'ossigeno, al posto di quella basata sul flogisto, da lui ritenuta poco convincente. I due scienziati si incontrarono a Parigi nel 1785 e l'olandese approfittò di questa occasione per esaminare l'apparato, estremamente complesso e costoso, messo a punto da Lavoisier per analizzare la composizione dell'acqua. Rientrato in Olanda, van Marum ne progettò un modello più semplice che fece realizzare, insieme ad altre apparecchiature basate su progetti di Lavoisier, tra il 1790 e il 1791. Il suo strumento divenne famoso in tutta Europa ed è tuttora conservato al Teylers Museum. In questo modo, le apparecchiature create a fini sperimentali dagli esponenti della nuova chimica con il tempo divennero oggetto d'interesse. Questa trasformazione degli apparati da dimostrazione in materiale da museo si verificò in molte istituzioni, tra cui, in primo luogo, il Musée des Techniques del Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, creato nel 1794 con un decreto che stabiliva la costituzione di "un pubblico deposito di macchine, modelli, strumenti, disegni, descrizioni e libri, relativi a tutte le arti e a tutte le invenzioni finora realizzate", nel quale, inoltre, avrebbero dovuto "essere illustrati la costruzione e il funzionamento di tutti gli strumenti e le macchine utilizzati nell'industria e nel commercio" (in Hudson 1987, p. 88). Nel 1799 il museo fu sistemato nella vecchia chiesa priorale di Saint-Martin-des-Champs e rimase aperto al pubblico fino al 1802, allo scopo di aggiornare i francesi sui progressi della scienza e della tecnologia contemporanee. Con il passare del tempo, però, la collezione perse il suo valore di attualità per acquisire un significato prevalentemente storico.
Nell'Ottocento i musei non erano affatto istituzioni ufficiali, finanziate dallo Stato e animate da obiettivi culturalmente elevati. Nelle maggiori città operava un gran numero di imprenditori che organizzavano divertenti spettacoli dal vivo utilizzando materiali 'da museo'. Spesso queste imprese avevano vita breve, ma ciò non impedì loro di svolgere un ruolo non trascurabile nell'educazione del pubblico più vasto; la Adelaide Gallery, per esempio, fondata a Londra nel 1831, comprendeva 230 macchine, congegni e modelli. Gran parte dei materiali esposti riguardava l'ingegneria navale (nella galleria era stata collocata una vasca d'acqua lunga 70 piedi), tra cui numerosi modelli meccanici di navi a vapore, sospinti da ruote dotate di pale progettate secondo criteri funzionali; l'attrazione maggiore era rappresentata da un cannone a vapore, che sparava ogni ora. All'interno della galleria si tenevano conferenze sugli argomenti più disparati, come "la ferrovia atmosferica" o "una macchina aerea dotata di un congegno di propulsione meccanico" e, sin dall'ottobre del 1839, quotidiane dimostrazioni di tecnica fotografica, secondo il procedimento inventato da Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1787-1851). In seguito, però, questa istituzione perse gradualmente il suo carattere pionieristico e finì per trasformarsi in una banale sala di divertimenti ‒ un destino comune a molte imprese dello stesso genere. Le Cosmorama Rooms, a partire dal 1834, furono dedicate in particolare a illustrare "le bellezze e le meraviglie della scienza chimica", della quale si affermava di poter fornire un quadro completo a eccezione di quegli esperimenti che potevano dar luogo a conseguenze spiacevoli o a esplosioni. Come era inevitabile, il rapido sviluppo del movimento educativo finì per attrarre anche alcuni eccentrici, che a volte contribuirono alla fondazione di musei. Per esempio, a Twickenham, nei dintorni di Londra, Thomas Twining fondò nel 1856 un Economic Museum, destinato a contenere l'esposizione permanente a scopo didattico degli oggetti appartenenti alla sfera dell'economia domestica e sanitaria e a promuovere la diffusione di quella che potremmo chiamare 'sapienza economica'. Si rivolgeva a tutte le classi della società, soprattutto quelle meno favorite, alle quali avrebbe permesso di apprendere in che modo dovevano essere costruiti gli alloggi in base ai principî sanitari; quali miglioramenti dell'organizzazione domestica potevano essere ottenuti dalle scoperte della scienza o dall'imitazione degli usi e costumi di altre nazioni; quali tessuti indossare; quali cibi mangiare e in che modo cucinarli; come distinguere quello che è genuino, salutare, essenziale, durevole e realmente economico da ciò che è economico solo in apparenza: in breve, come vivere con giudizio e sfruttare al meglio il denaro. Su una serie di nove conferenze tenute nel biennio 1869-1870 sul tema 'applicazioni della scienza ai bisogni della vita quotidiana', tre erano dedicate alla chimica.
Un'altra forma di esposizione scientifica era quella collegata all'attività degli istituti tecnici, organismi educativi che offrivano ai lavoratori la possibilità di seguire corsi di qualificazione, in genere serali. Nella prima manifestazione di una certa importanza, tenuta a Manchester nel 1837, furono esposti modelli meccanici, strumenti scientifici, oggetti artistici, campioni di storia naturale e prodotti industriali. In genere, il tema delle mostre era strettamente legato alla produzione locale. Nel 1839, a Leeds (sempre nel Nord dell'Inghilterra), le principali industrie del circondario organizzarono una mostra di materie prime e di prodotti finiti, attribuendo un particolare rilievo ai diversi composti chimici utilizzati per tingere la lana o nella produzione di ferro e di acciaio. Una fabbrica di vetro della provincia di York dedicò il suo stand all'illustrazione delle diverse fasi del processo produttivo: dalle sostanze semplici, agli alcali di silicio, al vetro poroso, fino al cristallo.
Università e collegi continuarono ad accrescere le proprie raccolte per tutto l'Ottocento e l'insegnamento delle materie scientifiche era basato in gran parte sulla presentazione di oggetti o di campioni di materiali. Come spiegava una storia dei musei pubblicata all'inizio del Novecento, ogni professore di una determinata branca della scienza pretendeva un museo e un laboratorio per il suo dipartimento; di conseguenza, tutte le grandi università e istituti educativi disponevano di musei indipendenti. La loro nascita fu dovuta anche al desiderio delle università di conservare ed esporre gli strumenti, le apparecchiature, i campioni di materiale e gli oggetti personali appartenuti ai loro docenti più illustri: nell'Università di Genova, per esempio, sono ancora custodite le bilance e un eudiometro utilizzati da Stanislao Cannizzaro tra il 1855 e il 1860. In alcuni casi questi materiali potevano essere trasferiti in un museo pubblico, come avvenne per le apparecchiature utilizzate da Joseph Black (1728-1799) che furono acquistate già nel 1858 dall'Industrial Museum of Scotland, come atto di omaggio del suo direttore alla memoria del grande chimico dell'Illuminismo.
Il processo di divulgazione scientifica, avviato già dalla metà dell'Ottocento con il moltiplicarsi degli istituti volti a diffondere le conoscenze tecnico-scientifiche, si accelerò enormemente nella seconda metà del secolo, grazie alla creazione dei musei didattici e, soprattutto, alla nascita delle esposizioni universali. In effetti, il prototipo di tutte le manifestazioni internazionali successive, la Great Exhibition del 1851, svoltasi nello Hyde Park di Londra, fu all'origine del più importante museo didattico dell'Ottocento, il South Kensington Museum, che includeva anche lo Science Museum.
In seguito il fenomeno delle esposizioni si diffuse in tutto il mondo, offrendo al pubblico di molte nazioni, per la prima volta nella storia, l'opportunità di osservare e di sperimentare direttamente i progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnologia. L'Europa fu il primo continente in cui si svolse un'esposizione universale, appunto la già menzionata Great Exhibition del 1851, a essa fecero seguito l'America Settentrionale (New York) nel 1853-1854; l'America Meridionale (Santiago del Cile) nel 1875; l'Africa (Città del Capo) nel 1877; l'Australia (Sydney) nel 1879-1880; e l'Asia (Calcutta) nel 1883-1884.
L'affluenza di pubblico a questo tipo di manifestazioni era davvero enorme; l'esposizione londinese del 1851, per esempio, accolse 6.039.195 visitatori; ma perfino questa cifra appare modesta di fronte a quelle registrate nelle tre esposizioni universali di Parigi, del 1878, del 1889 e del 1900, che furono visitate rispettivamente da 16.032.725, 32.350.297 e 48.130.300 persone.
Le prime esposizioni commerciali si svolsero in Francia verso la fine del Settecento quando, in seguito ai problemi generati dal blocco navale imposto dall'Inghilterra, nel 1797 gli industriali francesi organizzarono nel cortile del Louvre un'esposizione di prodotti nazionali, limitata però alle ceramiche, alle tappezzerie e ai tappeti. A questa prima esposizione seguirono quelle del 1801 e del 1802, cui parteciparono rispettivamente 220 e 540 imprese manifatturiere e laboratori artigiani.
Subito tali iniziative rivelarono uno spirito nuovo e stimolante: "Quella strana combinazione di carnevale e di cerimonia, di circo e di museo, di carattere popolaresco ed elitario […] si manifestò in forma embrionale sin dalle origini" (Greenhalgh 1988, p. 5). Verso la metà del secolo, le esposizioni erano ormai diffuse, mantenendo tuttavia dovunque un carattere esclusivamente nazionale. La prima esposizione veramente internazionale, quella di Londra, fu voluta soprattutto dal principe Alberto, marito della regina Vittoria di Gran Bretagna. I motivi di questa scelta erano tuttavia sfacciatamente economici: la Gran Bretagna era decisa a dimostrare la propria supremazia industriale e quindi pronta a organizzare a questo scopo un'esposizione in grado di coprire tutti i settori manifatturieri e attirare un vasto pubblico. Le nazioni che accettarono di partecipare furono 34 e per l'occasione venne innalzato un vasto e innovativo edificio in ferro e vetro, il Crystal Palace. Le categorie espositive, destinate a rimanere invariate anche nelle manifestazioni successive, erano quattro: industrie, macchinari, materie prime e belle arti. In questa occasione venne anche stabilito il sistema di valutazione dei prodotti esposti, con il conferimento di premi e di riconoscimenti e la pubblicazione di resoconti, spesso di notevole lunghezza. Questi documenti a stampa divennero in seguito una delle caratteristiche delle esposizioni, e oggi costituiscono per gli storici della scienza una preziosa, benché a volte indigesta, fonte di notizie. Per la sola esposizione del 1851, il commento introduttivo dei giudici alla seconda sezione, dedicata a procedimenti e prodotti chimici e farmaceutici in generale, si dilunga per sette pagine fittamente stampate. Il giudizio sui prodotti era emesso da una giuria composta da otto membri, scelti tra le diverse nazioni, e sostenuta da una commissione di otto associati: la giuria era presieduta dall'ex ministro francese dell'Agricoltura e del Commercio, Jean-Baptiste-André Dumas, il vicepresidente era il celebre chimico scozzese Thomas Graham (1805-1869), mentre tre dei sei posti rimanenti erano occupati da un siciliano, da un austriaco e da un tedesco.
Nel Report si legge che vi erano 270 prodotti in mostra, di cui quasi la metà (132) di origine straniera. Il gruppo più numeroso era costituito da quelle sostanze che sarebbero state chiamate in seguito heavy chemicals. Anche i prodotti farmaceutici erano ben rappresentati, grazie alla partecipazione di 41 case produttrici. I giudici furono favorevolmente impressionati da diverse caratteristiche dei prodotti esposti: le loro dimensioni e il loro aspetto ("i campioni di prodotti chimici inviati dai produttori britannici si distinguono spesso per le loro notevoli dimensioni e per la loro singolare bellezza"), il basso costo ("nel campo delle sostanze chimiche si rileva una notevole diminuzione dei costi di produzione, che giunge quasi a eguagliare quella dei prodotti dell'ingegneria meccanica") e la purezza ("l'elevata qualità e la bellezza dei sali cristallizzati indica l'alto grado di purezza della loro composizione e l'eccellenza del processo di lavorazione"). Benché la maggior parte dei processi utilizzati per la produzione di sostanze chimiche fosse standardizzata, i giudici osservano che "vi è ragione di credere che molte sostanze, oltre a quelle già descritte, siano il risultato di miglioramenti dei processi produttivi introdotti dalle case produttrici, benché non sia stata avanzata alcuna rivendicazione a tale riguardo". Il rapporto descrive un procedimento particolarmente significativo, la distillazione del carbone, praticata per la prima volta a Boghead, in Scozia, da James Young, per la produzione di olio minerale. I giudici osservano, e a ragione, che "è difficile valutare i vantaggi assicurati da una scoperta di tale importanza, da innumerevoli punti di vista" (Exhibition of the works of industry of all nations, 1852, pp. 37-43).
Oltre alla documentazione relativa ai diversi oggetti in mostra, furono dati alle stampe anche i testi di una serie di conferenze pubbliche, tenute da eminenti personalità del mondo scientifico. Quella sui procedimenti e prodotti chimici e farmaceutici venne affidata a Jacob Bell (1810-1859), fondatore della Pharmaceutical Society e membro del parlamento per il collegio di St. Albans. Bell rivelò come durante le fasi preliminari di pianificazione dell'esposizione fossero stati sollevati dubbi sull'opportunità di dedicare una sezione alla chimica che, secondo alcuni, non attirava a sufficienza l'interesse del pubblico; tuttavia, il principe Alberto e i suoi commissari avevano deciso, in nome della completezza, di ammettere all'esposizione, a pieno titolo, anche l'industria chimica. Quindi era stata posta la questione se fosse preferibile esporre anche i prodotti 'comuni' di questa industria, o soltanto quelli più esotici; anche in questo caso fu applicato il criterio della completezza: i prodotti chimici comuni in una nazione potevano non esserlo in un'altra. Infine era stato preso in considerazione l'elemento competitivo, quindi se fosse lecito giudicare il prodotto di un'industria confrontandolo con quello di un'altra. I risultati dimostrarono che era possibile, come sosteneva lo stesso Bell: "Molti dei più grandi blocchi di cristalli si distinguevano per le forme fantastiche ed eleganti, e dimostravano il desiderio dei produttori di provare che la loro attività poteva avere risvolti ornamentali, oltre che utilitaristici. Questi blocchi di cristalli attiravano spesso l'attenzione delle signore, che discutevano tra loro la possibilità di servirsene come ornamenti per i propri salotti. Se la moda dovesse prendere questa direzione, ne deriverebbe indubbiamente un ulteriore stimolo allo sviluppo dell'industria chimica" (Bell 1852, pp. 135-136).
Bell solleva anche un'altra e più interessante questione, relativa all'applicabilità della ricerca chimica. A proposito dell'influenza che la Great Exhibition avrebbe potuto esercitare su "quanti studiano la scienza astratta della chimica a scopi filosofici, in vista dell'allargamento del patrimonio generale delle conoscenze umane", egli suggerisce che l'esposizione avrebbe potuto indurli a indirizzare le proprie ricerche verso fini più pratici, offrendo una possibilità di interazione tra chimici puri e chimici industriali. Egli si dichiara convinto che la Great Exhibition avrebbe favorito il diffondersi dell'educazione scientifica in genere e sostiene calorosamente la necessità di istituire appositi titoli per gli studenti di chimica e di chimica farmaceutica. Infine, egli conclude affermando che l'esposizione aveva fornito la possibilità di una competizione onorevole tra chimici britannici e chimici di altre nazioni nonché l'opportunità di un proficuo scambio di idee tra individui impegnati nello stesso campo di ricerca. La più importante delle conferenze svolte durante l'esposizione fu, però, quella tenuta da Lyon Playfair (1818-1898), consigliere del principe Alberto ed egli stesso industriale chimico, il quale sostenne che i prodotti industriali inviati alla mostra rappresentavano altrettante testimonianze di una "civiltà in ascesa" e indicavano chiaramente la differenza tra le nazioni civilizzate e quelle "barbare": il grado di raffinatezza con cui le forze naturali venivano imbrigliate per essere utilizzate a scopi produttivi corrispondeva infatti al livello raggiunto da una nazione sulla scala della civiltà. D'altra parte, le nazioni europee avevano molto da imparare dai paesi non ancora sviluppati quanto all'eleganza del design degli oggetti prodotti. Il tema principale del discorso di Playfair riguardava, però, il declino dell'Inghilterra nel campo scientifico e industriale. Infatti, dopo aver ricordato i moniti già lanciati a tale proposito da scienziati come Charles Babbage (1792-1871) e John Herschel (1792-1871), egli sottolineava che la causa del declino britannico era dovuta al fatto che in questo paese il valore delle ricerche dei seguaci della scienza pura non era sufficientemente apprezzato, mentre tutti i riconoscimenti erano riservati agli inventori delle applicazioni industriali delle scoperte scientifiche. Nel passato l'Inghilterra aveva potuto giovarsi di un'ampia disponibilità di materie prime a basso costo, ma poiché, grazie al miglioramento del sistema dei trasporti, le altre nazioni avevano recuperato il loro svantaggio, per l'Inghilterra era giunto il momento di cominciare a sfruttare appieno le proprie risorse intellettuali. Tuttavia, la nazione non era ancora sufficientemente consapevole di questa necessità. Secondo Playfair "tutte le nazioni europee, eccetto l'Inghilterra, hanno riconosciuto questo fatto; le loro menti migliori lo hanno proclamato; i loro governi ne hanno fatto un principio di Stato; oggi ogni città possiede le sue scuole, nelle quali si insegnano i principî scientifici coinvolti nella produzione industriale, e ogni metropoli è dotata di un'università industriale, dove si insegna a servirsi dell'alfabeto della scienza per comprendere le manifatture" (Playfair 1852, p. 159). La soluzione, suggeriva ancora Playfair, consisteva nel promuovere l'educazione tecnica e nell'assicurare maggiori riconoscimenti alle persone impegnate nella ricerca scientifica. Tali affermazioni produssero un effetto immediato: l'anno seguente, infatti, il governo istituì il Department of Science and Art, che avrebbe svolto un ruolo significativo nello sviluppo delle istituzioni scientifiche del Regno Unito.
La Great Exhibition del 1851 fu indubbiamente un successo; oltre ad attirare un gran numero di visitatori, tra cui un'alta percentuale di artigiani e commercianti, si concluse anche (piuttosto inaspettatamente) con un notevole utile: 186.437 sterline su una spesa di 335.742 sterline. Era quindi inevitabile che l'esempio di Londra venisse seguito da altre città. Nel 1853 sia Dublino sia New York organizzarono le loro esposizioni, ma la prima manifestazione paragonabile per ambizioni a quella di Londra fu l'Exposition Universelle che si tenne a Parigi nel 1855. Per l'occasione fu costruito, a fianco degli Champs Elysées, un Palais de l'Industrie, esteso su circa 4 ettari di terreno.
All'esposizione di Dublino del 1853 era presente una sezione dedicata alla chimica, le cui dimensioni deludenti erano, in parte, dovute allo scarso sviluppo dell'industria chimica irlandese. Un osservatore commentava: "In questa esposizione, i prodotti della seconda sezione [procedimenti e preparati chimici e farmaceutici] sono rappresentati in modo molto insoddisfacente […]. Alcuni dei principali produttori irlandesi hanno deciso di non partecipare e lo stesso hanno fatto le maggiori, e ben più importanti, industrie britanniche" (Sproule 1854, pp. 105-118). In effetti, alla sezione parteciparono ventinove espositori, tredici dei quali irlandesi e gli altri provenienti dalla Gran Bretagna. Come era logico, molte delle sezioni espositive erano dedicate ai prodotti locali, come quelle intitolate "iodio e sali di potassio estratti dalle alghe", "allume" e "sostanze usate nella tintura". Il modesto livello dell'esposizione di Dublino contrasta con l'importanza della sezione di chimica in quella parigina del 1855. La giuria sostenne che l'esame dei numerosi prodotti aveva permesso di constatare alcuni importanti progressi compiuti nelle arti chimiche dopo il 1851. Tali sviluppi si erano manifestati in una diminuzione del prezzo di vendita di alcuni prodotti, nei perfezionamenti apportati al processo di preparazione di altri e, infine, nell'applicazione al campo industriale di alcuni principî già noti alla scienza. Il rapporto della giuria proseguiva con un commento sul livello di produzione dell'acido solforico, sottolineando come questo ‒ che in seguito sarà utilizzato come indicatore della produzione del settore chimico ‒ potesse essere considerato l'indice di misura dell'attività industriale di una nazione visto che nel corso degli ultimi trent'anni non era mai rimasto stazionario.
Nel 1862 furono di nuovo gli inglesi a organizzare un'esposizione a Londra (cancellata l'anno prima per la morte del principe Alberto). Anche in questo caso venne riservato ampio spazio ai prodotti e ai processi chimici, benché, come osservò un corrispondente, i segni del cambiamento non riguardassero tanto la natura dei prodotti esposti, quanto le innovazioni dei processi produttivi, che se da un lato non avevano portato alla creazione di nuove sostanze, dall'altro avevano però permesso un abbassamento dei costi di produzione. Tutte le esposizioni riservavano parte del loro spazio ai prodotti artistici e in quella del 1862 vi era una sezione dedicata alle arti della terracotta e della ceramica dove, accanto alle filtropresse e ai forni da ceramica alimentati a gas, si potevano ammirare esemplari di porcellana raffaellesca (prodotti a Worcester, in Inghilterra) o di maioliche (fabbricate nello stabilimento Doccia, vicino a Firenze). A proposito di queste ultime, riportiamo il seguente commento di un osservatore, non privo di accenti lirici: "Gli italiani sono circondati da tutti gli elementi che possono favorire lo sviluppo di uno spirito poetico e di una prolifica immaginazione ‒ una storia romantica, scritta non nei libri ma nel paesaggio che li circonda, colmo fino alla nausea, per così dire, dei tesori dell'Antichità e allietato dalla presenza delle più belle opere del Rinascimento. Aggiungete a questo il miglior clima del mondo, e capirete come sia impossibile che un terreno così fertile non dia buoni frutti" (Record of the International Exhibition, 1862, p. 424).
I componenti della commissione ufficiale italiana, Gustavo Benso di Cavour (1806-1864) e Giuseppe Devincenzi (1814-1903), imputavano allo stato di caos in cui versava il loro paese il livello insoddisfacente della partecipazione italiana:
Le condizioni economiche dell'Italia sono conosciute assai meno di quelle di qualunque altro paese civile. Suddivisa finora in una miriade di piccoli Stati, la maggior parte dei quali sottoposti a un governo dispotico; priva di porti e di ferrovie in molte delle sue provincie, e attraversata da numerosi confini e dogane che hanno ostacolato gli scambi commerciali, l'Italia non solo non ha potuto sviluppare appieno le proprie risorse naturali, ma è rimasta pressoché sconosciuta a sé e agli altri. La Regia commissione, incaricata dal governo italiano di organizzare e dirigere il padiglione italiano all'Esposizione del 1862, non ha mancato di sottolineare […] la necessità per il nuovo regno di assicurare un'adeguata partecipazione all'esposizione e […] di cogliere questa opportunità per dimostrare alle altre nazioni le potenzialità industriali del paese. (International Exhibition, 1862, p. VII)
Parlando del contributo italiano alla sezione di chimica, si constatava malinconicamente che lo scarso numero di prodotti inviati era sufficiente a dimostrare lo stato di arretratezza di questa particolare branca dell'industria in Italia. In molti casi ci troviamo di fronte a un vero e proprio nazionalismo industriale. In contrasto con la situazione italiana, August Wilhelm von Hofmann (1818-1892), nella sua relazione alla giuria della sezione di chimica, scriveva che i contributi del Regno Unito dimostravano che l'industria britannica non solo aveva mantenuto la propria posizione di preminenza rispetto ai produttori degli altri paesi, ma aveva addirittura aumentato la superiorità che le era stata già riconosciuta in occasione dell'Esposizione del 1851.
La Philadelphia Centennial Exhibition del 1876, organizzata per celebrare i cento anni della Dichiarazione d'indipendenza americana, segnò l'inizio di una lunga serie di importanti manifestazioni negli Stati Uniti. La chimica vi svolgeva un ruolo di primo piano e il rapporto dei giudici evidenzia i notevoli progressi compiuti in questo campo dalla nazione ospitante. La giuria riteneva infatti che la produzione industriale americana non soltanto sarebbe stata ben presto sufficiente a coprire il fabbisogno del paese, ma sarebbe venuto un tempo in cui gli Stati Uniti avrebbero inviato nel vecchio mondo l'eccesso della loro produzione. In particolare venivano citati le tinture, lo zucchero, i fertilizzanti e gli acidi organici. Uno dei giudici stranieri, Charles-Frédéric Kuhlmann, riferì al governo francese che "il petrolio, questa importante fonte di calore e di luce, ha portato e continuerà a portare in futuro grande ricchezza al paese".
A quella di Filadelfia seguirono poi la Chicago Columbian Exposition del 1893 (visitata da 27.529.400 persone) e la St. Louis Louisiana Purchase Exposition del 1904, organizzata per l'anniversario dell'acquisto della Louisiana. L'esposizione di Filadelfia rischiò di non essere realizzata, dato che il governo sembrava del tutto contrario a finanziarla e la raccolta di fondi tra i privati appariva insufficiente. Solo quattro mesi prima della data di apertura, la Camera dei rappresentanti approvò un finanziamento di 1,5 milioni di dollari e l'esposizione fu salva. Anche se si chiuse con una notevole perdita, il progetto costituì ugualmente un valido investimento a livello nazionale, dato che rivelò al popolo americano (i visitatori furono quasi 10 milioni) che gli Stati Uniti erano diventati la maggiore potenza industriale ed economica del mondo, aumentando significativamente la fiducia della nazione nelle proprie forze. Naturalmente non tutti i visitatori prestavano la dovuta attenzione agli oggetti esposti, alcuni, però, lo fecero. Il giovane George Eastman (1854-1932), il futuro fondatore della Eastman Kodak, in una nota descrive così le sue esperienze: "Ho intenzione di percorrere ogni padiglione, oggi ho finito di visitare la sala dei macchinari e circa la metà dell'edificio centrale […]. L'ingegnosità con cui gli espositori hanno disposto articoli come finimenti, sapone, candele, ferraglie, aghi, fili, tubi, e altri oggetti apparentemente privi di interesse è davvero stupefacente ‒ e riescono ad attirare l'attenzione del visitatore anche contro la sua volontà" (in Post 1976, p. 15). Molti degli oggetti presentati all'esposizione del centenario al termine della manifestazione vennero caricati su vagoni ferroviari e trasportati a Washington, dove in seguito entrarono a far parte dell'United States National Museum, dipendente dalla Smithsonian Institution.
Verso la fine dell'Ottocento l'industria chimica tedesca registrò una rapida espansione, che la portò a conquistare una posizione predominante sul mercato mondiale. La sua vitalità e la consapevolezza della propria forza si riflettono nella posizione assunta dalla Germania nei riguardi delle esposizioni e delle fiere internazionali. Per preparare la partecipazione alla Chicago Columbian Exposition del 1893, l'associazione per la protezione degli interessi dell'industria chimica della Germania istituì, con due anni di anticipo, un comitato ad alto livello e incaricò un architetto e una squadra di specialisti di allestire un padiglione espositivo indipendente. Per l'occasione, inoltre, fu pubblicata una corposa guida di 109 pagine in inglese, la Guide trough [sic] the exhibition of the German chemical industry. Columbian exposition in Chicago. Il volume, da cui trapela l'orgoglio per i risultati raggiunti, si apre con queste parole: "L'industria chimica tedesca, le cui straordinarie capacità, come pure la varietà dei prodotti, sono oggi universalmente riconosciute, è quasi interamente una creazione degli ultimi cento anni". Lo stand di maggiori dimensioni era naturalmente quello occupato dalla Badische Anilin-und-Soda-Fabrik, che si vantava di possedere i più grandi impianti chimici del mondo. Una cura particolare era dedicata alla visibilità degli stands, che utilizzavano spesso effetti spettacolari. Quello delle Vereinigte Ultramarinfabriken di Norimberga era costituito da una struttura rocciosa contenente una grotta blu, di fronte alla quale era posta una sfinge, a simboleggiare il segreto della fabbricazione dell'ultramarino; il gruppo di rocce era sormontato da un'aquila che stringeva nei suoi artigli le insegne degli Stati Uniti d'America e della Germania. Tutto questo per pubblicizzare una società che traeva la maggior parte dei suoi introiti dalla produzione di un agente azzurrante, utilizzato per conferire un aspetto più candido agli indumenti appena lavati.
Nell'esposizione di St. Louis del 1904 la Gran Bretagna tentò di recedere dalla sua posizione rigidamente liberista, almeno in termini organizzativi. In un testo pubblicato a cura degli espositori ci si chiedeva se l'industria chimica britannica fosse riuscita a conservare quella supremazia sul resto del mondo che aveva esercitato quarant'anni prima, lasciando intravedere piuttosto chiaramente una risposta negativa. In effetti, gli industriali chimici britannici si erano mostrati fino a quel momento incapaci di collaborare tra loro, come avevano fatto invece i tedeschi in occasione dell'esposizione di Chicago del 1893. La Commissione reale decise di farsi carico di questa situazione insoddisfacente, offrendo incentivi agli industriali per indurli ad accettare una partecipazione collettiva. Gli autori della pubblicazione che abbiamo appena menzionato, pur ammettendo il primato tedesco nel campo della chimica di sintesi, sostenevano che non era lecito dedurne che l'industria tedesca fosse all'avanguardia nel settore chimico in generale e concludevano che, nonostante la spietata concorrenza, la Gran Bretagna era riuscita a mantenere la sua posizione centrale nell'industria chimica mondiale. L'espressione 'mantenere la sua posizione' appare in netto contrasto con il trionfalismo dei comunicati dell'industria chimica tedesca. Gli autori proponevano, non senza qualche ragione, di misurare il successo industriale delle due nazioni sulla base di un metro diverso da quello puramente quantitativo. La Gran Bretagna, si sottolineava, poteva vantare un'invidiabile primato, quello della continuità della produzione di grandi figure di ricercatori e dell'invenzione di nuovi processi chimici. Tra i primi, venivano citati, fra gli altri, Robert Boyle, Joseph Black, Henry Cavendish, John Dalton, William H. Wollaston, Humphry Davy, Joseph Priestley, Michael Faraday, Thomas Andrews, Thomas Graham, John A. R. Newlands, John Percy, Lyon Playfair, James S. Muspratt, Edward Frankland, Henry E. Armstrong, William Crookes, James Dewar, William Odling, William H. Perkin, William Ramsay, Henry E. Roscoe e Thomas E. Thorpe. Il secondo elenco, invece, comprendeva il procedimento Bessemer per la produzione di acciaio, il procedimento Deacon per la produzione di cloro, il procedimento di candeggio di Weldon, la preparazione dei residui di catrame minerale, il procedimento Gilchrist-Thomas per la produzione di acciaio basico, il procedimento Solvay-Mond per la produzione di soda ammoniacale, i processi Mond per la produzione di nichel e di gas per motori, il procedimento di estrazione dell'oro con il cianuro di McArthur-Forrest, il procedimento catalitico per la produzione di acido solforico di Messel-Squire, infine il procedimento di recupero dello zolfo di Chance-Claus. Dunque era possibile una sola conclusione: "Se potessimo calcolare anche in modo approssimativo, in termini di milioni di sterline, i vantaggi apportati alla comunità dal lavoro degli individui che abbiamo menzionato, avremmo senza dubbio a disposizione un formidabile argomento a favore di una politica volta a incoraggiare la ricerca chimica di base e a fornire ai giovani un'educazione tecnica di alto livello, per metterli in condizione di trarre il massimo vantaggio dalle scoperte dei loro connazionali" (International Exhibition St. Louis, 1904, pp. 5-9).
I riferimenti a un glorioso passato di ricerca e ai benefici derivanti dall'educazione, ci portano naturalmente ad affrontare il tema del ruolo svolto dai musei nella diffusione della chimica tra il vasto pubblico. L'istituzione dei musei didattici nel corso dell'Ottocento è indissolubilmente legata alla storia delle grandi esposizioni, benché i due fenomeni fossero caratterizzati da finalità e da un approccio profondamente diversi. Nell'Ottocento, l'unico museo tradizionale provvisto di una significativa sezione dedicata alla chimica era il South Kensington Museum di Londra. Il Deutsches Museum di Monaco e il National Museum of History and Technology di Washington, entrambi dotati di un'importante collezione di chimica, furono, infatti, fondati solo nel Novecento. Il Museum of Practical Geology di Londra, istituito nel 1835, e il Museum of Irish Industry di Dublino, del 1845, comprendevano ambedue una sezione chimica. L'Industrial Museum of Scotland di Edimburgo, fondato nel 1854, raccoglieva materiali relativi alla chimica, ma inizialmente senza esporli, con grande disappunto del suo primo direttore, George Wilson, un chimico noto e rispettato. La fondazione del South Kensington Museum, come già accennato, fu una diretta conseguenza della Great Exhibition tenutasi a Londra nel 1851; il ministero del Commercio britannico, infatti, aveva stanziato 5000 sterline per l'acquisto dei migliori oggetti artistici che vi erano stati esposti. Successivamente questi furono inviati con altro materiale (compresi alcuni prestiti della regina Vittoria) alla Marlborough House di Londra, dove formarono il nucleo iniziale del Museum of Ornamental Art, che aprì le porte al pubblico nel settembre del 1852. Lo scopo del museo era quello di offrire una scelta di oggetti caratterizzati da un'alta qualità del design, della decorazione e dell'esecuzione. Il primo rapporto del Department of Practical Art ne illustra con estrema chiarezza la missione: "Un museo rappresenta probabilmente l'unico mezzo efficace per educare un adulto, a cui non si può chiedere di tornare sui banchi di scuola, e l'istruzione dei grandi è quasi altrettanto necessaria di quella dei piccoli. Con adeguati accorgimenti, è possibile fare di un museo uno strumento di educazione al più alto livello" (Department of science and art 1893, p. 35).
Durante i primi cinque anni di attività, il museo limitò le sue acquisizioni al campo delle arti decorative, poi nel 1857 le collezioni furono trasferite nella zona occidentale di Londra e l'istituto fu ribattezzato South Kensington Museum. Questo rilancio coincise con un allargamento della politica di acquisizioni ai campi più disparati, con il risultato di creare una serie di collezioni scientifiche che formarono l'embrione del futuro Science Museum. Queste ultime coprivano settori diversi, spaziando dall'alimentazione ai prodotti di origine animale, ai modelli meccanici, ai materiali da costruzione e alla didattica. A ciò si aggiunse un museo dei brevetti, voluto da Bennet Woodcroft, il sovrintendente dell'Ufficio brevetti. La chimica era scarsamente o per nulla rappresentata. L'unica eccezione era costituita da una sezione all'interno della collezione didattica, in origine fondata nel 1854 dalla Royal Society of Arts e più tardi passata sotto il diretto controllo del governo. Lo scopo di questa collezione era di consentire alle industrie e alle case editrici di promuovere i propri prodotti presso il pubblico degli insegnanti; in sostanza, si trattava di una struttura commerciale. Oltre a una serie di testi di chimica offerti dagli editori, vi era un reparto dedicato alle apparecchiature fornite in gran parte dai più affermati commercianti di Londra, cui nel 1862 si aggiunse un gabinetto di chimica donato dal governo belga e presentato all'inizio dello stesso anno all'esposizione internazionale di Londra. Infine vi erano mappe e diagrammi da appendere ai muri delle aule. Occorre infine notare che nel voluminoso catalogo di 673 pagine, comprendente tutte le materie di insegnamento, lo spazio dedicato complessivamente alla chimica era piuttosto modesto.
Durante i primi diciassette anni di esistenza del nuovo museo, la raccolta di materiali scientifici seguì un andamento sporadico, senza assumere mai un carattere più vivace o sistematico. Questa situazione costituiva un motivo di preoccupazione per la Royal Commission sull'istruzione scientifica e il progresso della scienza, presieduta dal duca del Devonshire (chiamata anche a volte 'Devonshire Commission'). Il Fourth report (1874) di questa commissione affrontava il tema "collezioni e musei scientifici nazionali e reparti scientifici dei musei nazionali di argomento generale", criticando l'assenza di progressi significativi nell'allestimento del South Kensington Museum:
Se è per noi motivo di profonda soddisfazione rilevare la presenza nel British Museum di alcune delle più belle e vaste collezioni di scienza biologica oggi esistenti, è invece con profondo rammarico che dobbiamo constatare l'assenza di una mostra nazionale degli strumenti utilizzati nelle indagini delle leggi meccaniche, chimiche o fisiche, malgrado l'importanza che una simile mostra potrebbe avere per le persone interessate al settore delle scienze sperimentali. Riteniamo, infatti, che i progressi recentemente realizzati in questo campo, e la crescita costante della domanda di informazioni riguardanti tali scienze, rendano auspicabile un ampliamento in questa direzione delle collezioni dei musei nazionali, per venire incontro a un bisogno di conoscenza scientifica che non potrebbe essere soddisfatto in nessun altro modo. (Fourth report from the Royal Commission, p. 11)
Le valutazioni espresse dalla Devonshire Commission ebbero come conseguenza immediata l'organizzazione, su vastissima scala, di una mostra temporanea delle scienze al South Kensington Museum. Nel 1876 il Consiglio sull'educazione approvò la realizzazione di una Special Loan Collection, che includesse non soltanto le apparecchiature usate nell'insegnamento e nella ricerca, ma anche quelle che possedevano un interesse storico, per via delle persone che le avevano utilizzate o delle scoperte che avevano consentito di effettuare. La composizione del comitato istituito per promuovere questa iniziativa permette di valutare quanta importanza le fosse attribuita: il presidente era lo stesso lord cancelliere e oltre la metà dei 134 membri proveniva dalla Royal Society. Del comitato facevano parte alcuni dei più celebri scienziati britannici, come James C. Maxwell (1831-1879), Charles Wheatstone (1802-1875) e John W. Strutt (lord Rayleigh, 1842-1919). Se, da una parte, si faceva esplicito riferimento come modello al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, dall'altra ci si preoccupava di sottolineare la specificità di questa iniziativa in confronto alle esposizioni internazionali:
È necessario assumere tutte le precauzioni necessarie per impedire l'insorgere di malintesi sul carattere di questa raccolta. I riferimenti al carattere internazionale di tale iniziativa rischiano infatti di richiamare alla mente l'immagine di un'esposizione internazionale del tutto simile per natura e caratteristiche alle numerose esposizioni industriali che si sono tenute in diversi paesi. Un malinteso del genere comporterebbe seri inconvenienti […]. Le esposizioni [internazionali], naturalmente, hanno in vista, più o meno esclusivamente, gli interessi industriali o commerciali delle […] nazioni. Non è questo il principio a cui dovrebbe ispirarsi la progettata Loan Collection al South Kensington Museum, per la quale si vorrebbero ottenere non solo apparecchiature e materiali dalle industrie produttrici, ma anche oggetti di interesse storico da musei e gabinetti privati, dove sono conservati come preziose reliquie, e inoltre apparecchiature attualmente in uso nei laboratori dei docenti. (Catalogue of the Special Loan Collection, 1877, pp. 563, 672)
Queste preoccupazioni, tuttavia, non pregiudicarono affatto la dimensione internazionale della Special Loan Collection, per la quale furono mobilitati gli ambasciatori britannici a Parigi, Berlino, San Pietroburgo, Vienna, Firenze, Bruxelles, L'Aia, Stoccolma, Madrid, Berna e Washington. In ciascuna di queste città venne istituito un comitato nazionale e, nel caso dell'Italia e della Norvegia, dei sottocomitati per tutti i principali settori scientifici. Per il giorno dell'apertura, avvenuta nel maggio del 1876, erano stati raccolti ed esposti, nelle gallerie costruite per l'esposizione internazionale del 1862, oltre 5000 oggetti e il catalogo della mostra fu pubblicato, non soltanto in inglese, ma anche in francese e in tedesco. In occasione della costituzione della Loan Collection fu tenuto un ciclo di 29 conferenze, con la partecipazione di alcuni dei più eminenti scienziati dell'epoca.
La parte della mostra riguardante la chimica era divisa in varie sezioni: storia, ricerca (la sezione più vasta), apparecchiature da laboratorio, industria, agricoltura, metallurgia e, infine, modelli, diagrammi, apparecchi e sostanze utilizzate nell'insegnamento. Solo la sezione dedicata all'industria, in cui erano esposti campioni di prodotti e modelli di impianti chimici, era in qualche modo paragonabile al settore chimico di una grande esposizione internazionale. La sezione storica, pur comprendendo un gruppo molto consistente di oggetti utilizzati da Dalton per i suoi esperimenti (sfortunatamente distrutti nel corso dei bombardamenti di Manchester durante la Seconda guerra mondiale), non offriva tuttavia un quadro soddisfacente della storia della chimica attraverso i materiali. Anche la sezione dedicata alla ricerca era poco equilibrata, malgrado la presenza di alcuni oggetti estremamente interessanti. I lavori illustrati in questo settore comprendevano le ricerche sull'ozono di Andrews, sui composti del vanadio di Roscoe, sulle sostanze metallorganiche e sulla sintesi organica in generale di Frankland e, infine, sulle tinture organiche di Perkin. La Germania e la Russia inviarono alla mostra un numero notevole di oggetti associati all'attività dei loro più celebri ricercatori chimici. Il Collège de France presentò una serie di apparecchiature fabbricate e utilizzate da Marcellin Berthelot (1827-1907). Nella sezione dedicata alla metallurgia, accanto a una fornace a coppellazione, appartenuta presumibilmente a Newton e inviata dalla Zecca, venne esposta una pietra di paragone per saggiare l'oro, anche se è molto improbabile che il pubblico dell'epoca fosse in grado di cogliere l'esoterico nesso alchemico che legava i due oggetti. In effetti è difficile immaginare quanti visitatori, posti di fronte alle migliaia di campioni in provetta e alle centinaia di complesse apparecchiature esposte nella mostra, fossero in grado di farsi un'idea della chimica che andasse al di là dell'impressione che si trattasse di un impenetrabile enigma.
Dopo la chiusura della Special Loan Collection nel 1877, l'embrionale museo scientifico fu oggetto delle indagini di successivi comitati governativi, che cercarono di individuare la direzione migliore da seguire in futuro. Di conseguenza, alcune sezioni museali furono smantellate, compresa la mostra didattica, che venne giudicata anacronistica, mentre emergeva con sempre maggiore chiarezza la necessità di costruire un apposito edificio, destinato a ospitare il nuovo Science Museum. In seguito ai ritardi nella realizzazione di questo progetto, tuttavia, le collezioni scientifiche trovarono una sistemazione provvisoria nelle gallerie occidentali della parte restante dell'edificio costruito per l'esposizione del 1862. La sezione chimica era costituita prevalentemente da materiali provenienti dalla Special Loan Collection del 1876 e da oggetti appartenuti alla vecchia mostra didattica, anche se il primo catalogo della collezione permanente di chimica, pubblicato nel 1910, dimostra che lo Science Museum aveva già avviato una propria attività autonoma di raccolta di materiali, probabilmente in seguito alla nomina di un apposito curatore, decisa nel 1898. Purtroppo i nuovi edifici non furono completati prima dello scoppio della Prima guerra mondiale e l'apertura vera e propria del nuovo Science Museum venne ritardata fino al 1928. Queste difficoltà furono, comunque, sopportate con ammirevole stoicismo dal pubblico: i visitatori furono quasi 350.000 sia nel 1914 sia nel 1915. All'inizio del nuovo secolo, l'interesse del pubblico per i musei scientifici si era ormai consolidato e non era più necessario stimolarlo con il ricorso a manifestazioni straordinarie.
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