L'Ottocento: chimica. Le reazioni chimiche
Le reazioni chimiche
Il concetto di 'equilibrio' o di 'punto o stato di equilibrio' è stato introdotto nella chimica alla metà del Settecento in connessione con il precedente concetto di 'saturazione' o 'punto' o 'stato di saturazione'; spesso tali concetti erano considerati come equivalenti, anche se a rigore non lo erano e il loro significato si sarebbe specificato nel tempo. Nato in un contesto cinematico di tipo meccanicistico, il concetto di 'punto o stato di saturazione' di una reazione chimica indicava inizialmente uno stato di quiete raggiunto il quale la reazione non procedeva oltre ‒ e si considerava quindi completa ‒ poiché cessava l'attività chimica fra i reagenti e si ottenevano i prodotti finali stabili. Il termine 'equilibrio', introdotto per indicare questo stato, stava anche a significare che i chimici ritenevano ‒ sul modello della meccanica newtoniana ‒ che l'azione chimica fosse causata da forze analoghe a quelle gravitazionali, definite forze di 'affinità', le quali, alla fine della reazione, si trovavano appunto in uno stato di equilibrio 'statico' considerato più stabile rispetto a quello esistente nel momento iniziale del processo. Si credeva, quindi, che ogni reazione chimica tendesse a raggiungere stati di equilibrio sempre più stabili, nei quali però, oltre alle forze di affinità, erano implicate anche le figure delle particelle delle sostanze e il loro contatto ‒ ovvero le forze di coesione agenti fra esse ‒ nonché le proprietà intensive della materia come la densità, la temperatura e così via. Il raggiungimento dell'equilibrio, sosteneva Antoine-Laurent Lavoisier nel Traité élémentaire de chimie, doveva essere considerato "una legge generale della Natura in tutte le combinazioni" (1789, p. 140). Questa enunciazione, così densa di implicazioni per la filosofia chimica della materia, sebbene fosse largamente condivisa dai chimici settecenteschi, si trovava alla fine di una descrizione della combinabilità dell'ossigeno gassoso con i diversi metalli per dare ossidi, che invece modificava largamente le idee correnti sull'affinità. In questa reazione, infatti, secondo Lavoisier la quantità di ossigeno che si combinava con il metallo era determinata dall'equilibrio che alla fine si realizzava tra le affinità del calorico e del metallo per quel gas. L'ossigeno, cioè, passava dalla combinazione con il calorico a quella con il metallo senza che però quest'ultimo venisse saturato completamente, poiché la tendenza all'unione fra queste due sostanze veniva controbilanciata dalla contemporanea azione attrattiva del calorico nei confronti dell'ossigeno. In questo modo si sosteneva che, al contrario di quanto pensava la maggior parte dei teorici dell'affinità, in particolare Torbern Olof Bergman (1735-1784), quest'ultima proprietà non era costante o elettiva ma dipendeva anche dalle quantità delle sostanze in gioco. Già secondo Lavoisier, quindi, non tutte le reazioni erano complete e nello stato finale poteva esserci una compresenza, in proporzioni diverse, di una parte delle sostanze reagenti e di quelle prodotte. Nel 1788, del resto, in una nota all'edizione francese dell'Essay on phlogiston and the constitution of acids (1784) di Richard Kirwan, Lavoisier aveva iniziato a mettere in discussione l'idea corrente relativa al carattere elettivo dell'attrazione chimica utilizzando gli stessi argomenti che poi esporrà nel Traité. Non si era però ancora arrivati a far dipendere in maniera esplicita il percorso e l'esito delle reazioni chimiche dalla massa dei reagenti o da una qualche grandezza direttamente dipendente da essa, un passo che sarà compiuto da Claude-Louis Berthollet (1748-1822) agli inizi dell'Ottocento.
Osservando uno dei laghi di Natrum nei pressi del Cairo, Berthollet ‒ che era al seguito di Napoleone Bonaparte nella spedizione in Egitto del 1798 ‒ notò che in un ambiente fortemente salato per la presenza di cloruro di sodio si era formato carbonato di sodio a partire dal carbonato di calcio: in laboratorio, invece, era nota solo la reazione inversa, nella quale da una soluzione di cloruro di calcio e carbonato di sodio si otteneva sempre carbonato di calcio e cloruro di sodio. Egli, quindi, si pose il problema se tra i fattori che influenzavano l'azione dell'affinità chimica non vi fosse, oltre alla temperatura, anche la quantità delle sostanze coinvolte, ossia se la massa dei reagenti non svolgesse un ruolo nel creare le 'circostanze' ambientali nelle quali avvenivano le reazioni, determinandone gli esiti. Berthollet, del resto, aveva appreso da Lavoisier che la reattività chimica era molto più complessa di quanto la teoria delle affinità elettive lasciasse supporre e, dal suo primo maestro Pierre-Joseph Macquer (1718-1784), che il comportamento chimico delle sostanze non poteva essere dedotto semplicemente da uno o più principî generali, ma che era necessario, piuttosto, prendere in considerazione le condizioni sperimentali concrete (le 'circostanze', appunto) nelle quali questi principî agivano, e grazie alle quali si potevano avere serie continue di composti, ognuno caratterizzato da una specifica proporzione dei componenti. Berthollet espose le sue idee in proposito prima nelle Recherches sur les lois de l'affinité presentate all'Institut de France nel 1799 e pubblicate nei "Mémoires de l'Institut" del 1801 e, in seguito, nell'Essai de statique chimique del 1803, un trattato nel quale si delineava una vera e propria teoria generale dell'azione chimica.
Per Berthollet, in effetti, la quantità delle sostanze presenti nell'ambiente di reazione giocava un ruolo sia nello svolgimento delle reazioni sia nella determinazione del punto finale di equilibrio da esse raggiunto e che egli considerava ancora di tipo statico, come indica il titolo del suo trattato e come viene enunciato già nel primo capitolo delle Recherches:
Mi propongo […] di provare che le affinità elettive non agiscono come forze assolute […] ma che, in tutte le composizioni e le scomposizioni dovute all'affinità elettiva, si fa una ripartizione dell'oggetto della combinazione fra le due sostanze la cui azione è opposta e che le proporzioni di questa ripartizione sono determinate non soltanto dall'energia delle affinità di queste sostanze ma anche dalla quantità con la quale esse agiscono, in modo tale che la quantità può supplire alla forza dell'affinità per produrre uno stesso grado di saturazione […]. Se stabilisco che la quantità di una sostanza può supplire alla forza della sua affinità, risulta che la sua azione è proporzionale alla quantità che è necessaria per produrre un grado determinato di saturazione. Chiamo massa questa quantità che è la misura della capacità di saturazione delle differenti sostanze. (Berthollet 1801, pp. 3-4)
Quella a cui fa riferimento Berthollet non è la massa in generale ma una grandezza particolare, definita più specificamente come 'massa chimica': "Ho designato col termine 'massa chimica', o 'massa' le quantità determinate da uno stesso grado di saturazione e, di conseguenza, relative alla capacità di saturazione; allorché due sostanze sono in concorrenza per combinarsi con una terza, esse provano dunque ciascuna un grado di saturazione proporzionale alla loro massa" (ibidem, p. 90).
Si tratta di una definizione molto vaga, come anche le successive presenti nelle Recherches e poi nell'Essai, che daranno luogo a numerose difficoltà interpretative e a incomprensioni scientifiche e storiografiche: "Ho designato col nome di 'massa chimica' questa facoltà di produrre una saturazione, questa potenza che si compone della quantità ponderale di un acido e della sua affinità; secondo tale definizione le masse che sono messe in azione sono proporzionali alla saturazione che esse possono produrre nella sostanza con la quale si combinano" (Berthollet 1803, p. 72).
In seguito il concetto di 'massa chimica' sarà considerato identico a quello di 'concentrazione'; tale identificazione, però, non sembra essere rigorosa se riferita all'opera di Berthollet, che del resto nell'Essai adottava il termine 'concentrazione' per denotare l''energia' dei differenti acidi, distinguibile a sua volta dalla 'potenza', che invece era dipendente dalla capacità di saturazione. La 'massa chimica', inoltre, grazie al legame con la capacità o grado di saturazione, sembrava poter avere una qualche relazione con le ricerche di Kirwan, di Carl Friedrich Wenzel (1740-1793) e soprattutto di Jeremias Benjamin Richter (1762-1807) sulla determinazione dei rapporti di neutralizzazione acido-base ‒ cioè delle quantità di più acidi necessarie a 'saturare' una determinata quantità di alcali e viceversa ‒ che era finalizzata proprio alla valutazione quantitativa delle affinità chimiche. Berthollet, in realtà, introducendo la grandezza 'massa', tentava di fornire una misura dell'azione chimica in generale piuttosto che dell'affinità, in qualunque modo quest'ultima venisse allora concepita. L'azione chimica era una realtà più complessa, in quanto, secondo Berthollet, poteva essere considerata determinata da una parte costante e tipica delle sostanze chimiche in gioco (l'affinità vera e propria) e da una parte variabile (massa chimica) derivata dalle quantità di queste stesse sostanze presenti nell'ambiente di reazione; essa, in altre parole, era una funzione composta della massa e dell'affinità. Le reazioni di neutralizzazione non potevano fornire una valutazione quantitativa rigorosa dell'affinità specifica delle singole sostanze, perché implicando esse la massa, veniva modificato proprio l'effetto generale a partire dal quale l'affinità doveva essere misurata. L'affinità reciproca delle sostanze, in ultima analisi, e malgrado i tentativi fatti dallo stesso Berthollet, sarebbe stata difficilmente determinabile. Poteva essere invece conosciuta la capacità di saturazione reciproca, grandezza relativa sia alle affinità sia alle masse coinvolte (ma anche alle altre forze interagenti: coesione, calore, elettricità e così via). Alla fine delle Recherches, Berthollet fornisce un significato più allargato del concetto di affinità di una sostanza intesa come la "potenza chimica esercitata in una condizione data", e quindi anch'essa variabile, soggetta a tutte le "modificazioni che essa prova dopo la sua azione iniziale fino a che sia pervenuta al suo punto di equilibrio" (Berthollet 1801, p. 92). Così ridefinita l'affinità poteva anche essere concepita come il principio dell'azione chimica, che costituiva l'oggetto specifico della sua indagine.
In che cosa consistesse l'azione chimica, quale fosse il principio d'azione dei fenomeni chimici, come fosse possibile misurare questa azione, quali fossero i fattori che la potevano influenzare: sono questi i problemi ai quali Berthollet cercherà di dare una risposta riformulando anche i rapporti esistenti fra 'saturazione', 'equilibrio' e 'affinità'. La sua risposta è innovativa, sebbene a tratti molto difficile da decifrare e, come si è accennato, anche in parziale continuità con il patrimonio di idee precedente e contemporaneo. Del resto l'incipit dell'Essai de statique chimique dimostra chiaramente come lo scopo delle sue riflessioni fosse, più che l'affinità in senso stretto, l'attività chimica nel suo complesso: "Lo scopo di questo saggio è quello di estendere le mie prime riflessioni a tutte le cause che possono far variare i risultati dell'azione chimica, ossia del prodotto dell'affinità e della quantità" (Berthollet 1803, p. 10). Questa azione si realizzava come un processo continuo e graduale, così come continue e graduali dovevano essere considerate le proporzioni dei composti che durante questo si formavano: "Ho abbastanza moltiplicato le prove che fanno vedere che è proprio dell'essenza dell'azione chimica crescere in ragione delle quantità delle sostanze che l'esercitano e di produrre combinazioni le cui proporzioni sono graduali dal primo all'ultimo termine di saturazione" (ibidem, p. 339). I testi di Berthollet erano di difficile comprensione anche perché non erano ancora stati chiariti, come avverrà nella seconda metà dell'Ottocento, i rapporti tra l'affinità, quale principio d'azione delle reazioni, e la 'valenza', come capacità differenziata di combinazione dei corpi semplici, che era tipica di questi ultimi e costante, sebbene potesse essere multipla.
La posizione di Berthollet, inoltre, deve essere collocata all'interno del programma laplaciano relativo allo studio degli effetti delle forze microscopiche 'molecolari' a corto raggio ‒ considerate responsabili anche dei fenomeni chimici ‒ e, più in generale, con le idee e lo stile di ricerca della Société d'Arcueil, di cui egli fu il fondatore e uno dei principali animatori. Berthollet, in effetti, sosteneva un approccio fisico alla chimica, che a suo parere doveva tendere al raggiungimento ‒ per vie proprie ‒ dello stesso grado di formalizzazione conseguito dalla meccanica, anche perché analoghe o uguali dovevano essere considerate le forze operanti nei fenomeni fisici e chimici. Questi ultimi, tuttavia, erano più complessi, tanto da giustificare per il loro studio e per la loro assiomatizzazione una sorta di metodo induttivo:
Poiché è molto verosimile che l'affinità non differisca nella sua origine dall'attrazione generale, essa deve essere ugualmente sottomessa alle leggi che la meccanica ha determinato per i fenomeni dovuti all'azione della massa, ed è naturale pensare che più i principî ai quali giungerà la teoria chimica possiederanno il carattere della generalità, più essi saranno analoghi a quelli della meccanica; ma è solo per la via dell'osservazione che essi devono raggiungere questo grado, che già può essere indicato. (ibidem, p. 2)
Mentre Antoine-François de Fourcroy, anch'egli collaboratore di Lavoisier, considerava opposti i fenomeni fisici e chimici, sostenendo nella Philosophie chimique (1806) in maniera icastica che "dove finisce il fisico, lì comincia il chimico", Berthollet, al contrario, riteneva che le proprietà fisiche, benché distinguibili da quelle chimiche in quanto non dipendenti dall'affinità, influissero fortemente nel determinare l'azione chimica: "Ne consegue che deve spesso esistere un rapporto fra le proprietà fisiche e le proprietà chimiche, che è spesso necessario fare ricorso alle une e alle altre per la spiegazione di un fenomeno al quale esse possono concorrere e che conviene stabilire una relazione intima tra le differenti scienze di cui la fisica [nel senso della scienza della Natura] si compone, affinché esse possano illuminarsi reciprocamente" (Berthollet 1803, p. 4).
Fra le proprietà fisiche rilevanti per l'azione chimica, vi erano quelle derivate dagli stati di condensazione o dilatazione della materia, che rendevano possibile l'azione reciproca fra le molecole insensibili delle sostanze reagenti. Infatti, sulla scia di una tradizione di ricerca chimica tipicamente francese, Berthollet era convinto che il vero scenario delle reazioni fosse quello invisibile delle masse di ultima composizione dei corpi, chiamate 'molecole'. Un aspetto interessante delle concezioni di Berthollet consiste nell'aver inserito il tempo fra le variabili in grado di modificare gli esiti dell'azione chimica: "Vi è ancora nell'azione chimica" ‒ scriverà infatti nell'introduzione dell'Essai ‒ "una condizione che deve essere presa in considerazione e che serve a spiegare numerosi suoi effetti; si tratta dell'intervallo di tempo che è necessario perché essa si attui e che è molto variabile a seconda delle sostanze e delle circostanze" (ibidem, pp. 20-21). Secondo la tradizione chimica precedente, tutte le 'mistioni' avvenivano istantaneamente in un tempo non misurabile, sia a livello microscopico sia macroscopico; Berthollet, invece, rilevava come oltre a quelle istantanee avvenissero molte reazioni che erano lente o addirittura lentissime, in cui a volte le forze agenti impiegavano molto tempo a raggiungere lo stato di equilibrio. Il problema, quindi, consisteva nel determinare quali fossero le condizioni che favorivano o ritardavano il corso delle reazioni, che potevano avere, anche singolarmente, una velocità diversa a seconda dello stadio nel quale si trovavano: maggiore agli inizi, quando l'azione era più viva; minore alla fine, quando la saturazione era più avanzata. Altri fattori in grado di influenzare l'andamento temporale delle reazioni erano il calore, l'agitazione, il peso specifico e così via. Berthollet tuttavia non intraprenderà la via della misurazione quantitativa dei tempi di reazione (e quindi delle velocità di reazione) proprio perché la sua era una visione fondamentalmente statica dell'equilibrio chimico. L'introduzione del tempo quale grandezza significativa nello svolgimento delle reazioni rappresenterà una svolta teorica necessaria per un nuovo approccio allo studio delle reazioni stesse.
Tutte queste idee contrapposero Berthollet a Joseph-Louis Proust (1754-1826), sostenitore della legge delle proporzioni costanti o definite e della elettività delle affinità, in una celebre querelle, svoltasi a cavallo tra il XVIII e il XIX sec., che vide perdente Berthollet, soprattutto perché la sua teoria dell'azione chimica non distingueva chiaramente fra combinazione chimica e miscuglio oppure fra combinazione e dissoluzione. Secondo Proust, invece, non solo ogni azione chimica dava luogo a composti i cui elementi erano fissi e costanti, ma costituiva un risultato finale indipendente dalle condizioni o circostanze sperimentali e naturali della loro formazione, ovvero della loro 'storia chimica'. Le idee di Berthollet, benché in parte oscurate dall'affermazione della legge di Proust, aprirono tuttavia la strada allo studio della dinamica o della cinetica delle reazioni, degli equilibri chimici e, in particolare, a quella che verrà definita l''azione di massa' nelle reazioni.
Quest'ultimo aspetto delle teorie di Berthollet ricevette una buona accoglienza fra i suoi contemporanei, anche fra coloro che accettavano la validità della legge di Proust, come Humphry Davy e Jöns Jacob Berzelius. Il chimico Ernst Gottfried Fischer, inoltre, nel 1810-1811 curò l'edizione in tedesco dell'Essai, dandone ampia diffusione in Germania, e lo stesso Amedeo Avogadro nella memoria del 1811, Essai d'une manière de déterminer les masses relatives des molécules élémentaires des corps, et les proportions selon lesquelles elles entrent dans ces combinaisons, sosteneva che l'idea delle proporzioni costanti era valida solo per le combinazioni fra i gas, quelle tra i liquidi e i solidi erano mutevoli e per esse valeva l'azione di massa sostenuta da Berthollet. Il chimico tedesco Karl Johann Berhard Karsten (1782-1853) in un articolo del 1803, Über Berthollets chemische Affinitätslehre (Sulla teoria delle affinità chimiche di Berthollet), espose in maniera chiara e dettagliata le posizioni di Berthollet ed espresse l'azione di massa da questi sostenuta mediante formule algebriche: se, per esempio, una sostanza A agisce sulle sostanze B, C, D, E e le masse chimiche di queste sono m, n, o, p, le proporzioni di A ripartite fra le altre sostanze sono pari a m/S, n/S, o/S, p/S, dove S=m+n+o+p.
Gli studi sull'azione di massa nelle reazioni chimiche ripresero vigore con l'esame delle interazioni fra sali solubili e insolubili. Infatti, mentre gran parte dello sviluppo teorico della chimica nel XVIII sec. e agli inizi del XIX era dovuto allo studio delle combinazioni gassose, quello della reattività fra i sali caratterizzò, sin dalla fine del Settecento, la stechiometria e le ricerche sull'affinità e sull'andamento delle reazioni. Nel 1812 Pierre-Louis Dulong pubblicava le Recherches sur la décomposition mutuelle des sels solubles et insolubles, nelle quali mostrava come il solfato di bario, messo a bollire in una soluzione di una quantità equivalente di carbonato di potassio, si decomponesse parzialmente, e come la decomposizione fosse maggiore nel caso in cui venisse aggiunta una piccola quantità di potassa caustica. Al contrario, in una soluzione bollente di solfato di potassio, il carbonato di bario si convertiva parzialmente in solfato, ma la reazione si arrestava e non procedeva oltre se veniva aggiunta una quantità maggiore di solfato di potassio. Di qui Dulong concludeva che i sali insolubili erano decomposti dai carbonati di potassa o di soda, ma che lo scambio mutuo dei componenti di questi sali non era mai completo e che tutti i sali solubili, il cui acido poteva formare un sale insolubile con la base di un carbonato insolubile, erano decomposti da questo, ma la decomposizione raggiungeva un limite che non poteva essere superato. Dulong riteneva che nel secondo caso il liquido diventasse alcalino e che la forza dell'alcali contrastasse quella della decomposizione; inoltre, quando quest'ultima si fosse trovata in equilibrio con la forza tendente a far precipitare l'acido solforico sul carbonato insolubile, l'azione sarebbe cessata.
Studi ulteriori sulla solubilità dei sali e sul carattere parziale e reversibile di questo processo furono compiuti da R. Phillips, Joseph-Louis Gay-Lussac (1778-1850) e Heinrich Rose (1795-1864) che si muovevano ancora all'interno della concezione statica dell'equilibrio chimico e, più in generale, della reazione chimica, alla maniera di Berthollet. A partire dagli anni Cinquanta, invece, si cominciò ad affermare una visione dinamica dell'equilibrio chimico come bilanciamento fra due opposte reazioni in atto. Ciò avvenne soprattutto a partire dai lavori pionieristici sulla esterificazione (allora detta 'eterificazione') di Alexander W. Williamson (1824-1904), che elaborò anche uno dei primi tentativi di concettualizzazione della velocità di una reazione all'interno di una visione dinamica dell'atomismo chimico, ovvero dello stato degli atomi nei composti, come scrisse nel 1850 nella memoria Suggestions for the dynamics of chemistry derived from the theory of etherifications, pubblicata nel 1851 nelle "Notices of the proceedings at the meetings of the members of the Royal Institution":
La teoria atomica è stata finora tacitamente connessa con una ipotesi infondata e ingiustificabile, ossia che gli atomi si trovano in uno stato di quiete; la dinamica della chimica comincerà dal rifiuto di questa ipotesi e studierà il grado e il tipo di movimento posseduto dagli atomi, riducendo a questo unico fatto i diversi fenomeni di cambiamento che ora sono attribuiti a forze occulte. Sebbene probabilmente adoperato in connessione con la teoria atomica, il dato di fatto del movimento è indipendente da qualsiasi teoria particolare e, comunque le proprietà della materia possano essere concepite, rimarrà vero che avviene continuamente un cambiamento di luogo fra i rappresentanti o portatori di queste proprietà, il che produce i fenomeni della combinazione chimica […]. Vi sono prima facie segni evidenti che il tempo è necessario per l'azione chimica ‒ ma questo fatto, benché sia stato notato, non è ancora entrato nella spiegazione dei fenomeni. Il solo caso in cui è stato dimostrato un certo movimento regolare dei costituenti di una mistione è il processo di eterificazione […]. La forza chimica può essere considerata proporzionale alla quantità di una coppia [di reagenti] rispetto a quella dell'altra. Ora, poiché la proporzione è mantenuta soltanto dal fatto che il numero di scambi in una direzione è assolutamente lo stesso in ogni istante di tempo del numero di scambi nella direzione opposta, è chiaro che la velocità relativa di interscambio deve essere massima fra gli elementi di quella coppia la cui quantità sia minore e la forza chimica deve essere inversamente proporzionale alla velocità di questi interscambi. (Williamson 1851-54, pp. 90-94)
La fisica dei gas e in particolare il fenomeno della diffusione avevano già dimostrato che le molecole dei corpi erano in movimento continuo, ma Williamson sottolineava come la diffusione non fosse sufficiente a spiegare le reazioni chimiche che comportavano anche il movimento degli 'atomi' costituenti le molecole interagenti; per mezzo di essi si ottenevano infatti prodotti dotati di proprietà chimiche e fisiche diverse da quelle dei reagenti iniziali. Questa idea del movimento degli atomi nelle molecole si fece strada e fu successivamente condivisa da molti chimici, fra i quali Aleksandr Michajlovič Butlerov, Friedrich August Kekulé, Julius Lothar Meyer.
Williamson, inoltre, dimostrò che le reazioni di eterificazione ‒ con la mediazione dell'acido solforico come catalizzatore ‒ potevano avvenire in più stadi. Ciò contribuì a confermare l'idea che molte reazioni, soprattutto organiche, avvenissero a tappe, con stadi intermedi nei quali si formavano sostanze non rilevabili direttamente, e condusse alla percezione che una reazione chimica rappresentasse una realtà molto più complessa e con protagonisti molto più numerosi rispetto ai classici reagenti iniziali e prodotti finali, ossia che avvenisse attraverso un vero e proprio 'meccanismo'.
Sullo studio dell'azione di massa nelle reazioni chimiche, considerate dinamicamente, giocarono ancora una volta un ruolo decisivo le ricerche sul comportamento dei sali in soluzione. Nel 1853 e nel 1857, infatti, apparvero nelle "Annales de chimie et de physique" due memorie del chimico italiano, naturalizzato francese, Faustino Malaguti (1802-1878) nelle quali si riprendevano, criticavano e sviluppavano le esperienze di Dulong e Rose. Nella prima memoria, Expositions de quelques faits relatifs à l'action réciproque des sels solubles, Malaguti sosteneva che, allorché si mescolavano due sali solubili, essi si decomponevano in maniera tale da formare altri due sali che coesistevano con i primi due, dando luogo a nuovi sistemi in equilibrio più stabile rispetto a quelli di partenza. Quest'ultima tendenza rappresentava per Malaguti una vera e propria legge generale delle reazioni chimiche, come del resto era stato sostenuto già da Berthollet e ‒ sebbene in contesti differenti ‒ da tutti gli studiosi che si erano occupati delle affinità chimiche. Nella seconda memoria, Sur l'action réciproque des sels solubles et des sels insolubles, Malaguti metteva a punto una precisa teoria generale dell'equilibrio chimico di tipo dinamico, riprendendo anche alcune idee già presenti negli studi contemporanei sull'argomento. In particolare egli sosteneva che nello stato finale di equilibrio ‒ raggiungibile mettendo insieme due coppie di sali, di cui una insolubile ‒ l'arresto dell'azione chimica era solo apparente, poiché in realtà si aveva il contemporaneo comporsi e decomporsi dei sali insolubili, per cui le proporzioni dei sali presenti nell'ambiente di reazione rimanevano costanti nel tempo:
Allorché i due nuovi sali che risultano dalla decomposizione reciproca dei due sali primitivi non sono eliminati, l'azione si arresta e l'ebollizione più prolungata non la rianima affatto; poiché è dimostrato che i due nuovi sali che si sono formati nella mescolanza esercitano a loro volta un'azione decomponente reciproca, non vi è ragione di non ammettere che la sospensione dell'azione sia solo apparente e che essa sfugga all'apprezzamento; ciò avviene nel momento in cui la quantità del sale insolubile che si decompone è uguale alla quantità dello stesso sale che si forma […]. Si può dunque ammettere che nell'azione reciproca dei sali solubili e dei sali insolubili arriva un momento in cui vi è un'uguaglianza fra le quantità atomiche dei sali che si decompongono e le quantità atomiche dei sali che si formano e che è questa ponderazione e non la coesione che sembra arrestare l'azione. (Malaguti 1853b, pp. 337-338)
L'arresto dell'azione chimica, quindi, non era dovuto alla forza di coesione, opposta all'affinità, come sosteneva anche Dulong, ma a una reazione inversa a quella originaria. Malaguti, inoltre, introduceva una nuova grandezza ‒ il coefficiente di decomposizione ‒ definita come la frazione di 100 parti di un sale che veniva decomposta quando si mescolavano proporzioni equivalenti di due sali.
Tutte queste ricerche, così come quelle di John H. Gladstone del 1855 sull'azione dei tiocianati sui sali di ferro in soluzione, tendevano piuttosto alla determinazione della quantità e della qualità delle sostanze all'equilibrio, ovvero allo sviluppo del programma di Berthollet sulla valutazione di tutti i fattori e le circostanze in grado di modificare l'azione chimica. Le considerazioni di Berthollet e poi di Williamson, Malaguti, ecc., sul tempo e quindi sulla velocità di reazione restavano infatti in gran parte di tipo qualitativo. Nel 1850, però, Ludwig Ferdinand Wilhelmy, un fisico di Heidelberg noto per le sue ricerche sulla conducibilità termica, il calore radiante e la tensione superficiale, pubblicò una memoria negli "Annalen der Physik und Chemie" intitolata Über das Gesetz, nach welchem die Einwirkung der Säuren auf den Rohrzucker stattfindet (Sulla legge in base alla quale ha luogo la reazione degli acidi sullo zucchero di canna); in essa esponeva un metodo per misurare la velocità di una reazione omogenea, in particolare l'inversione dello zucchero di canna in soluzione acquosa e in presenza di acidi diversi come catalizzatori, e i risultati ottenuti. Egli propose una formula, −dZ/dt=MZS, che rappresentava in modo embrionale la prima legge matematica di azione di massa di tipo cinetico, espressa in forma differenziale, nella quale il primo termine indica una velocità di reazione (infinitesimale), cioè la quantità di saccarosio dZ trasformata nel tempo dt, dove Z è la quantità totale di zucchero, S quella di acido catalizzatore presente alla reazione e M la quantità media di zucchero che ha subito l'inversione nel tempo infinitesimo dt, che oggi si chiamerebbe costante di velocità della reazione.
Il lavoro di Wilhelmy rimase sconosciuto fino al 1884, quando il chimico-fisico Friedrich Wilhelm Ostwald lo trasse dall'oblio nel quale era caduto per più di trent'anni, sia pure in un contesto di ricostruzione storica e quando ormai le ricerche sulle velocità di reazione e sulle leggi che le governavano avevano già avuto notevoli sviluppi.
Una parte di queste ricerche riguardava ancora le reazioni di esterificazione, considerate analoghe a quelle saline della chimica inorganica e che, dopo Williamson, vedranno impegnati due chimici francesi, Marcellin Berthelot (1827-1907) e Léon Péan de Saint-Gilles (1832-1862). I primi risultati ottenuti da questi studiosi furono annunciati nel 1861 nei "Comptes rendus de l'Académie des Sciences" e poi pubblicati per esteso in tre memorie apparse nel 1862 nelle "Annales de chimie et de physique"con il titolo Recherches sur les affinités. De la formation et de la décomposition des éthers. Berthelot e Péan de Saint-Gilles giunsero alla conclusione che le reazioni di esterificazione (alcol+acido=etere+acqua), contrariamente a quelle inorganiche acido+base=sale+acqua, erano lente, reversibili e si avvicinavano progressivamente a uno stato finale 'limite' corrispondente all'equilibrio. Tale stato limite doveva essere considerato indipendente dalla temperatura e dalla pressione ma dipendente solo dagli alcoli in gioco; la temperatura, tuttavia, influenzava la velocità di reazione, mentre la pressione era irrilevante rispetto a questa grandezza. Inoltre, la diluizione con un solvente indifferente riduceva la velocità (essi ancora non usavano questo termine, quanto piuttosto quelli di 'marcia' o di 'evoluzione' di una reazione), che era considerata inversamente proporzionale al volume. Sebbene avessero ben chiaro il carattere reversibile di questo tipo di reazioni, Berthelot e Péan de Saint-Gilles non arrivarono a formulare una legge generale dell'azione di massa, poiché nei loro calcoli della velocità di reazione non prendevano in considerazione proprio la reazione inversa, in quanto la particolare visione termochimica e dinamica delle reazioni cosiddette 'limitate' da essi sostenuta, faceva loro ritenere che le reazioni inverse fossero dovute a forze non chimiche bensì esclusivamente fisiche. È significativo, inoltre, che essi utilizzassero il termine 'reazione', oggi diffuso, per denotare i fenomeni chimici, proprio in relazione all'esistenza di un processo inverso a ogni determinata azione chimica, ovvero una 'reazione' nel senso proprio della meccanica, cioè del principio di azione-reazione.
Nel 1862, nell'Essai d'une théorie sur la formation des éthers, Berthelot, con un approccio di tipo cinetico allo studio della velocità di reazione, propose una formula che rappresentava la quantità di etere generata ogni istante in rapporto al prodotto delle 'masse attive' delle sostanze presenti. Infatti, dato un sistema liquido omogeneo a temperatura costante e formato originariamente da uguali equivalenti di un acido e di un alcol, A e B, dopo il tempo x le masse rispettive di acido e di alcol che avevano reagito venivano indicate con yA e yB. Le masse libere dei due reagenti erano quindi A(1−y) e B (1−y) e la loro azione sarebbe stata tanto minore quanto più grande era y, mentre sarebbe diventata nulla quando le quantità Al e Bl avessero reagito e il sistema fosse arrivato allo stato finale verso il quale convergeva indefinitamente. Di qui la relazione dy=K (1−y/l)2 dx, dove K era una costante che dipendeva dalla natura dei reagenti e dalla temperatura, ovvero doveva essere considerata il prodotto di tre coefficienti m, μ, ν, specifici rispettivamente della temperatura, dell'acido e dell'alcol. L'equazione differenziale precedente diventava allora dy=mμν(1−y/l)2dx. Ancora una volta, comunque, non si tratta di una legge generale degli equilibri chimici ma, come negli altri casi, della determinazione della velocità di una reazione che procedeva in una particolare direzione fino a uno stato limite prodotto dalla reazione inversa.
Indipendentemente da Wilhelmy e da Berthelot, anche i chimici inglesi Augustus G.V. Harcourt (1834-1919) e William Hesson (1839-1916) arrivarono a formulare una legge della velocità di reazione in una serie di memorie, pubblicate dal 1864 al 1866, nelle quali studiavano il comportamento di una soluzione di permanganato di potassio in acido solforico diluito su una soluzione di solfato di manganese con un eccesso di acido ossalico. Essi, infatti, arrivarono a sostenere ‒ mediante un complesso apparato di equazioni matematiche ‒ che nella reazione (che essi ritenevano compiersi in più stadi) ottenuta mescolando le due soluzioni, la velocità del cambiamento chimico fosse direttamente proporzionale alla quantità di sostanza sottoposta al cambiamento stesso e che tale velocità dipendesse dal tempo in maniera esponenziale; pertanto si poteva sostenere che, in linea di principio, una reazione fosse completa soltanto per un tempo che tendeva all'infinito. Anche Harcourt e Hesson avevano come modello di riferimento la meccanica e in particolare i processi energetici che avvenivano nei fenomeni meccanici. Un sistema chimico, per molti aspetti, poteva essere trattato come un sistema meccanico che variava il suo stato passando da un dato livello di energia potenziale a un altro, nel quale una parte di questa energia veniva 'attualizzata'. Come scrissero nella memoria On the laws of connexion between the conditions of chemical change and its amount:
In ogni serie di esperimenti cominciamo con un sistema che contiene elementi capaci di subire una certa quantità di cambiamento. Possiamo esprimere ciò dicendo che all'inizio esiste un certo ammontare di cambiamento potenziale. Al passare del tempo questo cambiamento potenziale gradualmente diventa attuale. Da questo punto di vista il cambiamento che avviene nel sistema è analogo al moto di un corpo pesante in caduta libera, che all'inizio del suo movimento ha un certo ammontare di energia potenziale suscettibile di essere trasformata in energia attuale. (Harcourt 1867, pp. 128-129)
L'idea che nei mutamenti chimici si avesse un passaggio da un'energia potenziale a una attuale era già presente negli studi in campo termochimico e si inseriva nel contesto, più volte evocato, di una utilizzazione dei modelli della meccanica razionale nella chimica, in questo caso il principio di conservazione delle forze vive. Harcourt e Hesson non si proposero, con le loro esperienze, di misurare l'affinità chimica fra le sostanze e anticiparono così un approccio esclusivamente cinetico allo studio dell'azione di massa, che in seguito verrà sviluppato dai norvegesi Cato Maximilian Guldberg (1836-1902) e Peter Waage (1833-1900). Questi ultimi partirono però da un approccio fortemente dinamico, cioè legato al problema di determinare il valore della forza di affinità, che caratterizzerà il loro modo di affrontare il problema.
Guldberg e Waage, in realtà, elaborarono la legge di azione di massa, che porta il loro nome, in tre fasi distinte e solo nell'ultima adottarono un approccio prevalentemente cinetico piuttosto che dinamico. Nella prima memoria del 1864, scritta in norvegese, Studier over Affiniteten (Studi sull'affinità) e nella successiva, Études sur les affinités chimiques, pubblicata in francese nel 1867, sostenevano che lo scopo delle loro ricerche era la determinazione delle affinità chimiche, cioè delle 'forze di affinità', mediante la misurazione delle velocità di reazione e delle concentrazioni delle sostanze in gioco in una reazione chimica reversibile; in questo processo agivano infatti due forze opposte tendenti l'una a formare nuove sostanze e l'altra a riformare le sostanze originarie. Lo stato di equilibrio si raggiungeva quando queste due forze diventavano uguali. Secondo Guldberg e Waage, nelle reazioni chimiche le grandezze sperimentalmente misurabili erano le quantità delle sostanze e la velocità della loro mutua trasformazione e solo da esse era possibile ricavare informazioni sulle forze sconosciute che davano luogo a tali fenomeni. Anche Guldberg e Waage si muovevano dunque all'interno di un programma di ricerca che, come nel caso di Berthollet e Berthelot, aveva il proprio modello di riferimento nella meccanica e quindi nel principio di azione e reazione e nell'equilibrio che esso può generare: "In chimica, come in meccanica, il metodo più naturale sarà quello di determinare le forze nel loro stato di equilibrio. Vale a dire si dovranno studiare le reazioni chimiche nelle quali le forze che producono le combinazioni sono equilibrate da altre forze. è ciò che ha luogo nelle reazioni chimiche nelle quali la reazione non è completa ma parziale" (Guldberg 1867, p. 6). Fino ad allora, secondo i due autori, i tentativi in questa direzione erano stati sostanzialmente vani e avevano portato a una situazione di stallo, che non era stata superata nemmeno con l'approccio termochimico, poiché esso, secondo loro, non era in grado di rendere conto, per esempio, delle reazioni nelle quali non si aveva nessuno scambio di calore con l'ambiente esterno. Anche per Guldberg e Waage lo studio dell'affinità richiedeva la ricerca sperimentale della grandezza di questa forza, che doveva essere espressa in termini matematici ma tenendo conto della straordinaria complessità di moltissime reazioni chimiche allora note; ciò poteva avvenire solo con un approccio nuovo, come quello da loro proposto. Nella loro terza memoria, Über die chemische Affinität (Studi sull'affinità chimica) pubblicata in tedesco nel 1879, infatti, i due autori arrivavano a sostenere, in sintesi, quella che poi sarà chiamata 'legge di azione di massa', secondo la quale quando si raggiunge l'equilibrio in una reazione i reagenti e i prodotti sono presenti in quantità fisse, costanti nel tempo e dipendenti solo dalla temperatura. La velocità delle reazioni diretta e inversa poteva inoltre essere calcolata come il prodotto delle concentrazioni dei reagenti e dei prodotti elevate a una potenza uguale ai loro coefficienti stechiometrici e moltiplicate per una costante dipendente dal tipo di sostanze in gioco. All'equilibrio (detto 'equilibrio mobile') le due velocità erano uguali e così si poteva determinare la costante di equilibrio dell'intera reazione, che dipendeva dalla temperatura e dalla natura dei corpi coinvolti.
L'approccio microscopico con il quale Guldberg e Waage spiegavano i meccanismi intimi delle reazioni rappresenta uno degli aspetti più interessanti della loro memoria del 1879; infatti, diversamente dai lavori precedenti fondati ancora sul concetto di forze antagoniste, essi avevano adottato un modello molecolare di tipo probabilistico o statistico, differente cioè da quello degli inizi, laplaciano. Si prendeva atto che nelle soluzioni, così come nei gas, le molecole dovevano essere considerate in uno stato di agitazione perenne e le reazioni alle quali partecipavano si potevano verificare solo se frazioni di molecole si urtavano in maniera 'efficace'. Questo significava che non tutti gli 'urti' erano favorevoli per attivare la reazione diretta o quella inversa:
Fra le molecole p di A che si trovano nell'unità di volume, in generale si trova solo una frazione a in condizione di dare luogo a una trasformazione in seguito all'incontro con le molecole di B. Allo stesso modo, fra le molecole q di B che sono contenute nell'unità di volume vi è solo una frazione b che si troverà in condizione di dare luogo a una trasformazione per mezzo degli incontri con A. Nell'unità di volume, dunque, vi sono ap molecole del corpo A e bp molecole del corpo B che, grazie al loro incontro, saranno trasformati nei nuovi corpi A′B′. Di conseguenza la frequenza degli incontri delle molecole che sono in grado di trasformarsi può essere rappresentata dal prodotto ap×bp e la velocità con la quale ha luogo la formazione del nuovo corpo può essere espressa per mezzo della formula: ψ ap×bq oppure K pq ponendo, per abbreviare, K=ψ×ab. (Guldberg 1879, p. 77)
Questo aspetto probabilistico del meccanismo microscopico delle reazioni chimiche era già stato elaborato da alcuni studiosi, in particolare dal fisico e chimico austriaco Leopold von Pfaundler a partire dal 1867, riprendendo l'ipotesi di James C. Maxwell e di Rudolf Clausius sulla distribuzione delle velocità delle molecole dei gas a una data temperatura. Secondo tale ipotesi, infatti, alla temperatura ordinaria solo una piccola frazione di molecole possiede un'energia cinetica molto superiore alla media, e tale frazione cresce in maniera esponenziale con l'aumento della temperatura. Secondo Pfaundler soltanto le molecole dotate di un'energia cinetica superiore a un dato valore critico erano in grado di dar vita a un cambiamento di tipo chimico. A temperatura costante, quindi, soltanto una frazione delle molecole poteva subire un cambiamento tale da far raggiungere uno stato di equilibrio, nel quale alcune molecole di un composto si rompevano e contemporaneamente altre si riformavano, fino a ottenere l'uguaglianza fra le due velocità di reazione diretta e inversa. Da queste premesse si ricavava che il numero di collisioni per secondo delle molecole gassose aumentava con l'incremento della temperatura, mentre la velocità di reazione cresceva in maniera più rapida.
Si tratta chiaramente di un contesto molto diverso rispetto a quello dei primi dell'Ottocento, soprattutto per due aspetti fondamentali: la concezione del calore e l'emergenza degli aspetti energetici nella valutazione dell'andamento delle reazioni chimiche. Queste ora venivano considerate non tanto come il risultato dell'interazione di forze antagoniste o cooperanti, ma come trasformazioni dei diversi tipi in cui poteva manifestarsi il secondo invariante fondamentale in esse presente, cioè l'energia (essendo il primo la massa degli elementi coinvolti).
Riguardo al calore, la concezione sostanzialistica di Lavoisier, condivisa anche da Pierre-Simon de Laplace, oramai era stata superata da quella cinetica che vedeva nel calore la manifestazione delle varie forme di movimento delle particelle di materia, in particolare i movimenti di traslazione, di rotazione, di vibrazione. Al momento della formazione dei composti questi movimenti erano distrutti, dando così luogo a una produzione di calore sensibile e quindi misurabile.
Per quanto riguarda l'energia in generale non soltanto l'idea che tutte le sue forme potessero tramutarsi l'una nell'altra ‒ così come stabiliva il primo principio della termodinamica ‒ era condivisa dalla gran parte dei chimici di quest'epoca, ma ogni trasformazione chimica dei corpi, anche a livello atomico e molecolare, veniva considerata valida e significativa solo all'interno dei vincoli generali posti dai due principî di conservazione citati. Quello della massa e degli elementi, come è noto, era stato enunciato da Lavoisier nel 1789 e rielaborato nella sua forma atomistica grazie alle ricerche di John Dalton degli anni tra il 1803 e il 1810. Il secondo derivava dagli studi di fisica del calore di Julius Robert von Mayer, James P. Joule, Clausius, e poi William Thomson (lord Kelvin) e Hermann von Helmholtz. In essi aveva assunto un particolare rilievo il problema dell'equivalenza fra calore e lavoro e quello dell'equivalente meccanico della caloria, che si erano posti già a partire dal famoso lavoro di Sadi Carnot del 1824, Réflexions sur la puissance motrice du feu.
L'idea che tutte le forze insite nei corpi naturali fossero mutuamente convertibili cominciò a diffondersi con continuità insieme a quella che le vedeva riconducibili a un unico principio d'azione, il quale si manifestava in maniera differenziata a seconda dei particolari contesti fenomenici. Questa concezione ‒ già fortemente presente nella scienza romantica ‒ era stata esposta nei suoi aspetti più generali ed espliciti da William Grove in un saggio del 1846 (ma la prima elaborazione risale al 1842) dal titolo On the correlations of physical forces, dove, tra l'altro, già si sosteneva che l'affinità chimica fosse dovuta a semplici movimenti molecolari. Essa sarà condivisa anche dal chimico Stanislao Cannizzaro il quale nella prelezione del 1856 su La chimica e le scienze naturali sosteneva ‒ sulla scia di Grove ‒ l'esistenza di una sorgente primitiva, di un primo anello della catena ininterrotta delle mutue trasformazioni energetiche e materiali della Natura, vale a dire, oltre la gravità, l'"azione chimica":
Si può ben dire che l'elettricità, il calore, il movimento altro non sono che varie forme nelle quali si mutano le forze chimiche; e non si tarderà a determinare in ciascuna azione chimica l'equivalente dinamico, che comprenderà in una sola espressione la somma totale degli effetti meccanici, calorifici, elettrici o chimici che possono ottenersene. Per potere dunque svelare i veri rapporti che esistono tra i fenomeni calorifici, luminosi, elettrici, magnetici e meccanici, conoscere le condizioni nelle quali gli uni si mutano negli altri, ed elevarsi a una teoria, che abbracci la spiegazione di tutti, sia che si propaghino dentro i corpi sia che si irradino a distanza senza intermedio di materia pesante, è d'uopo studiare tutte queste manifestazioni dinamiche nella loro comune sorgente delle trasformazioni della materia; è d'uopo dallo studio completo dei fatti chimici elevarsi alla conoscenza di quelle forze inerenti alle ultime molecole dei corpi, che sono cagione delle loro metamorfosi, e sorgente delle loro varie manifestazioni dinamiche. (Cannizzaro 1856 [1992, p. 289])
Anche per Cannizzaro, come aveva affermato esplicitamente nella Faraday Lecture del 1872 Sui limiti e sulla forma dell'insegnamento teorico della chimica, le incessanti metamorfosi alle quali erano soggetti i corpi materiali, ivi comprese quelle delle varie forme di energia che in esse si manifestavano, avvenivano all'interno dei due vincoli generali rappresentati dai due principî di conservazione sopra menzionati:
Come nello studio de' cangiamenti di composizione ponderale, noi siamo stati guidati dal principio o dalla legge della conservazione della massa della materia, così, nello studio de' fenomeni dinamici connessi coll'azione chimica, noi incominciamo a lasciarci guidare e ci lascieremo guidare sempre più dal principio o dalla legge della conservazione dell'energia, ossia del lavoro. Questi due studj si completeranno l'un l'altro e si schiariranno reciprocamente. (Cannizzaro 1872 [1995, p. 279])
Cannizzaro era anche arrivato a ipotizzare una futura unificazione degli aspetti materiali ed energetici dei fenomeni chimici, in un'unica teoria; essa avrebbe attinto concettualmente a quell'unità della realtà della quale i due aspetti presi in considerazione erano una manifestazione disgiunta ma provvisoria; in questo modo rifiutava ogni esasperazione del dualismo materia-energia e ogni sua risoluzione unilaterale, come già stava avvenendo in alcuni settori della fisica e della chimica dell'epoca: "A lato di ciascuna equazione ponderale si porrà un'altra equazione termica ossia dinamica, e queste due equazioni diverranno forse come le due facce di una stessa realtà. Questi due studi paralleli convergeranno così verso un'unica teoria che probabilmente riunirà in un solo concetto l'una e l'altra classe di fenomeni" (ibidem, pp. 279-280).
Se dunque Cannizzaro contribuì allo sviluppo ottocentesco della teoria chimica soprattutto per quanto riguarda la struttura atomico-molecolare della materia ‒ avvalendosi anche delle nuove teorie sul calore, in special modo nella versione enunciata da Clausius ‒, queste sue posizioni registrano esplicitamente una nuova situazione della sua disciplina, frutto di una serie impressionante di ricerche che esaminavano, sotto una nuova luce, gli aspetti energetici delle reazioni chimiche, in particolare quelli termici, considerati decisivi per risolvere sia l'annosa questione della determinazione quantitativa dell'affinità chimica sia, infine, quella della previsione della possibilità e dell'andamento delle reazioni chimiche stesse.
Lo sviluppo di calore in numerose reazioni chimiche era un fenomeno ampiamente noto sin dalle origini di questa disciplina. Alla fine del Settecento la determinazione quantitativa dei calori di reazione trovò nel Mémoire sur la chaleur (1783) di Lavoisier e Laplace un'importante sistemazione teorica e un approccio sperimentale innovativo fondato su un nuovo strumento, creato dallo stesso Laplace, destinato ad avere un grande successo anche in seguito: il calorimetro a ghiaccio. Nei primi decenni dell'Ottocento le ricerche calorimetriche in campo chimico conobbero un grande incremento, anche nello studio di reazioni a più stadi. Dalton, Davy, César-Mansuète Despretz (1792-1863), Dulong fornirono una notevole quantità di dati sui calori di combustione di numerose sostanze, mentre Thomas Andrews (1813-1885) negli anni Quaranta ricavò numerosi calori di neutralizzazione, di formazione degli alogenuri metallici, di reazione delle soluzioni saline, di formazione degli ossidi e dei cloruri, della formazione di acqua e dei calori latenti di evaporazione. Andrew utilizzava calorimetri assai sofisticati come il 'calorimetro a bomba' o 'bomba calorimetrica', con il quale era in grado di misurare i calori di combustione di reazioni a carattere esplosivo. Egli, inoltre, cercò di fornire alcune leggi sulla produzione di calore nelle reazioni di neutralizzazione, che però videro come protagonista principale il chimico svizzero Germain-Henri Hess (1802-1850) operante a San Pietroburgo. A partire dal 1839, con una serie di esperimenti implicanti anche reazioni a più stadi, Hess scoprì la legge della costanza della somma dei calori di reazione, enunciata nel 1840, secondo la quale la quantità totale di calore in gioco in una reazione dipendeva esclusivamente dai suoi stati iniziale e finale, a prescindere dal percorso seguito per connetterli. Di conseguenza si poteva affermare che nelle reazioni chimiche si conservava anche la quantità di calore. Nel 1842, inoltre, Hess enunciò la legge della termoneutralità, per cui in una reazione di doppio scambio tra sali non si aveva né sviluppo né assorbimento di calore; questa legge si aggiungeva a quella sulla conservazione della neutralità enunciata per questo tipo di reazioni nel 1798 da Richter. Se a tutte queste ricerche si aggiungono quelle di Dulong e Alexis-Thérèse Petit (1791-1820) sulla determinazione dei calori specifici dei corpi semplici ‒ che condussero alla enunciazione della legge che porta il loro nome, importantissima per la valutazione esatta dei pesi atomici ‒ e quelle di Henri-Victor Regnault (1810-1878), sempre sui calori specifici dei corpi semplici e di quelli composti allo stato solido, liquido e gassoso, e così via, si può affermare che la prima metà dell'Ottocento ha visto il fiorire di una quantità notevolissima di studi di termochimica. Grazie a essi furono create le premesse per gli importanti sviluppi e per i tentativi di sistematizzazione che si ebbero negli anni Sessanta-Settanta del secolo, ancora una volta legati alla necessità di determinare, in maniera più precisa e meno allusiva, l'affinità chimica, che ancora veniva definita in maniera generica come la 'tendenza all'unione' fra sostanze eterogenee per formarne altre diverse da quelle di partenza.
Un primo fondamentale contributo di tipo sperimentale in questa prospettiva fu fornito da Pierre-Antoine Favre (1813-1880), che introdusse il termine 'caloria' per indicare l'unità di misura del calore, e da Jean-Thébault Silbermann (1806-1865). A partire dal 1844, infatti, essi effettuarono numerose ricerche sui calori di reazione, che vennero poi raccolte nel volume Recherches sur les quantités de chaleur dégagées dans les actions chimiques et moléculaires (1853). Furono in effetti Favre e Silbermann a sostenere alcune ipotesi dedotte dai loro esperimenti, sulle quali si fonderanno i successivi sviluppi della termochimica, ossia che la quantità di calore liberata in una reazione chimica poteva essere considerata una misura dell'intensità delle affinità delle sostanze reagenti, e che questa stessa quantità poteva essere posta in rapporto con la stabilità del composto formato, che era tanto più stabile quanto più calore si liberava durante la reazione della sua formazione. I due chimici, inoltre, elaborarono alcune tabelle di 'equivalenti calorifici' delle differenti sostanze, cioè delle quantità di calore sviluppate in una reazione da un peso equivalente delle sostanze stesse. Queste tabelle offrivano la possibilità di calcolare a priori la quantità di calore sviluppata in una determinata reazione e di prevedere quale delle combinazioni possibili potesse verificarsi, in quanto i due autori supponevano che fosse quella che dava il prodotto più stabile, ossia quella in cui si aveva la liberazione della maggiore quantità di calore.
Nello stesso anno 1853 il danese Julius Thomsen (1826-1909) pubblicava negli "Annalen der Physik und Chemie" una memoria intitolata Die Grundzüge eines thermochemischen Systems (I fondamenti di un sistema termochimico) nella quale si poneva il problema ‒ analogo a quello di Clausius per un sistema termodinamico ‒ di trovare una grandezza di un sistema chimico in grado di svolgere il ruolo che nella meccanica razionale giocava l'energia potenziale, la quale, diminuendo fino a un valore minimo, determinava sia la direzione dell'evoluzione spontanea del sistema chimico stesso sia la sua stabilità. Thomsen arrivò alla conclusione che in una reazione l'"intensità" della "forza chimica" (definita con il simbolo E) delle diverse sostanze era costante a temperatura costante e che la quantità di calore in esse sviluppata quando reagivano rappresentava la misura della forza chimica resa libera durante la reazione stessa, che quindi avveniva solo per una diminuzione di E. Al valore della forza chimica contenuta in un composto egli dette il nome di "equivalente termico", giungendo in tal modo all'enunciazione della legge secondo la quale la variazione di calore di una reazione era uguale alla differenza fra gli equivalenti termici delle sostanze prima e dopo la reazione. Questa legge è analoga a quella di Hess sulla costanza della somma delle quantità di calore ed entrambe costituiscono casi particolari della più generale legge di conservazione dell'energia, che si andava teorizzando proprio in quegli stessi anni. Thomsen, secondo la terminologia tedesca allora corrente, definiva con il vocabolo Kraft (forza) la grandezza che poi verrà chiamata 'energia' dal termine inglese energy, e in questo secondo linguaggio 'energetista' verranno in seguito 'tradotte' le sue teorie termochimiche. Egli, inoltre, sviluppò ampiamente, fornendo loro un fondamento assiomatico e quantitativo più solido, le ipotesi enunciate da Favre e Silbermann, e cioè che la quantità di calore sviluppata era proporzionale all'affinità chimica delle sostanze reagenti; che essa non dipendeva dagli stadi intermedi ma solo dagli stadi iniziale e finale (come già aveva stabilito Hess); che il calore liberato ‒ seguendo le idee di Mayer e Joule sull'equivalenza calore-lavoro ‒ era l'espressione sensibile e misurabile del lavoro compiuto dalle forze intermolecolari delle sostanze reagenti. Per Thomsen, quindi, le reazioni chimiche potevano avvenire spontaneamente solo se liberavano calore ‒ cioè se compivano un lavoro 'interno' positivo ‒ e questo fenomeno era a sua volta indice della possibilità stessa del verificarsi della reazione e della stabilità dei prodotti finali. Ovviamente fra le reazioni possibili in un determinato contesto sperimentale le più favorite erano quelle che liberavano la maggiore quantità di calore, cioè quelle nelle quali veniva compiuto il lavoro molecolare maggiore. Di conseguenza vi era una radicale opposizione fra reazioni esotermiche, le sole spontaneamente possibili poiché conducevano alla formazione di composti stabili, e quelle endotermiche, che invece richiedevano l'apporto di un lavoro esterno e davano luogo a composti instabili.
Fautore di queste stesse idee sarà anche Berthelot, che cominciò a occuparsi di termochimica a partire dal 1864, dedicando all'argomento buona parte della sua attività di ricerca e pubblicando a più riprese numerosi lavori sia sulle "Annales de chimie et de physique" sia in monografie, alcune delle quali di enorme successo (a questo scienziato si deve anche la creazione dei termini 'esotermico' ed 'endotermico'). Nella sua prima memoria sull'argomento, Recherches de thermochimie, riprendendo la teoria cinetica delle collisioni molecolari come spiegazione del meccanismo microscopico delle reazioni, sostenne la convertibilità dei movimenti delle molecole dei corpi in energia chimica di combinazione:
Al momento della combinazione chimica vi è una precipitazione delle molecole le une sulle altre con una gran velocità: dalla qual cosa risulta uno sviluppo di calore, comparabile a quello che ha luogo al momento dell'urto di due masse sensibili […]. In generale i fenomeni termochimici possono essere attribuiti alle trasformazioni di movimento, ai cambiamenti delle disposizioni relative, infine alla perdita di forza viva che ha luogo al momento in cui le molecole eterogenee si precipitano le une sulle altre per formare dei nuovi composti. (Berthelot 1865, p. 292)
Anche secondo Berthelot, ai sistemi chimici erano applicabili, per analogia, gli stessi principî della meccanica, in particolare la teoria meccanica del calore e il teorema delle forze vive. Riprendendo le idee di Thomsen, con il quale inizierà una dura polemica su questioni di priorità, Berthelot enunciò in forma di assiomi e in più occasioni ‒ soprattutto nella serie di memorie Sur les principes généraux de la thermochimie (1875) e poi nel trattato Essai de mécanique chimique fondée sur la thermochimie (1879) ‒ i tre capisaldi su cui doveva ritenersi fondato lo studio degli aspetti energetici delle reazioni chimiche e dei meccanismi che ne erano alla base: (a) il "principio dei lavori molecolari", secondo il quale la quantità di calore sviluppata in una reazione misurava la somma dei lavori chimici e fisici compiuti nella reazione stessa, fornendo così una misura delle affinità chimiche (dove per lavori chimici dovevano intendersi quelli relativi ai cambiamenti di composizione dei corpi, mentre per quelli fisici i cambiamenti di stato o di condensazione); (b) il "principio dell'equivalenza calorifica delle trasformazioni chimiche", o "principio dello stato iniziale e finale", secondo il quale se un sistema di corpi semplici o composti, in determinate condizioni, provava cambiamenti fisici o chimici in grado di condurlo a un nuovo stato, senza dar luogo ad alcun effetto meccanico esterno al sistema, la quantità di calore liberata o assorbita per effetto di questi cambiamenti dipendeva unicamente dallo stato iniziale e dallo stato finale del sistema: essa restava la stessa, quali che fossero la natura e la successione degli stati intermedi; (c) il "principio del lavoro massimo" ‒ architrave dell'edificio termochimico di Berthelot ‒ secondo il quale ogni cambiamento chimico compiuto senza l'intervento di alcuna energia 'estranea' tendeva verso la produzione del corpo o del sistema di corpi che liberava la maggior quantità di calore. Quest'ultimo principio era poi generalizzabile nell'enunciato che ogni reazione chimica suscettibile di compiersi senza il concorso di alcun lavoro preliminare e al di fuori dell'intervento di un'energia estranea a quella dei corpi presenti nel sistema si produceva necessariamente se essa liberava calore. In tale contesto per "energie estranee" dovevano intendersi quelle derivate da agenti fisici ‒ elettricità, luce, calore ‒ e l'"energia di disgregazione" sviluppata dalla dissoluzione (che era però una conseguenza indiretta dell'energia termica).
Alla fine del suo Essai de mécanique chimique Berthelot esponeva il fine più ambizioso delle sue ricerche, ossia la trasformazione della chimica da sapere classificatorio e descrittivo dei corpi semplici o composti presenti in Natura a scienza più generale delle forze e dei meccanismi, in grado quindi di fornire le regole e la misura dell'azione reciproca di quegli stessi corpi. In ciò la chimica, come tutte le altre scienze, doveva porre come suo fondamento la meccanica e ciò avrebbe comportato una ricerca delle caratteristiche comuni dei corpi sottostanti all'apparente irriducibilità delle loro molteplici e differenti qualità:
La materia multiforme di cui la chimica studia la diversità obbedisce alle leggi della meccanica comune, che è la stessa sia per le particelle invisibili dei cristalli e delle cellule sia per gli organi sensibili delle macchine propriamente dette. Dal punto di vista meccanico, due dati fondamentali caratterizzano questa diversità in apparenza indefinita delle sostanze chimiche, vale a dire: la massa delle particelle elementari, cioè il loro equivalente, e la natura dei loro movimenti. La conoscenza di questi due dati deve essere sufficiente per spiegare tutto. Ecco cosa giustifica l'importanza attuale, e più ancora l'importanza futura, della termochimica, scienza che misura i lavori delle forze messe in gioco nelle azioni molecolari […]. Per mezzo di una tale evoluzione la chimica tende a uscire dall'ordine delle scienze descrittive, per collegare i suoi principî e i suoi problemi a quelli delle scienze puramente fisiche e meccaniche. (Berthelot 1879, II, p. 757)
Fu proprio il principio del lavoro massimo (e la sua generalizzazione) a causare non pochi problemi alla teoria termochimica di Berthelot (e di Thomsen). Esso, infatti, che rappresentava il tentativo di fornire un criterio di evoluzione di un sistema chimico in determinate condizioni (analogo al ruolo svolto dal secondo principio della termodinamica, ma indipendente da questo), sarà il principio più suscettibile di essere messo in crisi da una serie numerosa di ricerche sperimentali tendente a inficiarne la validità: l'esistenza delle reazioni termicamente neutre come quelle di doppio scambio tra sali; le combinazioni endotermiche, che avvenivano cioè con assorbimento di calore; le reazioni reversibili, cioè quelle 'limitate'. Queste ultime erano già state oggetto di studio da parte dello stesso Berthelot, ma alle basse temperature: alle alte temperature, infatti, il problema assumeva tutt'altro aspetto, come dimostrarono le ricerche sulle dissociazioni di Henri Deville Sainte-Claire (1818-1881) svolte negli anni tra il 1857 e il 1864.
Alla temperatura ordinaria, per esempio, Deville Sainte-Claire trovò che la formazione dell'ossido e del biossido di carbonio, dell'ammoniaca, dell'acido cloridrico e dell'acido solfidrico gassosi era esotermica e seguiva i principî della termochimica sopra enunciati. Tuttavia, quando questi composti venivano portati alle alte temperature, si dissociavano nei loro elementi costitutivi e davano luogo a una reazione limitata, cioè raggiungevano uno stato di equilibrio nel quale 'spontaneamente' una parte dei componenti riformava il composto di partenza e nel quale la proporzione delle sostanze presenti non variava nel tempo. Dunque due reazioni inverse l'una rispetto all'altra, una esotermica e l'altra endotermica, potevano aver luogo spontaneamente e simultaneamente nelle stesse condizioni sperimentali e ciò era chiaramente in contraddizione con quello che era ritenuto il principio fondamentale della termochimica.
A queste difficoltà Berthelot ‒ già bersaglio di dure critiche da parte di Thomsen, Favre e Silbermann riguardo le questioni di priorità ‒ reagì sostenendo che le reazioni inverse avvenivano grazie alle 'energie estranee' (cioè fisiche) e non a quelle propriamente chimiche, che si sviluppavano solo nella direzione prevista dal principio del lavoro massimo. In questo modo si ripristinava, nei sistemi chimici, una netta distinzione tra gli effetti dovuti alle forze fisiche e quelli dovuti alle forze chimiche. Distinzione assente nel pensiero di Deville Sainte-Claire, il quale, al contrario, tenderà a eliminare dall'orizzonte della chimica il problema della determinazione dell'affinità ‒ ancora centrale nell'opera di Berthelot ‒, da lui ritenuta una 'causa occulta', a favore di un approccio esclusivamente fenomenologico e quantitativo dei processi chimici, con forti accenti positivistici e con una spiccata tendenza a ricondurre il mondo fenomenico e concettuale della chimica a quello della fisica. Riprendendo alcune posizioni già sostenute a suo tempo da Berthollet, Deville Sainte-Claire sostenne, per esempio, l'esistenza di un'analogia totale fra cambiamenti di stato e fenomeni chimici e l'identità fra dissoluzione e reazione chimica. Nelle Leçons sur la dissociation, professées devant la Société chimique de France (1864), infatti, egli affermò che gli sviluppi della scienza moderna conducevano all'identificazione delle forze che intervenivano nella determinazione dei processi fisici e chimici della Natura e che quindi vi era un'identità di comportamento fra di essi. Alla 'condensazione' dei vapori corrispondeva la 'combinazione chimica'; all''ebollizione' la 'decomposizione'; al 'calore latente di evaporazione' il 'calore latente di decomposizione'; infine all''evaporazione', ovvero alla trasformazione parziale di un liquido in vapore, corrispondeva la 'dissociazione', cioè la trasformazione parziale di un corpo composto nei suoi elementi. Allo stesso modo, come esisteva una 'tensione di vapore', così doveva esserci una 'tensione di dissociazione' che avrebbe consentito di stimare la proporzione degli elementi separati nella massa gassosa di una sostanza, una parte della quale restava ancora combinata. Idee ribadite nel 1867 nelle Leçons sur l'affinité, professées devant la Société chimique de France:
Se la combinazione riguarda soprattutto ciò che chiamiamo le proprietà chimiche dei corpi, se la dissoluzione altera di questi sensibilmente solo le proprietà fisiche, infine se la combinazione e la dissoluzione si confondono in un solo e stesso fenomeno del quale rappresentano gli effetti estremi, è chiaro che ogni differenza tra le proprietà fisiche e le proprietà chimiche della materia cessa di esistere. Le une e le altre sono sotto la dominazione assoluta del calore e, per mezzo di questo, degli agenti meccanici. Le esperienze moderne tendono a dare sempre di più a questi ultimi una influenza preponderante sui risultati ottenuti in fisica e in chimica, due scienze che tendono sempre di più a confondersi fra di esse e con la meccanica. (Deville Sainte-Claire 1869, p. 64)
Antiatomista convinto, antesignano di una visione energetista dei fenomeni naturali, Deville Sainte-Claire fu uno dei numerosi sostenitori di una nuova meccanica fondata sulla moderna scienza della termodinamica. Successivamente sarà proprio attraverso l'approccio interamente termodinamico che verranno affrontati da parte di alcuni dei maggiori scienziati dell'epoca i problemi della spiegazione (o anche soltanto della descrizione) teorica e matematica dell'andamento delle reazioni chimiche, sia per quanto riguarda il loro lato materiale (degli elementi e dei composti) sia soprattutto per quello energetico che la termochimica della prima metà dell'Ottocento aveva appena tentato di chiarire. Con l'approccio totalmente termodinamico vennero infatti individuate le autentiche grandezze di stato applicabili all'evoluzione dei sistemi chimici (F energia libera di Helmholtz o G energia libera di Gibbs), riducendo così a un caso particolare e circoscritto ‒ nonché approssimato ‒ il principio di Berthelot e di Thomsen del lavoro massimo. Tale nuovo approccio rappresenterà il nucleo fondamentale di un nuovo settore disciplinare, che già veniva chiamato in maniera significativa 'chimica fisica'.
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