L'Ottocento: fisica. Chimica e fisica nella prima meta del secolo
Chimica e fisica nella prima metà del secolo
Nella prima edizione dell'Encyclopaedia Britannica (1768-1771) alla voce Atom si legge: "In filosofia una particella di materia così minuta da non ammettere divisione. Gli atomi sono i minima naturae e sono concepiti come i principî primi o parti componenti di ogni grandezza fisica. Vedi chimica" (I, p. 502). In questa voce, straordinariamente breve, il termine 'atomo' è definito in primo luogo come una categoria filosofica onnicomprensiva; in secondo luogo, e in modo chiaramente indipendente, la chimica è menzionata come la sola scienza nella quale il concetto di atomo trova una nuova collocazione. Questa voce era l'espressione di un crescente scetticismo verso un certo genere di filosofia naturale che sosteneva teorie unificanti della materia; questo scetticismo avrebbe trovato espressione anche al di fuori della Gran Bretagna. Venti anni più tardi, Johann Samuel Traugott Gehler scrisse nel suo Physikalisches Wörterbuch (Dizionario di fisica, 1787-1796) che la questione se la materia fosse infinitamente divisibile era "puramente speculativa", dato che non era possibile ottenere una conferma di tipo sperimentale. Secondo Gehler, solamente i metafisici erano interessati agli atomi, non gli scienziati; nella seconda edizione della sua opera (1825-1845) eliminò infatti completamente i termini 'atomo', 'corpuscolo', 'particella' e altri simili. Nell'Allgemeine Encyclopädie der Wissenschaften und Künste (Enciclopedia generale delle scienze e delle arti) pubblicata da Ersch e Gruber a partire dal 1821, l'articolo sugli atomi fu affidato a un chimico, Christoph Heinrich Pfaff. Dopo aver menzionato le due opposte teorie della materia ‒ quella atomistica e quella dinamica ‒entrambe "appartenenti più al dominio della filosofia" che a quello della scienza, Pfaff metteva l'accento sul fatto che le nuove scoperte della chimica concernenti le proporzioni in peso invariabili esistenti fra le sostanze che si combinavano fra loro fornivano un fondamento al concetto di atomo. Analogamente, il Dictionnaire des termes usités dans les sciences naturelles di Jourdan trattava molto brevemente la nozione di atomo, definendolo un concetto chimico e rilevando, inoltre, che la teoria che considera i corpi costituiti da particelle materiali infinitamente piccole era universalmente impiegata in chimica.
Nella prima metà del XIX sec., fu soprattutto nella chimica e nei settori della fisica strettamente affini che il concetto di atomo non soltanto fu largamente accettato, ma anche ulteriormente approfondito. Quando nel 1820 John Herapath (1790-1868) tentò di pubblicare una nuova teoria cinetica dei gas, cercò di acquisire autorità richiamandosi alla chimica del tempo e scrisse che le vecchie nozioni relative alla divisibilità della materia ad infinitum erano state completamente dissolte grazie alla luce che la chimica aveva gettato su questo argomento (Knight 1967). L'articolo di Herapath, basato sull'idea che il gas fosse costituito da atomi assolutamente duri che si muovevano liberamente, fu rifiutato dalla Royal Society perché troppo speculativo. Maggior successo ebbe un approccio fisico alla struttura microscopica della materia che si affermò in Francia nelle ricerche di ottica, durante gli anni Venti dell'Ottocento, e che fu successivamente sostenuto in Gran Bretagna e in Germania fino agli anni Quaranta. Secondo una convinzione allora predominante, tutti i fenomeni ottici avrebbero dovuto essere considerati il risultato del comportamento ‒ calcolabile ‒ di atomi di etere, diffusi fra le particelle materiali con le quali essi interagivano. Questo approccio si rivelò particolarmente fecondo nello studio di quei fenomeni, come la dispersione, che non potevano essere spiegati per mezzo dei principî della teoria ondulatoria. Nel 1823 Augustin-Jean Fresnel (1788-1827) si basò sul concetto di atomi di etere mutualmente repulsivi per proporre una spiegazione della dispersione che godette di ampio credito negli anni Trenta, quando fu fatta propria dal matematico Augustin-Louis Cauchy. Negli anni Quaranta le equazioni di Cauchy scomparvero dalla scena pubblica, perché non si adattavano a un campo di ricerca allora appena emerso: la rotazione ottica.
In chimica era soprattutto la legge delle proporzioni multiple a dare un fondamento alle idee atomistiche. L'analisi quantitativa dei composti inorganici contenenti gli stessi elementi A e B ‒ come, per esempio, l'acido nitroso, l'acido nitrico e il gas nitroso ‒ aveva mostrato che, prendendo come unità il peso di uno degli elementi, l'altro si combinava secondo una serie di pesi che stavano con il primo nel rapporto di piccoli numeri interi. John Dalton (1766-1844) fu uno dei primi studiosi a interpretare questa discontinuità dei pesi macroscopici di combinazione come una manifestazione evidente dell'esistenza di una soggiacente discontinuità submicroscopica. Nel 1811 scrisse infatti: "Ricordo la viva impressione che mi fece, nel primissimo periodo di queste indagini, osservare che secondo gli esperimenti di Davy l'ossigeno, rispetto all'azoto, è nella proporzione di 1, 2 e 3 nell'ossido nitroso, nel gas nitroso e nell'acido nitrico" (in Rocke 1984, p. 29). Nel 1810, inoltre, Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) propose una legge delle proporzioni simile a quella daltoniana, applicata però alla composizione dei sali. I chimici dei primi anni del XIX sec. concepivano i sali come composti binari di un acido e di una base, entrambi sotto forma di ossidi; la 'legge degli ossidi' di Berzelius stabiliva che la quantità di ossigeno presente in uno dei componenti di un sale doveva essere un multiplo intero e piccolo della quantità di ossigeno presente nell'altro componente.
Alla luce della legge delle proporzioni multiple, le altre 'leggi stechiometriche' cooperarono nel fornire un fondamento all'atomismo. La legge delle proporzioni definite sosteneva che tutti i composti chimici possedevano una composizione quantitativa fissa. Due anni prima che Joseph-Louis Proust (1754-1826) formulasse questa legge, Jeremias Benjamin Richter (1762-1807) aveva coniato il termine 'stechiometria'. Nei suoi esperimenti Richter trovò che i pesi di acidi differenti in grado di saturare un dato peso di una base qualsiasi e di formare così un sale neutro (o i pesi di basi differenti che saturano un dato peso di un acido qualsiasi) stavano tra loro in un rapporto costante. Se i pesi di saturazione di differenti acidi erano posti in relazione con il peso di combinazione di una base preso per convenzione come campione (o le basi con il peso di combinazione di un acido), a ciascun acido e a ciascuna base potevano essere attribuiti uno o più numeri che rappresentavano i pesi 'equivalenti', invarianti e adimensionali. I chimici trovarono i pesi equivalenti, o, per meglio dire, gli 'equivalenti', anche confrontando la composizione quantitativa delle serie degli ossidi e di altri composti inorganici semplici, come i solfuri. Nel Traité de chimie appliquée aux arts (1828-1846), per esempio, Jean-Baptiste-André Dumas (1800-1884) scriveva che 2073 parti di argento, o 1713 di bario, o 791 di rame, si combinavano con 200 parti di ossigeno per formare gli ossidi, o con 400 parti di zolfo per formare i solfuri; in relazione agli effetti di saturazione, quindi, i numeri che rappresentavano i pesi di combinazione erano tra loro equivalenti quando i tre metalli erano combinati con 200 parti di ossigeno o con 400 parti di zolfo. Allo stesso modo, lo zolfo e l'ossigeno risultavano equivalenti rispetto alle quantità dei metalli fissate; inoltre 200 parti di ossigeno e 400 di zolfo (o 100 di ossigeno e 200 di zolfo) si combinavano per formare l'acido iposolforico. Se tutti i numeri erano messi in relazione con un'unica unità di peso di combinazione, l'unione delle leggi delle proporzioni multiple e degli equivalenti rendeva possibile attribuire a ciascun elemento una serie di numeri: essi rappresentavano i pesi di combinazione relativi ed erano in un rapporto uguale a quello esistente fra numeri interi piccoli.
Bisognerebbe ricordare che la stechiometria sperimentale era limitata ai composti inorganici, più precisamente a quelli che erano paradigmatici nella chimica di Lavoisier, come i sali, gli ossidi e i solfuri. La formulazione di leggi stechiometriche generali e la loro estensione a tutti i tipi di composti chimici erano condizionate dalle prove sperimentali. In primo luogo, l'ipotesi che le leggi stechiometriche fossero valide per tutti i tipi di composti inorganici comportava l'esclusione delle leghe, delle soluzioni e dei vetri dal gruppo dei composti chimici. Ciò violava la primitiva definizione di composto basata sul fatto di considerare l'affinità chimica come una forza generale responsabile delle combinazioni fra corpi eterogenei. In secondo luogo, l'analisi quantitativa dei composti organici, elaborata a partire dal primo decennio dell'Ottocento non assicurava validità generale a tutte le leggi stechiometriche. Come affermavano Berzelius e altri chimici, la legge delle proporzioni multiple ‒ la quale ipotizzava esplicitamente che i differenti pesi di combinazione di un elemento stessero fra loro nel rapporto di numeri interi piccoli ‒ non trovava conferma in questo settore della chimica. In breve, le basi sperimentali dell'atomismo chimico non erano così prive di ambiguità come spesso vorrebbero farci intendere i resoconti degli storici della chimica.
Dalton fu considerato dai suoi contemporanei come l'ideatore di una teoria atomica chimica basata sulle leggi stechiometriche. In uno scritto intitolato On oxalic acid (1808), Thomas Thomson (1773-1852) fornì il primo resoconto sperimentale delle proporzioni multiple, sostenendo che negli ossalati neutri e in quelli acidi di potassio e di stronzio, per la stessa quantità di acido, il primo sale conteneva esattamente il doppio della proporzione di base presente nel secondo. Egli precisò che questo risultato aveva una qualche relazione con la teoria atomica di Dalton. Poco dopo, sempre nel 1808, William H. Wollaston (1776-1828) pubblicò, nel lavoro On super-acid and sub-acid salts, alcuni risultati sperimentali con i quali dimostrava che le quantità di acido carbonico che si combinavano con pesi identici di potassa stavano, nel carbonato e nel 'sub-carbonato di potassa', nel rapporto 2:1. Wollaston fece riferimento al precedente lavoro di Thomson e alla teoria della combinazione chimica di Dalton, mettendo in rilievo come i suoi risultati rappresentassero un caso particolare di questa teoria. La convinzione che gli atomi esistessero, tuttavia, era maturata in Dalton molto prima che egli facesse riferimento agli esperimenti chimici quantitativi. Essa si manifestò dapprima nelle sue ricerche meteorologiche; in particolare nelle sue indagini sullo stato del vapor d'acqua nell'atmosfera, sulla teoria della formazione della pioggia, sulla miscela omogenea di differenti gas (o 'fluidi elastici') e vapor d'acqua presenti nell'atmosfera indipendentemente dal loro peso specifico. Intorno al 1800 l'opinione prevalente su quest'ultima questione era che l'omogeneità delle miscele gassose fosse il risultato dell'affinità chimica esistente fra i differenti gas che le componevano, e che tale affinità desse luogo a una debole combinazione chimica.
Fin dal 1793 Dalton rifiutò questa opinione diffusa, sostenendo che l'aria non era un solvente chimico e che probabilmente il vapor d'acqua, come la gran parte degli altri liquidi e degli altri gas, esisteva nell'atmosfera in uno stato indipendente. Otto anni più tardi, egli offrì una spiegazione atomistica della sua legge delle pressioni parziali: "Quando due fluidi elastici, denotati con A e con B, sono mescolati insieme, fra le loro particelle non vi è alcuna mutua repulsione; vale a dire che le particelle di A non respingono quelle di B, come invece fanno fra loro quelle dello stesso fluido" (in Thackray 1970, p. 259). Dal momento che, secondo Dalton, le particelle dello stesso gas A si respingevano l'un l'altra, e non vi era alcuna forza repulsiva fra le particelle dei differenti tipi di gas, allora le particelle di un qualsiasi gas A erano interposte in linea retta fra le particelle di qualsiasi gas B. Come molti suoi contemporanei, Dalton riteneva che la repulsione fosse dovuta a un'atmosfera di 'materia del calore' o 'calorico' che circondava le particelle del gas; questa ipotesi rendeva necessario spiegare perché fra particelle di gas dello stesso tipo si avesse soltanto repulsione. Nella prima parte di A new system of chemical philosophy, Dalton scrisse a proposito di queste prime indagini: "Ero piuttosto incline ad attribuire la repulsione a una forza simile al magnetismo, che agisce su uno stesso tipo di materia e non ha alcun effetto su un altro tipo. Poiché, se il calore fosse stato la causa della repulsione, apparentemente non vi sarebbe stata ragione perché una particella di ossigeno non avrebbe dovuto respingerne una di idrogeno con la stessa forza rispetto a una del proprio tipo, specialmente se esse fossero state delle stesse dimensioni" (Dalton 1808-27, I, p. 189).
L'assunto che la materia del calore fosse la causa ordinaria della repulsione poteva essere salvato soltanto introducendo un'ipotesi ausiliaria sull'interazione delle forze repulsive che si manifestavano tra particelle di tipo differente. La soluzione elaborata da Dalton per risolvere questo problema era basata su tre specificazioni del suo concetto di atomo: in primo luogo, gli atomi di sostanze diverse possedevano dimensioni differenti, dove per 'dimensione' doveva intendersi il nucleo solido impenetrabile e l'atmosfera di materia del calore che lo circondava; in secondo luogo, a causa della forza repulsiva della materia del calore, gli atomi possedevano una forma globulare; in terzo luogo, gli atomi dei gas si trovavano disposti in modo compatto e le superfici delle loro atmosfere di calore erano in contatto l'un l'altra. Fondandosi su questi tre presupposti, Dalton spiegò in questo modo la miscela omogenea di differenti tipi di gas:
quando si pone una quantità di un gas in presenza di una quantità di un altro gas all'interno di un recipiente qualsiasi, si ha di conseguenza una superficie di particelle globulari elastiche di una data dimensione che è in contatto con una superficie uguale composta di particelle dell'altro gas: in tal caso i punti di contatto delle particelle eterogenee devono variare con continuità da 40° a 90°; da questa ineguaglianza deve sorgere un movimento interno e le particelle di un tipo sono sospinte fra quelle dell'altro tipo. Il motivo che impedisce che le due superfici elastiche mantengano l'equilibrio sussisterà sempre, poiché le particelle di un tipo, a causa della loro dimensione, non sono in grado di accostarsi in modo conveniente a quelle dell'altro tipo, cosicché fra particelle eterogenee non può mai verificarsi alcun equilibrio. Il movimento interno deve quindi continuare fino a che le particelle arrivano alla superficie opposta del recipiente, su ciascun punto della quale esse possono disporsi in modo stabile; l'equilibrio è raggiunto quando, dopo un certo periodo di tempo, ciascun gas è uniformemente diffuso attraverso l'altro. (ibidem, p. 190)
Due anni più tardi, Dalton fornì una rappresentazione visiva della sua ipotesi, disegnando le forze repulsive sotto forma di raggi che scaturivano dal nucleo solido di un atomo e mostrando come potessero incontrarsi l'un l'altro i raggi delle particelle della stessa dimensione, ma non quelli di gas di due tipi differenti. Nel primo caso ciò voleva dire conservare un equilibrio, nel secondo causare il movimento delle particelle.
Il potere esplicativo della teoria atomica daltoniana nel caso della fisica delle miscele gassose dipendeva fortemente dall'ipotesi che differenti tipi di atomi avessero dimensioni diverse; essa rappresentò una delle ragioni per le quali Dalton, come si vedrà, non accettò l'ipotesi di Avogadro e di Ampère secondo la quale volumi uguali di gas differenti contengono lo stesso numero di 'molecole' (alle stesse condizioni di temperatura e pressione). Nella concezione di Dalton, piuttosto, non vi era alcuna regola generale riguardante la relazione fra i volumi e il numero di atomi contenuti in essi. A partire da questo presupposto teorico egli rifiutò la legge di Gay-Lussac sulla combinazione dei gas, la quale, d'altra parte, stabilendo a livello macroscopico un'altra discontinuità nella combinazione delle sostanze, rafforzava le concezioni atomistiche.
Dopo il 1801 Dalton difese ed elaborò la sua teoria delle miscele gassose ed estese la propria ricerca fino a includere la soluzione dei gas in acqua. Basandosi sui suoi stessi esperimenti e su quelli di William Henry (1774-1836), stabilì che l'acido carbonico e altri gas non erano trattenuti in acqua dall'affinità chimica, ma dalla pressione del gas sulla superficie del liquido, che forzava il gas a penetrare nei pori dell'acqua. Tale spiegazione meccanica, tuttavia, era resa problematica dal fatto che gas diversi non erano ugualmente solubili in acqua. In un lavoro letto per la prima volta nel 1803, Dalton sosteneva: "Ho debitamente considerato tale questione e, sebbene non possa ancora ritenermi completamente soddisfatto, sono quasi persuaso che la circostanza dipenda dal peso e dal numero delle particelle ultime dei diversi gas" (in Thackray 1970, p. 263). Stampato nel 1805, il lavoro terminava con una tavola dei pesi relativi delle particelle ultime delle sostanze chimiche. Dalton giunse a determinare questi pesi atomici semplicemente trasferendo al livello submicroscopico i risultati delle analisi quantitative dei composti chimici, come per esempio i dati di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) sulla composizione dell'acqua (85% di ossigeno e 15% di idrogeno): se il peso relativo di un atomo di idrogeno fosse stato stabilito uguale a 1, quello dell'ossigeno avrebbe dovuto essere 85/15=5,66. Il presupposto ovvio di questo modo di procedere era che la composizione binaria di idrogeno e ossigeno potesse essere trasferita alle particelle submicroscopiche. Questo tipo di ragionamento era comune fra i chimici del Settecento: infatti, come si può constatare dalle tavole delle affinità, essi avevano ampiamente accettato la concezione secondo la quale i composti avevano una costituzione binaria; a partire da tale visione, fondata sulla costituzione macroscopica delle sostanze, molti di essi sostenevano che anche per le loro particelle la combinazione fosse uno-a-uno.
In A new system of chemical philosophy Dalton elaborò ulteriormente gli aspetti chimici della sua teoria atomica: "L'analisi e la sintesi chimiche procedono solamente mediante la separazione delle particelle l'una dall'altra e la loro riunione" (Dalton 1808-27, I, p. 212). Ancora una volta, dunque, erano trasferiti alle entità submicroscopiche sia il modello di componente chimico elementare, così come era rappresentato nelle tavole settecentesche delle affinità, sia i concetti che riguardavano le sostanze da laboratorio macroscopiche, come quelli di composto chimico, affinità, analisi e sintesi. Per di più, Dalton denomina proprio il concetto lavoisieriano di elemento chimico fornendone una nuova dimensione ontologica: vi erano tanti differenti tipi di atomi semplici quanti erano i distinti elementi chimici, e tali atomi si differenziavano per il loro peso, la loro dimensione e le loro qualità chimiche. Gli 'atomi' degli elementi chimici erano le loro parti più piccole, ossia quelle indivisibili, che in nessuna reazione potevano essere create o distrutte. Diversamente dagli atomi elementari, le più piccole quantità di composti chimici, che Dalton chiama ugualmente atomi, potevano essere scomposte e ricomposte mediante gli esperimenti. Secondo Dalton, la giustapposizione degli atomi eterogenei nell''atomo composto' era dovuta all'affinità chimica e alla creazione di una comune atmosfera di calore. Per esempio, egli descriveva l'atomo composto dell'acqua o del vapore nel modo seguente: "Un atomo di acqua o di vapore è composto da 1 di ossigeno e da 1 di idrogeno, che sono trattenuti in contatto fisico da una forte affinità e che si suppone siano circondati da un'atmosfera di calore comune" (ibidem, p. 219).
Dal momento che spesso due sostanze A e B formavano composti differenti, Dalton stabilì le "regole generali che possono essere adottate come guide" (ibidem, p. 214) nelle indagini sulle sintesi chimiche. Di fatto le regole erano postulati necessari per ogni determinazione dei pesi atomici, così come per ogni modello atomistico dei componenti elementari che costituivano i composti chimici. Secondo le regole di Dalton, quando da due corpi poteva essere ottenuta una sola combinazione, si doveva presumere che si trattasse di un composto binario di un atomo di A e di un atomo di B. Quando si osservavano due combinazioni, esse dovevano essere una binaria e l'altra ternaria, ossia costituita o da un atomo di A e da 2 atomi di B, oppure da 2 atomi di A più un atomo di B. Quando si avevano tre combinazioni, una era binaria e le altre due ternarie; nel caso di quattro combinazioni una era binaria, due ternarie e una quaternaria, ossia formata da un atomo di A più 3 atomi di B, oppure da 3 atomi di A e uno di B e così via.
Dalton illustrò le sue teorie mediante diagrammi, rappresentando gli atomi elementari come cerchi ‒ ognuno contraddistinto da un segno arbitrario ‒ e gli atomi composti come figure geometriche costituite da cerchi adiacenti. L'elaborazione dei diagrammi era vincolata dal tentativo di rappresentare tre aspetti ulteriori: l'affinità, la repulsione e il carattere binario della composizione macroscopica delle sostanze. Dal momento che l'affinità agiva soltanto fra gli atomi eterogenei, la giustapposizione dei cerchi uguali doveva essere evitata. Dalton scrisse anche che "le particelle dello stesso tipo si respingono reciprocamente e assumono le loro posizioni di conseguenza" (ibidem, p. 216); tuttavia, a questo riguardo alcuni dei suoi diagrammi non risultavano adeguati: per esempio, nel diagramma che rappresenta un 'atomo composto di zucchero' sono giustapposti quattro cerchi neri che rappresentano quattro atomi di carbonio. Dalton, inoltre, considerava lo zucchero come un composto binario di alcol e di acido carbonico che, secondo la sua prima regola, a livello atomico era anch'esso un composto binario. Ciò implicava ulteriori vincoli per la costruzione del diagramma, che nella parte superiore rappresenta un atomo composto di alcol e nella parte inferiore un atomo composto di acido carbonico.
Alcuni studiosi hanno posto l'accento sulla eterogeneità degli 'atomi chimici' di Dalton, asserendo che egli rifiutava il concetto di unità fondamentale della materia (Knight 1967). In effetti, in una conferenza del 1810 Dalton affermò a questo proposito: "è stato immaginato da alcuni filosofi che tutta la materia, sebbene dissimile, sia probabilmente la medesima; e che la grande varietà del suo modo di apparire derivi da alcune forze". Egli poi continuava specificando che "questa non sembra essere stata l'idea [di Newton]. Non è neppure la mia. Ho dovuto comprendere che vi è un considerevole numero di cosiddetti principî elementari che non possono essere mai trasformati l'uno nell'altro mediante una qualsiasi forza posta sotto il nostro controllo" (in Thackray 1970, p. 273). Si noti che il modo in cui Dalton considerava i principî elementari era simile alla pragmatica definizione degli elementi di Lavoisier, con l'aggiunta della restrizione "mediante una qualsiasi forza posta sotto il nostro controllo"; per di più, difficilmente potremmo aspettarci notazioni come quella presente nei suoi Remarks on the essay of Dr. Berzelius on the cause of chemical proportions da un risoluto teorico della materia universale: "Qualunque possano essere le nostre speculazioni teoriche, se non trovano conferma nei fatti servono a poco" (Dalton 1814, p. 174). Una spiegazione diversa della posizione di Dalton potrebbe essere quella che lo considera scettico riguardo a ogni teoria della materia di tipo onnicomprensivo. In ogni caso, i contemporanei di Dalton percepirono la sua come una teoria atomica con un limitato campo di applicazione, in particolare come una teoria che dava risalto alle leggi stechiometriche. Humphry Davy (1778-1829), per esempio, fece la seguente valutazione dei meriti di Dalton, quando gli consegnò la prima Royal Medal della Royal Society: "La fama durevole del sig. Dalton poggerà sul fatto di aver scoperto un principio semplice, universalmente applicabile alla chimica ‒ nel fissare le proporzioni nelle quali si combinano i corpi, e di conseguenza nel gettare le basi per lavori futuri, avendo riguardo delle parti sublimi e trascendentali della scienza del movimento corpuscolare. I suoi meriti a questo proposito rassomigliano a quelli di Kepler in astronomia" (in Thackray 1970, p. 277).
Nello stesso anno in cui Dalton pubblicò la prima parte del suo trattato, il 1808, il chimico francese Joseph-Louis Gay-Lussac (1778-1850) rese noti i risultati di nuovi esperimenti da lui realizzati e la loro generalizzazione, oggi conosciuta come legge di Gay-Lussac della combinazione dei gas; li pubblicò successivamente in un celebre lavoro intitolato Mémoire sur la combinaison des substances gazeuses, les unes avec les autres (1809). La legge di Gay-Lussac rendeva evidente un'altra discontinuità nelle relazioni quantitative delle sostanze che reagivano tra loro: infatti era stato osservato che, per due sostanze gassose qualsiasi che si combinavano chimicamente, il rapporto dei loro volumi era 1:1, 1:2, oppure 1:3. Gay-Lussac stabilì inoltre che la 'contrazione' del volume di due gas che si combinavano tra loro era in rapporto semplice con i volumi delle due sostanze di partenza. Per esempio, un volume di ossigeno e 2 volumi di idrogeno formavano 2 volumi di vapor d'acqua. Quando due gas formavano composti differenti, le proporzioni in volume stavano fra loro in un rapporto di numeri interi piccoli: per esempio, un volume di ossigeno si univa con 2 volumi di gas nitroso per formare l'acido nitrico e con 3 volumi per formare l'acido nitroso. Sebbene numerosi chimici concepissero i risultati di Gay-Lussac come una conferma della teoria atomica daltoniana, Dalton li rifiutò, considerandoli inesatti. Egli aveva realizzato esperimenti simili a quelli di Gay-Lussac, ma aveva ottenuto risultati diversi, per esempio che un volume di ossigeno si combinava con 1,3 volumi di gas nitroso. Per le ragioni spiegate sopra, inoltre, Dalton non accettò l'ipotesi che volumi uguali di gas differenti contenessero lo stesso numero di 'molecole'; riteneva che la legge di Gay-Lussac includesse questa assunzione: "In effetti, la sua [di Gay-Lussac] nozione di volumi è analoga alla mia nozione di atomi; e se potesse essere provato che tutti i fluidi elastici hanno nello stesso volume lo stesso numero di atomi, o numeri che stanno come 1, 2, 3 ecc., le due ipotesi coinciderebbero, salvo che la mia è di validità universale, mentre la sua si applica soltanto ai fluidi elastici" (Dalton 1808-27, II, p. 556).
Il fisico e chimico italiano Amedeo Avogadro (1776-1856) giunse esattamente alla stessa conclusione. Nel 1811 egli pubblicò un articolo ‒ Essai d'une manière de déterminer les masses relatives des molécules élémentaires des corps, et les proportions selon lesquelles elles entrent dans ces combinaisons ‒ che iniziava con l'affermazione che le semplici relazioni quantitative trovate da Gay-Lussac per le combinazioni dei gas avrebbero dovuto essere l'effetto del numero di 'molecole semplici' (molécules simples) che si combinavano per formare 'molecole composte' (molécules composées). L'ipotesi più semplice possibile sarebbe consistita nel ritenere che volumi uguali di gas differenti contenessero lo stesso numero di molecole (a temperatura e pressione stabilite). Egli rifiutò l'ipotesi di Dalton che gli atomi delle differenti specie di gas fossero circondati da un'atmosfera di materia del calore di diametro diverso. Al contrario, Avogadro sosteneva che quantità differenti di materia del calore, attratte dai diversi tipi di molecole, formassero atmosfere di calore con lo stesso diametro, ma con differenti densità. Di conseguenza, le distanze fra le molecole delle sostanze allo stato gassoso sarebbero state le stesse e dunque sarebbe stato lo stesso il numero di molecole contenute in un dato volume. Avogadro, quindi, arrivò alla conclusione che le densità di vapore relative si trovassero in diretto rapporto con i pesi relativi delle molecole e che i volumi di combinazione avrebbero fornito il numero delle molecole che si combinavano. Per esempio, poiché l'ossigeno era circa quindici volte più denso dell'idrogeno e 2 volumi di idrogeno si combinavano con un volume di ossigeno, il peso relativo di una molecola di ossigeno era quindici volte quello di una molecola di idrogeno presa come unità, e l'acqua si formava dalla combinazione di 2 molecole di idrogeno e una molecola di ossigeno. Un'osservazione che doveva essere conciliata con questa ipotesi riguardava il fatto che 2 volumi di idrogeno e un volume di ossigeno non davano un volume di vapor d'acqua ma due. Se fosse avvenuta soltanto una semplice combinazione di molecole, un volume di vapor d'acqua avrebbe dovuto contenere lo stesso numero di molecole rispetto a un volume di idrogeno o un volume di ossigeno e così, per eliminare la contraddizione tra l'ipotesi sulla formazione dell'acqua e il dato sperimentale, era necessaria una seconda ipotesi, ossia che le molecole degli elementi potessero dividersi. Quando l'idrogeno si combinava con l'ossigeno per formare l'acqua, ogni molecola di ossigeno si divideva in due parti e ognuna di queste metà si combinava con una molecola di idrogeno, generando così un numero di molecole di vapor d'acqua pari a quello delle molecole d'idrogeno. Le 'molecole' gassose di Avogadro erano quindi piccole particelle del micromondo, ma non erano 'atomi' nel senso delle particelle più piccole o indivisibili; esse erano piuttosto gruppi di atomi, anche nel caso degli elementi.
Tre anni più tardi André-Marie Ampère (1775-1836), indipendentemente dal lavoro di Avogadro, suggerì alcune ipotesi molto simili nella Lettre de M. Ampère à M. le Comte Berthollet, sur la détermination des proportions dans lesquelles les corps se combinent (1814). Lo scopo principale di Avogadro era la costruzione dei fondamenti teorici per determinare i pesi atomici (o i pesi delle 'molecole'), mentre Ampère usava le stesse ipotesi per costruire una teoria geometrica delle combinazioni chimiche. Ampère aveva adottato la teoria sulla struttura dei cristalli di René-Just Haüy (1743-1822), secondo la quale ogni tipo di cristallo mostra una 'forma primitiva' che al livello macroscopico riflette, anche se non in modo identico, la struttura delle sue particelle submicroscopiche. Fece però il passo ulteriore di asserire che la geometria delle forme primitive era identica a quella delle 'particelle' dei corpi. Secondo questa teoria, le 'particelle' dei corpi consistevano di 'molecole' estremamente piccole, abbastanza distanti da consentire la trasmissione della luce fra di esse. Poiché le particelle di Ampère avevano una struttura poliedrica, per costituirle erano necessarie almeno quattro molecole.
Come Avogadro, Ampère sosteneva che nei gas le particelle fossero tenute separate dalla forza repulsiva della loro atmosfera di materia del calore. La distanza fra le particelle di ciascun tipo di gas dipendeva soltanto dalla temperatura e dalla pressione ed era la stessa sotto le medesime condizioni. Di conseguenza, il numero delle particelle di differenti tipi di gas contenute nello stesso volume era il medesimo. Per quanto riguarda la spiegazione dei rapporti quantitativi che si stabilivano nelle reazioni fra gas diversi, espressi dalla legge di Gay-Lussac, Ampère postulò che si potessero combinare sia particelle intere sia mezze particelle: per esempio, mezza particella di ossigeno si combinava con una particella di idrogeno per formare una particella d'acqua. Dal momento che le particelle delle sostanze elementari come l'idrogeno e l'ossigeno possedevano la forma poliedrica più semplice, cioè quella tetraedrica con un atomo in ognuno dei quattro vertici, tale forma poteva tramutarsi in mezzo tetraedro più un tetraedro, ossia in un ottaedro composto da sei molecole. Per mezzo di questo ragionamento, Ampère intendeva determinare sia il numero delle molecole contenute nelle particelle dei composti chimici, sia la loro forma geometrica. La teoria geometrica della combinazione chimica elaborata da Ampère non ebbe molto seguito nell'ambito della comunità scientifica; alle ipotesi da lui condivise con Avogadro fu riservato quasi lo stesso destino. Dumas, come vedremo, fu uno dei pochi ad adottarle, ma l'idea che le particelle di elementi chimici ritenuti immodificabili potessero essere suddivise durante le reazioni non era accettabile per la maggior parte dei ricercatori dell'epoca.
Quando Berzelius cominciò a elaborare la sua teoria atomica, con essa intendeva mettere in risalto il problema delle proporzioni chimiche. Infatti egli scrisse: "Il fatto che i corpi si combinino in proporzioni definite quando altre forze non si oppongono alla loro unione, e inoltre l'osservazione che, quando due corpi A e B si combinano in proporzioni differenti, le porzioni eccedenti di uno sono sempre multipli di numeri interi, 1, 2, 3, 4 ecc., portano a concludere che debba esistere una causa in conseguenza della quale tutte le altre combinazioni diventano impossibili. Ora, qual è la causa?" (Berzelius 1813, p. 445).
Nel rispondere, Berzelius si riferì all'ipotesi di Dalton secondo la quale i corpi erano composti di atomi che si combinavano nelle proporzioni di 1 a 1, a 2, a 3, a 4, ecc. Per Berzelius, come per Dalton, un 'atomo' era un corpo piccolissimo e meccanicamente indivisibile, dotato delle stesse qualità dei corpi macroscopici; in altre parole, egli lo considerava come un corpo esteso, dotato di forma e dimensione stabilite e di un peso di combinazione definito, il quale era unico per ogni specifica sostanza chimica. Quanto a forma e dimensione, Berzelius era inizialmente convinto che gli atomi di tutti gli elementi chimici fossero sferici e dotati della stessa dimensione. Più tardi egli divenne più cauto, sostenendo che probabilmente gli atomi elementari erano sferici, che quelli dei composti chimici avevano una forma regolare e che la questione relativa alla dimensione degli atomi era ancora aperta. Come Dalton, Berzelius distingueva anche fra gli atomi degli elementi chimici, indivisibili dal punto di vista sia meccanico sia chimico, e gli atomi composti, che erano le più piccole parti materiali dei composti chimici e che non potevano dividersi meccanicamente, ma soltanto scindersi chimicamente negli atomi dei loro elementi costituenti.
Un punto cruciale presente nella iniziale teoria atomica di Berzelius era rappresentato dal fatto che, nelle combinazioni chimiche, una delle due sostanze che si combinavano giocava sempre il ruolo dell'unità, vale a dire che soltanto un atomo di essa si combinava con 2, 3, 4 atomi dell'altra, e così via: "è contrario a una sana logica rappresentare un singolo atomo composto del prim'ordine, come costituto di due o più atomi di A combinati con due o più atomi di B; come, per esempio, 2A+2B, 2A+3B, 7A+7B, ecc.: in tale circostanza non vi è alcun ostacolo, né meccanico né chimico, che impedisca a un tale atomo di essere diviso, con mezzi puramente meccanici, in due o più atomi di composizione più semplice. Inoltre, una composizione simile distruggerebbe quasi del tutto le proporzioni chimiche" (ibidem, p. 447).
In particolare, rispetto alla funzione epistemologica della teoria atomica come fondamento per la teoria delle proporzioni chimiche, Berzelius non rinunciò mai alla sua concezione secondo la quale le proporzioni multiple richiedevano l'ipotesi che soltanto un piccolo numero di atomi elementari differenti potesse dar luogo a un atomo composto. "Se fosse stato possibile per 4 atomi di A combinarsi con 5 atomi di B, o anche 999 con 1000 ‒ egli scriveva ‒ le proporzioni discontinue dei pesi di combinazione non sarebbero state rilevate sperimentalmente" (ibidem, p. 450). In tal caso, la discontinuità presente a livello submicroscopico non si sarebbe manifestata a livello macroscopico, ma si sarebbe realizzata perlopiù una continuità nella composizione quantitativa di composti differenti (contenenti i medesimi elementi A e B).
Una delle funzioni epistemologiche della teoria atomica, quindi, consisteva nel dar conto del limitato numero di atomi di differenti sostanze A e B che si combinavano tra loro. Assumendo in primo luogo che una delle due sostanze che si combinavano fosse sempre un'unità e, in secondo luogo, che tutti gli atomi elementari fossero sferici e che avessero la stessa dimensione, con un atomo di A si sarebbero potuti combinare al massimo 12 atomi di B. Questa ipotesi, tuttavia, poneva un problema rilevante: i composti organici erano costituiti per la maggior parte dagli stessi elementi, ossia, come riteneva Berzelius, sempre da carbonio, idrogeno e ossigeno. "Abbiamo visto che un atomo elementare non può combinarsi con più di 12 atomi elementari. La natura inorganica non ci ha ancora riservato alcun corpo che contraddica questa supposizione, ma fra i corpi organici tali esempi sono molto frequenti" (ibidem, p. 449).
Fra gli altri composti organici, Berzelius aveva analizzato l'acido ossalico, con il risultato che i suoi atomi composti consistevano di un atomo di idrogeno, 27 atomi di carbonio e 18 atomi di ossigeno. Un anno più tardi, Dalton ammise che atomi composti costituiti da un così ampio numero di atomi elementari avrebbero rappresentato una seria minaccia anche per la propria teoria, sebbene per differenti ragioni: "Questo sarebbe un atomo veramente straordinario dato che si può supporre che il minimo attrito sarebbe in grado di produrre una violenta esplosione di tale massa di elasticità" (Dalton 1814, p. 178). Nella teoria di Dalton, infatti, era l'ipotesi dell'atmosfera di materia del calore e della sua forza repulsiva a rendere impossibile l'esistenza di un atomo composto consistente di un grande numero di atomi elementari. Dalton era sicuro che gli esperimenti di Berzelius fossero sbagliati, e in questo specifico caso aveva ragione. Tuttavia, più numerosi erano i composti organici analizzati, più diventava evidente che la legge delle proporzioni multiple non era valida per questa ampia classe di sostanze chimiche. Nella sua complessa teoria atomica, Berzelius aveva preso in considerazione questi problemi, postulando che il limite al numero di atomi che si combinavano, come pure la legge delle proporzioni multiple, fossero validi soltanto nel caso della chimica inorganica, mentre i composti organici avrebbero avuto bisogno di una trattazione atomistica differente. Nella natura organica, proclamò Berzelius nel Versuch über die Theorie der chemischen Proportionen (Saggio sulla teoria delle proporzioni chimiche, 1820), le proporzioni dei pesi di combinazione degli elementi erano molto varie e le possibilità delle combinazioni chimiche erano senza fine; di conseguenza, in questo campo le proporzioni definite esistevano soltanto nella misura in cui una specie chimica possedeva una composizione quantitativa costante. In altre parole, nella chimica organica era valida soltanto la legge delle proporzioni definite. A livello submicroscopico, ciò implicava che non vi fosse alcuna legge che potesse limitare il numero degli atomi elementari che si combinavano.
Ci si chiedeva allora quali fossero le funzioni epistemologiche di questa teoria atomica modificata dei composti organici. La più importante riguardava le conseguenze per gli sforzi messi in atto dai chimici per stabilire una nuova tassonomia delle sostanze organiche. I risultati delle analisi quantitative di differenti specie di sostanze organiche coincidevano se espressi in termini di percentuali della loro composizione, ma nel tentare di presentare questi risultati attraverso un numero definito di atomi identificati dal loro peso atomico veniva meno tale coincidenza. Questa trasformazione permetteva di tracciare limiti netti fra le differenti specie, rendendo la formula chimica berzeliana la copia chiara e distinta di uno specifico composto organico. Inoltre, Berzelius pensava che fosse possibile ordinare le sostanze organiche in due grandi gruppi, o 'classi', basandosi sulle differenze tra i loro atomi composti: vi erano alcune sostanze organiche, soprattutto gli acidi vegetali, che i chimici potevano facilmente distinguere come specie differenti, poiché le loro proprietà osservate erano molto specifiche. Tuttavia, in molti altri casi non era affatto chiaro se le sostanze fossero fra loro differenti in quanto appartenenti a specie diverse, oppure perché erano varietà di una stessa specie.
Berzelius suggerì a questo proposito che nel primo caso gli atomi composti fossero costituiti soltanto da pochi atomi diversi, cosicché una piccola variazione del loro numero avrebbe finito per determinare una differenza notevole nelle proprietà osservabili delle sostanze macroscopiche; nel secondo caso, invece, gli atomi composti erano costituiti da un grande numero di atomi elementari, e differenze piccole nel numero di questi causavano piccole diversità nelle proprietà osservabili delle sostanze. In seguito a questo sviluppo, la teoria atomica di Berzelius non rimase più confinata al suo ruolo di fondamento della teoria chimica delle proporzioni. Per di più, il suo spettro di applicazione fu esteso ad altri campi consentendo, per esempio, di spiegare le proprietà elettrochimiche e la dissoluzione delle sostanze, la teoria dell'affinità di Berthollet e infine la coesione. Ciò comportò un radicale cambiamento riguardo allo status stesso della teoria: inizialmente alquanto specifica, con la stessa funzione esplicativa che aveva la teoria dei volumi, strettamente collegata alla legge di Gay-Lussac, era quasi divenuta una teoria onnicomprensiva della materia.
Una differenza rilevante fra l'ipotesi atomica di Berzelius e quella di Dalton consisteva nel fatto che soltanto la prima prendeva in considerazione le proprietà elettriche degli atomi, mentre la seconda si limitava a ipotizzare l'esistenza di un'atmosfera di materia del calore intorno al 'nucleo' solido degli atomi. La differente funzione esplicativa di ciascuna ipotesi corrispondeva ai diversi aspetti a cui facevano riferimento, che coincidevano soltanto nella spiegazione delle leggi stechiometriche della chimica inorganica. La teoria di Dalton era anche una teoria delle miscele gassose, mentre la spiegazione di queste miscele non giocava alcun ruolo in quella di Berzelius. Quest'ultima, a sua volta, includeva i concetti elettrochimici che Berzelius stesso aveva derivato dai nuovi esperimenti condotti con la pila voltaica.
Basandosi sul principio secondo il quale "non vi è particella di un corpo elementare che non rechi in sé tutte le proprietà dell'intero corpo", e sul fatto che non vi era alcun corpo macroscopico elettrizzato nel quale i due tipi di elettricità ‒ positiva e negativa ‒ non si disponessero da parti opposte (analogamente a quanto accadeva per i magneti), Berzelius teorizzò l'esistenza di una polarità elettrica anche negli atomi. Per spiegare poi la distinzione comune fra corpi elettropositivi e corpi elettronegativi, egli introdusse il concetto di 'unipolarità'. Quest'ultima derivava o da una più alta concentrazione di un tipo di elettricità in un certo punto dell'atomo, oppure dal 'dominio' di un polo rispetto all'altro. L'atomismo elettrochimico di Berzelius offriva inoltre una nuova concezione dell'affinità chimica e una nuova spiegazione dei vari fenomeni che accompagnano le reazioni chimiche, quali, per esempio, l'aumento di temperatura e l'emissione di luce concepiti entrambi come prodotti da una 'scarica elettrochimica' o da una 'neutralizzazione elettrochimica' di sostanze di opposta unipolarità elettrica. Il calore e la luce, quindi, non erano altro che differenti forme di elettricità, mentre l'affinità chimica era dovuta al risultato combinato dell'unipolarità specifica delle sostanze chimiche, o dei rispettivi atomi, e dell''intensità' o 'grado' di polarità, grandezza che, sebbene Berzelius non la definisse ulteriormente, dipendeva dalla temperatura.
Il concetto di intensità della polarità elettrica permise a Berzelius di spiegare perché avvenissero reazioni chimiche fra due sostanze entrambe elettrochimicamente positive o negative, come per esempio lo zolfo e l'ossigeno. Allo stesso modo, secondo la teoria dualistica, anche la coesione sarebbe stata difficilmente spiegabile in termini atomistici: come sarebbe stata possibile, infatti, l'aggregazione di atomi dello stesso tipo? In questo caso, l'ipotesi della polarità elettrica degli atomi portò Berzelius alla conclusione che gli atomi si giustapponessero in corrispondenza dei loro poli opposti, senza che avvenisse, tuttavia, alcuna scarica elettrica, come nel caso di una reazione chimica. Berzelius riconobbe però che il suo modello non era in grado di spiegare i vari fenomeni collegati alla coesione, come la differenza di durezza o di morbidezza dei corpi, la loro elasticità, la fragilità, la resistenza alla rottura, eccetera. L'argomento classico delle teorie corpuscolari, ossia la spiegazione degli stati della materia ‒ gassoso, liquido e solido ‒ sollevava ulteriori difficoltà. Mentre tale spiegazione costituiva il nucleo stesso della teoria di Dalton, per questi fenomeni Berzelius, come ammise francamente, fu costretto a introdurre ipotesi supplementari, come quella delle inclinazioni differenti degli assi degli atomi polarizzati; egli, alla fine, arrivò alla conclusione che una spiegazione soddisfacente della coesione nonché delle sue modificazioni doveva ancora essere trovata.
Dumas fu un altro influente teorico dell'atomismo della prima metà del XIX secolo. Nel 1826 egli pubblicò un articolo intitolato Mémoire sur quelques points de la théorie atomistique, nel quale sosteneva che la teoria atomica era diventata il fondamento della ricerca chimica. Questa esagerata affermazione costituisce la prova di quale fermo assertore Dumas fosse dell'atomismo; tuttavia, nelle Leçons sur la philosophie chimique, al contrario egli affermava: "Cancellerei il termine atomo dalla scienza, poiché sono convinto che esso vada al di là del campo dell'esperienza" (Dumas 1837, p. 290). Numerosi storici della chimica hanno interpretato questa affermazione come una manifestazione di antiatomismo, trascurando il fatto che Dumas mutò nel tempo l'esatto significato che attribuiva al termine 'atomo'.
Un aspetto cruciale della teoria atomica di Dumas consisteva nell'aver incorporato le ipotesi di Avogadro e di Ampère. Il comportamento fisico dei gas, scriveva Dumas nel 1828, in particolare il fatto che gas differenti si comportino nello stesso modo quando la temperatura e la pressione vengono modificate, portava alla conclusione che lo stesso volume di gas differenti conteneva un numero uguale di 'atomi chimici'. Egli prese in considerazione anche l'ipotesi che gli atomi delle sostanze gassose, compresi quelli degli elementi chimici, spesso avrebbero potuto dividersi se fossero stati combinati chimicamente. Di conseguenza Dumas distinse fra due differenti tipi di 'atomi' o 'molecole': la 'molecola fisica', che era prodotta dai corpi solidi o liquidi mediante il calore, e la 'molecola chimica' che si formava nelle reazioni chimiche e che costituiva le sostanze. La seconda sarebbe potuta essere o una 'particella molto piccola' di un determinato elemento (che non si alterava nelle reazioni chimiche), oppure un 'atomo composto' dei composti chimici, che avrebbe potuto essere ulteriormente suddiviso in atomi elementari mediante le reazioni. Le 'molecole fisiche' erano invece le più piccole particelle di gas che consistevano in un gruppo di 'molecole chimiche'.
Quando nel 1836 Dumas tenne alcune conferenze sulla filosofia chimica, che poi raccolse nelle Leçons già citate, in lui si era fatta strada la convinzione che né gli esperimenti fisici né quelli chimici avessero ancora consentito l'accesso al livello degli 'atomi', intesi come le più piccole e indivisibili particelle di materia. L'ipotesi che i corpuscoli materiali che interagivano chimicamente fossero indivisibili, sosteneva Dumas, non era affatto necessaria per spiegare le leggi della chimica quantitativa. A tale scopo infatti poteva essere sufficiente ipotizzare solamente l'esistenza di 'masse di un certo ordine': "è necessario assumere che non soltanto gli atomi fisici dei gas siano riunioni di piccole masse, distinte una dall'altra, ma che la stessa cosa valga per gli atomi chimici" e assumere che la "chimica operi su gruppi di atomi di materia". L'oggetto della confutazione di Dumas nel 1836 non era costituito né dall'ontologia degli atomi di materia fondamentalmente indivisibili né dal convincimento che nei loro esperimenti i chimici e i fisici manipolassero piccole particelle submicroscopiche, ma piuttosto dall'identificazione dei primi con le seconde. Perfino il brano frequentemente citato a sostegno del preteso antiatomismo di Dumas inizia con l'affermazione: "Sono convinto che ciò che i chimici come Wenzel e Mitscherlich considerano come equivalenti, e che noi chiamiamo atomi, non siano altro che gruppi molecolari" (ibidem, pp. 270, 282, 290).
Il sospetto di Dumas che gli atomi chimici fossero gruppi di particelle più piccole era stato alimentato da numerosi tipi di esperimenti, chimici e fisici, che non conducevano a una determinazione univoca dei pesi atomici. In primo luogo, in accordo con le ipotesi di Avogadro e di Ampère, le misure delle densità gassose erano un mezzo per determinare i 'pesi atomici' degli atomi fisici. Le misurazioni di Dumas della densità dell'idrogeno, dell'azoto, del cloro, del bromo e dello iodio fornivano risultati incoraggianti, poiché i valori numerici erano in accordo con gli equivalenti chimici derivati dalle analisi quantitative dei corrispondenti composti chimici, se la densità dell'ossigeno era convenzionalmente posta uguale a 100. Tuttavia, quando Dumas realizzò gli stessi esperimenti con i composti gassosi del fosforo, dell'arsenico, dello zolfo e del mercurio, egli ottenne pesi atomici differenti rispetto agli equivalenti chimici. Nel caso delle prime due sostanze il peso atomico ottenuto dalle misurazioni della densità era doppio, e nel caso dello zolfo triplo, rispetto all'equivalente chimico. Dumas arrivò alla conclusione che il numero degli atomi chimici contenuti negli atomi fisici di una sostanza gassosa era differente, e che gli atomi fisici del fosforo o dell'arsenico contenevano un numero di atomi chimici doppio rispetto, per esempio, all'azoto, mentre quelli dello zolfo triplo. Tuttavia, nel caso del mercurio il risultato era opposto, poiché l'equivalente chimico era due volte più grande del peso atomico ottenuto dalle misurazioni della densità. Dumas arrivò alla conclusione che in questo caso "il calore ha diviso le particelle del corpo più dell'azione chimica e gli atomi chimici del mercurio si scindono in due per costituire le particelle del mercurio gassoso" (ibidem, p. 269). Questo risultato rappresentava la prima conferma del sospetto che gli atomi chimici, come quelli fisici, fossero gruppi di particelle ancora più piccole.
Una seconda conferma fu fornita dagli esperimenti di Pierre-Louis Dulong (1785-1838) e Alexis-Thérèse Petit (1791-1820) sui calori specifici dei corpi solidi. Dulong e Petit avevano realizzato esperimenti sui calori specifici di tredici corpi solidi, soprattutto metalli, e avevano ricondotto i risultati ai pesi atomici (o equivalenti) di queste sostanze. Le conclusioni tratte da tali esperimenti furono riepilogate in una legge che stabiliva come il calore specifico di una sostanza fosse inversamente proporzionale al suo peso atomico. Dulong e Petit usarono per i loro calcoli i pesi atomici di Berzelius, ma per ottenere i loro risultati furono costretti a dimezzarne otto. Dumas interpretò questo fatto come un'ulteriore indicazione che gli atomi chimici non fossero i veri e propri 'atomi', cioè le particelle ultime della materia. Le misure del calore specifico, tuttavia, non fornirono risultati univoci, poiché il peso atomico ottenuto per il mercurio non coincideva con il risultato della misurazione della sua densità. Secondo Dumas, rimaneva quindi aperta la questione se i pesi atomici della legge di Dulong e Petit rappresentassero gli atomi fisici o quelli chimici.
L'indagine delle forme cristalline e il nuovo concetto di 'isomorfismo' rappresentarono un altro strumento per dedurre i pesi atomici. I composti chimici isomorfi possedevano la stessa forma cristallina e potevano sostituirsi l'uno all'altro in un cristallo senza alterarne la forma. Poiché i composti isomorfi non dipendevano dalle qualità chimiche dei loro componenti e possedevano una formula chimica simile, Eilhard Mitscherlich (1794-1863) ipotizzò che "elementi differenti uniti con un numero uguale di atomi di uno o più altri elementi comuni […] cristallizzano allo stesso modo e che la somiglianza nella forma cristallina è determinata interamente e completamente dal numero di atomi, e non dalla differenza degli elementi" (in Leicester 1952, p. 306). Per esempio, se due composti chimici isomorfi, come il solfuro di rame e il solfuro d'argento, in un dato sistema di pesi atomici avessero avuto formule chimiche differenti, come Cu2S e AgS, una di esse doveva essere considerata errata. Poiché vi erano argomenti aggiuntivi per sostenere che Cu2S era corretta, allora era AgS a dover essere modificata in Ag2S e, di conseguenza, il peso atomico dell'argento diventava la metà del suo valore precedente. Dumas era convinto che con questo tipo di ragionamento sarebbe stato in grado di stabilire un sistema di pesi atomici degli atomi chimici, ma non degli atomi ultimi della materia.
Il terzo argomento che permise a Dumas di affermare che gli atomi chimici erano, di fatto, gruppi di particelle più piccole provenne dalla chimica organica. Coloro che si occupavano di questa disciplina ricorrevano a formule che facevano riferimento a quattro volumi delle sostanze nel loro stato gassoso. Le formule a quattro volumi si dimostrarono gli strumenti teorici più convenienti per la creazione di una nuova tassonomia di composti organici, in analogia alla già esistente tassonomia di quelli inorganici. Da un punto di vista atomistico che accettasse l'ipotesi di Avogadro e quella di Ampère, era evidente che le formule a quattro volumi rappresentavano un gruppo di quattro 'atomi fisici'. Eppure, i chimici applicarono con successo le formule a quattro volumi, non soltanto nella loro attività tassonomica ma anche per altri tipi di lavoro teorico, in particolare per costruire modelli relativi alla costituzione delle sostanze organiche e alle loro reazioni chimiche. Cosicché, essi concepirono queste formule come simboli degli equivalenti chimici, o atomi chimici.
Nell'approccio teorico di Dumas era chiaro che gli 'atomi' o 'equivalenti' chimici delle sostanze organiche erano particelle del micromondo, ossia masse dalle dimensioni impercettibili, costituite di miriadi di atomi; egli interpretava inoltre l'isomerismo come una prova sperimentale di questa concezione. Il concetto di isomerismo, introdotto nel 1832 da Berzelius, si riferiva all'osservazione che vi erano alcune sostanze chimiche che differivano per le loro proprietà chimiche e fisiche ma avevano la stessa formula chimica. Negli anni Trenta dell'Ottocento i chimici distinguevano queste sostanze attribuendo loro differenti 'formule razionali' che rappresentavano 'costituzioni binarie' diverse. L'idea tradizionale di costituzione binaria, così come era rappresentata nelle tavole delle affinità del XVIII sec., stava a indicare la disposizione degli elementi chimici (non degli atomi) all'interno di un composto chimico. Per esempio, i chimici sostenevano che i sali non fossero costituiti direttamente da elementi ma da acidi e da alcali, che erano essi stessi composti binari costituiti da ossigeno e da un altro elemento. Nel contesto della sua teoria atomica, Dumas reinterpretò la binarietà come disposizione atomica e l'isomerismo come risultato di una differente disposizione di 'molecole elementari' all'interno dell'equivalente organico, per il quale egli coniò la definizione 'molecola composta completa'. Di conseguenza la teoria atomica di Dumas divenne molto simile alla teoria corpuscolare esposta da Newton nell'Opticks, e le più piccole particelle dei corpi alle quali gli esperimenti chimici e fisici consentivano l'accesso consistevano in un gran numero di particelle ultime della materia. Dumas arrivò perfino a non escludere più, in teoria, il modello corpuscolare di trasmutazione suggerito da Newton. L'estensione dell'interpretazione atomica dell'isomerismo dai composti agli elementi condusse Dumas a riflettere su questa possibilità, che egli alla fine confutò sulla base del "presente stato della nostra conoscenza".
Nella prima metà del XIX sec. la maggior parte dei chimici e dei fisici concepiva gli atomi come piccoli corpi submicroscopici, definiti dalla loro estensione e dalla loro massa e responsabili delle proprietà osservabili dei corpi e dei fenomeni macroscopici. In questo senso ampio, termini come 'particella', 'molecola', 'porzione', 'proporzione' ed 'equivalente' erano spesso impiegati come sinonimi, ma quando si giunse a definizioni più specifiche degli atomi, le opinioni variarono. Moltissimi chimici, inoltre, attribuivano agli atomi forze attrattive e repulsive. Nel caso specifico della repulsione, alcuni ne riconducevano l'origine a una materia sottile particolare che aderiva agli atomi corporei, identificata con la materia del calore oppure con la materia sottile dell'elettricità; altri erano invece convinti che la repulsione (o l'elettricità) fosse una proprietà intrinseca degli stessi atomi corporei. Tutte le questioni concernenti le proprietà meccaniche degli atomi diverse dall'estensione e dalla massa, come la dimensione e la forma, ispirarono una molteplicità di risposte differenti. Inoltre, alcuni chimici consideravano divisibili le loro entità submicroscopiche, altri no. In questa situazione, furono numerosi coloro che suggerirono di lasciare indeterminata la scelta tra descrizioni degli atomi che trascendessero le possibili argomentazioni dedotte dalla pratica sperimentale esistente. La preferenza dei chimici, dopo il 1840, per il termine 'equivalente' rivela anche un certo scetticismo nei riguardi di ogni tipo di causa ultima invocata dalle teorie atomiche sulla scia delle tradizionali teorie della materia.
All'applicazione sinonimica di termini come 'atomi', 'particelle', 'molecole' ed 'equivalenti' si sovrapponeva il fatto che significati differenti erano attribuiti allo stesso termine da vari scienziati e in contesti diversi. Parole come 'atomo' o 'particella' avevano un'accezione completamente diversa, come si è già sommariamente accennato, quando erano applicate all'interno delle teorie della materia boscoviciane. Per esempio, quando Charles Daubeny, in An introduction to the atomic theory (1831), descrisse la teoria dinamica di Boscovich che sosteneva l'esistenza di centri di forze attrattive e repulsive inestesi, egli si riferì a queste entità con il termine 'particelle'. Anche Davy e Michael Faraday (1791-1867) credevano negli atomi boscoviciani.
Nell'articolo sulla teoria delle 'molecole' pubblicato nel 1836, über den molecularen Zustand der zusammengesetzten Körper nebst Aufstellung einer neuen Moleculartheorie (Sullo stato molecolare dei corpi composti, con una nuova teoria molecolare), Jean-François Peroz menzionava un altro significato della parola 'atomo'. Secondo Peroz, molti chimici, riferendosi agli atomi, intendevano "una quantità di un corpo solido che può essere pesata e che è determinata dai suoi rapporti di combinazione con un altro corpo, la cui quantità è presa come unità" (p. 243). Questa definizione di 'atomo' si riferisce a una determinata porzione macroscopica di una sostanza chimica. Allo stesso modo, nell'articolo Atome dello Handwörterbuch der reinen und angewandten Chemie (Dizionario di chimica pura e applicata), edito insieme a Justus von Liebig e Friedrich Wölher e pubblicato dal 1842 al 1864, Johann Christian Poggendorff scrisse che l'entità che i chimici usualmente chiamavano 'atomo' o 'peso atomico' era "non un singolo atomo o il suo peso, ma una grande quantità di atomi, ossia una certa massa di peso [Gewichtsmasse]" (I, p. 572). Al contrario, la preferenza che dopo il 1840 fu da molti accordata al termine 'equivalente' non implica automaticamente che essi fossero antiatomisti. A seconda del contesto nel quale era utilizzato, 'equivalente' poteva anche significare una particella submicroscopica invece di un'entità stechiometrica macroscopica.
Nella prima metà del XIX sec. la maggior parte dei chimici ignorava la questione se gli 'equivalenti' (o 'proporzioni', o 'atomi', ecc.) fossero entità del mondo microscopico o di quello macroscopico, tanto più che il loro lavoro teorico, realizzato con le formule di Berzelius, non richiedeva a questo proposito alcun pronunciamento. La forma quasi algebrica del sistema di simboli, ideato da Berzelius e largamente adottato dai chimici europei a partire dalla fine degli anni Venti dell'Ottocento, lasciava deliberatamente irrisolti numerosi problemi concernenti l'ontologia delle entità simboleggiate. Ciò solleva la questione della rilevanza effettiva rivestita dal concetto di 'atomo' (nel senso dei piccoli corpi submicroscopici) e dalle teorie atomiche nella ricerca in chimica. Certamente non vi è ragione alcuna perché i tentativi ‒ come quelli di Dalton, Berzelius o Dumas ‒ di elaborare teorie atomiche coerenti, presentati in forma verbale o testuale che fossero, non debbano essere considerati come parte della ricerca dei chimici. Per di più, i libri di testo di chimica pubblicati in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e altrove includevano questo tipo di teoria. Tuttavia è un fatto storico che la gran parte degli articoli di chimica pubblicati nelle riviste scientifiche si riferisse alle sostanze macroscopiche adoperate nei laboratori e agli esperimenti compiuti con esse o al problema della loro classificazione. Ciò che i chimici manipolavano nei loro vasi e nelle loro storte erano sostanze, non atomi, e i simboli che elaboravano studiando le reazioni o altre entità nascoste, come la composizione o la costituzione delle sostanze, a loro volta rappresentavano sostanze di laboratorio, interpretate come 'prodotti di reazione'. A partire da queste formule essi risalivano agli effetti inosservabili delle sostanze, nella cornice intellettuale di un modello di componenti elementari rappresentati da un insieme di concetti, quali 'composto chimico', 'affinità', 'analisi', 'sintesi', 'reazione' e 'costituzione'.
In chimica organica (ossia la chimica del carbonio), così come si era sviluppata nei primi decenni del XIX sec., le indagini sperimentali sulle reazioni chimiche e sulla costituzione e la classificazione dei composti richiedevano che si affrontasse ulteriore lavoro teorico, per mezzo delle formule di Berzelius. Applicando queste ultime come strumenti teorici, i chimici erano in grado di costruire modelli relativi alla costituzione delle sostanze organiche e alle loro reazioni che si accordavano sia con i risultati sperimentali sia con la struttura concettuale riguardante l'azione e la costituzione delle sostanze di laboratorio. In questo contesto, le formule chimiche stavano a significare porzioni definite o componenti elementari di sostanze, vale a dire entità inosservabili il cui status ontologico era ambiguo a causa della distinzione fra il mondo macroscopico e quello microscopico. Soltanto quando erano trasferite nel contesto delle teorie atomiche, le formule chimiche erano interpretate, in modo non ambiguo, come simboleggianti porzioni submicroscopiche di sostanze e le loro disposizioni di tipo chimico. Ciò non significa che in ogni altra applicazione le formule chimiche indicassero entità misurabili; esse, piuttosto, attribuivano un definito peso di combinazione (o peso atomico) a ogni elemento e rappresentavano le sostanze chimiche semplicemente come consistenti di porzioni discrete, individuate dal loro peso o dal loro volume. Questa assunzione era sottodeterminata rispetto alla stechiometria o a qualsiasi tipo di esperimento, in modo particolare nella chimica organica. L'accordo esistente fra la prima generazione di chimici ‒ come Berzelius, Liebig, Wölher, Dumas e Boullay ‒ sul fatto che l'applicazione delle formule di Berzelius nella chimica organica fosse giustificata si basava non soltanto sulle loro speranze legate alla quantificazione e alla matematizzazione della chimica, ma anche sulla ferma convinzione dell'esistenza di un micromondo 'abitato' da atomi. La rilevanza che l'atomismo rivestì nei riguardi della pratica sperimentale e tassonomica della chimica nella prima metà del XIX sec. è dovuta, perciò, proprio al fatto che esso consolidò l'accettazione e l'applicazione delle formule chimiche di Berzelius.
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