L'Ottocento: fisica. La matematizzazione del colore
La matematizzazione del colore
Il moderno approccio allo studio della visione del colore risale alla sua riformulazione paradigmatica operata, negli anni Cinquanta dell'Ottocento, da Hermann von Helmholtz, James C. Maxwell e Hermann Günther Grassmann. Tuttavia le ricerche su tale argomento affondano le radici negli inizi del XVII sec., epoca in cui era molto diffusa la convinzione che il colore non fosse una proprietà degli oggetti in sé stessi, ma una modificazione indotta nella luce dalla riflessione o dalla rifrazione. Distinguendo fra 'qualità primarie' e 'qualità secondarie', John Locke confermò, a livello teorico, che il colore era soltanto l'esperienza secondaria soggettiva che aveva luogo nel sensorio quando una luce con determinate qualità primarie colpiva l'apparato visivo. Pertanto, dal punto di vista logico, qualsiasi trattamento matematico del colore richiedeva l'esistenza di relazioni stabili tra le proprietà fisiche misurabili della luce e le esperienze cromatiche soggettive stimolate da tali proprietà.
Basandosi sull'accordo che nel XVII sec. si era stabilito intorno alla natura del colore, Descartes formulò l'ipotesi che quest'ultimo fosse associato alla rotazione delle particelle sottili che, secondo la sua teoria, costituivano la luce; di contro Robert Hooke associò il colore al 'grado di obliquità' introdotto in un fronte d'onda dalla rifrazione della luce. Newton, infine, fornì la soluzione definitiva dimostrando, attraverso una serie di controversi esperimenti, che il colore era correlato alla rifrangibilità in un modo tale che un fascio di luce bianca doveva essere considerato composto di molti raggi, ciascuno dotato di rifrangibilità (e quindi di un tono di colore) differente dagli altri. Ancora più importante ai fini di una teoria matematica del colore è la tecnica euristica approssimata che Newton sviluppò per prevedere il risultato del mescolamento dei colori. Infatti, nell'Opticks del 1704 (Libro I, parte II, prop. 6) egli guida il lettore nella costruzione di un cerchio, poi chiamato 'cerchio di Newton' oppure 'disco cromatico di Newton', diviso in settori, di ciascuno dei quali specifica l'ampiezza, corrispondenti ai sette 'colori fondamentali'; quando il disco è posto in rapida rotazione, il suo colore appare biancastro a causa del mescolamento delle sensazioni prodotte dai vari colori, dovuto alla persistenza delle immagini retiniche (Tav. I).
Dopo Newton, lo studio dei colori e della loro composizione si è sviluppato originando tre diverse tradizioni di ricerca, che in buona parte, nel tempo, si sono sovrapposte. Una di queste studiava i fenomeni cromatici soggettivi e patologici, come le immagini persistenti, la cecità per i contrasti e quella per i colori (daltonismo). Un'altra seguiva la tradizione newtoniana e dovette confrontarsi con l'ambigua eredità di Newton riguardo al numero di colori fondamentali che possono essere individuati nello spettro solare. Nei primi scritti, infatti, egli aveva evidenziato l'esistenza di un numero infinito di toni di colore, che corrispondeva al numero potenzialmente infinito di gradi di rifrangibilità; ma in seguito, e in particolare nella discussione sulla procedura di mescolamento, egli aveva piuttosto insistito su uno spettro discreto, basato su sette colori fondamentali. Nella maggior parte dei casi, comunque i commentatori di Newton adottarono l'ipotesi di una serie discreta di colori fondamentali, sebbene si trovassero in forte disaccordo nello stabilire se fossero tre, quattro, cinque o sette; a ogni modo, essi ritenevano che i toni di colore intermedi emergessero dal mescolamento dei colori fondamentali dello spettro. La terza tradizione di ricerca, infine, si rifaceva all'esperienza acquisita dagli artigiani e dai tintori sui colori ottenuti mescolando pigmenti diversi. Secondo i seguaci di questa tradizione, esistevano soltanto tre colori fondamentali (rosso, giallo e blu), mettendo insieme i quali potevano essere ottenuti approssimativamente, come mostrava l'esperienza, tutti gli altri toni. A volte essi illustravano le relazioni fra colori per mezzo di un 'triangolo cromatico', a ciascun vertice del quale era collocato uno dei tre colori fondamentali e il cui interno era suddiviso in piccole celle contenenti le loro combinazioni: in ciascuna di esse, le proporzioni relative di ogni colore fondamentale decrescevano all'aumentare della distanza dal rispettivo vertice. Questa tradizione aveva un orientamento figurativo e tassonomico, pur assumendo tacitamente il principio euristico di Newton, ossia del mescolamento baricentrico secondo il centro 'di gravità'.
Almeno fino agli anni Quaranta dell'Ottocento, lo studio del colore non svolse un ruolo fondamentale né in ottica fisica né in quella fisiologica. Vi erano pochi strumenti o apparati specificamente destinati allo studio del colore e non vi erano teorie esaurienti che unificassero questo settore di ricerca. Una teoria che avrebbe potuto svolgere tale funzione era stata suggerita brevemente da Thomas Young (1773-1829) nel 1801 e nel 1802, ma fino al 1850 fu scarsamente presa in considerazione. Secondo l'ipotesi di Young, ogni punto della superficie dell'occhio sensibile alla luce possiede tre tipi di terminazioni nervose, ciascuna delle quali risponde a una gamma differente di lunghezze d'onda, che si sovrappone alle altre. Se questi tre tipi di terminazioni sono stimolati producono, rispettivamente, tre specifiche sensazioni cromatiche: il rosso, il giallo e il blu; tutte le altre, secondo Young, sono 'mescolanze psicologiche' delle tre sensazioni fondamentali.
La teoria antinewtoniana che David Brewster (1781-1868) propose nel 1822, assai più conosciuta di quella di Young, negava la correlazione fra colore e rifrangibilità. In effetti, secondo Brewster, lo spettro visibile della luce bianca doveva essere considerato come una sovrapposizione di tre spettri adiacenti i cui raggi producono, rispettivamente, le sensazioni del rosso, del giallo e del blu; ciascuno spettro contiene raggi di tutti i gradi di rifrangibilità. Questi tre spettri si 'sommano' in proporzioni appropriate per formare gli altri colori spettrali (in particolare l'arancione e il verde) e il bianco. In tal modo, mentre la teoria di Young considera in chiave psicologica l'idea dei colori fondamentali, quella di Brewster ne evidenzia gli aspetti fisici, identificando i classici pigmenti fondamentali con tre distinti tipi fisici di luce.
2. Helmholtz, Grassmann e la teoria matematica della composizione cromatica
Sebbene la teoria di Brewster fosse nota già da decenni, essa iniziò improvvisamente ad attrarre l'interesse degli scienziati intorno al 1850. In particolare, nel 1852 il giovane fisiologo tedesco Helmholtz confutò in maniera convincente le prove sperimentali sulle quali era basata. Egli proseguì nella sua critica a Brewster con un altro articolo, sempre del 1852, nel quale analizzava i significati diversi e contraddittori attribuiti all'espressione 'colore fondamentale' e delineava, per la prima volta, la distinzione tra composizioni cromatiche 'additive' e 'sottrattive' per mostrare che i colori prodotti mescolando i pigmenti non devono necessariamente corrispondere al risultato che si ottiene mescolando le luci spettrali corrispondenti. Soprattutto, Helmholtz riferì di esperimenti nei quali aveva realizzato composizioni binarie e ternarie di luci spettrali omogenee. Egli aveva scoperto, con sua sorpresa, che lo spettro solare conteneva una sola coppia di 'colori complementari', ossia di colori che, qualora fossero stati mescolati nella giusta proporzione, avrebbero prodotto il bianco. Helmholtz scoprì anche che combinazioni appropriate del rosso, del verde e del violetto contenuti nello spettro potevano corrispondere al 'tono di colore' di qualsiasi altra luce spettrale, sebbene tutte queste combinazioni, in confronto agli equivalenti toni spettrali monocromatici, fossero biancastre e non sature. Egli ne trasse la conclusione che, da soli, tre colori spettrali non potevano agire come fondamentali, nel senso che dal loro mescolamento non era possibile ottenere tutti gli altri colori nel loro preciso tono cromatico e nella loro piena saturazione.
In entrambi gli articoli del 1852 Helmholtz aveva cercato di difendere la teoria dei colori di Newton, ma, paradossalmente, fu subito attaccato da Hermann Günther Grassmann (1809-1877), professore di ginnasio a Stettino, che lo accusò di aver respinto la teoria newtoniana del mescolamento dei colori. Grassmann sosteneva che, dal punto di vista fenomenologico, fossero sufficienti tre sole variabili per definire in maniera esaustiva le sensazioni cromatiche: luminosità, tono e saturazione. Esse corrispondevano fisicamente all'intensità della luce, alla lunghezza d'onda (nel caso di una luce omogenea) e alla proporzione di bianco risultante (nel caso di luce mista). Era perciò sufficiente uno spazio tridimensionale per descrivere geometricamente tutte le relazioni cromatiche e tale proprietà del colore era sfruttata nella costruzione newtoniana del disco cromatico (al quale si aggiungeva la luminosità-intensità come terza dimensione). Grassmann procedette all'analisi delle relazioni fenomenologiche che nel complesso garantivano l'obbedienza delle composizioni dei colori alla regola baricentrica, o del centro di 'gravità', di Newton; in seguito tali relazioni divennero note come le quattro 'leggi di Grassmann' o, in taluni casi, come la 'legge della composizione dei colori di Newton'. Grassmann rappresentò i colori come lunghezze orientate poste sul piano cromatico del disco di Newton, ricavando le loro composizioni come risultanti o 'somme geometriche', secondo le procedure già sviluppate nella Ausdehnungslehre (Teoria dell'estensione, 1844). Egli, inoltre, osservò che un risultato teorico di questa analisi matematica (che rappresentava al contempo una sorta di inventario fenomenologico) consisteva nel fatto che lo spettro solare dovesse contenere un numero infinito di coppie di colori complementari, ognuna corrispondente a un diametro del disco cromatico. Grassmann sosteneva con fiducia l'idea che le scoperte di Helmholtz contrarie a questo risultato dovessero semplicemente essere errate.
In effetti, nell'articolo del 1853 Grassmann snaturò vistosamente la procedura di composizione di Newton, ignorando la sua insistenza sulla natura discreta degli archi dei colori primari e la regola di far partire il procedimento di composizione dai punti che rappresentavano il centro di gravità di tali archi. Al contrario, Grassmann postulò tacitamente l'esistenza di uno spettro nel quale i colori mutassero con continuità lungo la circonferenza del cerchio cromatico e fece partire i procedimenti di mescolamento baricentrico da due o più punti qualsiasi. Soltanto con questi presupposti la costruzione del disco di Newton prefigurava in maniera certa l'esistenza di complementari spettrali. Nel 1855 Helmholtz rispose con un articolo nel quale accettava tacitamente come 'newtoniana' l'interpretazione 'continuista' di Grassmann del procedimento di mescolamento; riconobbe che Grassmann aveva dimostrato in dettaglio e con rigore che i suoi precedenti risultati erano incompatibili con la legge newtoniana del mescolamento cromatico e, inoltre, rese noti nuovi risultati sperimentali nei quali aveva ottenuto, proprio come Grassmann aveva previsto, numerose coppie di complementari spettrali, misurandone le lunghezze d'onda e confrontandole con le linee di Fraunhofer.
Nello stesso anno, Helmholtz si spinse molto oltre; affermò che i verdi non avevano complementari spettrali e che i loro complementari effettivi (i porpora) dovevano essere interpolati arbitrariamente se si voleva chiudere la curva spettrale dei colori omogenei. Assai più importante era poi il fatto che Grassmann avesse definito come unitaria la luminosità di un colore se esso, mescolato a un suo complementare, dava luogo a un bianco unitario. Helmholtz propose invece che l'espressione 'uguale unità di luminosità' fosse usata con il significato di 'ugualmente luminoso per l'occhio'. I suoi esperimenti più recenti, tuttavia, mostravano che, assumendo simultaneamente questa convenzione e la regola baricentrica, i colori spettrali non potevano essere considerati ugualmente saturi e perciò non potevano essere collocati alla stessa distanza dal punto del bianco sul piano cromatico: così il disco di Newton non era più un vero cerchio. Comunque si poteva dedurre la sua forma in modo molto approssimativo dalle proporzioni dei componenti nelle combinazioni dei colori complementari. La fig. 2 mostra l'abbozzo, redatto da Helmholtz, del nuovo luogo spettrale non circolare, che presenta i porpora interpolati secondo una linea retta.
La quarta legge di Grassmann postulava che la luminosità di un mescolamento di luci è data dalla somma delle luminosità dei suoi componenti. Helmholtz insistette affinché questa legge fosse trattata come un'utile convenzione per le misurazioni, una definizione della luminosità totale, e ne dimostrò le implicazioni di ampia portata: se venivano postulate le posizioni di tre punti (ossia di tre colori) qualsiasi non allineati sul piano del disco di Newton ed erano misurate in un modo qualsiasi le loro rispettive luminosità, questa informazione, assieme alla convenzione della composizione baricentrica, permetteva di esprimere la posizione di ciascun punto di colore sul piano cromatico in funzione dei tre punti iniziali. Tale risultato si applicava sia ai colori che potevano essere effettivamente ottenuti, con il mescolamento, dai tre colori iniziali (e che giacevano quindi all'interno del triangolo che essi formavano) sia ai colori che non potevano essere ottenuti in tal modo (e che perciò giacevano all'esterno del triangolo). Questa formulazione, astratta ed efficace, costituì la base sulla quale si sarebbe in seguito fondata ogni trattazione matematica del colore.
3. Maxwell, la teoria di Young e le origini della colorimetria
Nel 1855 Helmholtz non avanzò alcuna ipotesi sul modo in cui i complessi procedimenti matematici da lui stesso delineati potessero essere applicati alle tecniche effettivamente utilizzate per mescolare i colori e per calcolare la posizione sul piano cromatico dei colori così ottenuti. Tuttavia, il ventiquattrenne James C. Maxwell (1831-1879) elaborò nello stesso periodo una serie di procedimenti sperimentali atti a svolgere queste operazioni. Egli aveva iniziato a condurre esperimenti sulla visione cromatica sin dal 1849, aveva letto gli articoli di Helmholtz e Grassmann ed era stato influenzato dagli scritti sui colori di James D. Forbes.
I classici articoli di Maxwell del 1855, oltre a definire le tecniche sperimentali su cui si sarebbe basata tutta la colorimetria successiva, posero in gran parte le fondamenta teoriche di tale scienza.
Negli Experiments on colour, as perceived by the eye, Maxwell dichiarò di rimanere fedele alla teoria di Young "dei tre modi distinti della sensazione nella retina, ciascuno dei quali […] è prodotto in gradi differenti dai diversi raggi" (1855 [1965, I, p. 136]). Nell'adottare la teoria di Young, Maxwell presuppose tacitamente che questi avesse voluto intendere che ogni luce omogenea (ossia una luce di una singola lunghezza d'onda, o di una singola rifrangibilità) stimolasse tutti e tre i 'modi della sensazione', anche nel caso in cui, nel colore misto risultante, una o due risposte cromatiche fossero state predominanti. Poiché i tre modi elementari della sensazione presi insieme producevano il bianco, allora persino una luce omogenea avrebbe stimolato, in una certa dose, una risposta sensoriale di bianco; tutte le luci omogenee, anche quelle dei colori dello spettro solare, luminosi e con un elevato grado di saturazione, sarebbero dovute apparire, come in effetti appaiono, in qualche modo non sature. Da tale affermazione derivavano alcune importanti conseguenze che furono chiarite dallo stesso Maxwell. In primo luogo non era possibile sostenere che le tre sensazioni fondamentali fossero colori spettrali: se si fosse potuto stimolare in qualche modo uno solo dei processi neurali di Young senza al contempo produrre gli altri, allora la sensazione cromatica risultante avrebbe presumibilmente corrisposto a qualche tono di colore spettrale, ma avrebbe dovuto presentare una saturazione maggiore di quella spettrale. Maxwell propose quindi un'accurata spiegazione di tale affermazione facendo uso del piano cromatico e del luogo spettrale.
Egli mise in evidenza la difficoltà estrema di stabilire l'esatta natura delle tre sensazioni elementari postulate dalla teoria di Young; dal momento che non si potevano ottenere le sensazioni elementari nella loro forma pura, era impossibile ricavare empiricamente le equazioni del colore e collocarle così sul piano cromatico. In senso stretto, non si poteva nemmeno sapere a quali toni spettrali corrispondessero tali sensazioni, sebbene Maxwell ritenesse che dovesse trattarsi molto probabilmente di un verde, di un rosso estremo e di un violetto (o forse un blu).
Tuttavia Maxwell sostenne che lo studio del daltonismo avrebbe potuto fornire i mezzi per determinare una o più sensazioni elementari. La gran parte degli individui daltonici è in grado di far corrispondere qualsiasi colore scelto arbitrariamente al mescolamento di due colori primari sperimentali, mentre gli individui normali hanno bisogno di tre colori. Ciò suggeriva ‒ come notò Maxwell ‒ che i daltonici fossero individui cui mancava uno dei tre insiemi iniziali di recettori retinici postulati dalla teoria di Young (in particolare il recettore del rosso nella condizione comune di cecità per il rosso, detta anche 'protanopia'). In un'ingegnosa dimostrazione del 1855, Maxwell poté provare che la manipolazione matematica delle equazioni del colore, ottenute dalle caratteristiche evidenziate da questi individui, permetteva, effettivamente, di situare sul piano cromatico la sensazione elementare del rosso, che era assente nel caso del dicromatismo, ma presente nella visione normale.
4. Lo 'Handbuch der physiologischen Optik' e la controversia sulla teoria di Young
Il lavoro di Maxwell sulla visione cromatica convinse immediatamente Helmholtz, che accolse con entusiasmo sia le tecniche sperimentali della colorimetria sia la teoria di Young, nonostante in precedenza avesse preso in considerazione e respinto il modello dei tre recettori. Per sostenere ed elaborare la teoria di Young, Helmholtz poteva servirsi di ciò che mancava al fisico Maxwell: una profonda conoscenza della vasta letteratura continentale riguardante l'anatomia dell'occhio, la fisiologia e la psicologia della visione e le patologie della vista. Helmholtz fece della teoria di Young l'argomento ricorrente del secondo volume del monumentale Handbuch der physiologischen Optik (Manuale di ottica fisiologica, 1860), nel quale presentò in modo sistematico le tecniche sperimentali elaborate da Maxwell per mescolare i colori e per ricavare le equazioni del colore, e fece uso di un'abile retorica che, tacitamente, fondeva tra loro il 'mescolamento' delle sensazioni elementari di Young, che avveniva nel sensorio, e il mescolamento dei colori primari sperimentali, dimostrabile in modo operativo. Helmholtz applicò la teoria di Young per spiegare tutti i principali fenomeni di daltonismo, da lui interpretato, alla maniera di Maxwell, come una forma di riduzione della visione normale. Egli valutò la teoria di Young alla luce dell'anatomia microscopica dei bastoncelli e dei coni retinici e la utilizzò per spiegare i fenomeni delle immagini persistenti come il prodotto di un affaticamento della retina fra i tre ipotetici tipi di recettori. Nel discutere i contributi di Young, Helmholtz introdusse le curve di sensibilità spettrale, sovente riprodotte ma interamente ipotetiche. Si tratta di curve euristiche che illustrano la distinta intensità di risposta alla luce bianca composta dello spettro solare, per ciascuna delle tre sensazioni elementari di Young (le curve 1, 2 e 3 corrispondono, rispettivamente, al rosso, verde e violetto). La sensazione cromatica totale provocata dalla luce di una qualsiasi lunghezza d'onda è la somma delle tre risposte elementari; il fatto che le tre curve di risposta siano adiacenti garantisce che ogni lunghezza d'onda sia in grado di stimolare in certa misura tutti e tre i processi, e di produrre così, almeno in parte, la sensazione del bianco.
Helmholtz difese il modello della visione basato sui tre recettori con tale enfasi che in seguito esso sarà conosciuto come 'teoria di Young-Helmholtz', nonostante il contributo apportatovi da Maxwell. Lo Handbuch ebbe però un impatto ancor più profondo sullo studio della visione cromatica, grazie alle lunghe digressioni sui metodi di ricerca e di strumentazione che posero le fondamenta di tutti i successivi studi in questo campo di ricerca. Nell'arco di un decennio, nell'abituale prassi sperimentale i rotatori colorati e i dischi stroboscopici sarebbero stati sostituiti da elaborati colorimetri, strumenti studiati per ottenere e comporre tra loro luci spettrali di ogni lunghezza d'onda e intensità. Tuttavia, per quanto sofisticati, i colorimetri seguivano ancora la pratica inaugurata da Maxwell, consistente nel presentare al soggetto dell'esperimento due campi, uno dei quali poteva essere regolato mediante il mescolamento del tono di colore e della luminosità fino a eguagliare esattamente l'altro, in modo che si potesse ottenere un'equazione del colore. Lo Handbuch impose nel settore anche un'unificazione terminologica: dopo il 1860, in particolare, la maggior parte degli autori tedeschi seguì Helmholtz nel descrivere gli estremi dello spettro l'uno come rosso e l'altro come violetto, e nell'utilizzare il termine 'porpora' per indicare i mescolamenti non spettrali di questi due colori; inoltre, fatto ancora più importante, lo Handbuch stabiliva tacitamente un nucleo programmatico per la ricerca successiva, che sarebbe servito da guida per lo studio matematico della visione cromatica nel corso di gran parte del XX secolo. La ricerca successiva avrebbe determinato il luogo spettrale mediante misurazioni colorimetriche precise, identificato le sensazioni elementari e calcolato le loro curve di risposta alle frequenze e infine esteso l'interpretazione del daltonismo basata sulla teoria di Young anche ai rari fenomeni comunemente noti come cecità per il verde (o 'deuteranopia') e per il blu (o 'tritanopia'). Questo insieme di tecniche e di problemi pose le basi dello studio del colore come scienza quantitativa e matematica, il cui programma era fondato sulla sintesi operata da Helmholtz e sul legame che quest'ultima aveva con la teoria di Young.
Dopo il 1860 la teoria di Young e il vasto programma di ricerca in cui essa era inclusa trovarono ampio sostegno tra i fisici, i fisiologi, gli oftalmologi e alcuni psicologi sperimentali, ma incontrò forti resistenze in Germania. Le manifestazioni della cecità al colore si rivelavano complesse e assai variabili e molte situazioni non potevano essere spiegate per mezzo della teoria di Young. La maggior parte dei protanopi e dei deuteranopi, per esempio, asseriva di percepire toni di colore corrispondenti al giallo e al blu normali, ma non le combinazioni di blu e verde e di rosso e blu che la teoria di Young apparentemente postulava. Allo stesso modo, i critici di questa teoria insistevano sulla natura fenomenologicamente elementare del giallo; esso appariva come una sensazione semplice: non era una sensazione composta come il blu, il verde e il rosso, né era il risultato del mescolamento psicologico di verde e rosso asserito da Young.
In Germania l'opposizione al programma di Helmholtz si concentrò attorno al fisiologo Karl Ewald Hering (1834-1918), che nel 1874 propose una radicale alternativa alla teoria di Young: la 'teoria dei processi antagonisti'. Hering postulò l'esistenza di tre meccanismi sensibili alla luce, situati nella retina. Il primo dava luogo alle sensazioni del blu o del giallo, a seconda della particolare lunghezza d'onda che stimolava la terminazione nervosa; il secondo alle sensazioni del rosso o del verde; il terzo meccanismo, invece, era acromatico e dava luogo alle sensazioni del bianco o del nero, contribuendo da solo alla luminosità delle sensazioni stesse. Sebbene il processo acromatico fosse stimolato dalla luce di tutte le lunghezze d'onda nel produrre sensazioni bianche o luminose, esso poteva produrre sensazioni di nero o di scuro in stati di affaticamento, di oscillazione neurale o per influsso di aree adiacenti alla retina. Durante la sua lunga carriera Hering e la sua influente scuola svilupparono e difesero la teoria dei processi antagonisti, ritenendo che essa offrisse una spiegazione della visione cromatica più accurata e versatile di quella fornita da Young e più vicina alla nostra esperienza fenomenologica del colore. La disputa fra la scuola di Helmholtz e quella di Hering circa questo e altri problemi dell'ottica fisiologica crebbe fino a divenire una delle più note controversie scientifiche dei tempi moderni. Tale controversia si è affievolita soltanto negli anni Venti del Novecento e molti di questi argomenti sono tuttora oggetto di dibattito.
Tuttavia Hering si opponeva non tanto alla teoria di Young in sé, quanto al programma di ricerca di Helmholtz in cui essa era inserita. Egli aveva giustamente compreso che, con l'avvento della colorimetria e della teoria di Young, lo studio della visione cromatica era ormai passato sotto il controllo dei fisici e dei loro metodi. Hering, il quale propendeva per impostazioni di tipo maggiormente fenomenologico e psicologico, era dell'idea che la necessità metodologica, da parte dei fisici, di ottenere correlazioni semplici e descrivibili in modo elementare fra le proprietà degli stimoli fisici e la risposta sensoriale avessero condotto ad assunzioni ingenue che sviavano gli studi sulla visione. Egli, pertanto, sosteneva che la risposta sensoriale dell'organismo a uno stimolo fisico dipendesse in maniera decisiva dallo stato di adattamento dell'organismo stesso e che i processi vitali interni contribuissero a determinare l'esperienza sensoriale almeno quanto gli stimoli esterni.
Hering e la sua scuola non respinsero i fondamenti della colorimetria, poiché accettavano le proprietà baricentriche del mescolamento dei colori e convenivano sul fatto che tutte le sensazioni visive potessero essere caratterizzate da tre variabili nello spazio cromatico. La scuola di Hering utilizzò abitualmente sia le tecniche per realizzare gli accostamenti fra colori metameri (vale a dire quelli che, pur avendo composizioni spettrali differenti, producono la medesima sensazione) sia le equazioni del colore, interessandosi tuttavia assai poco alle tecniche per ricavare le curve di risposta o ad altre tecniche grafiche. Hering e i suoi allievi insistettero sul fatto che la scuola rivale di Helmholtz confondeva abitualmente la trivarianza fenomenologica della visione normale con l'esistenza delle tre sensazioni cromatiche elementari postulate dalla teoria di Young. Nel 1887, in un importante contributo alla teoria matematica della visione del colore, Hering sostenne che nello spazio cromatico (da lui definito 'spazio di mescolamento') non erano rappresentate né luci fisiche né sensazioni cromatiche; vi erano piuttosto riportate le 'valenze ottiche', ossia la capacità che ciascuna luce possiede intrinsecamente di produrre un particolare effetto sensoriale, a prescindere da qualsiasi considerazione riguardante l'adattamento o le differenze individuali, che avrebbero potuto alterare l'effetto sensoriale realmente prodotto da quello stimolo. Hering ammise che tre 'valenze ottiche primitive' sarebbero state sufficienti a spiegare tutte le relazioni presenti nello spazio cromatico, in condizioni di baricentricità, ma continuò a sostenere che ciò non implicava che le luci fossero realmente mescolanze semplici di tre valenze primitive. Egli analizzò le caratteristiche matematiche di una vasta gamma di possibili teorie sui colori (inclusa la propria e quella di Young), verificando come si conformassero tutte alle relazioni empiriche della colorimetria e che nessuna di esse, in mancanza di ulteriori considerazioni, poteva essere privilegiata rispetto alle altre.
Hering fu anche coinvolto in una serie di polemiche con Johannes Adolph von Kries (1853-1928), sostenitore delle teorie di Helmholtz. Kries espose numerose argomentazioni matematiche che pretendevano di dimostrare come la trivarianza della visione, combinata con la persistenza delle equazioni del colore a fronte di adattamenti a cui l'occhio era sottoposto, implicava che le sensazioni elementari non potessero essere più di tre, il numero postulato dalla teoria di Young. Hering riuscì a confutare queste dimostrazioni; nel 1889 Helmholtz riconobbe pubblicamente che la teoria di Hering poteva spiegare i fatti concernenti il mescolamento dei colori con efficacia uguale, sebbene non superiore, a quella della teoria di Young. Helmholtz convenne che elementari trasformazioni matematiche, ricavabili con facilità da considerazioni di tipo geometrico, permettevano di esprimere la risposta dei tre recettori del tipo ipotizzato da Young nella forma prevista dai tre processi di Hering. Molto tempo dopo, nel 1926, Erwin Schrödinger dimostrò formalmente che le due teorie si equivalevano, dal punto di vista matematico, per ciò che riguardava il mescolamento dei colori. Dopo il 1889, Kries e altri seguaci della scuola di Helmholtz cominciarono a sostenere la 'teoria policromatica', secondo la quale i recettori del tipo di Young-Helmholtz sarebbero attivi nella zona periferica della retina e alimenterebbero i recettori del processo antagonista descritto da Hering, i quali si troverebbero a un livello più elevato del sistema nervoso; i processi neurali riprodurrebbero esattamente le trasformazioni matematiche che Helmholtz postulava per mostrare l'equivalenza delle due teorie. Hering, tuttavia, rifiutò di considerare compromessi tra la teoria policromatica e quella fisicalista della visione, alla quale egli si opponeva in maniera molto energica.
5. La colorimetria dopo Helmholtz
Nel programma di Helmholtz, una delle priorità dell'ottica fisiologica consisteva nel determinare sperimentalmente il luogo spettrale e le curve di risposta spettrale per ciascuna delle tre sensazioni elementari di Young. Ciononostante, non furono compiuti grandi progressi immediati in tale direzione di ricerca, sia perché, dopo il 1870, lo stesso Helmholtz abbandonò l'ottica fisiologica per dedicarsi alla fisica sia perché le dispute con Hering spinsero i suoi allievi a occuparsi di altri argomenti ‒ in particolar modo del daltonismo ‒ che dovevano essere affrontati per difendere i fondamenti della teoria di Young.
La tradizione tedesca
Nel 1870 Helmholtz assegnò al suo allievo Johann Jacob Müller (1846-1875) il compito di determinare il luogo spettrale; questi ottenne una figura molto simile a quella che Helmholtz aveva misurato nel 1855, ma con una curvatura minore sui lati corrispondenti al violetto-verde e al verde-rosso del 'triangolo spettrale'. Il luogo spettrale di Müller differiva anche da quello che Maxwell aveva determinato in precedenza per mezzo di esperimenti con luci spettrali omogenee; il luogo spettrale di Maxwell, infatti, era assai più curvo in prossimità degli 'angoli' corrispondenti al rosso e al violetto. Il lavoro di Müller convinse Helmholtz che la dispersione della luce, nello strumento di Maxwell, avesse distorto il risultato ottenuto dallo scienziato inglese e rafforzò in lui la convinzione di aver operato una scelta corretta nell'assumere il violetto come una delle sensazioni elementari di Young, nonostante Maxwell avesse preferito il blu. Müller morì precocemente nel 1875, lasciando incompiuta la promettente indagine che aveva iniziato.
Negli anni Ottanta del XIX sec. il programma di ricerca colorimetrica elaborato all'Università di Berlino venne nuovamente ripreso da Arthur König (1856-1901), un protetto di Helmholtz, dal 1889 direttore della divisione di fisica dell'Istituto di fisiologia di quella università. König era un fisico e uno sperimentatore e, dalla metà degli anni Ottanta fino alla sua morte prematura, guidò un'attiva scuola di ricerca che ottenne precise determinazioni colorimetriche della risposta ottica a complesse variazioni degli stimoli fisici, negli occhi di individui normali e daltonici. Lavorando insieme al suo assistente Conrad Heinrich Dieterici e impiegando un colorimetro sviluppato secondo il progetto originale dello stesso Helmholtz, König rivoluzionò i parametri della colorimetria esatta in Europa.
Nella più famosa serie di esperimenti condotta da König, egli chiese a quattro individui affetti da dicromatismo, due protanopi e due deuteranopi, di confrontare il tono di colore di ciascuna luce omogenea dello spettro con un mescolamento di due colori primari sperimentali, un rosso e un violetto situati agli estremi dello spettro stesso. Nel ricavare le equazioni del colore, König in realtà non mescolò affatto i colori primari, ma chiese invece ai protagonisti del suo esperimento di ricavare le equazioni di ciascuna luce omogenea di riferimento e delle combinazioni di due luci omogenee simili, delle quali l'una aveva lunghezza d'onda poco maggiore e l'altra leggermente minore. Con questa procedura König ottenne una sequenza di equazioni del colore simultanee, che egli risolse in modo da esprimere ciascuna luce di riferimento della sequenza nei termini dei due colori primari sperimentali situati all'estremità dello spettro. Mediante questo processo egli ricavò due curve di risposta spettrale per ogni classe di dicromatismo per i colori primari sperimentali violetto e rosso; quindi misurò le curve di risposta spettrale in due soggetti normali, ossia dotati di tricromatismo (sé stesso e Dieterici), usando gli stessi colori primari sperimentali. Poiché, per poter fare il confronto con la maggior parte dei colori spettrali, i soggetti tricromatici hanno bisogno di tre colori primari invece che di due, König adottò come terzo colore un verde dotato di una saturazione maggiore rispetto a quella spettrale. L'impiego di questo verde primario immaginario, non esistente nello spettro, presentava un vantaggio: permetteva di fare a meno dei coefficienti cromatici negativi e di inserire così l'intero luogo spettrale all'interno del triangolo sul piano cromatico formato dai tre colori primari sperimentali. Lo svantaggio dell'utilizzazione di un tale colore primario è evidente: non è possibile produrre direttamente alcun colore esterno allo spettro in un colorimetro e mescolarlo all'interno dei campi di riferimento dei soggetti. Per ovviare a questo problema, König ricorse a un laborioso sistema di approssimazione, nel quale le curve di risposta erano estese progressivamente a piccoli passi e il contributo della sensazione verde (immaginaria) era calcolato teoricamente per ciascuno di questi passi.
Successivamente König e Dieterici valutarono le implicazioni teoriche delle misurazioni che avevano effettuato: se la teoria di Young e la legge newtoniana della composizione dei colori erano entrambe corrette, allora ciascuno dei tre colori primari sperimentali, per tutte le lunghezze d'onda visibili, doveva essere una funzione omogenea e lineare di tre 'sensazioni elementari' ignote, che corrispondevano ai colori primari fisiologici di Young. Per ricavare le sensazioni elementari dai colori primari sperimentali era necessario determinare i nove coefficienti di trasformazione che compaiono in queste tre equazioni lineari simultanee. Tre delle nove condizioni necessarie per determinarli erano fissate dal fatto che i coefficienti di ciascuna equazione danno come somma l'unità. König osservò che in linea di principio sarebbe stato possibile ottenere le altre condizioni studiando i soggetti dicromatici. Se le varietà del dicromatismo erano forme di riduzione della visione normale, allora, nei termini delle sensazioni elementari di Young, gli stessi coefficienti di trasformazione che si applicavano ai tricromatici avrebbero espresso le curve di risposta spettrale dei dicromatici. Ciò specificava alcune relazioni lineari fra le variabili in numero sufficiente da permettere di risolvere le equazioni per i coefficienti di trasformazione, di ricavare da esse le curve di risposta delle sensazioni elementari per i colori primari sperimentali e di collocare nello spazio cromatico i colori primari di Young in relazione al luogo spettrale. Le curve calcolate da König e la sua rappresentazione del piano cromatico sono illustrati nelle figg. 4 e 5. Gli equivalenti spettrali che più si avvicinano ai colori primari ricavati da König sono un verde bluastro di circa 505 nm, un rosso porpora non appartenente allo spettro e (ferma restando un'incertezza considerevole, motivata dall'eventualità di errori sperimentali e dalla possibilità di assorbimento delle macchie) un blu di circa 470 nm.
König considerava il suo lavoro una conferma trionfale della teoria di Young-Helmholtz e i risultati che esso aveva fornito avrebbero costituito la fonte di gran parte della colorimetria del XX secolo. Per ironia della sorte, le sue ricerche fuori dalla Germania ebbero una risonanza assai più vasta che all'interno: Kries, suo connazionale, rifiutò esplicitamente di includere il lavoro di König nella terza edizione, postuma, dello Handbuch di Helmholtz e sembra che lo stesso Helmholtz ne mettesse in discussione i risultati fondamentali.
Nei primi anni Novanta dell'Ottocento Helmholtz, dopo essere rimasto per due decenni ai margini del fronte più avanzato della ricerca sull'ottica fisiologica, tornò a dedicarsi all'argomento con una serie di analisi di carattere fondamentalmente matematico che inauguravano la teoria destinata a essere conosciuta nel XX sec. come 'teoria degli elementi di linea'. Negli stessi anni Helmholtz riprese i tentativi, che aveva già avviato in passato, di generalizzare la legge psicofisica di Fechner, dE=A(dH/H), con A costante, in modo da estenderne la validità a valori alti e bassi dell'intensità fisica H. In una serie di articoli del 1891 egli applicò audacemente la formula generalizzata di Fechner anche al tono di colore, oltre che alla luminosità. Helmholtz indicò l'elemento differenziale dE della sensazione come somma di tre sensazioni elementari, dE1,dE2,dE3, relative ai toni di colore primari (corrispondenti ai tre colori primari fisiologici della teoria di Young) ed espresse ciascuna En attraverso la formula di Fechner da lui generalizzata come una funzione della sola Hn. Ciò faceva di En un elemento di linea in uno spazio cromatico tridimensionale, dotato di una metrica riemanniana data da: dE2=dE21+dE22+dE23. Grazie alla formula degli elementi di linea, Helmholtz poté quindi prevedere le variazioni della sensibilità dell'occhio dovute ai piccoli mutamenti di tono di colore lungo lo spettro visibile. Il fatto che i dati ottenuti da König si accordassero ottimamente con queste previsioni fu considerato una importante conferma dell'ipotesi di Young. Successivamente, nel XX sec., altri fisico-matematici avrebbero sviluppato la teoria degli elementi di linea ed essa costituisce ora quella che fra gli esperti del settore è a volte denominata 'colorimetria maggiore'.
Intorno al 1890 la teoria di Young, e in generale la pratica della colorimetria, andarono incontro a una crisi inaspettata, anche se temporanea. Nel 1889 lo psicologo Franz Hillebrand, allievo di Hering, mostrò che la curva di luminosità spettrale dei soggetti affetti da monocromatismo era identica a quella dei soggetti normali, nel caso di uno spettro scuro e di un occhio adattato al buio: questa relazione era stata prevista dalla teoria di Hering, ma non da quella di Young. Tale risultato portò allo sviluppo di ricerche ulteriori, in gran parte effettuate da allievi di König a Berlino, sulle equazioni del colore e sui confronti di luminosità ottenuti in condizioni di luce bassa; i risultati dimostrarono che né le une né gli altri persistono a tutti i livelli di intensità della luce, quando l'occhio è sottoposto a un processo di adattamento al buio. Tuttavia, le leggi di Grassmann presupponevano tale persistenza, che era alla base anche della validità della ricerca colorimetrica pratica. Hering utilizzò le nuove scoperte per mettere in dubbio gran parte dei risultati ottenuti mediante la colorimetria, in particolare dagli studiosi della scuola di Helmholtz. La crisi non si risolse prima del 1894, quando Kries propose la cosiddetta 'teoria della duplicità della visione'. Essa distingueva i contributi cromatici e acromatici dei bastoncelli e dei coni presenti sulle cellule della retina e poteva essere usata per definire i livelli di luminosità e gli stati di adattamento per i quali la colorimetria tradizionale mantiene intatta la sua validità.
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