L'Ottocento: fisica. Tecnologie dell'elettricita
Tecnologie dell'elettricità
Nel corso del XIX sec. si affermarono quattro grandi settori dell'industria elettrica: la telegrafia, la telefonia, la radiotelegrafia e la distribuzione di energia elettrica. Esse comparvero subito dopo la rivoluzione industriale, in una società occidentale fornita, fin da allora, di alcune tra le più sofisticate tecnologie esistenti. Il tratto caratteristico della tecnologia elettrica ottocentesca, che la differenzia da quelle precedenti, consiste nel fatto che essa è stata sviluppata all'interno di laboratori scientifici. Infatti tutte le sue manifestazioni dipendevano in modo critico dagli effetti e dai principî scoperti in precedenza nell'ambito della ricerca scientifica, con lo scopo principale di comprendere i processi naturali fondamentali; la trasformazione di tali principî in manufatti utili ha dunque coinvolto le principali figure della scienza del tempo.
In un certo senso la storia dell'elettrotecnica del XIX sec. potrebbe essere raccontata come il processo del trasferimento dall'ambiente delicato e accuratamente controllato dei laboratori a quello molto più duro e impegnativo del mercato. Eppure, nonostante tali radici scientifiche, gli esperti di elettricità cominciarono presto a considerarsi più artigiani che non fisici applicati. Se da un lato erano convinti che seguire con molta attenzione i progressi della conoscenza scientifica pura avrebbe offerto notevoli benefici al loro settore di competenza, dall'altro consideravano questo campo come una specializzazione essenzialmente autonoma, dotata di proprie istituzioni professionali e formative. La storia della tecnologia elettrica nel XIX sec. è perciò caratterizzata allo stesso tempo sia dall'evoluzione delle idee e della prassi sia dalla formazione di una comunità di specialisti.
Al di là della considerazione, ampiamente condivisa, che nelle ricostruzioni storiche non ha senso separare le idee e la prassi dagli individui e dalle comunità che le svilupparono, non c'è molto accordo tra gli storici sul modo appropriato di studiare l'evoluzione della tecnologia nell'Ottocento, e della tecnologia dell'elettricità in particolare. È dunque impensabile stendere un resoconto completo e al tempo stesso breve sull'argomento. La prospettiva sulla quale si basa la nostra ricostruzione è che una comunità di specialisti si definisce in base ai concetti, alla prassi e ai problemi che rientrano nel proprio ambito di competenza e la cui comprensione è necessaria per identificare le caratteristiche distintive delle istituzioni di tale comunità, sia professionali sia formative. In considerazione di questo, non offriremo una rassegna sistematica della storia sociale, culturale e istituzionale dell'ingegneria elettrotecnica e non tenteremo neanche un resoconto esaustivo dell'evoluzione dei manufatti e dei dispositivi relativi alla telegrafia, alla telefonia, alla radio e all'energia elettrica. Discuteremo invece alcuni aspetti delle conoscenze e delle prassi che caratterizzarono l'ingegneria elettrotecnica del XIX sec., che sembrano rappresentativi dei suoi principali sviluppi.
Dalla telegrafia elettrostatica a quella elettromagnetica
La prima descrizione nota della telegrafia elettrica apparve il 1° febbraio 1753 nello "Scots magazine" di Edimburgo, con il titolo An expeditious method of conveying intelligence. L'autore, le cui iniziali erano C.M., non fu mai identificato con certezza, sebbene Sir David Brewster affermasse che si trattava di Charles Marshall di Paisley.
L'idea di base consisteva nel connettere le stazioni mediante un fascio di fili isolati ‒ uno per ciascuna lettera dell'alfabeto ‒ i quali dovevano essere collegati in successione a una bottiglia di Leida o a una macchina elettrostatica. Le cariche elettriche si sarebbero dunque dovute "manifestare separatamente mediante l'allontanamento delle sfere di un elettroscopio, o un colpo su una campana per attrazione con una sfera carica" (Harlow 1936, p. 39). Sulla base di questo principio, Georges-Louis Le Sage, di Ginevra, nel 1774 costruì un telegrafo, del quale furono in seguito proposte molte varianti, la maggior parte delle quali richiedeva cavi a molti fili, come nei dispositivi descritti dall'autore che si era firmato C.M. e da Le Sage. Nel 1816 però Francis Ronald, di Hammersmith, in Inghilterra, propose un altro tipo di telegrafo elettrostatico, nel quale le stazioni in comunicazione erano connesse mediante un solo filo e ciascuna era dotata di un meccanismo a orologeria presincronizzato che faceva ruotare un disco sul quale erano stampate le lettere dell'alfabeto e le cifre da 0 a 9. Davanti al disco era disposta una piastra con una piccola finestra, attraverso la quale ognuno dei caratteri era visibile a turno per un secondo. Per inviare un determinato carattere, l'operatore doveva attendere la sua comparsa nella finestra e durante il breve periodo di visibilità collegare il filo alla bottiglia di Leida. L'elettroscopio dell'altra stazione avrebbe indicato immediatamente il contatto e a motivo della sincronizzazione dei meccanismi il ricevente avrebbe visto lo stesso carattere attraverso la sua finestra. Il buon funzionamento del sistema richiedeva che fosse ripetuto periodicamente un protocollo di sincronizzazione, il che si poteva fare facilmente con il filo che portava i segnali, quindi il sistema si dimostrò valido e pratico. Il principio alla base della telegrafia sincronizzata rimase in uso per tutto l'Ottocento.
Nonostante i lavori di Ronald, e come quelli molti altri, anticipassero le più famose invenzioni telegrafiche della fine del XIX sec., la telegrafia elettrostatica non diventò mai qualcosa di più di un oggetto di curiosità intellettuale e, dalla fine del secolo, nella maggior parte dell'Europa, sarebbe stata attiva un'efficace rete di telegrafia ottica, realizzata per mezzo di apparecchi di segnalazione a braccia, costituiti da due aste mobili e orientabili montate su un albero verticale, la cui diversa posizione indicava le varie lettere dell'alfabeto. Tali apparecchi erano infatti meccanicamente più resistenti e affidabili della delicata strumentazione utilizzata nella telegrafia elettrostatica, e non richiedevano la posa in opera e la manutenzione di costosi conduttori tra loro isolati. Un grande vantaggio della telegrafia elettrica, cioè il suo ampio raggio d'azione, la differenziava notevolmente dalla telegrafia elettrostatica, che normalmente si limitava a una distanza tra le stazioni di poche centinaia di metri e soltanto raramente raggiungeva alcuni chilometri. Tali distanze erano paragonabili a quelle raggiunte mediante i telegrafi a braccia mobili, più economici e più affidabili.
La caratteristica principale della telegrafia elettrostatica non consisteva dunque nell'essere un'anticipazione di quella elettrica; per poterla realizzare era stata necessaria una fondamentale scoperta scientifica: la suddivisione delle sostanze naturali, dal punto di vista elettrico, nelle due categorie di conduttori e isolanti. In effetti, sembra difficile concepire qualsiasi forma di telegrafia elettrica in mancanza di una tale distinzione che, di per sé, non fu però sufficiente a vincere la concorrenza del telegrafo a braccia mobili. Infatti, per giungere a questo risultato fu necessario attendere l'avvento di altre due scoperte scientifiche fondamentali, che inaugurarono l'epoca della concreta utilizzabilità della telegrafia elettrica.
La prima riguardava la possibilità di produrre e immagazzinare chimicamente l'elettricità, nonché la constatazione che il passaggio di elettricità in un materiale poteva causare reazioni chimiche. Questa scoperta condusse allo sviluppo di vari tipi di batterie, capaci di produrre intense correnti elettriche e di sostenerle per lunghi periodi di tempo. Portò anche a un nuovo tipo di rivelatore elettrico, che registrava il passaggio di una corrente elettrica attraverso una reazione chimica. Si svilupparono diversi tipi di rivelatori elettrochimici per la telegrafia; di particolare rilevanza fu il ricevitore chimico, inventato nel 1846 da Alexander Bain di Edimburgo. Nel telegrafo di Bain una striscia di carta trattata chimicamente si muoveva tra i due elettrodi dell'apparecchio, in modo da mantenere il contatto con entrambi; quando la corrente passava tra gli elettrodi, attraverso la carta, la soluzione chimica cambiava colore e l'elettrodo lasciava un'impronta scura sulla carta. Questo tipo di registrazione fu largamente utilizzato per tutto il XIX sec., sia per registrare i punti e le linee del codice Morse sia per i telegrafi in grado di stampare, nei quali la corrente passava attraverso elettrodi sotto forma di caratteri dell'alfabeto, in modo da lasciare una traccia stampata del messaggio originale.
La seconda scoperta si riferiva al fatto che le correnti elettriche si accompagnano a effetti magnetici e che si poteva produrre una corrente elettrica sottoponendo un conduttore a forze magnetiche variabili. Nel 1836 Charles Wheatstone dimostrò come si potessero utilizzare cinque aghi per trasmettere informazioni, sfruttando gli effetti magnetici della corrente elettrica. In questo sistema si usavano impulsi elettrici positivi e negativi per cambiare l'orientazione di uno o di due dei cinque aghi, in modo da indicare il carattere trasmesso. Mediante coppie di aghi si potevano indicare venti caratteri diversi (fig. 2); inoltre, ogni ago possedeva due posizioni indipendenti, consentendo la trasmissione di trenta caratteri diversi. Il cavo era formato da sei fili, uno per ciascun ago, e un sesto filo per la messa a terra. Con il tempo si vide che per le linee al suolo si poteva fare a meno del filo di terra, sostituendolo con connessioni a terra nelle due stazioni. Nel 1837 Wheatstone si mise in società con William F. Cooke e insieme svilupparono una pratica versione elettromagnetica del telegrafo elettrostatico di Ronald.
Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, Joseph Henry presentava le sue scoperte sull'elettromagnetismo. Tra i vari esperimenti sulla relazione fondamentale tra elettricità e magnetismo, egli dimostrò come fosse possibile usare una debole corrente per attivarne una intensa, grazie alla mediazione di quello che in seguito sarebbe stato chiamato relè. Infatti nel relè una piccola corrente, passando attraverso l'avvolgimento di un elettromagnete, faceva in modo che un'armatura metallica chiudesse un circuito al quale era connessa una potente batteria. Il relè aprì nuove opportunità per il telegrafo; prima della sua scoperta, gli strumenti riceventi erano attivati direttamente dai segnali in arrivo, la cui debolezza però poneva seri vincoli alla progettazione di ricevitori di uso pratico. Il relè eliminò tali restrizioni, facendo in modo che segnali anche molto deboli potessero indirettamente attivare meccanismi che avevano bisogno di correnti intense. Henry sembrò tuttavia non essersi reso conto delle ripercussioni che il suo dispositivo avrebbe potuto avere per il telegrafo; Samuel F.B. Morse, invece, nel 1838 fece richiesta di un brevetto storico, che descriveva la sua visione completa di un sistema telegrafico funzionale per il quale era necessario un cavo con due fili soltanto. Il nome di Morse è probabilmente quello associato più di frequente alle comunicazioni telegrafiche; eppure, il progetto per il brevetto del 1838 non includeva né il famoso tasto di Morse, né la sua altrettanto nota punta scrivente. La successiva trasformazione del progetto originale di Morse, che vide il sostanziale contributo del suo assistente tecnico Alfred L. Vail, rivela un aspetto importante della progettazione ingegneristica, che soltanto di recente è divenuta oggetto di una seria indagine storica.
Ancora nel XX sec., le comunicazioni telegrafiche seguitarono a fare ricorso agli operatori telegrafici, che erano in grado di adoperare un tasto Morse a velocità sorprendente. Nel XIX sec., invece, essi rappresentavano solamente una parte della pratica telegrafica, poiché l'idea originale di comunicazione telegrafica di Morse non comprendeva il tasto telegrafico, né operatori in grado di decifrare istantaneamente i messaggi al suono della punta scrivente. Nella sua richiesta di brevetto egli aveva descritto un metodo meccanico per trasmettere messaggi che utilizzava un dispositivo chiamato port rule, nel quale il telegrafista doveva collocare i blocchi dentellati che rappresentavano le singole lettere, svolgendo così la funzione di compositore di caratteri. Quindi, invece di applicare una pressa per la stampa, l'operatore arrotolava il port rule sotto un braccio a molla o con un peso, in modo da creare un movimento oscillatorio che chiudeva e apriva un circuito, generando in tal modo sul dispositivo una rappresentazione elettrica a punti e linee del messaggio. Il progetto di Morse del 1838 era dunque stato ispirato da un'immagine del telegrafista come compositore, mentre quella popolare del telegrafista dal dito veloce si deve alle successive modificazioni del progetto, apparentemente banali, effettuate da Vail, il quale separò il port rule dal braccio di contatto e creò il familiare tasto a molla che divenne uno degli elementi principali del telegrafo di Morse. Inoltre, rispetto al progetto originale, Vail semplificò anche la funzione del ricevitore, sviluppando la punta scrivente che si accompagnava al tasto di Morse. Acquisendo dimestichezza con tali dispositivi, egli trovò in seguito più facile decifrare i messaggi in arrivo semplicemente ascoltando il suono della punta scrivente, introducendo così un'ulteriore modifica all'idea originale che Morse aveva avuto della comunicazione telegrafica.
È degno di nota il fatto che Morse all'inizio si oppose alla pratica di inviare i messaggi manualmente e di decifrarli mediante il suono, anche se gradualmente finì per accettarla. Non si deve però trarre la conclusione che il 'vero' inventore del telegrafo di Morse sia stato Vail, il quale era il primo a considerare i propri contributi alla telegrafia come una rifinitura dell'idea fondamentale di Morse, ritenendo di non dover chiedere il riconoscimento di un proprio brevetto. Deve essere però chiaro che con le sue modifiche Vail evidenziò una diversa nozione di telegrafia, destinata ad avere successo. In questo senso, il suo apporto fornisce un buon esempio dell'importanza di innovazioni di tipo implementare nel processo di trasformazione di un'idea in un prodotto utile e dimostra inoltre come sia errato tracciare una netta distinzione tra la componente innovativa di un'invenzione e quella realizzativa.
Sebbene lo stile telegrafico alla Vail sia quello maggiormente conosciuto, esso non soppiantò la telegrafia automatica concepita da Morse. Quando erano in gioco grandi quantità di informazioni, che richiedevano velocità di trasmissione elevate, anche un telegrafista provetto finiva per sprecare troppo tempo per la trasmissione. In casi analoghi poteva risultare vantaggioso preparare il messaggio in anticipo e inviarlo in modo meccanico a una velocità irraggiungibile per un operatore umano. Entrambi i metodi avevano vantaggi e svantaggi, e la decisione di utilizzare l'uno o l'altro sembrava a volte riflettere preferenze non sempre riconducibili a criteri oggettivi di economicità o di affidabilità.
L'avvento della telefonia
Nel 1879 George B. Shaw, che iniziava allora la sua attività letteraria, trovò lavoro a Londra presso la società dei telefoni Edison. Nel 1905 avrebbe poi ricordato che questa esperienza gli aveva dato una "fugace visione del capace proletariato degli Stati Uniti", che forniva la maggior parte della mano d'opera a questo ramo londinese dell'avventura di Edison nel mercato telefonico. Considerando tale gruppo di artigiani, turbolenti e gran lavoratori, Shaw scrisse: "Essendo interessato alla fisica, e avendo letto Tyndall e Helmholtz, […] ero, credo, l'unico in grado di comprendere la spiegazione scientifica della telefonia in tutta l'azienda" (Shaw 1965, p. 682).
Secondo i ricordi di Shaw, quindi, anche per gli abili tecnici americani inviati dalla società Edison a installare i suoi telefoni, questi dispositivi rappresentavano un enigma scientifico, che ai non iniziati doveva apparire come un autentico miracolo della scienza moderna.
Sempre nel 1879, James C. Maxwell dedicò al telefono la nota Rede Lecture, l'ultima da lui pronunciata, nella quale affermava "Posso soltanto dire che finora non ho mai incontrato nessuno, abbastanza familiare con i rudimenti dell'elettricità, che abbia avuto la minima difficoltà nella comprensione dei processi fisici coinvolti nel funzionamento del telefono. Posso arrivare a dire che non ho mai visto un articolo pubblicato sull'argomento, anche sulle pagine di un giornale, che mostrasse un grado di fraintendimento sufficiente affinché valesse la pena di conservarlo" (Maxwell 1890, p. 742).
In qualche misura la singolare differenza tra le impressioni di Maxwell e quelle di Shaw sulla recezione del funzionamento del telefono può essere spiegata se si pensa che essi non parlavano in effetti dello stesso dispositivo. Maxwell si riferiva al telefono di Bell, il cui funzionamento di base si poteva effettivamente spiegare con grande semplicità. In esso, infatti, la voce trasmettente faceva vibrare una membrana metallica prossima a un magnete avvolto da una bobina, inducendo in essa una corrente variabile (secondo quanto scoperto e studiato da Ampère, Faraday, Henry e i loro seguaci nei cinquant'anni precedenti). Quando questa corrente variabile scorreva in un'uguale bobina all'altro capo del filo, faceva sì che una membrana simile alla prima riproducesse le vibrazioni, che erano poi trasmesse all'aria circostante e quindi all'orecchio della persona ricevente. Eppure, nonostante la semplicità quasi imbarazzante del suo funzionamento di base, il telefono era una novità sorprendente, se non una vera e propria rivoluzione. Agli occhi di Maxwell, una tale novità non si fondava sulla scoperta di nuovi principî scientifici, quanto sull'aver posto in correlazione due settori di conoscenza specializzati e indipendenti, quali l'elettricità e la fonetica. In un'epoca di grande specializzazione, osservava Maxwell, una formazione professionale multidisciplinare avrebbe potuto avere vantaggi: "Poiché qualsiasi cosa si possa dire sull'importanza di mirare alla profondità, piuttosto che all'ampiezza, nei nostri studi, e comunque sia forte la richiesta odierna di specialisti, ci sarà sempre lavoro non solo per coloro che edificano scienze specialistiche e scrivono su di esse monografie, ma anche per quelli che aprono porte di comunicazione tra i diversi gruppi di costruttori, facilitando una sana interazione tra loro" (ibidem, p. 743).
Tuttavia, come notò Maxwell nella sua conferenza, il telefono di Bell era una voce sommessa che sussurrava il messaggio all'orecchio di un solo ascoltatore. Diventando più maturo, scherzava Maxwell, anche la sua voce si sarebbe fatta più forte e avrebbe potuto condividere informazioni con più persone alla volta. Venticinque anni dopo, secondo le impressioni di Shaw, l'altoparlante di Edison raggiungeva questo scopo anche troppo bene, essendo "un'ingegnosa invenzione di Mr Thomas A. Edison: un'invenzione che si è dimostrata anche troppo ingegnosa, trattandosi niente di meno che di un telefono di tale stentorea efficienza da urlare le vostre più private conversazioni per tutta la casa invece di sussurrarle con un po' di discrezione" (Shaw 1965, p. 682). Il modo in cui Edison ottenne questo notevole effetto dimostra, anche meglio del telefono di Bell, come si possa utilizzare la familiarità con diversi aspetti di differenti dispositivi per trasformare un effetto collaterale, apparentemente inutile, nel principio di funzionamento di uno strumento nuovo. Nel 1870, quando Edison rivolse la sua attenzione alla telefonia, ricevitori chimici come quello sviluppato da Bain venivano usati in telegrafia ormai da tre decenni. Molti telegrafisti utilizzavano questi dispositivi regolarmente e avevano certamente notato che, quando la carta trattata chimicamente scivolava sotto l'elettrodo del ricevitore l'attrito tra l'elettrodo e la carta variava con la corrente. L'effetto era debole, non interferiva con il corretto funzionamento del ricevitore, e probabilmente sembrava agli osservatori niente più di una semplice curiosità. A Edison però questo fatto fece intuire come aggirare il brevetto di Bell per quanto riguardava l'apparato ricevente di un telefono:
Nella parte ricevente dello strumento […] il timpano è dotato di un braccio che si estende fino a una superficie, o un cilindro, in lento movimento, e la corrente elettrica, fluendo attraverso il punto di contatto, aumenta o diminuisce l'attrito, e produce una vibrazione del braccio e del timpano, proporzionale alla differenza di attrito del braccio sulla superficie in movimento, al passaggio e alla interruzione della corrente attraverso la carta trattata chimicamente, preferibilmente impregnata con un sale di mercurio e una sostanza alcalina. Questa caratteristica è suscettibile di grandi sviluppi nella telegrafia; la chiarezza e la portata del suono prodotto dal timpano ricevente supera qualsiasi cosa si sia riusciti a ottenere finora nei telegrafi acustici. (Edison 1989-94, III, p. 447)
Il tamburo rotante si poteva muovere mediante un meccanismo a orologeria, o manualmente da parte del ricevente. Quest'ultima modalità di funzionamento consentiva un controllo del volume del suono: quanto più velocemente si ruotava il tamburo, tanto maggiore era il volume di riproduzione del suono. Dal lato del trasmettitore, abbiamo visto che Bell sfruttava la capacità di generare una corrente variabile per mezzo di variazioni della permeabilità di un elettromagnete. Edison sostituì il dispositivo di Bell con un microfono da lui progettato, in cui la membrana vibrante applicava una pressione variabile su un contatto elettrico libero, variando in questo modo la sua resistenza e di conseguenza la corrente che fluiva in esso.
Il tempo diede ragione a Edison e il suo microfono a carbone sostituì il microfono elettromagnetico di Bell nelle applicazioni telefoniche. L'ingegnoso 'elettromotofono', d'altra parte, non andò altrettanto bene e l'altoparlante elettromagnetico di Bell dominò il settore.
Malgrado il suo fallimento finale, l'elettromotofono può fornire un buon esempio di come, nell'industria telegrafica e telefonica del XIX sec., le invenzioni non avessero luogo in base all'applicazione di una teoria avanzata, ma grazie sia alla concreta padronanza sia al controllo degli strumenti e dei vari effetti a essi associati. Anche il 'galvanometro a sifone' di William Thomson (lord Kelvin), una delle più notevoli invenzioni nel campo della telegrafia, ha seguito un percorso analogo.
Kelvin progettò questo dispositivo per andare incontro alla necessità di trasmissioni telegrafiche a lunga distanza, attraverso il cavo transatlantico. Dopo aver percorso diverse migliaia di miglia, i segnali ricevuti attraverso questa linea erano estremamente deboli e non erano in grado né di attivare i relè tipici dei ricevitori Morse, né di lasciare una traccia sulla carta trattata chimicamente dei registratori del tipo ideato da Bain. Anche il loro effetto su aghi magnetici sospesi, come quelli usati nel ricevitore di Wheatstone a cinque aghi, era troppo debole per essere rilevato con certezza. La soluzione inizialmente proposta da Kelvin per questo problema era il 'galvanometro a specchio', che consisteva in un qualche tipo di ago magnetico sul quale era montato un piccolo specchio, a sua volta appeso a un filo sottile attaccato al rotore leggero e quasi senza attrito di un elettromagnete. Un raggio luminoso da una sorgente vicina era riflesso dallo specchio su uno schermo a diversi metri di distanza; qualsiasi minima rotazione del rotore veniva comunicata allo specchio attraverso il filo e dava origine a un grande spostamento del punto luminoso sullo schermo. In questo modo si produceva una misura lineare amplificata delle piccole deviazioni angolari del rotore e dello specchio a esso collegato. Il galvanometro a specchio era abbastanza sensibile da fornire indicazioni chiare sulle informazioni ricevute attraverso il cavo sottomarino; aveva però il difetto di non lasciare traccia registrata del messaggio trasmesso.
In quel periodo erano disponibili diversi strumenti di scrittura elettromeccanici ed elettrochimici per la telegrafia. In tutti, senza eccezione, le correnti minime necessarie per vincere la resistenza dovuta all'attrito erano considerevolmente più grandi di quelle che caratterizzavano i segnali ricevuti attraverso il cavo transatlantico. Kelvin aveva quindi bisogno di inventare una penna che praticamente non producesse attrito. Per ottenere ciò, appese un sottile tubicino capillare a un filo legato al rotore di un elettromagnete, proprio come nel caso del galvanometro a specchio. Un'estremità del tubicino era immersa in un piccolo calamaio infisso, mentre l'altra estremità pendeva molto vicino alla striscia mobile di carta sulla quale si dovevano registrare i messaggi in arrivo. L'azione capillare assicurava che il tubicino fosse sempre riempito di inchiostro, ma questo doveva comunque attraversare la piccola separazione tra l'estremità scrivente del tubicino e la carta. A tal scopo Kelvin connesse un polo di una piccola macchina elettrostatica al calamaio, elettrificando quindi l'inchiostro, e l'altro polo al rullo metallico che muoveva la striscia di carta davanti l'estremità scrivente del capillare. La forza elettrostatica tra l'inchiostro sulla punta del capillare e il rullo di carica opposta era sufficiente ad attirare un sottile getto di inchiostro sulla carta, creando di fatto un antesignano delle moderne stampanti a getto d'inchiostro. I messaggi in arrivo facevano muovere il capillare avanti e indietro, lasciando sulla striscia di carta in movimento una traccia di tipo ondulatorio degli impulsi di corrente ricevuti lungo il cavo.
Come osservò Maxwell, il galvanometro a sifone era un sofisticato strumento di precisione che, però, proprio come i telefoni di Bell e di Edison, non comportava alcun principio o risultato nuovo. Infatti già verso la metà del XIX sec., l'effetto di capillarità, così come l'attrazione elettrostatica e gli effetti magnetici delle correnti elettriche non rappresentavano più una novità; tuttavia il galvanometro a sifone ebbe il merito di realizzare un'efficace sintesi di diversi effetti noti, in modo da creare un rivelatore di sensibilità senza precedenti.
La telegrafia duplex, quadruplex e multiplex
Come già detto, nella tecnologia delle telecomunicazioni del XIX sec., la principale fonte di innovazione e di ispirazione per la progettazione ingegneristica fu l'utilizzazione di risultati di laboratorio. Nella seconda metà del secolo, però, cominciò a diffondersi un'altra metodologia di innovazione, basata sulla consapevole applicazione di teorie matematiche al progetto circuitale, che manifestò le sue caratteristiche più elementari nella progettazione della telegrafia duplex e quadruplex, divenendo più sofisticata con l'invenzione e il progetto di linee di trasmissione prive di distorsione.
All'inizio degli anni Settanta del XIX sec. era ormai chiaro che anche la veloce telegrafia automatica non avrebbe potuto gestire la domanda sempre più crescente che gravava sulle reti telegrafiche. Un modo per rispondere alle richieste di gestione dell'aumento del volume di informazioni da trasmettere consisteva nel costruire linee telegrafiche multiple tra le stazioni con molto traffico. Le linee telegrafiche, però, erano di gran lunga la componente più costosa dei sistemi di telegrafia, quindi si premeva affinché si trovassero altre misure per incrementare la capacità di trasporto delle informazioni del sistema. A partire dal 1872, da un brevetto rilasciato all'inventore americano Joseph B. Stearns, si sviluppò una varietà di metodi per permettere a più messaggi di essere trasmessi simultaneamente sulla stessa linea; queste tecniche sono oggi indicate con il termine comune di multiplex.
Se da un lato le richieste di brevetti sul duplex risalivano all'inizio degli anni Cinquanta, dall'altro le applicazioni pratiche si rivelarono difficili, poiché richiedevano un equilibrio accurato delle componenti elettriche dell'intero sistema, in modo da rendere il ricevitore collocato in ogni stazione insensibile ai segnali prodotti dal trasmettitore locale. Ancora nel 1872, Robert Sabine scriveva:
Preece, Maron, Edlund e altri hanno anche inventato molti metodi simili e ugualmente belli, che sono stati tutti provati, nessuno dei quali però è riuscito ad approdare a un'applicazione pratica; la ragione va ricercata molto semplicemente nella variabilità della resistenza delle linee telegrafiche e nella variabilità della forza elettromotrice delle batterie, che per compensare questi disturbi generano l'inconveniente di dover regolare tali sistemi per mezzo di resistenze. Entrambi questi sistemi, telegrafare contemporaneamente in direzioni opposte e telegrafare più messaggi alla volta, devono considerarsi come 'prodezze di ginnastica intellettuale', ma del tutto inutili da un punto di vista pratico. (Sabine 1869 [1872, p. 129])
Nello stesso anno, comunque, mentre venivano pubblicate queste osservazioni, Stearns ottenne il brevetto su un progetto perfezionato per la telegrafia duplex, che risultò abbastanza affidabile da un punto di vista pratico. Nel giugno 1873, riferendosi ai commenti scettici di Sabine e di altri sulla telegrafia duplex, Oliver Heaviside scriveva:
Comunque, nonostante questi resoconti sfavorevoli sulla praticità della telegrafia duplex, l'esperienza dello scorso anno li ha contraddetti in modo sorprendente, e ha reso le cosiddette 'prodezze' delle cose molto comuni. Circuiti basati su sistemi duplex sono stati installati in diverse zone del Regno Unito, per non parlare degli Stati Uniti, dove ha avuto luogo la resurrezione di questi schemi defunti, e continuano a mostrarsi molto soddisfacenti. Non sembrano esserci motivi per dubitare che tale sistema possa alla fine estendersi a tutti i circuiti non troppo lunghi, tra i cui punti terminali vi sia un traffico sovrabbondante per un filo singolo nella modalità usuale di funzionamento (in cui cioè lavora una stazione per volta). (Heaviside 1925a, p. 18)
Heaviside proseguiva spiegando che variazioni significative della resistenza di lunghe linee al suolo, come quella tra Londra e Glasgow, rendevano ancora poco pratico il metodo del multiplex, il quale però non presentava inconvenienti sulle linee più corte. Egli aggiungeva inoltre:
Le variazioni della resistenza dei cavi sottomarini (privi di connessioni con cavi al suolo) sono così inferiori che sembra a priori possibile che la telegrafia duplex possa funzionare servendosi di essi. Naturalmente la loro capacità elettrostatica deve essere compensata con condensatori. Questo si potrebbe anche applicare al sistema su cui è basato il funzionamento di alcuni lunghi cavi, in cui non c'è alcun circuito metallico nello strumento ricevente che si trova tra un condensatore e il cavo. (ibidem, p. 23)
La telegrafia duplex fornisce un buon esempio dell'arte della progettazione di circuiti telegrafici nella seconda metà del XIX secolo. Come si evince dalle citazioni precedenti, furono realizzati molti progetti di questo genere, tra i quali particolarmente utili si dimostrarono quelli basati sul 'Christie balance', meglio noto come 'ponte di Wheatstone', inventato nel 1833 da Samuel H. Christie. Il 'Christie balance' occupa un posto d'onore nel Treatise on electricity and magnetism (1873) di Maxwell, che trattava in dettaglio i sistemi per la misurazione della resistenza, della capacità e dell'induttanza. Quando Maxwell scrisse la sua opera, però, il nome di Christie sembrava essere quasi scomparso e il sistema era indicato ovunque come ponte di Wheatstone. A partire dal 1887, Heaviside iniziò una serie di studi, che andavano significativamente oltre quelli di Maxwell, nei quali questo dispositivo fu regolarmente chiamato 'il Christie'. Fino alla seconda metà del XX sec., il 'Christie balance' continuò a fungere da circuito fondamentale per la misurazione delle resistenze, delle capacità e delle induttanze; in esso l'equilibrio era raggiunto regolando l'impedenza in tre dei suoi rami esterni, finché la corrente che scorreva nel ramo centrale (sul quale c'è un galvanometro) era nulla; una volta soddisfatta questa condizione, l'impedenza incognita sul quarto ramo poteva essere calcolata sulla base delle impedenze note degli altri tre. Nella sua forma più semplice, in cui il dispositivo viene utilizzato per la misurazione delle resistenze (fig. 8), la condizione di equilibrio si esprime facilmente imponendo che il galvanometro non veda alcuna corrente:
da cui
dove I1 è la corrente che scorre attraverso R1 e R3, e I2 la corrente che scorre attraverso R2 e R4. Se R4 rappresenta la resistenza totale di un cavo telegrafico e dell'apparato ricevente a una delle sue estremità (fig. 9), allora, chiudendo il circuito mediante il tasto K, s'invierà una corrente attraverso il cavo e la seconda stazione, senza far scorrere corrente nel galvanometro posto nel ramo centrale. Si può ora cambiare la geometria mantenendo invariate tutte le giunzioni, per dare al circuito l'aspetto appropriato a due stazioni connesse da un singolo cavo telegrafico. Potrebbe essere necessario utilizzare una resistenza di shunt (cioè posta in parallelo) di valore pari alla resistenza interna della batteria, per assicurarsi che la stazione ricevente presenti la stessa resistenza al segnale in arrivo, indipendentemente dallo stato del suo tasto di trasmissione (fig. 10). In questo modo si raddoppia la capacità di trasporto dell'informazione del cavo, con il costo minimo dell'aggiunta di poche resistenze e di fili di breve lunghezza in ogni stazione.
Nel 1874 Edison mostrò come sfruttare segnali di due diverse intensità, insieme a un dispositivo di Stearns per il duplex, per quadruplicare la capacità di trasporto dell'informazione di un singolo cavo. Questo sistema consentiva di connettere due mittenti e due destinatari a ognuna delle estremità del cavo e permetteva l'invio simultaneo di quattro messaggi, due per ogni direzione. Il circuito era più complicato e richiedeva regolazioni più accurate, ma il vantaggio potenziale valeva senz'altro lo sforzo: in linea di principio il cavo avrebbe trasmesso in un solo giorno la stessa quantità di informazioni che avrebbe altrimenti trasmesso in quattro giorni. Utilizzando in combinazione i dispositivi 'Christie balance' per il duplex con dispositivi di invio e di ricezione regolati per funzionare a una tensione specifica, si potevano ottenere in linea di principio ordini superiori di multiplex. Nella pratica, però, questa modalità di funzionamento sembrò aver raggiunto il suo limite di utilità con il sistema quadruplex. Come osservò Heaviside:
Abbinando ora un sistema 'null duplex' diventa ovviamente possibile inviare un qualunque numero di messaggi nell'altra direzione mentre è attiva la trasmissione in verso opposto, e senza interferenze. La capacità dei circuiti telegrafici può così essere incrementata indefinitamente organizzando il sistema in modo opportuno. Da un punto di vista pratico, però, sembra ragionevole che si debba raggiungere presto un limite, a causa della complicazione crescente delle regolazioni richieste. […] Ciononostante, […] se immaginiamo la crescita della telegrafia nel futuro altrettanto rapida di quanto lo è stata in passato, non sembra improbabile che la telegrafia multiplex possa divenire una solida realtà. (ibidem)
Heaviside scriveva queste parole nel 1873. Entro la metà degli anni Ottanta, il servizio postale britannico adottò un nuovo schema di multiplex, che andava al di là del quadruplex. Il sistema era stato brevettato dall'americano Patrick Delany, come perfezionamento di una fondamentale invenzione del danese Paul La Cour avvenuta nel 1878. L'idea alla base del nuovo schema era sostanzialmente diversa da quella sfruttata nei sistemi di Stearns e di Edison, dove i dispositivi di invio e di ricezione, in entrambe le stazioni, mantenevano un contatto elettrico continuo con la linea sulla quale erano simultaneamente presenti i messaggi nelle due direzioni; essi venivano incanalati sul ricevitore giusto da circuiti di filtraggio, più o meno elaborati, posti a ognuna delle estremità. Nel sistema di Delany, invece, coppie di dispositivi di invio e di ricezione erano connesse in modo sequenziale alle due estremità della linea mediante due bracci di contatto mobili, che ruotando stabilivano la connessione con un insieme di contatti per mezzo di un meccanismo sincronizzato. In questo senso, il multiplex di Delany riflette la consueta modalità per cui l'invenzione scaturisce da una manipolazione ingegnosa di un dispositivo, mentre i progetti del duplex e del quadruplex si ispiravano alla teoria matematica dei circuiti. Da un punto di vista operativo, però, il multiplex di Delany evidenziava un problema che verso la fine del XIX sec. avrebbe dato il via all'introduzione di sofisticate teorie matematiche nella progettazione dei sistemi di telecomunicazione cablati. Infatti, se in teoria il numero di coppie mittente-ricevente che si potevano connettere a una singola linea per mezzo del multiplex di Delany era limitato soltanto dalla meccanica del campionamento ad alta velocità, in pratica, l'applicabilità del metodo era ridotta a distanze relativamente brevi e a velocità di trasmissione che non raggiungevano i limiti meccanici teorici. Come vedremo, la causa di queste restrizioni risiedeva nelle distorsioni sulla linea.
L'effetto di distorsione
Il fatto che il multiplex di Delany dovesse limitarsi alle brevi distanze riflette un problema generale proprio delle comunicazioni telegrafiche e telefoniche dell'Ottocento, che si sarebbe manifestato più chiaramente con l'aumento della richiesta di linee di comunicazione più lunghe e con una velocità di trasmissione dei dati sempre più elevata, divenendo particolarmente critico negli ultimi decenni del secolo con l'avvento della telefonia. In astratto, i punti e le linee della comunicazione telegrafica sono raffigurati come una serie di impulsi di corrente, separati tra loro, che vengono propagati lungo la linea per essere registrati dalla stazione ricevente. In linea di principio, nel corso della loro propagazione attraverso la linea elettrica, che connette la stazione di invio a quella di ricezione, questi impulsi perdono soltanto di intensità, esattamente come succede per le rappresentazioni elettriche dei segnali vocali nella comunicazione telefonica, create da un microfono. Nel corso dell'Ottocento, però, questo quadro astratto non corrispondeva all'effettiva esperienza degli utenti della telegrafia e della telefonia. Quando il tasto Morse, tenuto premuto per un certo tempo alla stazione di invio, metteva in linea un impulso di corrente ben definito, corrispondente a un punto o a una linea, il ricevitore all'altra estremità non captava soltanto una versione di minore intensità dell'impulso originario: il segnale ricevuto era infatti una versione più o meno sporca, oltre che ridotta, dell'originale e la distorsione aumentava proporzionalmente alla lunghezza della linea. Quest'effetto negativo era stato previsto e spiegato da William Thomson (lord Kelvin) nel 1855 in uno studio teorico sulla comunicazione telegrafica sviluppato in occasione del suo coinvolgimento nel progetto sul cavo transatlantico di Sirus Field.
Ai fini delle trasmissioni telegrafiche, la distorsione implicava un limite superiore alla velocità di trasmissione per una lunghezza data del filo. Nel multiplex di Delany, dove la frequenza di campionamento è maggiore della velocità di emissione dei segnali di tutti i trasmettitori, il raggio d'azione è limitato ancor più drasticamente. Ciononostante, nella semplice telegrafia, si poteva eliminare questo effetto di distorsione riducendo la velocità di invio dei segnali. Ciò comportava un aumento del costo per unità di parola trasmessa su lunghe distanze maggiore dell'aumento dei costi di costruzione e manutenzione, ma almeno si rendevano possibili comunicazioni a lunga distanza. Inoltre, si poteva delimitare il problema inserendo lungo la linea ripetitori automatici a determinati intervalli. Questi ripetitori non facevano altro che ricevere e ritrasmettere il messaggio, rigenerandolo e consentendo velocità di trasmissione ridotte soltanto dal tratto intermedio più lungo, invece che dalla lunghezza totale della linea. Per le comunicazioni telefoniche non vi erano soluzioni analoghe. I fili telefonici dovevano trasportare frequenze vocali di circa due ordini di grandezza più alte rispetto alle velocità di trasmissione telegrafiche, e non si era in grado di costruire ripetitori. La stessa distorsione, che per la telegrafia aveva solo l'effetto di rallentare le comunicazioni a lunga distanza, sembrava limitare le comunicazioni telefoniche a distanze abbastanza brevi.
Tutto ciò mutò drasticamente nel 1901, con l'introduzione delle linee di trasmissione prive di distorsione da parte della Bell Telephone Company. L'idea originale e la successiva realizzazione di tali linee segnarono l'inizio di un cambiamento nell'ingegneria elettrica che sarà dominante nel corso del XX secolo. Come si è visto, nell'Ottocento la grande maggioranza dei sistemi e degli strumenti inventati per la comunicazione via cavo rifletteva un'ingegnosità inventiva che nasceva dalla padronanza degli strumenti e dall'abile manipolazione dei risultati di laboratorio. Al contrario, le linee di trasmissione prive di distorsione derivarono dagli sviluppi della teoria matematica delle comunicazioni su cavo; la loro evoluzione, dal concetto teorico al dispositivo funzionante, rappresenta l'esempio più sofisticato di progettualità su base scientifica nel contesto della telegrafia e della telefonia del XIX secolo.
In un certo senso possiamo affermare che i dispositivi per la produzione di energia, come la dinamo, i motori e i trasformatori, hanno avuto origine dalle ricerche di Michael Faraday (1791-1867) sull'elettromagnetismo. Verso la fine del 1831 egli scoprì l'induzione magnetica, che rese possibile la generazione di corrente elettrica con mezzi puramente meccanici, cioè muovendo un conduttore all'interno di un campo magnetico; sulla base di essa furono inventate le prime, semplici macchine magnetoelettriche (chiamate allora 'magneti'). Nel 1895 lord Kelvin osservava infatti che "fu lui [Faraday], virtualmente, a darci la dinamo".
Il primo generatore magnetoelettrico fu costruito da Hyppolyte Pixii in Francia, nel 1832, e perfezionato da Edward M. Clarke e William Sturgeon in Inghilterra. L'armatura di questi primi generatori magnetoelettrici veniva ruotata a mano, e i campi magnetici erano prodotti da magneti permanenti. Ben presto nei generatori magnetoelettrici furono introdotti commutatori elettrici, in grado di convertire la corrente alternata in corrente continua. Gli elettromagneti, inventati da Sturgeon nel 1825, sostituirono i magneti permanenti, grazie a un brevetto del 1837 di Wheatstone e William F. Cooke: essi erano magnetizzati da correnti generate da batterie voltaiche esterne.
Negli anni Trenta questi primi tipi di generatori magnetoelettrici erano prevalentemente usati per mostrare come, in accordo con le tesi di Faraday, quando un filo conduttore tagliava le linee di forza magnetiche, si generassero correnti elettriche; nei laboratori di fisica essi affiancavano invece le batterie voltaiche in esperimenti di fisica e fisiologia. Nel 1840 i generatori magnetoelettrici furono per la prima volta impiegati per scopi commerciali come la metallizzazione elettrolitica o, in piccola misura, la telegrafia. Nel decennio successivo furono per la prima volta utilizzati fari per la produzione della luce. L'inglese Frederick H. Holmes costruì un enorme generatore magnetoelettrico (del peso di 2 tonnellate), alimentato da un motore a vapore, utilizzandolo per la lampada ad arco dell'alto faro di South Foreland. La dimostrazione (a cui presenziò Faraday) ebbe tale successo che negli anni Sessanta diverse macchine di Holmes furono installate in altri fari, anche se il numero complessivo di fari alimentati elettricamente non arrivava, nel 1880, a dieci.
Esiste una relazione interessante tra lo sviluppo dell'arco elettrico e i generatori magnetoelettrici. L'arco elettrico era stato utilizzato fin dai tempi di Humphry Davy (1778-1829), tuttavia la bassa potenza erogata, insieme all'instabilità del dispositivo, ne impedirono una diffusione più ampia. Negli anni Trenta e Quaranta, le batterie elettriche furono perfezionate e rese più stabili, grazie allo sviluppo di tecniche di depolarizzazione, facilitando in questo modo tanto la messa a punto quanto l'impiego dell'arco elettrico, il quale però continuò a necessitare di sorgenti di correnti elettriche ancora più potenti e stabili delle batterie. I generatori magnetoelettrici erano forse l'unica alternativa e per questo motivo la loro costruzione subì un forte impulso.
L'avvento delle vere e proprie dinamo commerciali si ebbe con l'invenzione della dinamo ad autoeccitazione, nella quale la corrente per l'elettromagnete è fornita dalla corrente stessa in uscita dal dispositivo. L'idea, che era stata avanzata dal tedesco Jacob Brett nel 1848, e brevettata negli anni Cinquanta da Sjoren Hjort, un inventore danese che viveva a Liverpool, non fu presa sul serio dagli ingegneri fino al 1866-1867. Nel 1866 Henry Wilde illustrò un metodo per generare correnti molto intense in una pubblicazione in cui descriveva un generatore magnetoelettrico i cui elettromagneti erano alimentati da un altro generatore magnetoelettrico.
Nello stesso anno, Cornelius e Samuel A. Varley brevettarono un metodo di autoeccitazione. Nel brevetto Varley, gli elettromagneti di un generatore venivano inizialmente magnetizzati da una corrente proveniente da sorgenti esterne e in seguito a ciò il generatore era in grado di autoeccitarsi. Nel 1867 Werner von Siemens in Germania e Wheatstone in Inghilterra dimostrarono tuttavia, in modo indipendente l'uno dall'altro, che questa corrente iniziale non era necessaria: il magnetismo residuo nel nucleo degli elettromagneti risultava sufficiente. Siemens coniò il termine 'macchina dinamo-elettrica' (denominata in seguito semplicemente 'dinamo') al fine di distinguere la sua macchina ad autoeccitazione dai vecchi generatori magnetoelettrici. Le dinamo erano in grado di produrre grandi quantità di correnti elettriche destinate agli scopi più diversi.
Una questione storica di notevole interesse riguarda il motivo per cui lo sviluppo della dinamo autoeccitata fu ritardato di quasi due decenni rispetto alla sua ideazione. Una delle motivazioni può risiedere nella scarsa necessità di produrre correnti elettriche molto intense. Infatti, anche se fin dagli anni Trenta erano stati utilizzati le lampade elettriche ad arco e i 'motori elettromagnetici giocattolo', soltanto verso la fine degli anni Settanta furono disponibili tanto l'illuminazione elettrica quanto motori per la trazione elettrica adatti a impieghi pesanti. È però stata avanzata anche un'altra ipotesi: intorno al 1849 gli ingegneri e i fabbricanti di strumenti avevano considerato il generatore magnetoelettrico esclusivamente come macchina per la conversione del magnetismo in elettricità, senza prendere in considerazione l'ipotesi di convertire l'energia meccanica in elettrica. Se lo avessero fatto, gli ingegneri, che non prendevano sul serio la possibilità del moto perpetuo, avrebbero potuto forse pensare che i campi magnetici dovevano essere creati da qualche sorgente esterna, come magneti permanenti o pile voltaiche, e che la possibilità degli elettromagneti di essere magnetizzati dalla corrente in uscita dalla dinamo ‒ mentre al tempo stesso producevano quella corrente ‒ violasse la conversione di energia meccanica in elettrica. Questo fatto fu in gran parte responsabile della mancata utilizzazione degli elettromagneti.
In seguito all'invenzione della dinamo ad autoeccitazione, si accelerò il ritmo di sviluppo di questo apparecchio: negli anni Settanta l'ingegnere belga Zénobe-Théophile Gramme inventò una dinamo che utilizzava un'armatura ad anello chiamata 'anello di Gramme' che ebbe una grande diffusione; tra il 1876 e il 1878 il russo Paul Jablochkoff, ingegnere dei telegrafi, inventò un meccanismo, chiamato 'candela di Jablochkoff', che rendeva l'arco elettrico molto più stabile e durevole. Fin dal 1878 la dinamo di Gramme e la candela di Jablochkoff illuminarono strade, teatri e ristoranti, prima a Parigi poi a Londra; entro il 1880 l'illuminazione elettrica aveva guadagnato grande popolarità. Tra gli anni Settanta e Ottanta la dinamo fu ulteriormente perfezionata da Rookes E.B. Crompton, Edison, Gisbert Kapp e John Hopkinson. In particolare, Crompton e Kapp, nel 1882, idearono il metodo detto 'avvolgimento composito', in cui i magneti di campo avevano due avvolgimenti (uno per la corrente magnetizzante, l'altro per la corrente di carico), mentre nel 1886 John ed Edward Hopkinson proposero una teoria dei circuiti magnetici per la progettazione di dinamo a corrente continua, che divenne in seguito uno strumento teorico standard per gli ingegneri del settore.
Le lampade ad arco, dal momento che generavano una luminosità eccessiva per gli ambienti casalinghi, e non potevano essere collegate in parallelo (al massimo se ne potevano collegare in serie alcune a un'unica dinamo), erano adatte soltanto all'illuminazione delle strade e dei luoghi pubblici. Gli ingegneri compresero che, per rendere l'illuminazione elettrica competitiva rispetto a quella a gas, si doveva risolvere questo problema, chiamato della 'suddivisione della luce'; la cosa avvenne, quasi simultaneamente, grazie a Edison negli Stati Uniti e a Joseph W. Swan in Gran Bretagna, che inventarono lampade a incandescenza di facile utilizzo. Edison però andò oltre e sviluppò l'intero sistema di fornitura di elettricità, consistente in una potente dinamo, un sistema di distribuzione a due fili, le lampade e i dispositivi di regolazione e misura per il consumo di elettricità. Sulla base dello schema di Edison, nel 1881 a Londra venne costruito l'impianto centrale di Holborn Viaduct, che rappresentò un progetto pilota per la fornitura di elettricità a diverse centinaia di lampade Edison; nel 1882 Edison costruì un impianto commerciale sulla Pearl Street, a New York, dove, attraverso le finestre, si potevano guardare le dinamo di Edison in movimento.
Il sistema di Edison forniva corrente continua, che rispetto a quella alternata presentava vantaggi e svantaggi: rispetto agli alternatori per la corrente alternata aveva un'efficienza maggiore (90% contro il 70%) ed era più semplice da regolare. Le dinamo composte, infatti, regolavano la tensione di uscita quasi automaticamente al variare del carico e potevano inoltre essere facilmente connesse in parallelo; gli ingegneri invece ritenevano in generale quasi impossibile la connessione in parallelo per i generatori a corrente alternata, malgrado Hopkinson avesse dimostrato matematicamente il contrario. Questa possibilità di funzionare in parallelo rendeva il sistema a corrente continua più flessibile rispetto alle variazioni del carico e alle necessità di interventi di riparazione urgenti, poiché si poteva disconnettere una sola dinamo dalle altre senza interrompere l'erogazione di elettricità. Inoltre, nel sistema a corrente continua si utilizzavano batterie secondarie (accumulatori) da affiancare alle dinamo in condizioni di carico basso, assicurando in questo modo un'efficienza economica del sistema relativamente alta. Furono presto disponibili motori a corrente continua molto resistenti, e ciò rese la trazione elettrica un'altra voce rilevante del consumo di elettricità, mentre i motori a corrente alternata furono disponibili soltanto alla fine degli anni Ottanta, quando Nikola Tesla e Galileo Ferraris inventarono il motore a induzione. I sostenitori della corrente continua sottolineavano anche la sua maggiore sicurezza e, fra questi, Edison definiva la corrente alternata come la 'corrente del boia', tanto da compiere tentativi per renderne l'uso legale nell'esecuzione di pene capitali al posto dell'impiccagione.
D'altra parte, lo svantaggio della corrente continua stava nei suoi costi di trasmissione relativamente elevati. A causa della caduta di tensione, il raggio utile per la trasmissione di corrente continua a 110 volt era in pratica limitato a mezzo miglio (0,8 km ca.), per cui gli impianti di generazione si dovevano costruire al centro delle città. Il sistema a tre fili Edison-Hopkinson, in grado di erogare 220 volt, incrementò sia l'efficienza sia la distanza utile, permettendo di costruire in Gran Bretagna sistemi a 300, 500 e perfino 1000 volt a corrente continua. Si utilizzavano, unitamente, batterie secondarie e generatori (chiamati trasformatori a corrente continua). La contesa tra i fautori della corrente continua e quelli della corrente alternata, chiamata 'battaglia dei sistemi', tra il 1880 e la fine del secolo si svolse in tutti i paesi in cui era stata introdotta l'elettricità. In Gran Bretagna, Crompton fu il più acceso sostenitore del sistema a corrente continua, mentre Sebastian Z. de Ferranti, W.M. Mordey e Silvanus P. Thompson si dichiararono favorevoli alla corrente alternata; negli Stati Uniti i protagonisti della disputa furono Edison e Westinghouse ed essa si concluse simbolicamente con la vittoria dei sostenitori della corrente alternata quando Edison si ritirò dagli affari nel 1892. Da allora, il settore è stato dominato dalla corrente alternata polifase e ad alto voltaggio. In Gran Bretagna, dove l'adozione della corrente polifase si ebbe molto più tardi, i sistemi a corrente continua ad alta tensione, in cui si trasmettevano correnti a 500 o anche 1000-2000 volt, ridotte poi a 110 volt da trasformatori in continua, sopravvissero a lungo insieme ai sistemi a corrente alternata.
Le correnti alternate ad alta tensione, contrariamente a quelle continue, possono essere trasmesse a grandi distanze senza perdite notevoli di energia. Un sistema a corrente alternata consentiva a un impianto situato, per esempio, a 20 miglia (32 km ca.) da una città di illuminare l'intera area cittadina. Questa era la caratteristica essenziale del sistema ed era dovuta soprattutto ai trasformatori in alternata, che potevano elevare la tensione di una dinamo per la trasmissione a lunga distanza e diminuirla in sottostazioni di 100 volt per uso pubblico. Antesignana del trasformatore era stata negli anni Trenta la bobina a induzione, inventata immediatamente dopo l'annuncio della scoperta dell'induzione elettromagnetica da parte di Faraday. Grazie a un interruttore, le bobine a induzione generavano una corrente intermittente nell'avvolgimento primario, la cui tensione veniva aumentata nell'avvolgimento secondario dall'accoppiamento tra i due. Secondo la terminologia adottata successivamente, ogni bobina a induzione era un trasformatore elevatore, e mai riduttore. Ben presto però si scoprì che una bobina a induzione poteva trasformare una corrente ad alta tensione in una a bassa tensione, scambiando le connessioni tra l'avvolgimento primario e il secondario. La proposta di utilizzare le bobine a induzione per l'illuminazione elettrica era stata avanzata fin dagli anni Cinquanta; fu però Jablochkoff, nel 1877, a proporre e di fatto a tentare tale uso. La sua strategia consisteva nel collegare gli avvolgimenti primari di due comuni bobine elevatrici in serie a un alternatore a induzione, e collegare quindi una o più lampade ai suoi secondari. Questo schema evitava che l'esaurimento di una lampada potesse causare quello delle altre, rendendo possibile l''illuminazione indipendente', che era stato un altro problema controverso per gli studiosi del tempo.
L'uso delle bobine a induzione per l'illuminazione indipendente fu comunque soltanto una delle molte idee che contribuirono a definire il trasformatore. Un'altra, che riguardava la trasmissione a lunga distanza, fu introdotta nel settore dell'illuminazione elettrica da Charles Williams che, nel 1877, considerò la possibilità di trasmettere energia dalle cascate del Niagara a una distanza di 30 miglia (48 km ca.) usando l'elettricità. Si rese presto conto, insieme a diversi altri, che una trasmissione di questo tipo sarebbe stata impossibile utilizzando basse tensioni, a meno di usare dei cavi di diametro enorme. Un'alternativa praticabile consisteva nell'utilizzare alte tensioni, ottenibili grazie ai trasformatori elevatori, che risultavano utili anche nel caso in cui fosse stato necessario variare la tensione; infatti, soltanto l'adozione della corrente alternata insieme ai trasformatori poteva garantire questa variabilità di tensione.
Nel 1883 Lucien Gaulard e il suo socio inglese John D. Gibbs furono i primi a effettuare una sintesi di queste idee: servendosi dei loro 'generatori secondari' (ossia le bobine a induzione) furono in grado di utilizzare, contro obiezioni unanimi e tra forti ostilità, l'illuminazione indipendente, la trasmissione a distanza, nonché le tensioni variabili. I loro generatori erano di fatto trasformatori il cui circuito magnetico era aperto. Dopo il 1884 il sistema di trasmissione a corrente alternata e di distribuzione di elettricità basato sul trasformatore iniziò a svilupparsi e a diffondersi rapidamente grazie a Charles Zipernowsky, Max Deri e Otto Blathy presso la Ganz Company in Ungheria, a William Stanley e Elihu Thomson negli Stati Uniti, e a de Ferranti, Hopkinson, Mordey e James Swinburne in Gran Bretagna; tutti questi trasformatori, eccetto quello detto 'a riccio' di Swinburne, erano 'chiusi', il circuito magnetico formava cioè un anello chiuso attraverso i nuclei di ferro. Negli Stati Uniti, nel 1886, la Westinghouse Company costruì la prima centrale a corrente alternata a Buffalo. In Gran Bretagna, l'impianto di Grosvenor Gallery, costruito tra il 1883 e il 1884, e rinnovato poi da Ferranti nel 1885, adottò la corrente alternata. Il successo di Ferranti con quest'ultimo impianto portò alla costituzione della London Electric Supply Corporation per la costruzione di una gigantesca centrale a Deptford, allo scopo di fornire elettricità all'intera città di Londra.
La comunità degli ingegneri elettrotecnici in Gran Bretagna
Negli anni Ottanta, la comunità degli ingegneri elettrotecnici comprendeva tre gruppi distinti: coloro che si erano occupati di telegrafia, quelli che lavoravano in ambito elettrotecnico e che provenivano in gran parte dall'ingegneria meccanica, e quanti avevano un orientamento più scientifico.
Gli ex ingegneri telegrafici avevano una notevole esperienza di misure sul campo, di comportamento dei cavi e di macchine elettriche elementari come dinamo e bobine a induzione. Tra gli esperti di telegrafia nella nuova ingegneria di potenza figuravano Charles W. Webber, il maggiore Cardew, Willoughby Smith, Mordey e William H. Preece.
A differenza dei loro predecessori, i nuovi ingegneri elettrotecnici, provenienti dall'ingegneria meccanica, non avevano particolari competenze in ingegneria elettrica; ciononostante, vantavano migliori requisiti per trattare i gravosi argomenti legati alla meccanica dei macchinari per la produzione di potenza, come dinamo, motori o caldaie. Alcuni erano autodidatti, altri venivano reclutati da settori affini all'ingegneria meccanica o navale. Avevano una certa familiarità con i laboratori e con gli impianti, fra i quali la fabbrica Crompton a Chelmsford ebbe il ruolo di 'scuola' per molti nuovi ingegneri tra i quali Kapp e Swinburne. Nella centrale di Paddington (1885-1889) e in quella di Deptford di Ferranti (1887-1891), altri ingegneri dell'epoca acquisirono la loro formazione sul campo. Crompton, Kapp, Swinburne e Ferranti furono figure rappresentative di questi nuovi ingegneri meccanici dediti all'ingegneria di potenza.
Infine, esisteva un terzo gruppo formato da quanti avevano un'impostazione scientifica, si erano solitamente formati in fisica ed erano professori universitari di ingegneria elettrotecnica. A differenza degli ingegneri di impostazione pratica o di formazione meccanica, che enfatizzavano le loro abilità relative alla progettazione e alla realizzazione acquisite attraverso una formazione tradizionale sul campo, questi ingegneri-scienziati ponevano l'accento sulla pratica di laboratorio e sull'uso di principî scientifici, come quelli contenuti nel Treatise on electricity and magnetism (1873) di Maxwell. Questa categoria si collocava a metà strada tra gli elettrotecnici e i fisici universitari e pur non essendo, almeno agli inizi, numerosa ebbe una notevole influenza, perché contribuì a formare una nuova generazione di ingegneri elettrotecnici. In questo gruppo rientravano John A. Fleming presso l'University College di Londra, William E. Ayrton presso il Finsbury Technical College e la Central Institution, John Perry presso il Finsbury College, Hopkinson presso il King's College a Londra, Thompson presso il Finsbury College e James A. Ewing presso la Cambridge University.
La comunità degli ingegneri dediti all'ingegneria di potenza in Gran Bretagna si sviluppò a partire da questi tre gruppi distinti caratterizzati da concezioni differenti, da metodi diversi di indagine sugli effetti legati alla potenza elettrica, nonché da approcci e linguaggi per la soluzione di problemi specifici molto distanti tra loro. Esperti di telegrafia come Preece avevano esercitato un'influenza fondamentale nei primi sviluppi dell'ingegneria di potenza, essendo gli unici ad avere esperienza pratica con l'elettricità. Appena la produzione di potenza elettrica cominciò ad aumentare, però, l'esperienza pratica maturata in telegrafia risultò presto inapplicabile. Secondo la testimonianza a posteriori di un ingegnere, "molti punti di vista furono tratti dalla telegrafia, ma fu solo quando smettemmo di considerare le cose sulla base di analogie che potemmo affrontarle in modo logico" (Crompton 1922, p. 456). Crompton rammentava che "nei primi tempi eravamo perseguitati dall'idea di Preece che fosse necessario avere molti avvolgimenti di cavo sulle armature per ottenere la necessaria resistenza interna nei nostri circuiti" (ibidem, p. 393). Il suo successo si fondò non sui suggerimenti di Preece, ma sulla propria convinzione, da ingegnere meccanico, della necessità di aumentare il campo magnetico. Nel 1883 la Society of Telegraph Engineers, che era stata controllata dagli esperti di telegrafia, divenne la Society of Telegraph Engineers and Electricians e nel 1888 fu denominata Institution of Electrical Engineers. Queste denominazioni riflettono il passaggio di potere dagli esperti di telegrafia agli ingegneri elettrotecnici di formazione meccanica.
Dopo il 1888, però, sorsero conflitti tra la componente dominante degli ingegneri di formazione meccanica e quelli di estrazione scientifica. Questi ultimi contribuirono sia a definire una prassi nelle misure sia alla formazione delle nuove leve: l'amperometro di Ayrton e il potenziometro di Fleming furono considerati dispositivi importanti anche dagli ingegneri di formazione meccanica. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, inoltre, a causa della domanda crescente di elettrotecnici esperti, le società elettriche iniziarono ad assumere persone di formazione scientifica provenienti dai college.
Lo sviluppo dei metodi di misurazione e la nascita di iter formativi non erano però sufficienti a trasformare l'ingegneria elettrotecnica in una disciplina con una solida base scientifica. Crompton sottolineava sempre l'importanza dell'immaginazione nella progettazione di macchine pesanti, mentre perfino James E.H. Gordon, un ingegnere elettrotecnico che si era formato scientificamente presso il laboratorio Cavendish con Maxwell, riteneva che l'abilità nella progettazione delle macchine fosse di gran lunga più importante del formalismo matematico o della teoria di Maxwell: "[nella progettazione di una dinamo] la scelta della corretta proporzione tra le dimensioni dei magneti e quelle delle bobine delle armature, in un qualunque nuovo tipo di macchina, costituisce più un'arte che una scienza, dipende cioè più dall'abilità individuale del progettista che da regole che si possano mettere nero su bianco" (Gordon 1884, p. 145).
La situazione iniziò a mutare gradualmente nella seconda metà degli anni Ottanta, per due motivi: in primo luogo, aumentando la dimensione dei macchinari elettrici, divenne sempre più importante ridurre il numero di tentativi per ogni realizzazione, per motivi economici. Molti ingegneri cercarono perciò di migliorare la progettazione attraverso metodi ricavati matematicamente e sperimentalmente. Il classico articolo di Hopkinson, del 1886, Dinamo-electric machinery, sulla dinamo e sui suoi circuiti magnetici, divenne una pietra miliare per la progettazione razionale delle macchine elettriche. Inoltre, cosa ben più rilevante, aumentava l'uso della corrente alternata, la cui teoria matematica era stata formulata negli anni Ottanta da ingegneri di estrazione scientifica (Thomas H. Blakesley, Hopkinson, Ayrton e Fleming) e da fisici (Oliver J. Lodge e Rayleigh).
Lo studio della corrente alternata implicava certamente una maggiore utilizzazione dei principî scientifici e del formalismo matematico rispetto a quella della corrente continua. Fin dal 1884, Rayleigh aveva previsto che la corrente alternata avrebbe avuto un "effetto salutare" nella "istruzione dei cosiddetti elettrotecnici pratici". Essa infatti sollevava questioni concettuali difficili: una di queste era 'l'effetto di interferenza' determinato dal ritardo della corrente rispetto alla tensione applicata, cioè la differenza di fase tra corrente e tensione. A causa di questo effetto, le tensioni o le correnti alternate non si possono sommare come le loro controparti continue; inoltre, poiché le due forme d'onda (corrente e tensione) interferiscono l'una con l'altra, se si moltiplica la corrente alternata per la tensione non si ottiene una potenza. Nei sistemi a corrente alternata, la potenza P dissipata in un circuito è IrVrcosθ, dove Ir e Vr sono rispettivamente i valori quadratici medi della corrente e della tensione alternate, e θ è la differenza di fase tra di loro; nel caso di correnti continue, invece, in cui P=IV, l'angolo θ non compare.
Relativamente alla corrente alternata, gli ingegneri di formazione meccanica avevano i loro metodi specifici di progettazione e le loro teorie. Partendo da un'analogia con la legge di Ohm nell'elettricità, Kapp sviluppò una teoria dei circuiti magnetici per la progettazione delle dinamo. A complemento di questa, Swinburne formulò una teoria della reazione d'indotto, inventando inoltre un proprio metodo in cui la tensione o la corrente alternata venivano divise in due parti: una componente 'watt' (di potenza) e una 'non watt' (magnetica) con una differenza di fase di 90°. La potenza P dissipata in un circuito diventava, secondo Swinburne, IrVwatt o IwattVr, dove Ir e Vr sono rispettivamente i valori quadratici medi della corrente e della tensione alternata, e Iwatt e Vwatt sono rispettivamente le componenti della corrente e della tensione che forniscono potenza. Swinburne, che aveva iniziato la sua carriera di ingegnere come apprendista in una fabbrica di locomotive a Manchester, si spostò nel 1880 presso la fabbrica di lampadine Swan e, nel 1885, all'officina di Crompton, dove, lavorando alla costruzione delle dinamo, sviluppò la sue teorie. Egli è pertanto un buon esempio di quella che si potrebbe definire una 'teoria da officina'.
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