L'Ottocento: scienze mediche. Un nuovo modo di fare la diagnosi
Un nuovo modo di fare la diagnosi
di Joel D. Howell
Nel corso dell'Ottocento, in Europa e negli Stati Uniti, il modo di concepire e diagnosticare la malattia si è completamente trasformato. Dalla concezione secondo la quale la malattia riguardava l'intero corpo del paziente, si passò all'idea che essa fosse localizzata in un'area specifica e fosse da attribuire a una causa ben determinata. Tale trasformazione del concetto di malattia comportò e incoraggiò l'instaurarsi di nuove modalità diagnostiche e terapeutiche.
All'inizio del secolo ai medici era consigliata la lettura del Corpus ippocratico non soltanto per conoscere la storia della medicina, ma come una vera guida pratica allo svolgimento dell'attività medica. Nei testi attribuiti a Ippocrate ‒ com'è noto ‒ la malattia era vista come un'alterazione generalizzata e il corpo come qualcosa di strettamente interconnesso, quindi ciascuna sua parte poteva influenzare ogni altra. Lo stomaco poteva causare problemi alla mente e la mente allo stomaco. Salute e malattia erano termini che descrivevano lo stato complessivo della persona, non necessariamente una condizione relativa a una specifica regione del corpo o a uno specifico organo. Di conseguenza, anche la diagnosi era riferita all'intero corpo: un sintomo come la febbre era considerato un'affezione di tutto l'organismo, non solo di una sua parte, e anche se vi erano tipi diversi di febbre, e quindi diagnosi diverse, ognuna si riferiva allo stato complessivo del paziente. Il termine 'febbre' era associato a un insieme di sintomi, sensazione di calore, vampate, ritmo cardiaco accelerato o lingua impastata, piuttosto che, come lo intendiamo oggi, a un valore ottenuto utilizzando il termometro, uno strumento di misurazione della temperatura.
I medici si facevano guidare dagli scritti di Ippocrate anche per quel che riguardava il modo di concepire la composizione del corpo. Così come il mondo era composto da quattro elementi fondamentali ‒ terra, acqua, aria e fuoco ‒ anche il corpo umano era costituito da quattro elementi essenziali, quattro umori che derivavano originariamente dalle idee pitagoriche sulla natura del mondo: sangue, flegma, bile nera e bile gialla. La condizione di salute era garantita quando i quattro elementi erano nella giusta proporzione, mentre la malattia era causata da uno sbilanciamento tra i quattro umori primari. A volte lo squilibrio era evidente al paziente o a un semplice osservatore (per es., la secrezione nasale, la diarrea, le caviglie gonfie o la colorazione gialla della pelle), in altri casi la sua identificazione poteva richiedere un'analisi più attenta ed esperienza. Gli sforzi diagnostici del medico erano basati sulla ricerca e l'identificazione dello squilibrio, e si compivano quasi esclusivamente stilando una storia del paziente.
Inoltre, si riteneva che la vita dell'individuo si mantenesse continuamente in un delicato equilibrio con l'ambiente esterno. Qualsiasi elemento in grado di rompere tale equilibrio ‒ come le mestruazioni, la dentizione o i cambiamenti delle stagioni ‒ poteva causare una malattia e per la diagnosi si doveva tenere conto anche di questi temporanei stress dell'organismo. Il corpo, tuttavia, era dotato di un'innata capacità di ristabilire il giusto equilibrio tra gli umori, e i medici, comprendendo la natura dello squilibrio, potevano facilitare tale processo utilizzando purghe, salassi e altri rimedi basati sulla teoria degli umori. Le malattie, infine, non erano viste come entità stabili, in quanto una indisposizione poteva facilmente tramutarsi in un'altra; un semplice raffreddore, o il catarro, per esempio, potevano generare una malattia più grave, forse anche la tisi.
Tale modo di pensare non sopravvisse quando si passò a una concezione della malattia che considerava i vari disturbi legati a cause specifiche. Il primo cambiamento in questa direzione fu il passaggio alla diagnosi intesa come identificazione di una affezione localizzata. Tale concezione cominciò a modificarsi quando i medici iniziarono ad apprendere la medicina in modo diverso: lavorando nei grandi ospedali della Francia postrivoluzionaria, essi ebbero la possibilità di usare nuovi strumenti diagnostici per identificare specifiche lesioni, confermandole dopo la morte del paziente, attraverso l'autopsia. Ciò condusse i medici ad abbandonare il concetto di malattia come squilibro degli umori e li portò a considerarla come circoscritta in uno spazio e provocata da specifiche alterazioni di determinati organi. Questo cambiamento di vedute si rivelò fondamentale, data l'importanza sempre maggiore che la chirurgia andava assumendo in campo medico. Se si verificava un anomalo accumulo di pus intorno al polmone, cioè un empiema, era importante, per esempio, stabilire esattamente dove fosse collocato per poter inserire un ago e drenare il fluido.
Tuttavia il concetto di malattia come un determinato stato fisico, legato a una lesione specifica o a una particolare modificazione patologica, oppure in termini di un alterato funzionamento di un certo organo, non consentiva di completare la diagnosi accertandone le cause. Sebbene apparentemente ben definita, un'alterazione anatomica o funzionale poteva avere cause differenti. L'empiema poteva essere provocato da vari fattori, la pressione sanguigna poteva essere alta o bassa per molte ragioni. Persino una malattia eclatante come l'idrofobia, poteva avere una serie di cause diverse che spaziavano dallo stress emotivo al morso di un cane rabbioso. Senza considerare le cause di una malattia, era difficile stabilire una prevenzione specifica per impedire che ulteriori casi si manifestassero. Nello stesso tempo era anche difficile spiegare adeguatamente le diverse manifestazioni di una particolare affezione del corpo.
Il nuovo concetto di malattia come riferibile a una causa specifica si affermò attraverso le analisi microbiologiche di laboratorio e portò a stabilire nuovi criteri, rispetto a quelli precedentemente accettati, per classificare gli stati morbosi. Quelle che una volta sembravano malattie diverse, potevano ora essere considerate come una singola malattia; al contrario, quella che un tempo era considerata una singola malattia poteva essere vista come un insieme di malattie diverse: le febbri potevano essere causate da un gran numero di organismi e l'empiema da un'ampia varietà di batteri. Ovviamente, il classico processo di diagnosi si modificò sostanzialmente una volta accettate le nuove idee sulle cause della malattia. Come ha osservato Knud Faber, le malattie "cominciarono a essere considerate da un punto di vista eziologico e gli sforzi dei clinici furono diretti a sostituire, quanto più radicalmente possibile, una nosografia fondata sull'anatomia con una nosografia fondata su cause infettive" (1923 [1928, p. 98]).
Poiché la causa di una malattia doveva essere trovata con metodologie che utilizzavano strumentazioni, questa diversa concezione della diagnosi ebbe importanti implicazioni sull'attività clinica. Tuttavia, il passaggio all'uso di strumenti si stabilì gradualmente ed essi non sostituirono mai completamente le informazioni ottenute attraverso il dialogo diretto con il malato. L'anamnesi, cioè la ricostruzione della storia del paziente, la fase più importante per stilare una diagnosi all'inizio dell'Ottocento, rimaneva tale alla fine del secolo, anche se le nuove tecniche erano ormai ritenute d'importanza essenziale.
di Joel D. Howell
Naturalmente, l'anamnesi non era sempre fatta accanto al letto del paziente: medici e pazienti delle classi più elevate potevano comunicare scrivendosi o attraverso intermediari. Era ciò che accadeva quando le difficoltà di spostamento rendevano problematico l'incontro di due persone soprattutto in tempi in cui molta gente viveva nelle aree rurali e non era facile spostarsi da un luogo all'altro. Di conseguenza, l'anamnesi, per quanto importante, doveva spesso essere comunicata al medico il quale ne dava un'intepretazione senza che tra questi e il malato ci fosse di fatto un incontro diretto.
Con questa sorta di medicina a distanza si perdeva meno, in termini di accuratezza, di quanto il moderno lettore possa pensare, perché nel processo di elaborazione di una diagnosi la presenza del medico accanto al paziente avrebbe in ogni caso comportato poco più che uno scambio di informazioni. Il racconto, in altre parole, era la via maestra e in molti casi l'unica attraverso cui il medico procedeva nel fare una diagnosi. In parte, ciò era dovuto al fatto che le regole sociali e culturali impedivano al medico di visitare effettivamente molte persone, soprattutto nel caso di un medico uomo e di una paziente donna. Questo atteggiamento era più frequente fra i pazienti delle classi elevate e non era facilmente superato neanche in caso di malattie gravi.
Anche la storia familiare del paziente era importante, e la si poteva ottenere attraverso un racconto accurato e completo sui membri della famiglia. Tuttavia, si riteneva che il peso dell'ereditarietà avrebbe potuto essere alterato da cambiamenti delle condizioni esterne. La salute di un individuo dipendeva soprattutto dalle sue capacità di resistenza e queste avevano a che fare con il suo stile di vita. La consultazione poteva essere effettuata a casa del paziente, dove il medico era in grado di farsi un'idea diretta, vedendo di persona il luogo in cui viveva, cosa impossibile quando la conversazione si svolgeva nello studio del medico o in ospedale. Anche la storia dei primi anni di vita di una persona poteva fornire indicazioni sulla salute del paziente.
Il comportamento del medico durante l'anamnesi era importante anche perché, essendo la professione medica non particolarmente considerata, quelli che si comportavano da gentiluomini erano guardati, magari, con maggior rispetto soprattutto dai pazienti agiati. Le nuove conoscenze e un livello sempre più elevato di professionalità del medico, nel corso del secolo aumentarono il divario tra i medici e i pazienti provocando un cambiamento nella natura stessa dell'anamnesi. Nel corso dell'Ottocento il modo di raccontare una storia al medico si modificò, passando da una semplice conversazione tra pari a qualcosa che il medico, grazie a determinati strumenti e a un livello di preparazione superiore, dirigeva sentendosi libero di far domande che potevano anche apparire non rilevanti al paziente. Questo cambiamento modificò la stesura dei documenti relativi all'anamnesi. All'inizio del secolo tali documenti erano scritti in una forma libera e poco accurata, senza precisare se la fonte d'informazione fosse il medico o il paziente. Alla fine dell'Ottocento, invece, la storia del paziente era stilata in modo fortemente strutturato, con un certo numero di sezioni (come, per es., la storia familiare) e con una netta separazione tra le informazioni provenienti dal paziente e le indicazioni aggiunte dal medico.
Sebbene la maggior parte del tempo che il medico passava al capezzale del malato fosse dedicato ad assumere informazioni, bisognava effettuare anche esami fisici, come misurare le pulsazioni e osservare la lingua, due esami ritenuti importanti fin dall'Antichità. Talvolta, il racconto del paziente mancava oppure risultava insufficiente. Ciò accadeva, per esempio, quando il paziente era troppo giovane o troppo vecchio e quindi incapace di comunicare, oppure quando il racconto non poteva essere utilizzato a causa di difficoltà linguistiche. In ogni caso, i medici cominciarono a rivolgersi sempre più alle strumentazioni per riuscire a diagnosticare la causa della malattia. Questa tendenza verso una medicina basata sulle analisi di laboratorio era parte di un desiderio di definire la malattia in termini che potessero essere decifrati, controllati e definiti da professionisti della medicina piuttosto che dal paziente. Lo strumento che più di tutti aprì la strada alla medicina di laboratorio fu il microscopio e, nel corso dell'Ottocento, l'uso di microscopi sempre più complessi offrì l'opportunità di migliorare notevolmente la conoscenza del corpo umano. Anche se il grande ricercatore francese Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802) aveva descritto i tessuti umani osservati solo a occhio nudo con l'aiuto di una lente di ingrandimento e René-Théophile-Hyacinthe Laënnec (1781-1826) aveva messo in guardia dall'usare il microscopio per esplorare le più piccole alterazioni strutturali, entro breve tempo altri ricercatori ricorsero a questo strumento per studiare nel dettaglio i tessuti e per descriverli, insieme alle cellule, con sempre maggiore chiarezza. Tutto ciò fu possibile anche grazie a strumenti in grado di ottenere sezioni sempre più sottili e all'utilizzo di nuove sostanze per colorare i campioni.
Nel 1858 il patologo tedesco Rudolf Virchow (1821-1902) pubblicò Die Cellularpathologie (La patologia cellulare), nella quale descriveva la condizione fisiologica e patologica del corpo umano partendo dalle cellule. Attraverso quest'opera Virchow pose il microscopio al centro del nuovo mondo della scienza medica. Egli stabilì che tutte le cellule traevano origine da altre cellule e che la malattia trovava il suo fondamento in esse, che potevano essere adeguatamente studiate solo con un attento uso del microscopio.
Quando si consolidò l'apprezzamento per i servigi che il microscopio poteva offrire alla medicina, gli strumenti cominciarono a essere sempre più utilizzati nella pratica clinica. Una paziente, per esempio, poteva presentare dolori addominali causati da una infezione renale o da una infiammazione dell'appendice. Il microscopio si prestava benissimo a distinguere le due condizioni. La presenza di leucociti nell'urina indicava un'infezione del tratto urinario. Nel caso di un aumento dei leucociti nel sangue, il medico diagnosticava un'appendicite, malattia che alla fine dell'Ottocento era ritenuta tra quelle più facilmente affrontabili attraverso il risolutivo intervento del chirurgo.
Il microscopio, quindi, divenne centrale per l'esame dei liquidi corporei e per la microbiologia tanto da acquistare un valore simbolico. A mano a mano che la medicina iniziò ad apprezzare l'applicazione della scienza e della tecnologia, esso simboleggiò il medico aggiornato, tanto da essere spesso esposto in bell'evidenza anche se raramente utilizzato.
Diagnosi e analisi cliniche
L'esame della composizione chimica di alcuni liquidi organici e, in particolare, dell'urina (in quanto semplice da raccogliere, senza alcun disagio per il paziente e facile da analizzare attraverso un'ampia gamma di tecniche) si sposava bene con le teorie ottocentesche: la malattia era qualcosa che intaccava l'intero organismo e aveva a che fare con l'equilibrio tra ciò che una persona assorbiva e ciò che espelleva, di conseguenza l'attenta analisi dell'urina poteva rivelare ogni genere di malattia. L'arte di diagnosticare attraverso l'esame dell'urina, la cosiddetta uroscopia, era stata praticata fin dall'Antichità e questo esame è citato come elemento diagnostico almeno due volte nelle opere di Shakespeare. I medici avevano notato che quando l'urina era troppo dolce ‒ osservando i movimenti delle api nelle sue vicinanze o attraverso un apprezzamento diretto ‒ il paziente, spesso, soffriva di diabete, condizione caratterizzata anche da un'eccessiva minzione.
Il collegamento principale tra analisi chimica e pratica medica fu stabilito dalla pubblicazione dei Reports of medical cases (1827-1831) di Richard Bright (1789-1858), un medico del Guy's Hospital di Londra, che iniziò a studiare una malattia conosciuta come idropisia (oggi più comunemente detta 'edema'), un disturbo cronico caratterizzato da un rigonfiamento corporeo e accompagnato, spesso, da una diminuzione della minzione. Non era chiaro se il problema fosse dovuto a una disfunzione renale o a un'insufficienza cardiaca. Bright dimostrò che l'edema era caratterizzato non solo da modificazioni morfologiche e, in particolare, da una riduzione delle dimensioni dei reni riscontrabile a occhio nudo durante l'autopsia, ma anche da cambiamenti nella composizione chimica dell'urina che potevano essere rilevati, in vita, mediante le analisi. Riscaldando l'urina di un paziente affetto da edema in un cucchiaio posto sopra una candela, si produceva una sostanza bianca, l'albumina, indicatrice di un'anomala funzionalità renale. Questa scoperta, che consentì di differenziare le patologie renali da quelle cardiache, fu tanto importante che alcune forme di patologia renale sono conosciute ancora oggi come 'morbo di Bright'. Anche se la pubblicazione di Bright fu seguita da molti anni di dibattiti volti a stabilire la natura specifica dell'albumina, come si dovesse rilevarla e il significato della sua presenza nell'urina, fu fondamentale l'acquisizione della consapevolezza che l'analisi chimica di un liquido organico potesse essere messa in relazione con una patologia.
Nonostante l'interesse per le diagnosi basate su indagini di laboratorio, le concezioni di Bright erano profondamente radicate nelle convinzioni tipiche dei primi anni dell'Ottocento circa i rapporti tra gli umori organici. Egli si dava inoltre premura di sottolineare che la causa scatenante delle patologie renali fosse l'esposizione al freddo. Anche se alcune sue descrizioni si basavano sulle vecchie concezioni della malattia, il metodo diagnostico da lui elaborato avrebbe profondamente accresciuto le distanze tra medico e paziente. Alcune manifestazioni di queste malattie, come la nausea e le tumefazioni, continuavano a essere sintomi la cui conoscenza era condivisa dal medico e dal paziente; tuttavia, considerando le malattie in termini di cambiamenti nella composizione chimica dell'urina, o come modificazioni patologiche dei reni, la loro definizione si spostava in un campo non accessibile al paziente. All'inizio molti rifiutavano di credere a diagnosi basate esclusivamente su test di laboratorio e, quindi, non seguivano le indicazioni terapeutiche del medico (per es., il riposo a letto), ma progressivamente riconobbero l'importanza delle indagini di laboratorio e divennero sempre più desiderosi di affidare a questi test la definizione del proprio stato di salute e delle terapie adeguate.
Verso la fine dell'Ottocento, furono proposti nuovi metodi per analizzare l'urina e fornire informazioni circa la funzionalità renale, considerando che le alterazioni della concentrazione dell'urina fossero causate da diverse patologie. Si poteva anche diagnosticare un'insufficienza renale riscontrando un'inadeguata escrezione di prodotti metabolici nell'urina. Molto presto i medici scoprirono che un test ancora più interessante consisteva nel misurare la quantità dei prodotti metabolici nel sangue, consentendo una diagnosi di insufficienza renale più precoce. Con il passare del tempo la diagnosi con riferimento a un'insufficienza organica cominciò a essere applicata a un numero sempre maggiore di organi.
A differenza di molte altre tecniche diagnostiche esistono alcune testimonianze sul modo in cui l'esame delle urine veniva utilizzato, principalmente negli ospedali cittadini. Esso aveva più una funzione rituale che non il valore di un ponderato test scientifico; fondamentalmente, esso era eseguito su quasi tutti i pazienti indiscriminatamente e con la stessa frequenza. Quasi sempre gli esami erano eseguiti al momento del ricovero e raramente venivano ripetuti. Tale comportamento si modificò all'inizio del Novecento quando le urine cominciarono a essere esaminate più volte su pazienti affetti da malattie renali e anche, ma meno spesso, su quelli per i quali erano ritenute irrilevanti.
Alcuni ricercatori cominciarono a studiare la composizione chimica del sangue e, in questo contesto, la presenza di zuccheri fu associata ad alcune malattie. Altri studiarono sostanze come l'acido urico, considerato, potenzialmente, in relazione con la gotta. Successivamente, le componenti chimiche del sangue cominciarono a essere collegate con le malattie infettive, nella speranza, per esempio, di poter effettuare diagnosi della febbre tifoide, allora assai diffusa.
Il problema centrale per qualsiasi diagnosi basata sul sangue riguardava la quantità relativamente grande di campione ematico necessaria per effettuare le analisi. Anche alla fine dell'Ottocento il prelievo di circa 25 cc di sangue per testare gli zuccheri o l'acido urico non era una procedura facile da eseguire poiché richiedeva esperienza e strumenti appositi, e inoltre provocava dolore e paura nel paziente. Ad alcuni medici veniva addirittura consigliato di non fare prelievi di sangue ai loro pazienti privati più facoltosi. Principalmente a causa di queste difficoltà pratiche la chimica del sangue a fini diagnostici rimase una procedura non comune. All'inizio del Novecento la situazione cambiò, grazie all'avvento di nuovi strumenti di prelievo e alla possibilità di eseguire i test su quantità relativamente ridotte.
Nuovi metodi per analizzare il sangue furono strettamente legati agli sviluppi della microbiologia e dell'anatomia patologica. Virchow dedicò molto tempo ad analizzare il sangue anche prima della pubblicazione del suo testo sulla patologia cellulare. Altri ricercatori usarono il microscopio sulle orme dei patologi per definire le malattie delle cellule del sangue: tra questi, il medico parigino Gabriel Andral (1797-1876), che descrisse l'anemia, ovvero la scarsità di globuli rossi. Nel 1845 sia Virchow sia John H. Bennet (1812-1875), a Edimburgo, descrissero, indipendentemente, il caso in cui il normale rapporto tra globuli rossi e globuli bianchi si inverte, con prevalenza dei secondi. Virchow definì tale condizione con il termine, ancor oggi in uso, di 'leucemia' mentre Bennet la definì 'leucocitemia'. Negli anni successivi vennero descritte, con sempre maggiori dettagli, varie tecniche di analisi del sangue utilizzate però raramente. Era inoltre necessario acquisire un'appropriata tecnica per calcolare o stimare il numero di globuli rossi in una determinata quantità di sangue. Ancora all'inizio del Novecento, nonostante un generale accordo in letteratura, meno di un medico su mille era in grado di riconoscere i diversi tipi di cellule nel sangue.
Un'altra importante applicazione della microbiologia e della microscopia riguardò lo studio delle malattie infettive: una volta stabilito che alcune di esse erano riconducibili a specifici microrganismi, si era in grado di diagnosticarle identificando il particolare microrganismo che le causava; se non era presente, si doveva dedurre che il paziente non aveva la malattia in questione; un'acquisizione importante sia per il trattamento di quel paziente sia per la comprensione della storia naturale della malattia.
Prima che le tecniche della microbiologia divenissero un elemento di routine, nel processo diagnostico era essenziale avere a disposizione microscopi affidabili, facili da usare e a basso costo. Tuttavia anche altre innovazioni furono essenziali; la più importante fu la coltura su supporto solido inaugurata da Robert Koch (1843-1910). Successivamente furono introdotti l'uso dell'agar per solidificare i terreni nutritivi e, nel 1887, l'ormai comunissima capsula di Julius Richard Petri (1852-1921). A differenza dei terreni liquidi utilizzati da Pasteur, l'uso di quelli solidi permetteva di disporre sulla superficie il materiale infetto prelevato dal paziente. In tal modo i ricercatori potevano ottenere colonie pure sviluppate da un singolo organismo e fare una valutazione quantitativa dei batteri presenti. Per l'identificazione dei microrganismi si richiedeva, naturalmente, una grande attenzione all'impiego di coloranti, in assenza dei quali la maggior parte dei batteri non sarebbe stata identificabile neanche con un microscopio di grande qualità.
Alla fine del secolo esisteva ormai un elenco abbastanza ampio di malattie per le quali era stata descritta una causa microbiologica. Da un lato, le conoscenze della microbiologia avevano fortemente scosso i precedenti approcci clinici alla malattia e al malato; dall'altro, le effettive tecniche microbiologiche erano ancora usate in un ambito assai ristretto. Le colture batteriche erano infatti utilizzate solo in alcuni ospedali e da una ristretta élite di clinici, di conseguenza l'ingresso della microbiologia nella routine diagnostica doveva attendere gli sviluppi tecnologici del Novecento.
Tutti questi cambiamenti nella base scientifica della pratica medica si concentrarono in un periodo relativamente limitato, intorno alla fine dell'Ottocento. Anche la formazione dei medici si modificò, ma non così velocemente. Il cambiamento forse più importante nella cultura medica si ebbe a Baltimora, nel Maryland, sulla costa orientale degli Stati Uniti, dove alcuni innovatori, fin dagli anni Settanta, progettarono e fondarono la Johns Hopkins School of Medicine, che fu aperta all'inizio del 1893. La scuola attuò le allora recenti riforme nella formazione medica, che consistevano in più severi requisiti per potervi accedere, apertura anche alle donne su base paritaria con gli uomini, corso di quattro anni, curriculum in più gradi e controllo diretto sul proprio ospedale, e divenne ben presto per molti l'emblema stesso di tutto ciò che era valido in medicina. Uno dei più famosi medici fondatori della scuola fu Sir William B. Osler (1849-1919), già professore di medicina alla Johns Hopkins University e primario del Johns Hopkins Hospital: egli divenne il simbolo del 'buon medico', tanto che per ricordare i suoi insegnamenti esistono numerose Osler Societies e il suo nome è ancora molto considerato in tutto il mondo.
Nel 1892 Osler pubblicò The principles and practice of medicine, un manuale di nozioni e di pratica medica destinato all'uso dei medici e degli studenti di medicina, che ebbe fortissime ripercussioni per molti anni e giocò un ruolo chiave nella formazione di almeno due generazioni di medici. Quest'opera, che in parte percepiva ciò che sarebbe avvenuto nel secolo successivo, manteneva ancora al proprio centro la ricchezza del mondo ottocentesco ed è ritenuta un testo fondamentale per comprendere le più avanzate conoscenze mediche alla fine dell'Ottocento. Anche se, ovviamente, Osler era a conoscenza delle recenti scoperte della microbiologia che avevano cambiato così radicalmente la concezione delle malattie infettive, alcune sue dissertazioni, come quella sulla polmonite o sul morbo di Bright, vanno considerate come reminiscenze di idee del primo Ottocento che riguardano l'importanza degli umori nella diagnosi medica. Egli, per fare un esempio, continuava a ritenere che i salassi fossero un importante strumento terapeutico.
di Jacalyn Duffin
Durante il XIX sec. l'esame del corpo del paziente per formulare la diagnosi di malattia si trasformò da pratica casuale, e spesso singolare, nella più importante delle tecniche cliniche, assumendo un'importanza uguale, se non superiore, all'accurata acquisizione della storia del paziente. Questo cambiamento nella metodologia diagnostica derivò, come si è detto, da un ancor più importante mutamento del concetto di malattia, che si trasformò da insieme di sintomi soggettivi, accusati dal paziente, in complesso di precise alterazioni negli organi del corpo, riscontrabili in modo oggettivo dal medico. In base a tale concezione, vennero sviluppati numerosi metodi e tecniche per accertare quale fosse lo stato degli organi interni dei pazienti. Tali procedure scatenarono nei medici una passione per la misurazione, che culminò nella definizione di un concetto di normalità, basato su distribuzioni statistiche intorno a medie numeriche. La medicina moderna riconosce l'importanza di questi stessi metodi per la formulazione di una diagnosi anatomica precisa, anche se i critici lamentano che essi abbiano determinato un allontanamento tra medico e paziente. Questo profondo cambiamento è immediatamente evidente ponendo a confronto la diagnosi di una malattia antica e facilmente riconoscibile, come la polmonite, fatta da Philippe Pinel (1745-1826) all'inizio dell'Ottocento, e quella formulata da Osler negli ultimi anni del secolo.
Alcuni esami fisici mediante ispezione (osservazione) e palpazione (tatto) facevano parte del metodo diagnostico fin dall'Antichità. Già nei trattati di Ippocrate, per esempio, si riconosceva il significato negativo delle dita a bacchetta di tamburo (ippocratismo digitale) e della facies emaciata di un individuo morente; nei lavori di Galeno, inoltre, venivano descritte accuratamente le variazioni del battito e della frequenza del polso. Nel XVIII sec., erano stati inventati orologi particolari per misurare le pulsazioni, ma pare che il loro uso fosse limitato a una ristretta élite. L'esame delle urine, mediante osservazione, assaggio e verifica della reattività chimica (acido/base), godeva di un suo posto nella diagnostica, come l'osservazione a occhio nudo del sangue prelevato nel corso dei salassi; ciononostante, queste metodologie diagnostiche erano considerate d'importanza secondaria rispetto ai sintomi riferiti dal paziente.
Nel corso del XIX sec., l'avvento di nuove tecniche diagnostiche e la scoperta dell'anestesia e dell'antisepsi promossero una profonda trasformazione del concetto di malattia. Prime tra le nuove tecniche fisiche di diagnosi furono la percussione e l'auscultazione, che consentirono al medico di stabilire lo stato dei polmoni e del cuore nel paziente. Già nel 1761 l'austriaco Leopold Auenbrugger (1722-1809) aveva pubblicato un breve trattato in latino sul metodo per stabilire, mediante la percussione del torace del paziente, se i polmoni fossero sani e pieni d'aria, o malati e quindi pieni di liquido o pus. Egli aveva un sicuro talento musicale ed essendo figlio di un locandiere tracciò un'analogia con il modo in cui si percuote un barile di vino per determinare la quantità di liquido contenuta al suo interno. Tuttavia, poiché i medici, seguaci della nosologia basata sui sintomi, erano allora poco interessati alle esatte condizioni fisiche dei polmoni, il lavoro di Auenbrugger fu perlopiù ignorato e venne riscoperto, verificato, confermato e infine pubblicato in versione tradotta e ampliata soltanto nel 1808 da Jean-Nicolas Corvisart (1755-1821), che fu medico personale di Napoleone e professore della Scuola di medicina di Parigi in epoca postrivoluzionaria. Per verificare l'uso della percussione come metodo di diagnosi, Corvisart mise in relazione i segni fisici presenti nel malato con i riscontri autoptici. Egli nutrì un interesse particolare per le malattie cardiache e descrisse il fremito precordiale avvertibile al tatto come segno di stenosi della valvola mitrale. Il suo reparto all'Hôpital de la Charité era rinomato fra gli studenti, sia francesi sia stranieri, perché era uno dei pochi luoghi dove le nuove scoperte nel campo dell'anatomia potevano risultare significative ai fini della pratica clinica.
Un allievo di Corvisart, Laënnec, approfondì ulteriormente questo approccio acustico, combinando i segni identificati mediante la percussione del torace con quelli desunti dall'auscultazione. Benché egli attribuisse già a Ippocrate e poi all'amico Gaspard-Laurent Bayle (1774-1816) il merito d'aver intuito l'importanza dell'auscultazione, fu Laënnec il primo a descrivere e a dare un nome ai suoni respiratori e cardiaci percepibili in organismi sani e malati. Per agevolare questo compito egli inventò uno strumento in grado di trasmettere tali suoni e lo chiamò 'stetoscopio' (dai termini greci per 'torace' ed 'esplorazione'). Originariamente costituito da un quaderno arrotolato, verso la fine del 1817 lo stetoscopio era diventato un cilindro di legno incernierato nel mezzo per facilitarne il trasporto.
Nelle due edizioni del suo trattato De l'auscultation médiate ou traité du diagnostique des maladies des poumons et du coeur (1819 e 1826), Laënnec descrisse i gorgoglii, i sibili e le variazioni dei suoni respiratori udibili attraverso le vie aeree e il tessuto polmonare e coniò i termini 'egofonia', 'pettoriloquia', 'murmure' e 'crepitio'. La persistente confusione sui termini 'ronchi' e 'rantoli', dibattuta nei manuali diagnostici in lingua inglese, deriva dal fatto che Laënnec sosteneva l'opportunità di parlare in latino in presenza dei pazienti, al fine di evitare di spaventarli, ma anche di informarli. L'interpretazione data da Laënnec dei suoni, o toni, e dei soffi cardiaci era diversa da quella odierna. Egli pensava che il primo e il secondo tono cardiaco rappresentassero la contrazione rispettivamente dei ventricoli e degli atri, e conosceva, anche se lo contestava, il segno dello sfregamento pericardico, scoperto dal suo giovane collega Victor Collin nel 1823. Un anno prima, un altro collega, Jean-Alexandre Lejumeau de Kergaradec, aveva proposto l'auscultazione fetale e aveva descritto il soffio placentare. Altri utilizzarono lo stetoscopio per individuare fratture ossee e calcoli alla vescica.
Il metodo di Laënnec e il suo strumento si diffusero rapidamente in Inghilterra, in Europa e nell'America Settentrionale e le tecniche di auscultazione vennero insegnate in molte sedi accademiche a partire dal 1835 circa. William Stokes a Dublino, Josef Skoda a Vienna, Ludwig Traube a Berlino, Pierre-Charles-Édouard Potain a Parigi e Austin Flint a Buffalo ampliarono le ricerche di Laënnec sulla percussione e l'auscultazione con nuove osservazioni che pubblicarono nei loro trattati. Skoda descrisse il fenomeno dell'aumento di risonanza alla percussione (1839), Traube e Potain descrissero il ritmo di galoppo e la natura dell'insufficienza cardiaca (1859 e 1875), Flint descrisse infine il soffio diastolico udibile nell'insufficienza aortica grave (1862). Traube identificò anche una regione a forma triangolare nell'emitorace sinistro, che risultava sorda alla percussione e che egli associò all'ingrossamento splenico.
Nel 1832 J. Rouanet suggerì (ma non riuscì a dimostrarla) un'interpretazione dei toni cardiaci che si avvicina molto a quella attualmente accettata: il primo tono era associato alla chiusura delle valvole mitrale e tricuspide; il secondo, a quella delle valvole polmonare e aortica. Vennero formulate altre ipotesi: François Magendie (1783-1855), per esempio, affermò che i toni cardiaci fossero dovuti all'impatto del cuore sulla parete toracica. La controversia sul significato di questi rumori portò a conferenze e a dispute fino al 1861, quando Jean-Baptiste-Auguste Chauveau ed Étienne-Jules Marey riuscirono a misurare la pressione intracardiaca di un cavallo mediante cateterismo cardiaco.
Al fine di mettere in relazione l'esame fisico con lo stato degli organi interni, si idearono diverse interessanti tecniche diagnostiche e furono inoltre sviluppati vari modelli e metodologie d'indagine, la più nota delle quali fu forse la frenologia. Fondata da Franz Joseph Gall (1758-1828) e Johann Gaspar (Christoph) Spurzheim (1776-1832), questa disciplina si proponeva di mettere in relazione lo stato mentale e quello nervoso del paziente attraverso l'osservazione e la palpazione della forma e delle dimensioni del cranio. Benché oggi del tutto inaccettabile dal punto di vista scientifico, la frenologia parve allora sensata ai medici ansiosi di scoprire nuovi metodi per indagare all'interno dell'organismo. Essa fu coltivata da molti fra i più noti medici dei primi anni del XIX sec. e circolò nella letteratura popolare anche quando l'interesse medico andò scemando.
Durante questo periodo di accresciuto interesse per la diagnostica cardiologica, nuova attenzione venne rivolta al significato delle pulsazioni. Nel 1827 Robert Adams descrisse l'insufficienza della tricuspide. Fino ad allora, si era pensato che le lesioni delle valvole cardiache determinassero solo un'ostruzione al flusso ematico; grazie all'intuizione di Adams vennero invece descritti in rapida successione i quadri clinici delle insufficienze e delle stenosi valvolari isolate o combinate. Cinque anni più tardi Dominic J. Corrigan (1802-1880) descrisse l'insufficienza aortica e il caratteristico polso scoccante, indice della malattia. Verso il 1860 Marey applicò l'elettricità allo studio delle pulsazioni, al fine di produrre un tracciato visibile delle variazioni della pressione nel tempo; nel 1880 ca. Samuel Sigfried von Basch costruì lo sfigmomanometro (il bracciale per misurare la pressione sanguigna), che forniva un metodo non invasivo per misurare effettivamente le variazioni di pressione. Nel 1893 James Mackenzie utilizzò queste tecniche per mettere ordine nella schiera confusa delle aritmie cardiache; soltanto nel 1903 Willem Einthoven inventò un elettrocardiografo per uso clinico. L'importanza dell'auscultazione si estese ben oltre le malattie del torace; consentendo ai medici di individuare alterazioni fisiche nel paziente in vita, essa indusse infatti a studiare nuove tecniche per fare altrettanto in altre parti del corpo. In un contesto di elevata mortalità dovuta a tubercolosi polmonare, l'auscultazione rese possibile distinguere gli ammalati colpiti in modo lieve e transitorio da quelli terminali. Lo stetoscopio, inoltre, consentì di individuare alterazioni polmonari prima della comparsa dei sintomi, permettendo al medico di diagnosticare la malattia in persone che non accusavano disturbi. L'auscultazione avvalorò quindi la concezione anatomica delle malattie e comportò che i pazienti non fossero più l'autorità assoluta nella valutazione del proprio stato di salute: una persona poteva essere malata senza rendersene conto e soltanto il medico era in grado di stabilirlo. Per facilitare l'esplorazione all'interno dell'organismo vennero inventati altri strumenti per la visualizzazione diretta o indiretta degli organi interni: il laringoscopio (Benjamin G. Babington, 1829); l'oftalmoscopio (Hermann von Helmholtz, 1851); il cistoscopio (Maximilian Nitze e Josef Leiter, 1879); il broncoscopio e l'esofagoscopio (Gustav Killian, 1898); i raggi X (Wilhelm Conrad Röntgen, 1895).
di Jacalyn Duffin
Il microscopio, che era stato inventato più di un secolo e mezzo prima, venne perfezionato mediante l'aggiunta di lenti composte e acromatiche. La diffidenza medica di vecchia data nei confronti della microscopia affondava le sue radici nel problema della distorsione dell'immagine, ma derivava anche dalla mancanza di applicazioni in epoca preanatomica. Le nuove lenti aiutarono a superare il primo problema, mentre il successo dei metodi anatomici risolse il secondo. Ispirati dagli scritti di J.C. Smith (1741-1821), Bichat e Pinel, pur non utilizzando il microscopio, riuscirono a intuire che talune lesioni erano caratteristiche di determinati tipi di tessuto. Sangue e urina ‒ da sempre oggetto di studio da parte dei medici ‒ furono allora analizzati al microscopio, e Andral, nel 1829, fornì una definizione obiettiva dell'anemia come diminuzione del numero di globuli rossi visibili al microscopio. Egli trovò anche la connessione tra la clorosi ‒ una vecchia e indeterminata malattia che logorava l'organismo di giovani donne dall'aspetto pallido ‒ e una ridotta dimensione degli stessi globuli. L'entusiasmo nei confronti delle analisi microscopiche dei tessuti incoraggiò lo studio sui coloranti istologici, promosso da Alfred Donné nel 1840 e da Joseph von Gerlach nel 1855. Il concetto di lesione venne immediatamente esteso dai tessuti alle cellule per opera di Virchow, e ciò consentì di identificare nuove malattie: la leucemia (1845), la trombosi e l'embolia (1856), nonché di sviluppare il concetto di patologia cellulare. Nel 1870 la ridefinizione in termini cellulari del concetto di lesione ‒ unita alle maggiori possibilità di intervenire chirurgicamente in modo elettivo grazie all'anestesia e all'antisepsi ‒ condusse all'esecuzione di 'biopsie' chirurgiche come forma diretta di diagnosi fisica. Il termine 'biopsia' fu coniato nel 1879 dal dermatologo francese Ernest-Henri Besnier per evidenziare le potenzialità terapeutiche della nuova tecnica rispetto alla funzione puramente diagnostica del suo equivalente post mortem, l'autopsia.
La teoria dei germi, un altro prodotto dell'impegno profuso nell'indagine microscopica, estese la serie delle indagini applicabili ai fluidi corporei, quali l'espettorato, il sangue e l'urina; verso il 1900, per esempio, più di tre quarti dei pazienti ricoverati in due ospedali cittadini statunitensi venivano sottoposti, durante la loro degenza, ad almeno un'analisi delle urine (Howell 1995). Vennero quindi inventate nuove colorazioni per poter distinguere i microrganismi dai tessuti da essi infettati e per differenziare i diversi tipi di cellule ematiche. Varianti di alcune di queste colorazioni sono tuttora in uso: la colorazione di Franz Ziehl per i batteri acidoresistenti della tubercolosi, proposta nel 1882; la colorazione di Hans Christian Gram per i batteri, presentata nel 1884, e varie colorazioni per le cellule ematiche escogitate da Paul Ehrlich e descritte durante il decennio che va dal 1877 al 1886.
Nel corso della ridefinizione di tutte le malattie come conseguenze di alterazioni organiche, per diverse vecchie patologie vennero formulate nuove descrizioni, che mettevano in relazione sintomi noti da tempo con particolari lesioni anatomiche, individuate o presunte durante la vita del paziente. Nel 1827, per esempio, Bright stabilì un legame tra la malattia del rene e la presenza nell'urina di una sostanza che si coagulava se fatta bollire, l'albumina; questo esame, come si è detto, consentì di distinguere tra l'edema causato da insufficienza cardiaca e quello dovuto a insufficienza renale. L'albuminuria era stata osservata altre volte a partire dalla metà del XVII sec., ma fu Bright ad associarla per primo a una specifica alterazione organica.
Nei vent'anni che seguirono furono individuate diverse altre malattie paradigmatiche di questo nuovo orientamento anatomoclinico. Nel 1832, Thomas Hodgkin descrisse il morbo febbrile, debilitante e mortale, che ora porta il suo nome. Tre anni più tardi, Robert Graves mise assieme osservazioni disparate effettuate sia nell'Antichità sia dal suo predecessore a Dublino Caleb H. Parry (1755-1822), riuscendo a formulare la descrizione clinica classica del gozzo esoftalmico, che comprendeva gli effetti della tireotossicosi sul cuore e su altri organi. In modo analogo, nel 1855, Thomas Addison associò una sindrome caratterizzata da debolezza e da aumentata pigmentazione cutanea con un'alterazione delle ghiandole surrenali. In queste (ma anche in altre) sindromi connesse con l'iper- o l'ipoattività di vari organi, molti sintomi diversi vennero ricondotti all'alterazione di un singolo organo. Ogni qual volta avessero sospettato una sindrome di questo tipo, i medici aggiornati sarebbero dovuti andare alla ricerca, tramite indagini fisiche sempre più approfondite, di determinati segni, come alterazioni del ritmo cardiaco, ingrossamento dei linfonodi, della milza o della tiroide, alterazioni palpebrali, leggeri tremori e pigmentazione di unghie, capezzoli e mucose.
Dopo l'avvento dell'anestesia e dell'antisepsi, nuovi rilievi fisici divennero segni di patologie chirurgiche. Nel 1889, per esempio, Charles MacBurney descrisse il punto di sensibilità delle dimensioni di una moneta che si trova a metà strada tra la cresta iliaca e la sinfisi pubica, utilizzato per diagnosticare l'appendicite. Allo stesso modo, l'anno seguente, Ludwig G. Courvoisier notò che un ingrossamento della colecisti dovuto all'ostruzione del dotto biliare comune poteva indicare la presenza del cancro della testa del pancreas. Due anni più tardi, la suora francescana Mary J. Dempsey, capoinfermiera alla Mayo Clinic, notò che un nodulo all'ombelico costituiva un segno prognostico negativo in quanto indice della presenza di una neoplasia occulta (il dato fu poi pubblicato da William J. Mayo nel 1928).
A molti segni fisici è stato dato il nome di coloro che presumibilmente li hanno notati per primi; tuttavia, nell'assegnazione di tali eponimi, gli storici della medicina sono spesso incorsi in errori di priorità. Tipico esempio dell'imprecisione degli eponimi è il 'segno di Chadwick', lo scurimento bluastro della cervice uterina come segno precoce di gravidanza. Notato per la prima volta da E.J. Jacquemin verso il 1835, questo segno prese il nome da James R. Chadwick (1844-1905) che ne aveva fornito la descrizione nel 1886, nonostante questi ne avesse diligentemente attribuito la scoperta al francese.
L'approccio fisico alla diagnosi raggiunse il proprio culmine in campo neurologico. In questo ambito, l'attenta osservazione dei deficit risultanti da lesioni non letali del sistema nervoso venne messa in relazione con scoperte fatte nel corso di autopsie, spesso effettuate molto tempo dopo la morte del paziente. Invitando il malato a eseguire specifiche e semplici prove motorie, sensoriali o cognitive, gli esperti erano in grado di scoprire con sorprendente precisione i segni diagnostici tipici di una determinata localizzazione funzionale o di un particolare tipo di lesione nel cervello, nella colonna spinale o nei nervi. Nel 1817 James Parkinson descrisse il particolare tipo di tremore, caratteristico della malattia che tuttora porta il suo nome; nel 1830 Charles Bell collegò diversi tipi di paralisi a strutture specifiche del sistema nervoso.
Tra i molti altri studiosi che vengono ricordati negli eponimi per i segni fisici e le sindromi che indicano specifiche patologie organiche del sistema nervoso ci sono Moritz Heinrich Romberg, che descrisse il segno caratteristico dell'atassia cerebellare nel 1840; Charles-Édouard Brown-Séquard, che descrisse i segni delle patologie spinali nel 1855; Prosper Ménière, che nel 1861 definì una sindrome caratterizzata da vertigini conseguenti a patologie dell'orecchio; Douglas A. Robertson, che nel 1869 illustrò le alterazioni oculari della sifilide terziaria; Johann Friedrich Horner, che nel 1870 associò miosi unilaterale, ptosi e anidria a una lesione di uno specifico percorso simpatico; Nikolaus Friedrich, che nel 1876 descrisse l'atassia ereditaria; Gilles de La Tourette, che nel 1885 riconobbe la sindrome caratterizzata da disordine nei movimenti e nel linguaggio; e soprattutto Jean-Martin Charcot, che descrisse nel 1859 il dolore da claudicazione intermittente, nel 1865 la sclerosi laterale amiotrofica, nel 1866 la sclerosi multipla e nel 1868 le alterazioni neuropatiche della tabe dorsale. Tutte queste osservazioni ampliarono molto le possibilità di approccio fisico alla diagnosi. I medici non fecero più osservazioni passive (come Thomas Sydenham quando aveva descritto la corea) e si dedicarono al tentativo di evidenziare le anomalie funzionali in modi che ben presto sarebbero diventati procedure standardizzate della diagnosi fisica.
I riflessi da stiramento negli esseri umani sani vennero riconosciuti da Marshall Hall, nel 1837, mentre l'importanza diagnostica dell'alterazione del riflesso rotuleo ‒ per assenza, diminuzione o aumento ‒ venne descritta indipendentemente e contemporaneamente, nel 1875, da Wilhelm Heinrich Erb e da Karl Westphal; Joseph Babinski nel 1896 collegò la risposta plantare che ora porta il suo nome a una patologia del tratto piramidale. Inizialmente, durante la visita i medici usavano le proprie dita per verificare la presenza dei riflessi; ben presto, però, per lo stesso scopo furono utilizzati martelletti da percussione, i quali però si dimostrarono troppo leggeri per sortire l'effetto voluto. Il primo strumento appositamente progettato per valutare i riflessi fu il martelletto triangolare di gomma introdotto nel 1888 da James M. Taylor.
La febbre, ovvero un aumento rilevante del normale calore corporeo valutabile al tatto, era nota da tempo: già gli ippocratici conoscevano lo schema ciclico di improvviso aumento e successivo declino della temperatura, tipico dell'infezione malarica. Nel 1800 i medici non utilizzavano ancora i termometri; pur essendo stati inventati alla fine del XVI sec., essi erano ancora grandi e ingombranti, inoltre, non si riconosceva alcuna utilità alla misurazione precisa della febbre. Quando un dottore diagnosticava una 'febbre elevata', ciò poteva generalmente indicare un polso accelerato. Nel 1851 Friedrich Wilhelm F. von Bärensprung pubblicò un trattato sulle temperature rilevate in individui sani e malati, compresi i feti. Nel 1867 Thomas C. Allbutt si convinse dell'importanza di misurare la temperatura e propose un termometro più piccolo e di facile lettura, adatto per l'uso clinico. L'anno seguente, Carl Wunderlich (1815-1877) pubblicò dettagliate osservazioni, da lui effettuate nel corso di dodici anni, sulla misurazione della temperatura in varie malattie, per alcune delle quali si rilevavano modificazioni caratteristiche: per esempio, nel tifo l'incremento della temperatura era maggiore rispetto al modesto aumento di frequenza del polso. Influenzati da Wunderlich, e probabilmente anche da Edward Séguin, il cui lavoro apparve un decennio più tardi, prima del 1880 ovunque i medici applicavano ormai la termometria nella pratica clinica.
L'interesse per le misurazioni si estese poi al peso corporeo e all'altezza. A partire dal 1750 vennero stabilite tabelle dei pesi e delle altezze ideali, prima per le fasi di sviluppo dei bambini ‒ da Johann Georg Roederer e da Dietz, un suo studente ‒, poi per gli adulti. Si produssero inoltre elaborati indici statistici di mortalità, morbilità e ambientali, elaborati a partire dal 1830 da Lambert-Adolphe-Jacques Quételet, statistico e sociologo belga. Così, medie numeriche e 'norme' sostituirono il vago concetto qualitativo di 'naturale' e a partire dal 1880, in vari paesi europei e dell'America Settentrionale, i bambini in età scolare vennero esaminati secondo questi nuovi standard di 'normalità'. Alcuni medici cominciarono a proporre di misurare il peso con regolarità e la bilancia divenne parte della dotazione tipica dell'ambulatorio medico.
Verso la fine del secolo, a persone in apparente buona salute veniva raccomandato di sottoporsi a esami fisici periodici per valutare lo stato fisico dell'organismo. Vi era ormai la convinzione che anche individui privi di sintomi potessero covare gravi malattie organiche e che i medici fossero in grado di diagnosticare tali malattie non ancora manifeste; queste raccomandazioni, dunque, erano impartite nella speranza che la diagnosi precoce potesse salvare delle vite e impedire delle sofferenze, grazie anche alla possibilità di utilizzare terapie efficaci. Tra i primi esponenti di questa filosofia va ricordato Horace B. Dobell (1828-1917), il cui trattato sull'argomento, Lectures [...] on the prevention of the invasion and fatality of disease by periodical examinations, apparve nel 1861; tuttavia, i medici che adottarono con maggiore entusiasmo questo concetto degli esami fisici periodici furono quelli impiegati presso le compagnie di assicurazione, motivati non tanto dalla speranza che la diagnosi precoce consentisse di prevenire o curare le malattie, quanto dall'idea che essa avrebbe facilitato particolari modifiche dei premi assicurativi, consentendo maggiori profitti.
Nel 1800 Pinel diagnosticò la polmonite sulla base di una dettagliata storia dei sintomi del paziente, comprendenti insufficienza respiratoria, tosse, dolori al torace e febbre; probabilmente, poteva anche aver osservato un modesto incremento del polso e della temperatura, semplicemente toccando il paziente. Di fronte a un malato simile, un secolo più tardi Osler non solo avrebbe raccolto un'attenta anamnesi, ma avrebbe misurato con precisione il ritmo del polso, la respirazione, la temperatura, l'espansione toracica e probabilmente anche la pressione sanguigna, esaminando il torace mediante ispezione, palpazione, percussione e auscultazione tramite uno stetoscopio. Egli avrebbe inoltre ispezionato altre parti del corpo del paziente per poter escludere l'eventuale presenza di ulteriori patologie localizzate, in particolare meningite e colite. Avendo una preparazione come patologo, probabilmente si sarebbe procurato dei campioni di urina, sangue e possibilmente espettorato, per esaminarli al microscopio. Se la diagnosi si fosse rivelata difficile, avrebbe preso in considerazione la possibilità di acquisire un quadro radiologico del torace del paziente, tramite una procedura sempre più diffusa durante la prima decade del XX secolo. La medicina clinica del 1900 sarà molto più vicina a quella dell'anno 2000 che a quella del 1800 (Bynum 1994); l'avvento e il trionfo del concetto anatomico di malattia e dei metodi fisici di diagnosi ne sono i motivi principali.
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