L'ultima fase della serenissima: nota introduttiva
"Dopo quest'epoca", scrisse nel 1818 Sismondi nella sua celebre Histoire des républiques italiennes du moyen âge in riferimento alla pace conclusa a Passarowitz cento anni prima e a commento dell'ultima stagione della Serenissima, "la Repubblica trovò la maniera di sottrarsi intieramente alla storia e di non lasciare veruna memoria della sua esistenza" (1). Un'affermazione parecchio simile riguardo al fatidico 1718 fu sottoscritta in quegli stessi mesi da Pierre Daru nell'Histoire de la République de Venise: "ici finit l'histoire de Venise, ou du moins ici terminent ses rapports avec le reste du monde" (2). Fuga dalla storia, ma soprattutto fuga dalla storiografia per Sismondi, che riconosceva alla Venezia settecentesca un solo storico, ahimè affatto illeggibile, Vettor Sandi; fuga dalla dimensione internazionale per Daru, un ex intendente generale della Grande Armée che rimaneva fedele ad una visione napoleonica del mondo e della storia e che pertanto, una volta posto di fronte ad uno Stato che era riuscito a vegetare per ottant'anni evitando - a suo dire - di sostenere guerre, di concludere paci e di manifestare una qualsivoglia volontà, gli concedeva unicamente "une existence passive". "Isolée au milieu des nations, imperturbable dans son indifférence, aveugle sur ses intérêts, insensible aux injures, elle sacrifiait tout à l'unique desir de ne point donner d'ombrage aux autres états, et de conserver une paix éternelle": la Repubblica si era "fait un système" di "cet état d'apathie".
Non meraviglia quindi che anche per Daru "l'histoire des Vénitiens" fosse "stérile pendant cet interval", vale a dire tra Passarowitz e la scomparsa della Serenissima nel 1797. In linea di principio - riconosceva lo storico francese, che non aveva dimenticato, nonostante tutto, la massima illuministica che le nazioni fortunate non hanno storia - "il faudrait en féliciter ce peuple": non era questo, tuttavia, il caso di Venezia, il cui "long repos" era stato in realtà "le sommeil précurseur de la mort" (3). Si sa che questa visione del Settecento veneziano come una lenta e muta agonia, un sonno, anzi - meglio - un corna irreversibile, consentiva di avvalorare la tesi centrale dell'opera di Daru, l'assunto, cioè, che Bonaparte non era stato - come pretendeva la pubblicistica misogallica - il perfido assassino della Serenissima, ma si era limitato a commutare il "long repos" e la "paix éternelle" in questo mondo, a cui aspirava la Repubblica, nell'eterno riposo e nella pace altrettanto eterna in quell'altro (4). Non è certamente questo l'unico aspetto discutibile dell'Histoire de la République de Venise, un'opera a tesi incline alle affermazioni sommarie. "Ni guerres à soutenir, ni paix à conclure, ni volonté à exprimer", sosteneva ad esempio, come abbiamo visto, lo storico francese, quando invece dopo Passarowitz perfino l'imbelle Venezia una guerra la combatté, quella contro Tunisi (1784-1792), così come concluse delle paci - sia pure di regola, come accadde nel 1766 nel caso di Tripoli, "senza sbarar un schioppo" (5) - con chi ne insidiava il commercio mediterraneo, i corsari barbareschi, e infine espresse quanto meno una volontà ῾negativa', quella di vivere ai margini della grande storia.
Naturalmente Daru non è stato il solo a presentare il Settecento veneziano sotto il segno del pervasivo degrado e dell'inarrestabile decadenza. Valga per tutte, a testimonianza della fortuna di un luogo comune usualmente presidiato da temi scontati quali il carnevale ῾permanente' (6), i libertini alla Casanova, i cicisbei, il lusso, la corruzione, l'irreligione e via moraleggiando, la filippica di un appassionato cultore di storia della Serenissima vissuto nel secolo scorso, Giovanni Rossi: "i Veneziani dopo la perdita della Morea agli ozi della pace si abbandonarono. Per circa ottanta anni si visse nella città con grandissima inerzia; l'amore per la pubblica vera fortuna sommamente si è indebolito: le tendenze alla mollezza, al lusso, alla gozzoviglia immensamente si accrebbero, snervaronsi tutte le civiche virtù. Non si pensava che a grandeggiare e a solazzarsi" (7). Ma, se bisogna prendere le distanze da queste letture di maniera della Venezia settecentesca, si deve anche riconoscere che i commenti di Daru e, soprattutto, di Sismondi coglievano, in parte, nel segno.
In particolare l'"afasia" della storiografia pubblica, il "mutismo settecentesco" del regime marciano dopo Passarowitz è un dato acquisito (8). Nel 1719 si arrestò anche - e non fu certamente un caso - la compilazione degli Annali, una silloge di atti ufficiali della Repubblica in esteso o in sommario, che era raccolta allo scopo di offrire una traccia agli storici pubblici. Tre anni prima Piero Garzoni, lo storiografo in carica, aveva pubblicato il secondo e, di fatto, ultimo tomo dell'Istoria della Repubblica di Venezia: scriverà anche, nei primi anni 1720, alcune pagine del terzo, ma, di fronte alle difficoltà e ai rischi di raccontare "la perdita rapida ed infelice del nobilissimo e fertilissimo regno della Morea", un compito che gli avrebbe certamente guadagnato "l'odio de molti concittadini", getterà la spugna e deciderà di "sospender c non continuar l'impresa" (9). I successori di Garzoni nell'incarico di storiografo pubblico o sceglieranno, come farà Marco Foscarini, di scrivere un'altra storia di Venezia, una storia della "letteratura", vale a dire della cultura, cittadina e quindi si guarderanno bene dal proseguire la tradizionale narrazione politico-diplomatico-militare (10) oppure, come accadrà a Nicolò Donà, la morte li raggiungerà prima che si accingessero a riprendere il filo lasciato cadere da Garzoni oppure ancora - e sarà quest'ultimo il caso di Francesco Donà, il figlio di Nicolò che chiuderà la serie poco meno che trisecolare degli storici pubblici - assolveranno diligentemente, ancorché parzialmente, il loro pensum, ma vedranno il consiglio dei X mettere sotto chiave il frutto del loro impegno (11).
Tuttavia, se la Repubblica non poté o non volle più continuare a narrare con tutti i crismi dell'ufficialità la propria storia politica successiva alla perdita della Morea, non per questo la sua classe dirigente rinunciò, come è ovvio, ad analizzare e ad interpretare il flusso degli accadimenti: anzi, proprio nel Settecento si approdò, sulla scia di Vico e di Montesquieu, ad una sorta di filosofia della storia veneziana. Intorno a metà secolo Giacomo Nani affrontò il tema "dei vari passaggi della nostra Repubblica nei scorsi tempi a diversi fini politici": ne risultò un tentativo di ripercorrere la storia marciana al di fuori dei tradizionali schemi politico-costituzionali e invece alla luce di una successione di "principi", di "spiriti", di una sorta di categorie kantiane della politica. Nani disegnò una vera e propria parabola: Venezia, che riconosceva la propria matrice nel "principio di quiete", era stata successivamente dominata dallo "spirito di commercio" e in seguito da quello "di conquista". All'indomani della prima, vittoriosa guerra della Morea, nella Repubblica aveva preso "piede e possesso anzi intiero quello di quiete politica": nel 1718, "perduto quello che in allora si potea perdere", aveva "ripreso il suo sonno ed assopito ogni suo sentimento" (12).
Trent'anni più tardi Francesco Donà riprese, in quella Storia della Repubblica di Venezia dall'anno MDCCXIV sin a giorni presenti cui - come è già stato accennato - il consiglio dei X rifiutò la pubblicazione, il filo della riflessione naniana, individuando tre età dominate da altrettante "massime", da altrettanti "interessi fondamentali dello Stato": i commerci, le conquiste, le difese. Si potrebbe essere indotti a considerare la massima delle "difese" un equivalente edulcorato del principio di "quiete politica" icasticamente sottolineato da Nani con metafore coincidenti o quasi con quelle che sarebbero state utilizzate da Daru ("sonno", "inazione", ecc.). Ma, se non si deve dimenticare che, mentre Nani aveva redatto un'analisi ad uso personale, Donà era invece lo storiografo pubblico in carica e pertanto non poteva permettersi di tracciare un ritratto scopertamente critico del regime, è anche vero che lo scarto tra le due chiavi di lettura della Venezia del Settecento va imputato soprattutto al metro impiegato dai due patrizi.
Nani, che era - come del resto Daru - un militare, teneva conto soprattutto della politica estera rinunciataria della Repubblica: "quantunque chiamata e invitata a prender parte nelle differenze d'Europa e d'Italia, e nella guerra del 1733 per l'elezione del Re di Polonia, e nel 1740 per l'estinzion di Casa d'Austria, ella fu sorda, insensibile alle esibizioni, temendo di tutto azardare, se per una qualche parte si avesse determinato". Assai diversa l'ottica di Donà, che al contrario condannava la "falsa idea della gloria" militare ed esaltava conseguentemente, nella scia del suo Mentore politico Andrea Tron, le "conquiste pacifiche utili più ch'altre ad ogni Nazione cioè quelle che il Governo fà nello stato proprio a benefizio de propri sudditi". Donà auspicava un "Governo, che non pensi ad ingrandimento, ma che dalle circostanze proprie o dall'altrui sia unicamente rivolto alla propria conservazione, all'arricchimento, alla tranquillità de suoi sudditi, ed a riparar quanto mai i discapiti che fussero derivati o dai retrogradi passi ch'avesse fatti nel proprio circolo inevitabile o dall'altrui ingrandimento o dall'avversità degl'avvenimenti, che suol derivarne frequentemente". Certo, era necessario tenere d'occhio "l'altrui ingrandimento", ma guardandosi bene dal "prender parte nelle differenze d'Europa e d'Italia". La Repubblica si doveva invece impegnare su tutt'altro fronte, quello dello sviluppo interno; "l'ampiezza e la distribuzione migliore della nazionale ricchezza, l'industria cultrice, lavoratrice, commerziante, la tranquillità del Governo, l'educazione della Gioventù, la multiplicazione del Popolo": era questo l'inventario dei temi, che meritavano l'intervento dello Stato.
Donà invitava Venezia ad una politica nello stesso tempo realistica e relativistica. Era necessario, in primo luogo, stabilire "la meta cui possa aspirare ogni Governo" (va da sé che al centro di questa generica normativa era un governo, quello della Serenissima), determinare "il sistema di direzione più confacente ad accellerar rispettivamente o ritardar alla Nazione il suo ingrandimento o la sua decadenza". Avvertiva, di conseguenza, che "ogni direzion d'un Governo, per quanto sia virtuosa e lodevole in se medesima, sarà sempre pericolosa, quando non sia proporzionata alle forze di lui e non sia generatrice d'un bene reale per lo Stato". Pertanto lo stesso "amor di Patria" così come le altre "virtudi" patrimonio da sempre della cultura lagunare "mal si esaltano a misura che brillano più o meno vivacemente in se stesse, mentre non possono essere utili ad uno Stato, se non in quanto servano alla difesa, alla ricchezza e a forza di lui nelle occasioni dirette dalla massima centrale del Governo". Ad esempio, la tanto esaltata conquista della Morea "deluse l'aspettazione delle sue conseguenze", sia perché si trattava di un regno indubbiamente "ampio, ma intieramente deserto di popolazione, di coltura, di costumi, d'industria", sia soprattutto perché "gl'effetti che ne provennero dimostrarono quanto essa fu superior alle forze della Repubblica" (13).
Come aveva riassunto qualche anno prima in versi l'abate Angelo Maria Barbaro, un funzionario di secondo piano assai vicino a Tron, "i gran Senatori" si erano da tempo rassegnati all'idea che "stà Republica / xè debole, e slogada / dal tempo, e dai abusi", che aveva già fatto - volendo riprendere la metafora astronomica di Donà - parecchi "retrogradi passi" "nel proprio circolo inevitabile". La politica veneziana doveva selezionare gli obbiettivi, scegliere una "direzion [...] proporzionata alle forze" della Repubblica: non stupisce quindi che quei "gran Senatori" "studia la note, e il dì / l'interno a puntelar, / e l'esterno soltanto a sbianchizar" (14), si concentrassero, in altre parole, sulla politica interna a spese di una politica estera, dalla quale si attendevano unicamente che la Serenissima continuasse a godere di un rispetto formale da parte del concerto europeo. Quindi, in sintesi, la naniana "quiete politica" nelle relazioni internazionali e, quanto meno nei programmi e nelle intenzioni di Donà, di Tron e, più in generale, del ῾partito' delle riforme, una "difesa" attiva, anche se disincantata, all'interno dello Stato.
Certo, rimane tutta da dimostrare la pertinenza di questa chiave di lettura bifronte, più che dell'ultimo secolo della Serenissima, della politica del suo governo. Quel che è sicuro è che il collasso finale della Repubblica aristocratica non autorizza a liquidare in maniera sommaria il secolo in quanto affatto sterile di eventi e di protagonisti significativi, né a condividere la tesi estremista che la cappa plumbea dell'"apathie", della passività e dell'indifferenza abbia ricoperto gli ottant'anni della storia veneziana successivi al 1718. In primo luogo, come ha sottolineato Ennio Concina (probabilmente non del tutto a ragione, come si vedrà più avanti, riguardo alla "materia urbana", ma cogliendo certamente il bersaglio su un piano più generale), nel Settecento "le prospettive della città e quelle della Repubblica tendono a divergere" e di conseguenza soltanto fino ad un certo punto è lecito identificare, come tendevano invece a fare Daru e pour cause i patrizi veneziani, "la République" con "les Vénitiens", il corpo aristocratico con la "nation" o con il "peuple" della Dominante. Inoltre va tenuto presente, sempre sulla scia di Concina, che nella Venezia settecentesca "il quadro" non è tanto quello della decadenza o del declino quanto "piuttosto quello della forza inerte di antiche strutture" (15): riesce quindi difficile dare torto allo storicista Donà quando affermava che "non può mai [...] ascriversi a macchia o fregio d'un Governo, se non quant'egli contribuisca ad avvicinar allo Stato i beni e ad allontanargli i mali propri di quel grado, ch'egli cuopre nella periferia del suo circolo" (16), un "grado" che a Venezia più che altrove era determinato dal peso del passato.
Bisogna ricordare a tale proposito che, qualora lo si consideri nell'ottica della decadenza, il 1718 non appare affatto, come invece ritenevano Sismondi e Daru, Rossi e tanti altri, un tornante decisivo: infatti la posizione - indubbiamente poco prestigiosa, soprattutto se si adopera un metro politico-militare - ricoperta dalla Repubblica "nella periferia del suo circolo" appare in larga misura fissata da avvenimenti e fenomeni anteriori alla seconda guerra di Morea. Dopo Passarowitz Venezia non combatterà più contro i Turchi, è noto, ma, se la neutralità sul fronte da mar rappresentava certamente un'importante novità, su quello da terra era all'epoca una scelta consolidata da più di settant'anni. Che poi la Repubblica non fosse affatto in grado di ottenere il rispetto della propria neutralità dalle grandi potenze, che si contendevano l'egemonia in Italia, non occorrerà attendere il 1796-1797 per ricavarne una prova inconfutabile. In effetti già dieci anni prima della perdita della Morea la guerra di successione spagnola aveva chiaramente dimostrato che la Serenissima godeva di una sovranità limitata non solo in Terraferma, ma anche nel Golfo, il cui cosiddetto dominio era stato più volte impunemente violato soprattutto dai Francesi. Se la Repubblica era riuscita in qualche modo a salvare la faccia, se non era stata brutalmente e immediatamente certificata la sua precaria condizione di potenza semisovrana, di uno Stato del quale non era difficile pronosticare l'"annéantissement" (17), ciò non era certamente avvenuto per il timore, che potevano aver ispirato le sue scarse truppe o la sua fragile rete di relazioni internazionali, ma perché le strategie militari degli Imperiali e dei Franco-Spagnoli non avevano innescato, come succederà invece nel 1796-1797, una spirale di misure e di contromisure a danno delle città fortificate e delle province veneziane e quindi il regime d'occupazione dei belligeranti si era mantenuto entro limiti più o meno accettabili e ῾onorevoli'.
Anche sotto il profilo economico Passarowitz non sembra costituire un punto di svolta. Nei cinquant'anni precedenti Venezia aveva già visto il suo ruolo commerciale e manifatturiero ridimensionato in misura significativa dalla concorrenza internazionale: il lanificio era praticamente crollato e, su un piano più generale, il raggio dei traffici era stato sensibilmente accorciato. Ma se quello veneziano era diventato già da tempo un mercato fondamentalmente regionale, nel Settecento esso non solo non s'immiserì ulteriormente, ma al contrario "conservò [...] fino all'ultimo un certo dinamismo e la possibilità di collocare opportunamente le risorse disponibili" (18). Il valore delle merci in entrata e in uscita dal porto di Venezia oscillò lungo il secolo intorno alla rispettabile cifra di 20-25.000.000 di ducati, mentre la flotta commerciale della Repubblica conobbe proprio nel corso dell'ultimo quarto del Settecento un pronunciato sviluppo (19). Nonostante la vigorosa crescita di alcuni ῾distretti' manifatturieri in Terraferma, l' ῾industria' della Serenissima non perse colpi, nel suo complesso, dopo Passarowitz; anzi alcune manifatture - quella tipografica fin oltre la metà del secolo, il setificio e la cantieristica nella seconda parte del periodo - si distinsero per una tendenza più o meno pronunciata all'espansione.
Walter Panciera ritiene che questa sostanziale continuità sul piano produttivo sia all'origine della sorprendente stabilità della popolazione veneziana tra il 1696 e il 1790 (ad entrambe queste date la Dominante contava poco meno di 138.000 abitanti, una cifra inferiore di 11.000 unità al tetto settecentesco, che fu raggiunto, a quanto risulta dalle fonti a disposizione, nel 1761) (20). Si può riscontrare un'analoga tendenza a rimanere più o meno fermi sulle posizioni raggiunte nel primo Settecento anche in campo latamente culturale: ad esempio, i sette teatri pubblici aperti nel 1718 erano diventati otto quando cadde la Serenissima (21), mentre il numero dei torchi tipografici si presentava a fine secolo di poco inferiore al primato conquistato nel 1735 (22). Tutto ciò suggerisce che vocaboli quali decadenza, crisi e declino - pur circolando correntemente presso gli stessi Veneziani e presso i diplomatici testimoni dell'inglorioso autunno della Serenissima - si addicano piuttosto al Seicento e al primo Settecento che agli ultimi ottant'anni della Repubblica aristocratica. Se riesce difficile accettare a proposito di tale fase storica la formula - senza dubbio felice, ma a mio avviso troppo indulgente - del "conservatorismo dinamico" proposta da Massimo Costantini alla luce dell'"estrema attenzione per le novità emergenti a livello internazionale" dimostrata dalla Repubblica e della sua "convinta disponibilità a riprenderle, sperimentarle e adattarle alla propria realtà, per aggiornarle e razionalizzarle nel rispetto della tradizione" (23), appare in ogni caso ragionevole declinare l'ultima stagione della Serenissima, in relazione non soltanto ai buoni propositi di una parte della classe dirigente veneziana quanto soprattutto alle linee di tendenza fattuali registrate nei piani più diversi della vita cittadina, secondo il paradigma delle "difese" caro a Donà.
Certo, se si confrontano la tenuta o i limitati progressi di Venezia in ambito demografico ed economico con le esplosioni registrate dalla Gran Bretagna e dalla Francia (ad esempio, nel corso del Settecento la popolazione di Londra quasi raddoppiò, raggiungendo il milione di abitanti, mentre non solo l'Inghilterra, ma anche la Francia triplicarono il volume dei loro traffici), si deve riconoscere che Venezia non riuscì affatto a tenere il passo con i paesi europei di punta. Per di più, anche quando mise a segno dei manifesti incrementi, di rado essi furono il frutto di un salto di qualità sul piano organizzativo. Ma, se Venezia non divenne una città industriale come Londra, così come il suo status di Dominante non si tradusse in un'espansione militar-burocratica come accadde invece nel corso di quel secolo a Berlino e, in misura inferiore, a Vienna, nello stesso tempo non sopportò neppure i pesanti costi che poteva imporre una sua eventuale metamorfosi in un epicentro della rivoluzione industriale, né seguì, pur conservando sempre una quota significativa di mendicanti e di altri marginali, la strada di Napoli, di un'incontrollabile metropoli barocca - era di gran lunga la più grande città italiana - ad un tempo fastosa e miserabile.
In ogni caso, se è vero che Venezia non conobbe alcun progresso demografico significativo nel corso del Settecento e - ad un tempo causa ed effetto di tale fenomeno - in essa le "nuove edificazioni" furono rare, mentre prevalsero invece gli interventi di restauro e di conservazione dei palazzi e delle case e "i pochi interventi pubblici di rilievo" dimostrarono di dare "per immutabile e conclusa la forma della città definita dalle renovationes cinquecentesche", non per questo appare del tutto pertinente la conclusione listata a lutto di Concina che Venezia "è ora, alla metà del secolo XVIII, isola immota tra le vie fangose di Terraferma e le acque di un mare che sempre meno le appartiene, imperfetta città in un imperfetto Stato" (24). Se si prendono ad esempio in considerazione i pochi dati disponibili relativi alla qualità della vita, la Venezia del Settecento risulta assai meno "imperfetta" di quanto non lo fosse la Venezia della prima età moderna. Pur registrando nei due periodi più o meno lo stesso numero di abitanti, nel Settecento la città vantava una disponibilità di acqua potabile doppia rispetto a quella di cui usufruiva due secoli prima e un consumo di carni pantagruelico: la Dominante ingoiava ogni anno 15.000 buoi, 45.000 manzi e 12.000 vitelli (25).
Il fatto poi che nel XVIII secolo la Repubblica circoscrivesse "il proprio intervento alla spoglia economia - ponti, pozzi [...], piani di manutenzione, servizi antiincendio" (26), non andasse, cioè, al di là della mera fruizione e del riuso delle ῾infrastrutture' esistenti, negligendo gli investimenti in nuovi palazzi e edifici, non contraddice l'ipotesi che proprio in quei decenni la città attraversasse una fase di riqualificazione. Un incrocio tra i dati raccolti da Concina e quelli presentati da Volker Hunecke nella sua recente opera su Il patriziato veneziano [...] (27) permette, a mio avviso, di cogliere ad un tempo una delle cause e un notevole limite di un fenomeno - appunto una sorta di rilancio urbanistico secondo linee ben diverse da quelle tradizionali - alle spalle del quale si può intravedere la manifesta inclinazione della frazione abbiente del patriziato a trasformarsi in una leisure class. Tra la fine del Cinquecento e la metà del Settecento Venezia conobbe un incremento significativo del numero delle botteghe soprattutto in quei sestieri (S. Marco, la parte occidentale di Castello) che videro anche un rafforzamento - in termini relativi, non certo assoluti, dal momento che tra il 1624 e il 1761 il corpo aristocratico perse più di un terzo dei suoi membri - della presenza patrizia(28).
Tutto indica che in quell'intervallo di tempo il patriziato diventò più ricco o, più esattamente, la fascia più ricca del corpo aristocratico beneficiò di redditi più elevati oppure acquisì abitudini assai più dispendiose di quelle prevalenti nel primo Seicento, in una fase ancora connotata, a quanto pare, da costumi relativamente frugali dettati da quello che Nani e Donà chiamavano lo spirito o la massima del commercio. Nel 1624 ogni ménage patrizio aveva in media a disposizione 4,3 servitori e massere e 0,6 gondole: nel 1761 i due quozienti erano diventati, rispettivamente, 6,4 e 1,1. Nel 1624 soltanto il 6,5% dei ménages possedeva più di una gondola, un secolo e un terzo più tardi tale percentuale era salita a quasi un quarto del totale. Sempre tra queste due date la percentuale dei ménages con venti e più tra servitori e massere aumentò dal 7 al 21,2%. Ciò che si sa circa l'incremento delle ville del patriziato nella Terraferma lungo il secolo (29) fa ritenere che anche su questo fronte si manifestasse un'analoga vigorosa spinta al lusso. Senza dubbio non si può riconoscere il patrizio veneziano tipo nel "ricchissimo", raffinatissimo e blasé senatore Pococurante, un personaggio del Candide cui Voltaire prestava alcuni tratti di se stesso e che faceva incontrare il protagonista in un "bel palazzo" sul Brenta adorno, tra l'altro, di una splendida quadreria e di un'altrettanto splendida biblioteca. Ma è anche vero che, sia pure nello specchio deformante del conte philosophique, il senatore, "l'uomo più felice al mondo, perché è al di sopra di tutto quanto possiede" (30), consente di cogliere uno degli aspetti più importanti della Venezia del Settecento, la completa metamorfosi del patriziato in una leisure class dedita principalmente al consumo delle rendite agrarie.
Se l'aristocrazia lagunare in quanto ceto di governo incise ben poco, come abbiamo visto, sugli sviluppi architettonici e urbanistici della città, in quanto ordine preminente della società lagunare contribuì invece ad una riformulazione degli spazi e degli equilibri interni. La risultante dell'incontro tra una crescita del conspicuous consumption del patriziato abbiente e un sensibile calo quantitativo dell'insieme dei nobiluomini e delle nobildonne fu una curva demografica cittadina tendenzialmente piatta: una stabilità complessiva fragile, in ogni caso, perché sempre meno garantita dall'economia cittadina e sempre più dipendente dal controllo delle campagne da parte della Dominante. Non a caso nel 1797, all'indomani della caduta della Repubblica dei patrizi e della ῾secessione' ad un tempo politica ed economica di una Terraferma democratizzata dai Francesi, sarà possibile tracciare un bilancio completamente in rosso dell'eredità settecentesca, di una città, il cui principale elemento propulsivo era garantito dai consumi della nobiltà. Ecco "quel che i Stocratici / [...] hà lassà in sta Citae":
gondole e piere un refolo, / pitochi acqua e marmagia; / campi e zecchini? pagia: / pranzi, paluo e sabion. / Cinquanta e più de debito / milioni de ducati / un ospeal de mati / salari e provision (31).
Ciò che l'anonimo ῾democratico' dimenticava era che, dopo tutto, lo stato-corpo aristocratico veneziano aveva saputo reagire ad una congiuntura insieme ῾naturale' e politica, che tendeva a fare della città - come ha sottolineato Concina - un'"isola immota" tra il fango della Terraferma e un mare sempre meno amico. Proprio nel corso dei suoi due ultimi decenni di vita la Repubblica condusse a termine, ubbidendo una volta di più alla sua vocazione alle "difese", una duplice linea Maginot a tutela della città e degli equilibri circostanti: da un lato, sul fronte delle acque e dei detriti di terra, la conterminazione lagunare, "la costruzione" - a coronamento di un'impresa plurisecolare - "di una lunga barriera protettiva, costituita sia da un lungo argine che da una serie di canali che si succedevano gli uni agli altri, e che andavano dalla laguna di Chioggia a quella settentrionale" (32), e dall'altro, su quello di mare, i noti murazzi, un progetto nato e compiutamente realizzato nella temperie settecentesca (33). Inoltre non erano mancati, quanto alle comunicazioni dell'"isola", i tentativi di migliorare la rete delle strade ῾regie', soprattutto a partire dal 1779, quando i deputati ad hoc avevano incaricato l'Accademia di scienze, lettere ed arti in Padova di presentare dei piani relativi alle strade di Fusina e di Vicenza (34).
Certo è che la politica delle "difese" perseguita dal regime comportò per la città, oltre ad alcuni indubbi benefici, anche dei costi difficili da valutare, ma senza dubbio non trascurabili. L'indiscutibile principio della centralità dello stato-corpo aristocratico impedì che andassero in porto alcune importanti iniziative istituzionali - ad esempio, la fondazione di compagnie commerciali oppure di una camera di commercio - che altrove si erano rivelate un importante volano economico, ma che presentavano, dal punto di vista della classe dirigente veneziana, l'insuperabile inconveniente di incrinare, in un modo o nell'altro, il monopolio politico del patriziato. Del pari la proposta di Gasparo Gozzi di istituire a Padova un collegio universitario, dove fossero educati nello stesso modo i patrizi veneziani insieme ai nobili della Terraferma e ai membri più qualificati dell'ordine ῾cittadinesco' della Dominante, cadde nel vuoto. Se in Terraferma la Repubblica promosse, a seconda dei casi, la nascita oppure la riconversione di una trentina di accademie agrarie, agevolando in tal modo l'affermazione di una sociabilità lontana dalle chiusure dell'antico regime, a Venezia l'"armatura" patrizia contribuì a garantire, come abbiamo visto, un'elevata qualità della vita, ma nello stesso tempo irrigidì, se non ingessò una parte della società, in modo particolare gli ambienti culturali più dinamici e innovatori (35).
Non meraviglia pertanto che la Venezia del Settecento diventasse il teatro di un fenomeno quanto mai contraddittorio: da una parte la capacità di attirare soprattutto dalle province, ma talvolta anche dall'estero, personaggi di maggior o minor spicco, dall'altra una bilancia politico-culturale in forte passivo. "Poiché li Veneziani non lo aveano voluto, egli non sapeva più come risolversi a ritornar a servirli", confessava Francesco Algarotti nel 1763 ad un amico patrizio, che era andato a trovarlo a Pisa (36): una frase che, con accenti diversi (quello di Algarotti era un rimprovero rivolto direttamente alla classe politica), avrebbero potuto ripetere molti altri veneziani di nascita o di formazione, dal musicista Antonio Vivaldi all'architetto e incisore Giovan Battista Piranesi, dagli uomini di Stato Luigi Giusti e Gian Rinaldo Carli agli avventurieri per antonomasia Giacomo Casanova e Lorenzo da Ponte, dal commediografo Carlo Goldoni al pittore Giambattista Tiepolo, dai pubblicisti Francesco Griselini e Giovanni Francesco Scottoni allo scultore Antonio Canova. Una diaspora sorprendente per qualità e quantità e che invita ad insistere sul volto bifronte del secolo che fu probabilmente il più importante nella lunga storia culturale di Venezia: se la città ricavava notevoli benefici dal suo ruolo di Dominante, se si affermava più che in passato come un vivaio particolarmente fertile di personalità destinate ad emergere nei campi più diversi, è anche evidente che nello stesso tempo stava conoscendo un processo di relativa provincializzazione.
Poiché maggior benefizio risulta allo Stato nostro dalla pace, che dalla guerra, più ragionevol confidenza d'ingrandimento è d'aversi nella condizione del tempo presente, in cui ricreati gl'animi colla quiete ponno mettere tranquillamente tutta l'intenzione del loro studio a rinvigorire il commercio, da cui mai sempre è derivata l'opulenza de' sudditi, e la grandezza della Repubblica. Il che non dubito, che non sia per riuscire soltanto che vogliamo conoscere la divina costituzione della nostra Patria, a cui così per questa, come per ogn'altra cosa, il valore, e l'industria de' nostri antichi ha procurato comodi, e facilità superiori a quelle di qualunque altro Regno, o Repubblica.
Con queste affermazioni consolanti Marco Foscarini, un giovane patrizio alla vigilia del suo debutto politico, concludeva, a pochissimi anni di distanza dalla firma della pace di Passarowitz, un trattato Della perfezione della Repubblica Veneziana, che dedicava a Michele Morosini, un nipote del grande doge Francesco che godeva di un notevole credito tra i savi del consiglio e che allora era "Sindico, e Inquisitor in Terra ferma" (37). Le parole e le frasi-chiave di una Serenissima appena uscita dal suo "secolo di ferro" (38), da settantacinque anni nel corso dei quali aveva combattuto quattro guerre e sostenuto il peso di un'onerosa neutralità armata, erano, non solo nello scritto di Foscarini, "pace", "ingrandimento", "quiete", "rinvigorire il commercio", "opulenza de' sudditi", "grandezza della Repubblica", "divina costituzione", "il valore e l'industria de' nostri antichi".
Un inventario di alcuni generici buoni propositi e dei sempiterni idola specus lagunari? Certamente sì, ma anche una griglia di problemi e di obbiettivi che avrebbero segnato, nel loro intreccio, la storia settecentesca della Repubblica e in modo particolare quella della prima parte del secolo. Foscarini non poteva che sfiorare, va da sé, le questioni d'attualità, così come si sottraeva deliberatamente "dall'entrare nei fatti della Repubblica, che [erano] alla memoria de' [...] Padri": non esitava tuttavia a denunciare "la mala fede del Ministero Spagnuolo", vale a dire del cardinale Giulio Alberoni, che con le sue iniziative spregiudicate aveva costretto l'Impero a "precipit[are] la pace" e quindi aveva favorito la conclusione "così infelice" dell'"ultima guerra della Morea", e a trasfigurare la politica della neutralità armata adottata dalla Serenissima durante la guerra di successione spagnola, arrivando ad affermare che Venezia aveva mantenuta "pacificamente, cosa rarissima ad accadere, tra gente armata la dignità del Principato". Non ci si poteva ragionevolmente aspettare, tra l'altro, da un giovanotto che non aveva ancora fatto il suo canonico ingresso in piazza San Marco, che analizzasse le prospettive della politica estera marciana dopo la pace con il Turco oppure prendesse posizione nella controversia, che opponeva in campo economico i ῾liberisti' dai ῾protezionisti'. Della perfezione della Repubblica Veneziana si limitava a richiamare o, meglio, a celebrare le norme essenziali del gioco politico marciano: da un lato la "divina costituzione" e "il valore e l'industria de' nostri antichi", il fedecommesso politico trasmesso dagli avi, dall'altro la "pace" e la "quiete" quali premesse indispensabili di un progetto che, facendo perno sul "commercio", mirava a far "racquistare" alla Repubblica "la perduta grandezza di prima" (39).
Nell'alato e ottimistico "discorso politico" di Foscarini era affatto assente la prospettiva di una terza guerra di Morea e, più in generale, la voglia di una rivincita sugli Ottomani: emergeva, tra le righe, la convinzione che la Repubblica non potesse permettersi un nuovo conflitto e che in ogni caso il ricorso alle armi avrebbe comportato assai più rischi che benefici. Una tesi che pochissimi anni dopo sarebbe stata ripresa e ribadita con molta determinazione dall'anziano (aveva all'epoca più di ottant'anni) e autorevole savio del consiglio Piero Garzoni nel ΒάσανοϚ cioè paragone usato [...] sù la Repubblica di Venezia per fare pruova della sua qualità. Persuaso che "non v'ha massimamente nelle Repubbliche accidente più pernicioso, che la guerra", Garzoni, che pure si riconosceva in un'ideologia di tipo controriformistico, che poneva al centro del sistema dei valori la religione (una "luce che illumina tutto il Mondo, e che sopra Venezia risplende dal primo momento del suo nascere": "la città della Madonna" era stata fondata da Dio, che nello stesso tempo aveva voluto punire la pagana Roma facendola saccheggiare da Alarico, quale "ricovero imperturbabile della Santa Fede") e che nutriva anche per questo motivo una radicale avversione nei riguardi degli Ottomani, "gente stolidamente feroce" ("cesserà di regnare la Turchesca [nazione], tirannica per il governo, brutale per il costume e empia per la Setta?", si chiedeva retoricamente in una delle sue filippiche contro i tradizionali nemici della Repubblica), si augurava tuttavia a chiare lettere che l'"ultima guerra della Morea" fosse veramente l'ultima.
Facendo di necessità virtù, Michele Morosini e, più in generale, il gruppo dirigente veneziano, che si poteva rispecchiare nelle pagine foscariniane intrise di fiducia nell'avvenire della Serenissima (ben diversa la prospettiva di Garzoni, che, di fronte alla drammatica crisi attraversata dalla Repubblica, invocava la mano di "Dio Signore", il solo che potesse farla "reggere, e continuar libera sin al fine del Mondo" (40)), si proponevano di impegnarsi lungo le vie della pace, della quiete e del commercio. Gli interlocutori di Foscarini sapevano bene che, checché affermasse in proposito il "discorso politico", in questo modo accantonavano la speranza di ricuperare "la perduta grandezza di prima", ma erano anche convinti che non vi fossero valide alternative. Da tempo - come avrebbe denunciato a metà degli anni '50 un altro giovane patrizio, Giacomo Nani - a Venezia avevano preso piede "l'amore [...] a non imbarazzare il paese in negozi aspri, e fastidiosi, al contentarsi della situazione presente, senza tentar di migliorarla, bastando solo di vivere, e di passarla, il timore che qualunque cosa si muova, non ritorni tutta a danno, coscienza nata dalla nota debolezza delle proprie forze". In poche parole, i patrizi alla testa del governo - il manipolo dei savi del consiglio - pensavano unicamente a "regolar la corrente, a tenerla nel suo letto, non a cambiarla di corso".
I "nostri antichi" non si erano limitati ad elaborare e ad elargire una "divina costituzione", né avevano dato unicamente prove di valore e di "industria". Come sappiamo, nei mesi in cui Foscarini presentava il "discorso politico" a Morosini, il gruppo dirigente marciano doveva fare i conti anche con un pesante passivo nei conti pubblici e con una congiuntura abbondantemente compromessa da diversi punti di vista. Gli spazi internazionali si erano notevolmente ristretti; la guerra aveva notevolmente contribuito a sospingere la Repubblica sull'orlo di una gravissima crisi finanziaria (nel 1717 il governo era stato costretto a sospendere la convertibilità della partita di banco; questa misura e l'aumento esponenziale del debito pubblico in seguito non solo alle spese belliche, ma anche ad una finanza di pace profondamente squilibrata - ad esempio nel 1719 si prevedevano entrate per 4.000.000 di ducati e uno "sbilancio" di 1.500.000 ducati (41) - avevano talmente depresso il credito della Repubblica che il governo avrebbe dovuto accendere nel 1722 un prestito ad un tasso più elevato di quelli pattuiti nel 1718-1719); i traffici continuavano a battere la fiacca anche dopo la fine del conflitto, mentre era servita ben poco la clausola commerciale più favorevole strappata ai Turchi a Passarowitz; soltanto alcune manifatture tradizionali della Dominante davano qualche confortante segnale di ripresa.
Le note positive erano poche: spiccava tra esse la quiete interna alla Repubblica, una bonaccia nelle relazioni tra le diverse componenti del patriziato, cui tuttavia Nani avrebbe paradossalmente rimproverato di essere un indice, se non la causa, del "sonno", dell'"inazione" dello Stato marciano tanto nell'ambito internazionale quanto in politica interna. Il patrizio era infatti convinto che la "quiete politica" non fosse che la risultante delle molteplici tensioni, cui era sottoposto uno stato-corpo aristocratico diviso, se non divaricato, tra ricchi, mediocri e poveri; l'"indolenza" e l'"ozio" non erano - come pretendevano i Catoni veneziani, Garzoni in testa, che denunciavano preoccupati "le offensive della Morale" e se la prendevano con "la libertà delle femmine" e con i "giovani oziosi e libertini" che le servivano, con il gioco delle carte e con le maschere (42) - la manifestazione di comportamenti viziosi, ma il frutto di una volontà di neutralizzazione, che anteponeva il rispetto dell'ordine e della tranquillità ad ogni altro obbiettivo. "Ogni uno cerca di non muovere, di non irritare". Il sospetto e la gelosia, che opponevano le une alle altre le diverse componenti del patriziato, s'incaricavano di impedire il successo degli uomini "fibrosi", dei "caratteri attivi, dotti, illuminati". E se i "fibrosi" erano emarginati, era inutile sperare che la Repubblica riacquistasse la perduta "fibra" (43).
Negli anni tra il 1713 e il 1718 la Repubblica di Venezia aveva visto consacrato da una costellazione di paci sottoscritte alla periferia occidentale (Utrecht, Rastadt e Baden) e orientale (Passarowitz) del Sacro Romano Impero un assetto italiano - e in una certa misura anche un quadro internazionale - radicalmente diverso da quello in vigore fino agli inizi del secolo. Pochi decenni prima un anonimo patrizio aveva individuato due correnti all'interno della classe dirigente dello Stato marciano, i "geniali" della Spagna - il ῾partito' più numeroso e autorevole - e quelli della Francia (44). Gli esiti della guerra di successione spagnola avevano reso del tutto inattuale questa contrapposizione. Non solo la Spagna di Filippo V di Borbone era stata totalmente estromessa dalla penisola (il tentativo ῾revisionista' del cardinale Alberoni, dal 1716 primo ministro di Filippo, che aveva portato alla temporanea rioccupazione spagnola della Sardegna e della Sicilia, se aveva indirettamente danneggiato - come aveva ricordato Foscarini - Venezia, si era comunque infranto contro la quadruplice alleanza anglo-franco-austro-olandese promossa a Londra nel 1718: tuttavia nel 1720 la pace dell'Aia avrebbe riconosciuto ai figli di Filippo e di Elisabetta Farnese il diritto alla successione nel Ducato di Parma e nel Granducato di Toscana, una clausola che di lì a pochi anni avrebbe consentito ai Borboni di Spagna di ripresentarsi in forze in Italia), ma la stessa Francia aveva dovuto abbandonare le ultime roccaforti possedute al di qua delle Alpi ed era stata costretta a subire la trasformazione del Ducato di Savoia, in precedenza uno Stato cuscinetto a seconda della congiuntura nell'orbita di Parigi e/o Madrid, in un Regno - prima di Sicilia, poi, dopo la crisi alberoniana, di Sardegna - dotato di un certo peso internazionale.
La potenza egemone in Italia (ne "possede la più nobile parte", ammoniva intorno alla metà degli anni '20 un anonimo ufficiale al servizio della Repubblica (45)) era diventata in seguito a quelle paci l'Impero, che si era impadronito della maggior parte del Ducato di Milano, del Ducato di Mantova (l'ultimo staterello, sul quale Venezia aveva esercitato - fino al 1662 - una sorta di protezione), del Regno di Napoli (con evidenti implicazioni e complicazioni a danno del dominio veneziano del Golfo), della Sardegna (poi scambiata con la Sicilia) e dello Stato dei Presidi. Per di più a Passarowitz, mentre Venezia aveva dovuto riconoscere la conquista turca del Regno di Morea e la perdita di tutte le proprie basi nell'Egeo, fatta eccezione per il lontano avamposto di Cerigo - una rinuncia che non poteva certamente essere compensata dal cosiddetto "novissimo acquisto" (così battezzato per distinguerlo dal "nuovo", che era stato consacrato dalla pace di Carlowitz) nell'interno della Dalmazia e dell'Albania, da plaghe vaste e senza dubbio di una qualche utilità dal punto di vista militare, ma assai diverse dalle "fertili e non anguste campagne, molto opportune al ricovero, ed alimento di nuovi sudditi" propagandate senza molti scrupoli da Vendramino Bianchi, il segretario del plenipotenziario veneziano Carlo Ruzzini (46) - l'Austria s'era annessa ampi territori danubiano-balcanici, che andavano dalla Croazia all'odierna Romania.
Dal 1643-1644, da quando era intervenuta nella guerra di Castro, Venezia aveva fatto calare sulla sua politica italiana la saracinesca di una neutralità sempre più passiva. I limiti di questa linea strategica erano stati pesantemente sottolineati dalla guerra di successione spagnola: la Repubblica non solo non era riuscita a impedire che uno dei teatri principali dello scontro tra la Francia e l'Impero per l'eredità spagnola fosse la Terraferma marciana, ma aveva anche visto definitivamente violata la "giurisdizione del golfo". "Indebolita de' Stati, d'uomini e di consiglio", con una "estimazione" politica affatto "sospesa" tanto che "niuno mostra bramarla confederata, né a' Lei si rivolge" (così Garzoni fotografava intorno al 1726 l'isolamento e il declassamento internazionale della Repubblica), Venezia doveva fare i conti con una potenza, l'Impero, rimasta "in tutto superiore di forze nell'Italia" e che per di più "lavora[va] ad annichilar" i traffici marciani (47). Il tradizionale problema della libertà italiana, una questione che la Repubblica interpretava da un paio di secoli soprattutto in chiave di equilibri politico-militari, doveva essere riformulato alla luce di un'egemonia imperiale, che puntava a estendersi - come aveva sottolineato Garzoni alla luce del lancio in grande stile dei porti franchi di Fiume e, soprattutto, di Trieste, promossa a sede di una Compagnia orientale (1719), degli accordi conclusi in quello stesso anno con i Barbareschi, dei privilegi concessi nel 1722 da Carlo VI alla Compagnia di Ostenda e dell'istruzione del 1725, che mirava a rilanciare i due porti franchi - anche agli spazi commerciali controllati da Venezia.
La questione delle relazioni con l'Impero, già importantissima almeno fin dalla conclusione della sacra lega, diventava dopo gli sconvolgimenti provocati dalle guerre del primo Settecento il principale banco di prova dello stesso rango o, meglio, condizione politica dello Stato marciano. Come ricordava un savio di Terraferma nel 1719 in occasione di una delle crisi provocate in quegli anni dai reiterati e spesso rigettati tentativi dei Veneziani di imporre alle navi straniere il rispetto del diritto di visita a bordo (era una querelle che apparentemente investiva soltanto gli ambiti fiscale ed economico, ma che in realtà toccava il nervo scoperto della sovranità non solo marittima della Serenissima, "metteva in dubbio" di fatto - lo faceva presente in tale circostanza il savio del consiglio Francesco Grimani Calergi - "la giurisdizion nostra sopra il Golfo"), il divario tra le forze in campo era macroscopico: da una parte "la potenza dell'Imperatore, il [suo] genio fisso", i suoi stretti rapporti - cementati dalla guerra provocata dal cardinale Alberoni - con la Francia e l'Inghilterra, dall'altra "la debolezza della Repubblica, l'essere senza amicizie" (48).
A Venezia non restavano, in quella congiuntura avversa, molte scelte: la Repubblica poteva tentare una puntigliosa difesa delle proprie posizioni, ma sapendo bene che alla stretta finale avrebbe dovuto subire le pretese imperiali e che rischiava, anno dopo anno, di perdere sempre più terreno (ad esempio, nel 1730 una nave austriaca costringerà "con violenza" un vascello veneziano a salutarla "in Golfo": "mai in tredici secoli della Repubblica" - insorgerà Garzoni, che approfitterà dell'occasione per denunciare una volta di più "le tante infestazioni del Golfo, tutte [...] tese a rovina del nostro Commercio" e il tentativo di "ridurre in un emporio" Trieste "a vista e a competenza di Venezia" - si era visto nulla di simile (49)), poteva accettare, in altre parole, una sorta di vassallaggio mascherato e in dosi omeopatiche. In questa prospettiva il leitmotiv della politica veneziana diventava lo sdrucciolevole tema degli incerti confini tra la "fermezza" e la "pieghevolezza": era necessario di volta in volta precisare la linea che separava la ritirata tattica dal cedimento strategico, calcolare fino a quale punto la resistenza alle pressioni imperiali (che poi spesso, vedi il diritto di visita, erano amplificate dall'appoggio degli altri Stati) poteva essere condotta con una qualche speranza di successo, un problema di regola risolto dai savi del consiglio cercando di procrastinare le decisioni e, in ogni caso, di salvare le forme a spese di un ripiegamento sostanziale.
Assai più difficili da prefigurare e di fatto impossibili da mettere in pratica - quanto meno fino alla guerra di successione polacca, quando l'egemonia imperiale in Italia rivelerà la sua fragilità - le due ipotesi estreme di una ῾rivolta' contro Vienna e di una consacrazione formale del rapporto di subalternità. Come vedremo, negli inquieti anni '30 e '40 sia l'una che l'altra prospettiva furono più o meno accademicamente valutate e discusse, ma si finì sempre per decidere di non uscire dai binari - tracciati fin dalla guerra di successione spagnola - di un'accomodante neutralità (come aveva scritto Foscarini, il senato aveva dato in quell'occasione un mirabile saggio di "prudenza", riuscendo, nonostante che l'"ostinata, e atroce guerra" avesse investito "lo Stato nostro", a soddisfare "a ognuna delle parti" e a conservare "la buona intelligenza di mezzo alle mortali loro diffidenze" (50)), si continuò anche su questo fronte, senza dubbio il più importante di tutti, a "regolar la corrente, a tenerla nel suo letto, non a cambiarla di corso". Un esito in larga misura scontato, dal momento che non appare ragionevole pretendere dalla Serenissima né che trovasse il coraggio di sfidare un Impero, che poteva anche attraversare momenti assai difficili, ma rimaneva pur sempre una delle grandi potenze europee (e anche per questo motivo era in grado di ritornare rapidamente a galla grazie ai meccanismi del sistema d'equilibrio, che regolava la dinamica dei rapporti internazionali) e per di più si era imposto negli ultimi decenni come il più sicuro presidio contro gli Ottomani, né che gettasse autonomamente alle ortiche il patrimonio, esaltato da tutta una tradizione mitologica, di tredici secoli di libertà.
Dalla guerra di Candia alla pace di Passarowitz la Repubblica marciana aveva accuratamente distinto i due scacchieri, italiano e mediterraneo, della sua politica estera: da un lato, sul fronte dello Stato da terra, una neutralità sempre meno disposta ad assumersi impegni e obbiettivi che esulassero da una mera conservazione dello statu quo; dall'altro, nello Stato da mar, una difesa accanita dai ripetuti attacchi dei Turchi, una lotta tenace che non escludeva controffensive (come quella che aveva portato all'effimera conquista della Morea) e che favoriva, a seconda dei casi, le intese, se non le vere e proprie alleanze, con le potenze cattoliche del Mediterraneo (il papa, Malta, il granduca di Toscana, ecc.) o dell'Europa orientale (l'Impero e la Polonia). All'indomani della pace di Passarowitz, Venezia omologò di fatto la politica mediterranea a quella italiana. Le due lezioni più importanti tratte dalla guerra del 1714-1718 - come aveva indicato l'assedio turco di Corfù, i Turchi conservavano, nonostante tutto, una notevole pericolosità, mentre si era rivelata quanto mai controproducente l'alleanza ineguale con Vienna - e la diffusa aspirazione alla "quiete" convinsero il gruppo dirigente della Repubblica a congelare, come avevano più segnalato che auspicato Foscarini e Garzoni, la situazione anche nei mari e alle frontiere orientali.
Era una politica che trovava in quegli anni una sponda assai favorevole nella stessa Istanbul, in quell'"età dei tulipani" (1718-1730) dominata dal raffinato Halil Pascià (51). La neutralità mediterranea fu consacrata con tutti i crismi nel 1733, quando il bailo a Costantinopoli Angelo Emo, uno dei patrizi veneziani di maggior rilievo tra Sei e Settecento (52) riuscì, grazie anche all'esborso di una grossa somma, a concludere con il sultano una pace che fu definita dagli stessi Turchi "perpetua" (53). Benché il senato reagisse in maniera assai critica all'arrivo della notizia (54) (era nel frattempo scoppiata la guerra tra l'Impero ottomano e la Persia, una congiuntura che una parte del patriziato avrebbe voluto sfruttare per tentare una rivincita sui Turchi) e nonostante che anche nei decenni successivi qualche nuvola passeggera non mancasse di tanto in tanto di oscurare i rapporti tra i due paesi (ancora negli anni intorno al 1780 alcuni patrizi avrebbero coltivato la speranza di rimettere piede in Morea (55)), in ogni caso la "pace perpetua" rimase un punto fermo nei rapporti tra Venezia e Istanbul.
Perdendo la Morea, la Serenissima non aveva soltanto ceduto un'importante posizione strategica nel Mediterraneo orientale (certamente in attivo, invece, il rapporto costi-benefici in termini esclusivamente economici e finanziari: in questo caso Vendramino Bianchi aveva ragione, quando riteneva che la Morea "port[asse] più apparenza, che utilità" (56)), ma aveva anche, e soprattutto, irrimediabilmente rotto l'equilibrio tra lo Stato da mar e quello da terra. La svolta del 1718, resa "perpetua" dal trattato del 1733, aveva trasformato quanto restava dei possedimenti nel Levante in una barriera a protezione dell'Adriatico (sulla sua importanza, anzi centralità militare, quanto meno agli occhi del feldmaresciallo Matthias Johann von der Schulenburg, il comandante in capo dell'esercito veneziano, si veda la scrittura presentata dall'alto ufficiale al senato il 29 novembre 1729 (57)) senza dubbio dotata anche di un rispettabile rilievo economico (olio, uve passe...), ma sempre in subordine rispetto alla Terraferma, a quello che era più che mai l'incontrastato epicentro degli interessi veneziani. Venezia sembrò prendere coscienza di questo nuovo assetto nel settembre del 1719, quando il maggior consiglio decise di inviare tre sindaci inquisitori nella Terraferma, tra i quali, come abbiamo visto, Michele Morosini, il dedicatario dello scritto di Foscarini sulla perfezione della Repubblica.
In effetti non solo la dedica a Morosini non deve indurre a credere che lo stesso Foscarini e gli influenti patrizi a lui vicini fossero dell'opinione che le vie del "commercio" e quindi del risorgimento della Repubblica passassero per la Terraferma, per una rivalutazione dello Stato da terra nei confronti di quello, così impegnativo e delusorio, da mar, ma è anche evidente che l'elezione della magistratura straordinaria non fu affatto il frutto e ad un tempo lo strumento di una svolta politica. Si trattò di una decisione indubbiamente importante e, come si vedrà a suo tempo, anche assai controversa, ma tutto indica che fu dettata da preoccupazioni specifiche - anche se più che mai all'ordine del giorno stante la grave crisi del bilancio statale - a motivi, cioè, di ordine fiscale e finanziario. Fin dal maggio del 1719 Garzoni aveva fatto "chiamare il broglio d'Inquisitor in Terraferma", sostenendo, senza successo, che era necessario "spedire un senatore [...] a' consolazione de' sudditi e a' riscossione de' crediti". Che il secondo obbiettivo facesse ampiamente aggio sul primo, sembrano indicarlo tanto l'elezione, sette mesi più tardi, di Pier Girolamo Capello ad inquisitore in Terraferma "contro i contrabbandi d'oglio, sale e tabacco" (erano i generi di consumo che, unitamente al vino, garantivano in quegli anni le entrate maggiori al fisco) quanto l'identità del magistrato che avanzò la proposta di spedire i sindaci - i revisori e regolatori alle entrate pubbliche in Zecca - e l'accento posto sulla questione delle camere fiscali (58).
Non stupisce quindi che i dispacci e la relazione finale dei tre sindaci e inquisitori (oltre a Morosini, il futuro doge Piero Grimani e Gian Alvise 2° Mocenigo, tutti e tre savi del consiglio) fossero ispirati - come ha sottolineato Giuseppe Gullino - "alla tradizionale visione economica di impianto mercantilistico" e venezianocentrico: in essi "si parla[va] quasi esclusivamente di gravezze e dazi, di campatico e di commercio, ed [era] con questa ottica che si guarda[va] anche ai problemi della terra" (59). Tutt'al più la Dominante poteva concedere alla Terraferma una certa autonomia fiscale, come accadde a Verona all'indomani di Passarowitz, quando fu appaltata agli stessi mercanti locali la riscossione dei dazi sulle lane, le sete lavorate e i panni. Che, nonostante questo e altri episodi, i patrizi veneziani non avessero colto le implicazioni e le possibilità del tornante del 1718, lo indicano sia l'assenza di riferimenti alla Terraferma nello scritto di Foscarini, sia la prospettiva assai datata di Garzoni, che nel ΒάσανοϚ si limitava a invocare una politica fiscale meno oppressiva, più paterna, nei riguardi dei poveri e in particolare di quella "contadinanza", che due secoli prima, all'epoca della guerra di Cambrai, si era dimostrata "l'istrumento più valido, fedele, e costante a far girare la ruota della fortuna, a disporne i racquisti" (60).
È anche vero che negli anni del sindacato Grimani-Morosini-Mocenigo un manipolo di patrizi si mosse controcorrente, dimostrando di nutrire un nuovo tipo di interesse per la Terraferma. Tuttavia, una volta considerato che il debutto di Nicolò Tron, il padre di Andrea, quale imprenditore laniero a Schio fu più importante per le innovazioni tecnologiche che introdusse che per la quantità dei panni in un primo tempo prodotti (61), che nel 1722 fallì il tentativo di una compagnia di patrizi di fondare una grande manifattura a Treviso e che non si conoscono iniziative di rilievo in campo agricolo (ma non va dimenticato che lungo il decennio 1718-1727 i prezzi in diminuzione del frumento a causa di un ciclo di annate meteorologicamente più o meno propizie e quindi di raccolti buoni, se non ottimi, non favorirono certamente gli acquisti e gli investimenti fondiari (62)), non si può non concludere che anche su questo fronte si continuò in larga misura "a regolar la corrente".
D'altra parte non si può neppure affermare che la tradizionale attenzione per il "commercio" e per il mare desse frutti significativi. Certo, i problemi - dalla questione dei corsari barbareschi, che infestavano il Mediterraneo, alla necessità di rilanciare il porto di Venezia - furono individuati e discussi, ma alcuni provvedimenti innovatori (l'apertura delle Arti della Dominante, l'istituzione di una compagnia di commercio, l'attivazione di un insegnamento di nautica presso l'Accademia dei nobili alla Giudecca), quando furono adottati, rimasero sulla carta, mentre in altri casi (la diminuzione delle tariffe daziali) i savi del consiglio dovettero battere in ritirata di fronte alla reazione del senato (63). Nel 1721, non riuscendo a venire a capo della pirateria (le basi erano l'imperiale Segna [Senj] e l'ottomana Dulcigno [Ulcinj]) e della guerra di corsa dei Barbareschi, furono ripristinati i convogli su una sola rotta (in ogni caso, al di là delle esigenze dei traffici, la modestia della flotta militare, in particolare di un'armata grossa, la divisione composta dalle navi a vela, in via di disarmo, non consentiva di fare altrimenti (64)), quella Corfù-Smirne-Costantinopoli. Tuttavia soltanto la riforma naval-daziaria del 1736 consentirà di uscire dalla depressione dei traffici e di realizzare uno dei punti più qualificanti del libro dei sogni di Foscarini, quello di "rinvigorire il commercio".
A ben vedere ciò che connotò il quindicennio successivo al 1718 fu soprattutto un restyling urbano rispettoso delle caratteristiche tradizionali, civili e religiose, di Venezia. Lo testimonia una concisa cronistoria dei riti e dei provvedimenti cittadini più significativi in entrambi gli ambiti. Nel 1723 fu iniziata (sarà completata solo undici anni più tardi) la pavimentazione in pietra di piazza San Marco, il centro della vita - politica, ma non solo - di Venezia, "uno fra i primi esempi di pavimentazione di piazza [...] in Europa" (65). In quello stesso anno la Dominante si confermò "città della Madonna", erigendole un tempio nell'isola di Pellestrina per celebrare una beneaugurante apparizione avvenuta sette anni prima, nei giorni in cui gli Ottomani erano sul punto di impadronirsi di Corfù e la stessa Venezia si stava preparando, sotto la guida di un provveditore alle lagune e ai lidi, a resistere ad un assalto: un episodio tipico della luna di miele controriformistica tra la Repubblica e Roma e del consueto mélange tra rito civico e rito religioso (66). Nel 1727 fu deciso il varo di "un nouveau Bucentaure dans la Mer"; la notizia della nuova edizione del grande simbolo della Repubblica, una conferma delle sue velleità marittime, fu peraltro comunicata dall'abate Antonio Conti, un patrizio assai vicino al nucleo dirigente della Repubblica, all'amica contessa di Caylus con un commento, dal quale era assente qualsiasi compiacimento ῾cittadinesco': "c'est le troisième qu'on a bâti depuis 500 ans, mais il n'y a pas grande apparence que nous voyons le quatrième, mais il ne conte rien de le souhaiter" (67).
Nel 1730 fu solennemente celebrato il centenario del voto pubblico per il tempio di Santa Maria della Salute: la "città della Madonna" non poteva dimenticare l'aiuto ricevuto "in occasione di rimote e vicine formidabili guerre". L'anno seguente il papa Clemente XII concluse il "travagliato iter" della canonizzazione del doge Pietro I Orseolo, non solo un'ulteriore conferma dei profondi legami che univano Venezia a Roma (tre anni prima la Repubblica aveva donato al papa una reliquia di santa Lucia), ma anche una preziosa occasione per certificare le ottime relazioni con la Francia (Luigi XV inviò in dono una reliquia del doge) e, più in generale, per cementare mediante il culto dogale (tra l'altro l'anniversario della morte del santo fu proclamato festa di Palazzo) politica e religione (68). Nel 1732 il senato decretò l'illuminazione pubblica di tutta la città (69), mentre il consiglio dei X, "preoccupato per l'inflazione del fenomeno [della] pietà associativa, che registrava duecentonovanta" ῾scuole piccole' (sovvegni, suffragi e confraternite), vietò che ne fossero erette altre (70).
Una decisione che non rispecchiava certamente una svolta ῾laicista', ma mirava piuttosto a suggellare e a consolidare un processo di clericalizzazione strutturale della città che, dopo aver segnato il passo nei primi decenni del secolo, aveva ripreso un notevole vigore dalla metà degli anni '20. "Tra le grandi città [...] Venezia è la città che ha" all'epoca "più preti in rapporto alla popolazione", più o meno il doppio di Milano e di Napoli, una percentuale non molto lontana da quella della stessa Roma (71). "Ville dévote", Venezia, anche per Montesquieu, il quale tuttavia nello stesso tempo deprecava, come voleva una tradizione assai radicata, che "on y jouit une liberté que la plupart des honnêtes gens ne veulent pas avoir" (72). Una curiosa città, quindi, sospesa e divisa - come testimonia, al di là degli stereotipi tramandati dai viaggiatori, anche la vita del più noto patrizio musicista del Settecento, Benedetto Marcello (73) - tra il libertinaggio e la devozione. Si può imputare quella che appare come la più stridente contraddizione della Venezia primosettecentesca, più che ai limiti specifici del sistema patrizio e clericale di controllo e di repressione ("le redoutable Conseil des Dix n'est pas le redoutable Conseil des Dix" e "il n'y a que les fous qui soient mis à l'Inquisition à Venise", constatava ad esempio Montesquieu nel 1728 (74)), alla sostanziale incapacità della Repubblica di imporre una linea politica alla società veneziana - e in primo luogo allo stesso corpo aristocratico - che non fosse una legittimazione a posteriori delle sue dinamiche e pulsioni interne.
Tra gli episodi, che illustrano più chiaramente tale fenomeno, figura quello, già evocato nelle pagine precedenti, dell'elezione dei sindaci e inquisitori in Terraferma. La proposta dei savi del consiglio incontrò una certa resistenza sia in senato - che approvò il decreto con una maggioranza qualificata, ma non certo schiacciante (123 a favore, 24 contrari e 22 ῾non sinceri') - sia soprattutto in seno al maggior consiglio, dove, nonostante che la parte fosse caldamente sostenuta dal savio di settimana Francesco Gritti, che evocò "le violenze ne dazi" e spiegò "che per le correzioni i Maggiori si erano sempre valuti di questo rimedio", passò, vista la decisione di trecento patrizi di astenersi dalla ballottazione, con il minimo legale dei voti (75). Come si spiega la silenziosa, ma ferma opposizione di una parte significativa del patriziato di fronte ad un provvedimento a prima vista così ragionevole, se non assolutamente necessario data la situazione dei conti pubblici? È assai probabile che nascesse dalla convergenza degli interessi entrambi a titolo diverso inconfessabili - delle due sezioni estreme della piramide aristocratica, i ricchi e i poveri.
Agli occhi dei primi, da oltre un secolo un'élite formata quasi esclusivamente da grandi proprietari terrieri, un giro di vite fiscale in Terraferma - l'esito più scontato dell'intervento del magistrato straordinario - minacciava di amputare, direttamente o indirettamente, le loro rendite agrarie. Come avrebbe sottolineato, non senza calcare un po' la mano, Montesquieu, "il n'y a pas de sujets mieux traités que ceux de la République: ils payent peu, et les nobles de Terre-Ferme s'exemptent souvent de payer rien du tout: les nobles souverains donnent la main à cela pour ne pas payer eux-mêmes". La Repubblica aveva "deux grands ennemis", "la peur et l'avarice" (76); particolarmente "renitenti" di fronte alle tasse erano "i primi Signori": gli anonimi interlocutori di Bernardo Nani, il fratello maggiore di Giacomo, avrebbero affermato qualche anno più tardi che "i principali nobili dicono che i principi non pagano gravezze, e tali sono nella Repubblica essi" e che "si spendono dai più richi intorno 100 mila ducati per un allestimento di noviziato e 100 doppie in una cena", ma, "se il publico dimanda ad essi 1.000 ducati, si scansano" (77).
Quanto ai secondi, ai barnaboti, va ricordato che, come avrebbe sottolineato Nicolò Donà intorno al 1737, "sino a tanto che la Repubblica possedeva la Morea e il Regno di Candia, ivi avean luogo questi cattivi umori di espurgarsi senza pregiudizio con l'intima connessione del Governo". Dopo la perdita di gran parte del Levante i nobili poveri affollavano "oziosi e in grande bisogno" la sala del maggior consiglio nella speranza, sempre più difficile da soddisfare, "di qualche occupazione lucrosa" (78). Come segnalano le ricerche di Oliver T. Domzalski (79), dal momento che i patrizi alla testa delle camere fiscali e i rettori dei centri medi e piccoli della Terraferma uscivano quasi tutti dalle fila delle quarantie, la nobiltà giudiziaria, e dei barnaboti, un'inchiesta condotta a tutto campo dai sindaci rischiava di sollevare il coperchio della pentola della corruzione, di una malattia senza dubbio endemica, ma la cui diffusione era in quegli anni favorita, oltre che dal venir meno delle risorse garantite dai reggimenti della Morea, anche dalla tosatura che i salari pubblici avevano subito nel corso dei decenni precedenti a causa di un'inflazione piuttosto aggressiva. Non a caso nel 1722 - e poi nuovamente nel 1734 e nel 1748 - si procedette all'elezione di quel magistrato straordinario dei revisori e regolatori ai reggimenti, cui spettava proporre al senato di aumentare le retribuzioni di chi serviva la Repubblica nel Dominio (80).
Se nello scontro del 1719 circa la nomina dei sindaci e inquisitori in Terraferma era possibile leggere unicamente in filigrana un conflitto tra gli interessi particolari di alcune ῾classi' del patriziato e quelli generali della Repubblica, quattro anni più tardi le contraddizioni interne allo stato-corpo aristocratico, in particolare l'inclinazione ad anteporre "la privata opulenza" alla "pubblica povertà" (81), s'imposero in tutta la loro evidenza. Il 31 marzo 1723 i deputati alla provvigion del denaro presentarono al senato una scrittura, che affrontava la questione strategica delle eredità delle case estinte. Se le aggregazioni al patriziato concesse a partire dalla guerra di Candia avevano permesso di bloccare l'emorragia, che aveva dissanguato il corpo aristocratico fin dal primo Cinquecento (tuttavia va tenuto presente che dopo il 1715 era nuovamente ripresa, nonostante la riapertura del Libro d'oro in coincidenza con la seconda guerra di Morea, la parabola discendente (82) e che, ciò che più conta, la forza d'attrazione della nobiltà della Dominante era notevolmente diminuita negli ultimi decenni (83)), era invece assai lontano da una soluzione il problema - ben presente non solo a Garzoni - dei "due estremi, nocevoli alla simmetria, e buona regola del governo: la Dovizia, e la Povertà", vale a dire della crescente divaricazione, all'interno del patriziato, tra i ricchi e i poveri.
Come osservava lo stesso Garzoni, "procurandosi dal dovizioso le nozze della figliuola con sposo di eguali fortune, si fanno straricchire le case con l'aggiunte eredità, il che altera la simmetria, e può generare sconci effetti nell'avvenire" (84). Di qui la proposta dei deputati alla provvigion del denaro, fatta propria dai savi del consiglio, di assegnare allo Stato un terzo del patrimonio delle case estinte. Il 31 marzo il decreto ottenne 108 voti a favore ma 47 contro e 70 ῾non sinceri'; ripresentato il 18 maggio su ῾eccitamento' di Paolo Renier, lo zio del penultimo doge della Repubblica, questa volta fu approvato, nonostante l'opposizione di Nicolò Foscarini, il padre di Marco, di stretta misura (i 10 per il collegio, 52 ῾di nò' e 47 ῾non sinceri'). Ma undici giorni più tardi "insorse" Andrea Memmo - lo zio omonimo del patrizio studiato da Gianfranco Torcellan (85) -a chiedere la sospensione del decreto sulla base di motivazioni chiaramente demagogiche (non si doveva prendere di mira unicamente i patrizi, ma bisognava "levar il 3° a tutti" i beneficiari di eredità, quando non erano parenti stretti del testatore, quindi agli ospedali ecc.): Garzoni, che nella precedente seduta aveva energicamente difeso il provvedimento, questa volta "stim[ò] di prudenza per tanti interessati a tacere". Così, quando, il 4 luglio, un avogador di comun intromise il decreto davanti al maggior consiglio, "niuno oppose" e "così passò con pubblica iattura e trionfo dei privati" (86).
Non è un caso che anche questo episodio registrasse una convergenza tra i ricchi (Nicolò Foscarini) e i poveri sobillati da Memmo, in tale circostanza longa manus dei "primi Signori". È evidente che, mentre questi ultimi costituivano - per i motivi esposti sopra da Garzoni - i "tanti", diretti "interessati", che l'anziano savio del consiglio non intendeva inimicarsi, i barnaboti non volevano invece essere defraudati della speranza, non del tutto campata in aria (87), anche se stocasticamente improbabile, di poter beneficiare di un colpo di fortuna. Ma, al di là delle intenzioni delle diverse componenti del patriziato, conta il fatto che gli interessi della Repubblica fossero posposti a quelli sociali del corpo aristocratico, "ce qui fait" - osservava Montesquieu - "que l'État n'est pas si puissant qu'il pourroit l'être" (88). Il fallimento dei tentativi di ridurre la forbice tra "la privata opulenza" e la "pubblica povertà" (se le entrate della Repubblica si aggiravano intorno ai 4.000.000 di ducati, quelle del corpo aristocratico erano giudicate pari, se non superiori, ai 3.500.000) (89) testimoniava che a Venezia regnavano ormai il "sonno" denunciato da Nani e, stando a Montesquieu, "un certain état d'indolence et un certain désespoir qui fait qu'on n'ose pas jeter les jeux sur sa situation" (90): lo spirito di conservazione sociale penalizzava qualsiasi tentativo di risalire la corrente.
Nello stesso tempo le vicende del 1719 e del 1723 erano una conferma della sicura leadership, sociale prima ancora che politica, del patriziato abbiente nei confronti delle altre ῾classi' del corpo aristocratico. La crescente quantità di nobili poveri rappresentava certamente un problema, ma era giudicato, a ragione, più una bomba a tempo che una minaccia incombente. Questo perché la rete delle protezioni clientelari e dei legami ῾verticali', che tenevano insieme la piramide nobiliare, non era ancora indebolita dalle solidarietà ῾orizzontali' garantite dall'appartenenza ai consigli giudiziari oppure al ceto dei barnaboti. La pace sociale era favorita anche da una diarchia al vertice del governo veneziano: da una parte il procuratore di San Marco Lorenzo Tiepolo, il più autorevole tra i "primi Signori", dall'altra il procuratore di San Marco Giovanni Emo, il fratello di Angelo, che godeva invece dell'appoggio del patriziato medio e basso. Erano - e rimarranno per più di vent'anni - questi due procuratori "ceux qui gouvernent cette République" (91). Il nucleo dirigente dello Stato marciano comprendeva, accanto a Tiepolo e ad Emo, una quindicina di patrizi, che al pari di essi si erano distinti soprattutto nelle ambasciate: il più noto e apprezzato era Carlo Ruzzini - il negoziatore, tra l'altro, delle paci di Carlowitz e di Passarowitz - che sarebbe diventato doge nel 1732.
Sempre più rari, invece, tra i personaggi di spicco, i militari come Alvise 3° Sebastiano Mocenigo (di cui si lodavano però particolarmente la "virtù e destrezza" esibite quando era stato incaricato, all'indomani della pace del 1718, di tracciare il nuovo confine dalmata con l'Impero ottomano) (92), doge dal 1722 al 1732. Dopo Alvise 3° Mocenigo il corno dogale non premierà più un altro patrizio, che avesse fatto carriera nella ῾professione' del mare. Quel che è curioso è che spetterà piuttosto alla Chiesa tributare un riconoscimento a tale categoria, consacrando patriarca di Venezia, nel 1734, un ex provveditore generale da mar, il cappuccino Francesco Antonio Correr. In ogni caso l'elezione di Alvise 3° Mocenigo così come l'istituzione, l'anno precedente, dei deputati al militar, una sorta di consiglio di guerra formato da ex provveditori e capitani generali, non devono indurre a credere che la Repubblica coltivasse in quegli anni aspirazioni bellicose: anzi, le difficoltà del bilancio spingevano il governo ad attuare nel corso degli anni 1720 una smobilitazione strisciante, che doveva penalizzare soprattutto l'armata grossa e creare ampi vuoti nelle file degli effettivi ("si pagano 19 mila uomini nel 1731 e non erano nepur 12 mila: così vuol chi comanda", ci si lamentava alla vigilia dello scoppio della guerra di successione polacca (93)).
Nel 1733 "lo stato della Repubblica" appariva ai patrizi più pessimisti o più realisti affatto "infelice", "tutto da disgrazie, senz'amici, senza soldi, senza riputazione, senza amore per il pubblico". Si tracciavano scenari ancora più cupi di quelli dipinti alcuni anni prima da Garzoni; lo testimonia il rosario di accuse e di deprecazioni raccolto da Bernardo Nani con tutta probabilità dalla bocca del padre Antonio, un militare di ῾professione' più volte membro del consiglio dei X e inquisitore di Stato:
la forza di Venezia non consiste più nella città come una volta; se ora succedesse che l'Imperatore occupasse la Terraferma, tutti pensarebbero ad azioni vili, non farebbero risoluzioni come doppo la battaglia di Giaradadda; e tra molti partiti niente risolverebbero [...]; ora i Veneziani non hanno altro di bello che l'Arsenale [...], la riputazion del Golfo è perduta [...], abbiamo ancora un poco di antica aura [...], paghiamo in pace 19 mila uomini, ma tutti vili [...], non vogliono marchiare, tutti hanno scuse e protettori […]; lo Stato di Terraferma è aperto. La difesa nostra e d'Italia sono la Francia, Inghilterra, Spagna [...]; ci lusinghiamo che debba risorgere il Veneto valore; mà vane speranze, saranno mal'educati i figli e, dio non lo voglia, diveranno sudditi ò schiavi [...]; il paese non può durare [...]: si crede poter battere se venisse l'occasione a' Turchi, indi si trema per essi; prima l'Imperatore si crede una figura di legno, poi si getta nelle sue braccia. Eppur queste differenze non sono tra mesi, mà di settimane (94).
Tra l'altro nel 1732 un incidente di per se stesso di non grande rilievo (durante una festa tre sbirri al servizio dell'ambasciatore veneziano a Roma, Nicolò Canal, erano stati ammazzati o feriti) aveva fatto entrare le relazioni con il papa in un tale vortice di richieste non soddisfatte e di ripicche puntigliose che il senato aveva deciso di ritirare l'ambasciatore, incaricando il cardinale Angelo Maria Querini di assumere ad interim la rappresentanza degli interessi della Repubblica. Anche se l'anno successivo, grazie alla mediazione francese, la controversia era stata appianata e le relazioni diplomatiche erano state ripristinate con soddisfazione di entrambe le parti, tuttavia l'episodio non solo aveva gettato un'ombra sui rapporti, come si sa in precedenza idilliaci, con il papa, ma aveva anche fatto emergere all'interno del gruppo dirigente veneziano un contrasto tra gli "uomini principali e vechi", tutti d'accordo nel voler chiudere al più presto la faccenda, e i "giovani", che avevano invece "impuntata [...] la cosa" (95), un'anticipazione, sia pure in tono minore, degli schieramenti, che si sarebbero combattuti una ventina d'anni più tardi, all'epoca della crisi finale d'Aquileia.
Quando scoppiò, nell'ottobre del 1733, la guerra di successione della Polonia, a Venezia vi fu chi accolse con grandissima preoccupazione la notizia che veniva a "turbarsi a' nostri confini la pace riguardata sempre dalla Repubblica come fondamento di sua conservazione e difesa": in ogni caso il conflitto non poteva "esser bene per essa" (96). Eppure sia le intese politico-militari, che erano state attivate dalla questione polacca (dopo la morte dell'elettore di Sassonia Federico Augusto II - Augusto II in quanto re di Polonia - un protetto della Russia appoggiato anche dall'Austria e dalla Prussia, nel settembre del 1733 era stato eletto dalla dieta re di Polonia - o, meglio, rieletto, dal momento che lo era già stato per cinque anni, dal 1704 al 1709, all'ombra delle baionette svedesi - Stanislao Leszczyński, il suocero del re di Francia Luigi XV, ma San Pietroburgo era intervenuta con le sue truppe e, in base ad un accordo stipulato con Vienna e con Berlino, aveva fatto assegnare da una dieta compiacente il trono al figlio di Federico Augusto II, Federico Augusto III, che così assunse il nome di Augusto III), sia, ciò che più importava, le alleanze che erano state strette in riferimento al quadrante italiano, sia, infine, gli sviluppi delle operazioni militari nella penisola aprivano, in linea teorica, spazi assai favorevoli alla politica veneziana.
Il ministro degli esteri francese Germain Louis de Chauvelin era infatti riuscito a coalizzare le forze antiasburgiche in Italia: al re di Sardegna Carlo Emanuele III aveva garantito la Lombardia, mentre al re di Spagna Filippo V aveva offerto, oltre alle successioni farnesiana e medicea promesse in precedenza al di lui figlio don Carlos (alcuni presidi spagnoli si erano già installati nel Ducato di Parma e nel Granducato di Toscana), anche i Regni di Napoli e di Sicilia. Approfittando dell'impreparazione degli Imperiali, gli eserciti borbonico-savoiardi conquistarono nel corso dell'ultimo scorcio del 1733 quasi tutta la Lombardia, eccettuate alcune piazzeforti, tra le quali quella strategica di Mantova. Nella primavera del 1734 don Carlos s'impadronì del Regno di Napoli e nella seconda parte dell'anno anche della Sicilia. Quell'imperatore che a Venezia - come aveva testimoniato pochi anni prima Montesquieu - era "extraordinairement craint et extraordinairement haï", se non altro perché la Repubblica si sentiva "entourée, à droite et à gauche, par [sa] puissance" (97), era manifestamente alle corde. Dal momento che dopo Passarowitz era prevalsa la tesi che "la difesa nostra e d'Italia sono la Francia, Inghilterra, Spagna", era logico attendersi - come auspicava nel 1735 Chauvelin, tirando, come è logico, l'acqua al suo mulino (98) - che la Repubblica approfittasse dell'occasione per liberarsi dal ῾protettorato' asburgico.
In effetti una linea strategica avversa all'Impero trovò un autorevole ispiratore nel procuratore Tiepolo (la sua leadership e la sua inclinazione politica erano state ufficialmente consacrate dalla nomina a ῾conferente' dell'ambasciatore francese, mentre un ruolo analogo nei confronti degli Imperiali era stato affidato a Daniele Bragadin), il quale sul finire del 1733 sostenne che la Repubblica doveva prima annunciare la propria neutralità e successivamente "romperla" a spese dell'Imperatore (99). L'ardito progetto di Tiepolo fu attuato soltanto nella prima parte: nel novembre del 1733 la Repubblica comunicò alle corti europee l'intenzione di "tutelare con le forze armate i propri domini" e nel gennaio del 1734 ribadì la propria neutralità anche a beneficio dei sudditi (100), ma la fase due - quella dell'adesione all'alleanza antiasburgica - fu accantonata dai savi del consiglio. Senza dubbio il "caldo" procuratore - così era definito da un patrizio che evidentemente non si riconosceva nel suo programma (101) - era il portavoce di sentimenti e risentimenti diffusi all'interno del corpo aristocratico: ma non si rischiava, soprattutto dopo le sconfitte subite nell'estate del 1734 dagli Imperiali a Parma e a Guastalla, di sostituire all'egemonia asburgica in Italia quella dei Borboni? In ogni caso la situazione militare di Venezia non consentiva di abbracciare a cuor leggero una politica interventista.
"La Repubblica ha 16 mila uomini effettivi e frà poco 22 mila in Italia. Poche [truppe] per entrar in partito, troppe per star neutrali e quasi insensati", si affermava nel 1734 (102). La scelta della neutralità armata e le difficoltà di bilancio costringevano in effetti Venezia ad una mobilitazione né carne né pesce, che costava parecchio, ma nello stesso tempo non garantiva in alcun modo i Dominii marciani dalle scorrerie e dalle occupazioni dei belligeranti. La Repubblica aveva reagito con insolita prontezza all'inizio delle ostilità, eleggendo Carlo Pisani e Antonio Loredan, due patrizi che si erano particolarmente distinti, soprattutto il secondo, nel corso dell'ultima guerra di Morea, rispettivamente provveditore generale in Terraferma e provveditor estraordinario al di là del Mincio (nel 1735, essendo stato eletto doge Alvise Pisani, fratello di Carlo, questi fu sostituito da Loredan quale provveditore generale). Ma, mentre i piani iniziali prevedevano la formazione di un esercito da campagna di diecimila uomini, che fosse in grado - come scriveva Pisani - di "consolar li sudditi [...] e custodire con gelosia, almeno apparente, cadauna delle pubbliche terre" (103), in realtà fu conservato il sistema - assai criticato da Schulenburg - delle guarnigioni a pioggia e anche per questo motivo non si riuscì ad impedire che nell'estate del 1735 stazionassero nella Terraferma veneta 60.000 Gallispani e Piemontesi e nell'inverno del 1735-1736 vi si acquartierassero 18.000 Imperiali (104).
I limiti delle forze armate marciane e, in modo particolare, gli sviluppi della guerra troppo favorevoli agli alleati indussero il governo veneziano a rimanere aggrappato ad una politica isolazionista prima ancora che neutrale. Nel 1734-1735 caddero nel vuoto le avances di Roma a favore di un'intesa tra le potenze italiane non coinvolte nel conflitto, che impedisse o quanto meno limitasse i danni delle occupazioni straniere (105). A Venezia, essendo ormai parecchi patrizi convinti che, dopo la perdita della Lombardia e dei Regni meridionali, l'Austria non rappresentasse più un pericolo per la Repubblica (nel 1735 Marco Foscarini, che stava portando a termine la sua ambasceria a Vienna, redasse una compiaciuta Storia arcana dell'Imperatore Carlo VI, in cui esaminava la crisi austriaca come un caso esemplare di "abbassamento" di una monarchia, di un regime destinato - diversamente dalle repubbliche, le quali, si sa, godevano di "buone leggi" - "a perire sotto i vizi dei pochi" (106)), si manifestò una certa "inclinazione" per l'imperatore tanto da far temere il ῾partito' antiasburgico che Vienna approfittasse di tale disposizione per "riddurre dipendenti" i Veneziani "con le belle, poco alla volta" (107).
Anche se bisognerà attendere il 1738 prima che la pace di Vienna ponesse fine alla guerra di successione polacca, tuttavia già nell'ottobre del 1735 i preliminari di pace conclusi tra la Francia e l'Impero avevano dato un nuovo assetto alla penisola. Se Napoli e la Sicilia rimanevano a don Carlos, la Lombardia era restituita (fatta eccezione per Novara, Tortona e le Langhe, tutti territori concessi al re di Sardegna) all'Austria, che incamerava anche il Ducato di Parma e, di fatto, il Granducato di Toscana, che era assegnato al duca di Lorena Francesco Stefano, lo sposo promesso alla figlia ed erede dell'imperatore Maria Teresa. Era una soluzione equilibrata della guerra che, se era ben lontana dal sanzionare l'"abbassamento" dell'Austria previsto da Foscarini, non dispiaceva a quei Veneziani, che condividevano le tesi esposte da Nicolò Donà nei Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica di Vinegia, un'opera redatta tra il 1736 e il 1738. Il patrizio vi tracciava una mappa della politica estera veneziana, che contrapponeva quattro Stati giudicati, con molta generosità, amici (lo Stato pontificio, l'Impero, la Spagna e la Francia) ad un solo nemico, i Turchi, mentre confinava tutte le altre potenze nella grigia classe degli "indifferenti".
Donà aveva fatto soltanto in parte tesoro della lezione impartita dalle due guerre di successione: mentre non poteva evitare di constatare che gli Stati di Terraferma erano "soggetti come canna al soffio dei venti de' Francesi, Spagnuoli e Tedeschi" e che la loro conservazione dipendeva "dalla pieghevolezza agl'insulti de' medesimi", s'illudeva nello stesso tempo che il principio di equilibrio assicurasse comunque alla Repubblica una ciambella di salvataggio. "Il nostro vantaggio consiste in questo che, equilibrando con la situazione dello Stato di Terra Ferma la forza e l'autorità de' Tedeschi, Francesi, e Spagnuoli in Italia, non siamo in caso di temere l'inimicizia di un solo di loro, perché immediatamente accorre l'altro a sostenerci". Inoltre individuava nell'imperatore, che preferiva comunque che rimanesse con i possedimenti italiani riconosciutigli dall'intesa dell'ottobre del 1735, il garante di una stabilità italiana, che riteneva minacciata piuttosto dalle ambizioni della Francia e dalla frantumazione politica della penisola e, soprattutto, un "potente argine a' Turchi". Un argine tanto più indispensabile in quanto Donà era dell'opinione che alla Repubblica fossero necessari almeno vent'anni di pace per potersi adeguatamente "fortificare" in vista di una rivincita sul suo nemico tradizionale. Con Vienna bisognava comportarsi con una "direzione [...] prudente ed accorta" in modo da conservare la sua amicizia, ma nello stesso tempo rimanere "esent[i] dal peso per noi gravissimo di questo impegno", vale a dire la guerra contro il Turco (108).
Non era un'ipotesi accademica, dal momento che nel 1737 l'Austria aveva unito le sue forze a quelle della Russia contro gli Ottomani e aveva chiesto alla Repubblica di intervenire anch'essa nel conflitto. Venezia si sottrasse a quella che Vienna considerava, in base al trattato della sacra lega, "una precisa obbligazione", facendo presente che quel trattato prevedeva "un reciproco universale consenso di forze qualora o l'una o l'altra delle [...] potenze fossero assalite dai Turchi", mentre la guerra in corso "riconosce[va] altri principii" (109). Tra l'altro le operazioni militari andarono male per l'Impero, che con la pace di Belgrado del 1739 fu costretto a restituire agli Ottomani la Serbia settentrionale (compresa la stessa Belgrado) e la piccola Valacchia (110). Ma, nonostante o forse proprio a causa del ridimensionamento subito dall'Impero, appunto nel 1739 cadde un episodio senza alcuna conseguenza pratica, ma che tuttavia appare particolarmente rivelatore, oltre che dei legami, che oramai univano la Repubblica al suo potente vicino, anche dello scoraggiamento, che stava facendo breccia nelle file dello stesso nucleo dirigente veneziano.
Quell'anno "in casa del Cavalier [Alvise 5°] Antonio Mocenigo" - un savio del consiglio fratello del defunto doge Alvise 3° Mocenigo - "ragionando il Kavalier [Angelo] Emo e il Kavalier [Andrea] Memmo tra loro, prevedevano essi il successivo deperimento della Repubblica senza trovar modo di ripararlo. Essi averebbero desiderato che preventivamente a un tal cattivo momento la Repubblica si ascrivesse al Corpo Germanico affine di essere caratterizzata quale un altro Elettore" (111). Le biografie di Angelo Emo e di Andrea Memmo autorizzano a ritenere che, al di là delle apparenze, essi considerassero l'approdo della Serenissima ai lidi imperiali non tanto l'esito obbligato di un'esperienza politica sull'orlo della consunzione quanto piuttosto l'unica via di fuga, che rimanesse aperta ad una Venezia aristocratica, che intendesse sopravvivere in un quadro internazionale sempre più ingrato. I tre patrizi, che "ragionavano" nel 1739 sulla fine della Repubblica, erano tutti e tre sulla settantina, appartenevano ad una generazione che, proprio perché poteva richiamare alla memoria tempi migliori (Emo aveva partecipato alla conquista della Morea agli ordini di Francesco Morosini), era in grado di rendersi conto della gravità della crisi della città-stato.
Una consapevolezza, che faceva invece difetto a chi, come era il caso di Marco Foscarini, non aveva conosciuto altro che l'"ingiuria di tempi, e calamità di fortuna" (112) e che riteneva che il suo compito fosse quello di esorcizzarle o, come aveva fatto con la Storia arcana, di interpretarle in chiave ottimistica. Negli anni della guerra di successione polacca Foscarini cercò di presentare la neutralità della Repubblica - una scelta, come sappiamo, più imposta dalle circostanze che frutto di una strategia politica - come "un partito preso con matura elezione" in una fase storica, in cui "la perfezione morale non più consiste[va] nel far opere virtuose, ma nell'astenersi dalle cattive". A Venezia andava il merito di aver la "pace conservata fra le armi vicine", di opporre una superiore saggezza a una politica internazionale di stampo machiavellico fondata sulla ragion di Stato e sulla violenza (113). Come spiegherà nel 1755 Gasparo Gozzi, un letterato allora portavoce di Foscarini, in un'opera teatrale, il Marco Polo, Venezia
sopra ogni altra virtude la bella pace onora / ed alla pace attende; onde saper tu puoi, / ch'aman la pace ancora i cittadini suoi. / Son di pace ripieni i suoi consigli e governi / questo fa la cittade e i cittadini eterni;
la savia Serenissima poteva ripetere con il grande viaggiatore: "Io dall'armi non cerco, ma da ragione aiuto" (114).
Rassegnarsi ad essere fagocitati dall'Impero, come proponevano Angelo Emo e Andrea Memmo, oppure continuare ad innalzare, come faceva con sempre maggior impegno Marco Foscarini, monumenti culturali alla Repubblica nella speranza che la pace e la ragione congiurassero nell'assicurare l'eternità alla "cittade" e ai "cittadini". Ma, in quegli anni, alla Serenissima non rimanevano altre vie da percorrere? Nella seconda metà degli anni 1730, una stagione tra le più contraddittorie e stimolanti della Venezia settecentesca, furono in effetti tracciate e, a seconda dei casi, soltanto discusse oppure avviate alla realizzazione altre tre linee strategiche, che, quanto meno negli auspici e nelle aspettative di chi le proponeva, potevano consentire di uscire, in un modo o nell'altro, dalle sabbie mobili di una crisi, che rischiava di inghiottire la Repubblica. Da una parte la strada foscariniana del "commercio", un obbiettivo tradizionale che si tentò tuttavia di raggiungere mediante una riforma delle strutture tecnico-amministrative di un certo respiro; dall'altra due ambiziose proposte di rifondazione della Repubblica, una ῾dall'esterno', vale a dire a partire dai rapporti tra la Dominante e la Terraferma, e l'altra ῾dall'interno', che intendeva invece ridisegnare i rapporti tra le diverse ῾classi' del corpo aristocratico in modo da assicurare una maggiore efficienza ai consigli e ai magistrati dello Stato marciano.
Come abbiamo visto, nei tre lustri successivi alla pace di Passarowitz la Repubblica non era andata al di là di un'ordinaria amministrazione, che riconosceva la sua stella polare e il suo incubo nella questione finanziaria. I timidi tentativi di riforma erano falliti, "la nave desolata e involta d'algosa materia" (115) aveva proseguito la sua stanca corsa senza che chi era al timone riuscisse a dare un colpo convincente alla barra. Una svolta significativa nella politica marciana si profilò nell'estate-autunno del 1733. Agli inizi di settembre Maffei, che da Parigi stava seguendo con molta attenzione il dibattito politico veneziano, avvertì l'amico Pellegrini che vi erano novità all'orizzonte lagunare: "dopo la pace fatta perpetua dalla nostra Repubblica col Turco [...] mi penso che a Venezia si penserà a riforme" (116). Che non fosse una frase buttata là dal marchese unicamente allo scopo di impressionare il suo interlocutore con la sua conoscenza delle segrete cose della Repubblica, lo segnala la scrittura che i cinque savi alla mercanzia presentarono al senato poche settimane più tardi - il 26 settembre - per invitarlo a riformare in una direzione liberista la politica daziale (si proponeva sostanzialmente di restituire a Venezia quella condizione di - relativo - porto franco, di cui aveva beneficiato tra il 1662 e il 1684), in modo da reagire con decisione all'accerchiamento e alle sfide di Trieste, Ancona (porto franco dal 1732) e Livorno.
"Li prìncipi meno informati del vero ben suo tengono più conto assai dei daci che loro derivano dal commercio che non del commercio stesso che gli porta" affermavano, tra l'altro, i savi, facendo propri due postulati, che dovevano suonare eretici nella Venezia mercantilista di quegli anni: l'autonomia, se non l'indipendenza, dei mercanti o, meglio, del mercato dallo Stato e la necessità di subordinare le esigenze fiscali a quelle economiche, "ed in questa maniera perdono e il commercio e li daci, perché li patroni del commercio sono i mercanti, non sono li prìncipi, e quel principe che non si cura di andar dietro al mercante non avanza mai terreno, anzi lo perde sempre maggiormente quanto più vuol essere principe sopra merci che non sono di semplice e nudo traffico" (117). La "bella, erudita", ancorché "lunga e senza ordine", "scrittura di commercio" era in effetti uscita dalla penna di Paolo Renier (118), uno dei patrizi più impegnati nel "processo di miglioramento del sistema di revisione contabile" della Serenissima (119) e uno dei critici più severi delle responsabilità del patriziato nella crisi dell'economia veneziana (120), ma, come testimonia un accenno di Bernardo Nani all'"applauso universale" tributato alla politica commerciale di Giovanni Emo (121), alle spalle di Renier, un patrizio "fibroso" e assai capace che era tuttavia relegato dalla dinamica politica veneziana in una posizione di secondo piano (122), vi era senza dubbio il potente procuratore.
Che poi Emo abbia avuto un ruolo probabilmente decisivo nel varo della riforma doganale del 1736 (123), lo indica la sua presenza, insieme a quella degli altri due patrizi più influenti in quei decenni, Lorenzo Tiepolo e Michele Morosini, tra gli autori della scrittura che propiziò il decreto del senato (124). In altre parole, Maffei aveva visto giusto quando aveva tracciato un filo rosso tra la pace "perpetua", conclusa, si sa, da Angelo Emo, e le riforme meditate a Venezia dalla cerchia di patrizi, che faceva capo al fratello Giovanni (125), tra la svolta irenica nella politica mediterranea e l'avvio di un programma innovatore, che sanasse le piaghe più evidenti della Serenissima. Ciò che stupisce è che il gruppo di savi, che dominava la vita politica veneziana fin dalla metà degli anni '10, riuscisse, dopo aver varcato da un pezzo la soglia dei sessant'anni (erano nati nel 1670 o pochi anni prima, tra gli altri, i due fratelli Emo, Lorenzo Tiepolo, Michele Morosini, Andrea Memmo, Paolo Renier, lo stesso doge Alvise Pisani, in carica dal 1735 al 1741, e parecchi altri membri di un nucleo dirigente in quella fase impermeabile o quasi alle generazioni più giovani), ad abbozzare delle soluzioni sistemiche ai problemi della Repubblica contraddistinte da un indubbio tasso di originalità.
La riforma del 1736 non si limitava infatti a ridurre le tariffe doganali soprattutto all'uscita, come aveva suggerito Renier nel 1733, ma replicava alla crisi dell'armata, vale a dire della marina militare marciana, con il varo delle navi atte (atte, cioè, in quanto armate di un'adeguata artiglieria a difendersi e a difendere i traffici dai corsari e dai pirati, che infestavano il Mediterraneo) e nello stesso tempo restituiva a nuova vita (come indicava la costruzione nel 1737 del "tezzone delle seghe") l'Arsenale, convertendolo da un'inutilmente dispendiosa manifattura di Stato in una sorta di joint venture tra pubblico - che in ogni caso continuava a sovvenzionare in misura elevata le sue attività - e privato a fini commerciali (appunto la costruzione delle navi atte). Certo, nonostante l'incisività di questi provvedimenti (dal 1736 iniziò per il porto di Venezia una fase ascendente che l'avrebbe portato, tra alti - coincidenti per lo più con le guerre tra le potenze marittime del Mediterraneo - e bassi - i periodi di pace soprattutto se funestati dalla guerra di corsa -, a triplicare nei primi anni '80 il valore delle merci importate ed esportate), essi erano sempre espressione della Grundnorm di "regolar la corrente", in tal caso di un compromesso tra i desiderata dei mercanti veneziani, che fin dal 1719 premevano per l'abbattimento delle tariffe doganali e a favore di "navi capaci da se stesse di resistere alle invasioni de' barbareschi" (126), e quelli del fisco, che non si poteva rassegnare, in una congiuntura che continuava a vedere il debito pubblico aumentare anno dopo anno, ad una drastica riduzione delle entrate.
In conclusione, intorno alla metà degli anni '30 il nucleo dirigente veneziano procedette senza dubbio, volendo riprendere la metafora marinara, ad una correzione della rotta della Serenissima, ma senza rimettere in discussione la strategia tradizionale. Come attestano le principali riforme condotte in questi stessi anni in altri ambiti, dalla pubblica amministrazione (nel 1736 fu stilato il primo bilancio generale della Repubblica, un frutto in primo luogo della spinta di una parte della burocrazia a favore di una maggiore efficienza della macchina statale) all'Università di Padova (gli interventi del 1738-1739 furono ispirati anche in questo caso da un funzionario, Giovan Francesco Pivati, dapprima sovrintendente "alle cose litterarie" dello Studio e in seguito anche sovrintendente alle stampe), i progressi furono per lo più parziali, dettati soprattutto dalla volontà di razionalizzare l'esistente e, in ogni caso, ritenuti da una parte dello stesso patriziato - lo segnala il ῾vertice' di casa Mocenigo del 1739 - incapaci di arrestare la decadenza della Repubblica.
Quanto mai radicali, invece, al di là della loro apparente moderazione, i termini della proposta riformatrice avanzata nel 1737 da Maffei nel Suggerimento per la perpetua preservazione ed esaltazione della Repubblica Veneta atteso il presente stato dell'Italia e dell'Europa. Il marchese non nascondeva che Venezia era da tempo entrata nella spirale dell'"indebolimento", della decadenza. Le perdite territoriali in Grecia, i limiti di un esercito e di una politica estera che non erano in grado di tutelare la Terraferma, un contesto internazionale sempre più ostile ("di là dai monti [...] si sentono persone anche attualmente in pubblico impiego ragionare della disposizione e della ripartizione che, per ben d'Europa, a prima occasione degli Stati della Chiesa e della Repubblica di Venezia si faranno": "lo Stato Veneto, se stiamo a loro, appartiene chiaramente ed indubitamente all'Impero che chiamano Romano-Germanico"), il declino commerciale, una situazione finanziaria aggravata dalle spese sopportate per armare, male, la Repubblica in occasione delle guerre in Italia e nel Mediterraneo: tutto contribuiva a far pronosticare alla Serenissima un avvenire quanto mai cupo.
Come si poteva uscire dalla crisi? Credere di poter "racquistare la perduta grandezza di prima" con una nuova guerra contro il Turco, che consentisse di riprendersi qualche territorio, era una follia. La ricetta maffeiana della ripresa di Venezia era un'altra: "Si può crescer di forze, senza crescer di Stati; e ciò coll'interessar tutti". Il marchese indicava chiaramente la necessità di una rifondazione dei rapporti tra Venezia e la Terraferma (ma anche, parallelamente, quella dei rapporti tra le città suddite e i loro territori), che consentisse di trasformare la città-stato ereditata dal Medioevo nella capitale di uno Stato territoriale, rispetto al quale la Dalmazia e le isole Ionie potevano rimanere invece in una posizione di tipo coloniale. "Le città e i popoli" della Terraferma - denunciava Maffei - "sono tenuti in condizione di meri sudditi; sono esclusi da ogni comunicazione colla Repubblica, da ogni apparenza di società, e da qualunque partecipazione di libertà". La forma costituzionale di Venezia poteva anche rimanere inalterata: tuttavia era necessario che il patriziato fosse conferito a venti nobili della Terraferma in quanto deputati delle principali città al di là e al di qua del Mincio e che ad essi non fosse interdetto l'ingresso al senato (127).
Maffei non presentò il Suggerimento - come pretenderà invece nel 1797 il primo editore dello scritto - al governo veneziano, ma bensì ai due patrizi più eminenti, con cui era in rapporti, vale a dire Giovanni Emo e Marco Foscarini, i quali, pur tributandogli molte lodi ("il suo libro l'ho letto e l'ho ammirato per l'idea illustre e per la bella combinazione", gli scrisse Emo, mentre Foscarini lo definì un "progetto [...] buono in se medesimo" e che non aveva neppure "opposizioni intrinseche di momento rispetto al metterlo in pratica"), in effetti non solo si rifiutarono di prenderlo in considerazione come un ragionevole programma di governo, ma gli consigliarono anche di non darlo alle stampe, se non dopo un lavoro di revisione, che gli togliesse i troppi spigoli. Emo dichiarò a Maffei che "molti anni" prima la lettura dell'"operetta di Gasparo Contarini intitolata sopra il Governo di Venezia" gli aveva fatto venire in mente "un embrione del concetto, a cui" il veronese aveva "dato figura intera". Ma, "avendo sotto l'occhio la materia", continuava il procuratore, "mi parve veder in essa tanta resistenza al lavoro" che aveva lasciato perdere "un soggetto di cui non poteva pensarvi il più bello".
Non molto diverse le obbiezioni avanzate da Foscarini: "la maggior difficoltà risiede nelle fantasie degli uomini, i quali sono soliti a risquotersi al solo nome di novità e la maggior parte di essi non è atta a sentire la forza delle ragioni, che la persuadono". Bisognava preparare "le menti al ricevimento di simili pensieri" con una lunga e sofisticata campagna di persuasione: era infatti "ardua cosa condurre una quantità d'uomini in deliberazioni dipendenti da principi nuovi e voler che cancellino le antiche maniere di pensare e si dipartino dai consueti metodi tutto ad un colpo e per via di fatto" (128). La "materia", gli "uomini" erano evidentemente i patrizi veneziani, un corpo aristocratico che, soprattutto nella sua componente povera, aveva tutto da perdere da una riforma costituzionale come quella prospettata da Maffei e che in ogni caso era ancora succube delle "antiche maniere di pensare". È assai probabile che Emo, che considerava la Repubblica "una brutta vecchia" (129), condividesse la diagnosi critica del marchese, ma proprio il suo disincantato realismo lo induceva ad arrendersi di fronte ad un degrado, che giudicava inevitabile. La "materia" era troppo inerte, immobile, fossilizzata dalla tradizione per poterle proporre di abbandonare il guscio della città-stato: se si voleva cercare una via d'uscita, essa poteva essere offerta piuttosto - come avrebbe prospettato nel 1739 Angelo Emo, anch'egli, al pari del fratello, tra i lettori del Suggerimento - proprio da quell'adesione della Repubblica "all'Impero che chiamano Romano-Germanico", che Maffei avrebbe voluto impedire.
Diversamente dal progetto maffeiano, i Ragionamenti politici di Donà, che erano in ogni caso prudentemente dedicati agli inquisitori di Stato, non conobbero, per quel che se ne sa, alcuna circolazione prima della morte del loro autore, avvenuta nel 1765. Tuttavia è da ritenere che, nel caso in cui fossero stati divulgati, avrebbero ricevuto la stessa accoglienza del Suggerimento maffeiano. Donà prendeva per le corna quel problema della "materia", che Emo e Foscarini avevano ritenuto un insormontabile ostacolo sulla strada della realizzazione del progetto del veronese, ma non certo allo scopo di favorire un nuovo assetto dei rapporti tra la Dominante e la Terraferma. Era sempre alla città-stato che Donà continuava a fare riferimento. Si rendeva peraltro conto, al pari di Garzoni, che le dinamiche interne al corpo aristocratico ne stavano lentamente corrodendo le fondamenta. Se si voleva "fortificare" la Serenissima, era necessario intervenire mediante una riforma non tanto della costituzione (peraltro anche su questo fronte suggeriva una serie di provvedimenti, che appaiono tutto sommato poco incisivi) quanto del corpo aristocratico.
"I poveri nobili si moltiplicano", osservava un interlocutore di Bernardo Nani nel 1733, "tutti si maritano, tutti figliano. Nei ricchi rarissime volte più d'uno per casa per conservar indivisibile il patrimonio" (130). Ne derivava un costante incremento della percentuale dei barnaboti, una bomba politica prima che demografica che non era facile disinnescare. La minaccia di un "cambiamento", di una rivolta dei barnaboti era la spada di Damocle sospesa sull'avvenire della Repubblica marciana. Convinto, al pari di Garzoni, che "la estrema povertà e la eccedente ricchezza [fossero] i principali semi del vizio e della virtù e delle scienze i più gagliardi nemici" e che bisognasse quindi evitare che "la povertà si sparga per tutto e la ricchezza tutta s'acoli in pochissimi luoghi", Donà suggeriva di risolvere una buona volta il problema con una divisione delle case più ricche e, soprattutto, una radicale "minorazione" (in effetti una quasi totale eliminazione) dei patrizi poveri. Ciò che proponeva per questi ultimi era una specie di riedizione della Serrata del maggior consiglio, che voleva peraltro attuare in maniera indolore tramite il varo di una legislazione destinata ad incidere a medio termine sulla composizione del patriziato.
Se la massa dei barnaboti costituiva il pericolo più evidente per un regime, come quello veneziano, a un tempo oligarchico e plutocratico, tuttavia anche le altre fasce del patriziato denunciavano preoccupanti scricchiolii. La maggior parte dei nobili "nuovi" continuava ad essere tenuta ai margini della vita politica (131). "Lusso, costumi corotti e licenziosi" affliggevano i ricchi. "L'amor del publico" declinava visibilmente (132), come dimostrava la crescente difficoltà di reperire candidati alle cariche più onerose (133). Ma Donà si preoccupava soprattutto della "non buona connessione" e della mancanza di una "corrispondenza reciproca" tra le quattro "classi", tra le quali aveva diviso il patriziato. Bisognava approdare ad un valido "equilibrio delle varie classi e magistrati de' nobili" (ad esempio assegnando due dei sei seggi di savio del consiglio ai ῾proceri', ai più ricchi, tre ai ῾benestanti' e uno ai ῾meccanici', vale a dire alla nobiltà giudiziaria) in modo da impedire che il funzionamento delle istituzioni fosse danneggiato dalla deriva sociale.
Certo, la meta dell'"armonia di tutto il corpo della Repubblica" - vale a dire, nel medio periodo, un'eguaglianza patrizia non soltanto formale, ma anche, in prospettiva, sostanziale, dal momento che il piano prevedeva la graduale scomparsa dei troppo ricchi e dei troppo poveri - era un obbiettivo senza dubbio commendevole. Ma, mentre nel caso del progetto maffeiano la riforma costituzionale poteva innescare un processo innovatore a più dimensioni e quindi rilanciare una Repubblica, che sarebbe diventata da veneziana veneta, non era questo il caso delle proposte di Donà, il quale tra l'altro, quando abbandonava il terreno dell'analisi delle strutture dello stato-corpo aristocratico marciano e affrontava temi di grande rilievo quali la politica estera (come abbiamo visto) o quella militare, mostrava tutti i limiti della sua formazione tradizionalista (134). Di fatto, era quanto mai improbabile una rifondazione della Serenissima sulle basi tracciate da Donà: la questione-chiave della Repubblica rimaneva quella, sottolineata da Maffei, di strappare la camicia di Nesso della città-stato. La crisi o, meglio, la metamorfosi del corpo aristocratico veneziano lungo le direttrici denunciate da Garzoni e da Donà (e pochi anni dopo con ancor maggiore icasticità da Giacomo Nani) non era la causa, ma un sintomo della malattia che aveva colpito la Repubblica.
La guerra di successione austriaca (1740-1748)
"La guerra di successione austriaca - l'ultimo grande conflitto dell'antico regime in cui l'Italia fosse coinvolta - sembrò riprendere e ripetere, nel breve ciclo di otto anni, tutto intero il corso delle vicende dell'intero primo Settecento". Un "caleidoscopio politico" in continua evoluzione intorno all'asse fondamentale della lotta tra i Borboni di Francia e di Spagna e gli Asburgo per la supremazia in Italia e nell'Europa continentale. "Ma l'equilibrio profondo che si era creato durante i primi decenni del secolo non si spezzò. Dopo molte oscillazioni, tutto sembrò tornare nella situazione quo ante - Napoli restando a Carlo di Borbone, la Toscana a Francesco Stefano di Lorena, Modena al duca estense, Milano a Maria Teresa. Gli unici due mutamenti che si profilarono all'orizzonte al termine della guerra - l'allargamento del Piemonte fino al Ticino e l'insediamento di un Borbone a Parma -, malgrado tanti timori e tanto numerose pessimistiche previsioni di politici e diplomatici contemporanei, apparvero ben presto quel che erano in realtà, dei fattori cioè di cristallizzazione, di stabilizzazione della situazione politica e dinastica della penisola" (135).
Questo, nella sintesi efficace di Franco Venturi, il versante italiano di una guerra combattuta e decisa, più che sui campi di battaglia, ai tavoli della diplomazia. E Venezia? "Venezia riapparve come modello e come esempio d'una possibile politica italiana proprio perché mantenne ostinata la propria neutralità, fortunato esempio per le altre terre italiane che una simile strada cercarono invano di trovare e di imboccare" (136). Un "esempio" - va precisato - che fu "fortunato" non tanto per i meriti della Repubblica quanto per gli sviluppi militari e, in una certa misura, per i giochi diplomatici che contraddistinsero il conflitto e che, diversamente da quanto era successo nel corso delle due precedenti guerre di successione, gli impedirono di straripare nei Dominii marciani. In effetti, la sorte era stata benevola con Venezia ancora prima che la scomparsa, nell'ottobre del 1740, dell'imperatore Carlo VI inducesse Federico II di Prussia ad invadere la Slesia e iniziare così una guerra, che avrebbe visto scendere in campo nei mesi e negli anni seguenti mezza Europa. Nell'ottobre del 1739 si era già acceso un conflitto tra due delle potenze protagoniste della guerra di successione austriaca, l'Inghilterra e la Spagna. La cosiddetta ῾guerra dell'orecchio di Jenkins' aveva drasticamente ridimensionato la concorrenza inglese nel Mediterraneo, consentendo alla marina mercantile veneziana di ritrovare un nuovo slancio.
Nel maggio del 1741 il trattato di Nymphenburg tra la Francia, la Baviera, la Spagna, la Sassonia e la Sardegna unì il fronte delle potenze antiasburgiche, che avevano a suo tempo sottoscritto - ad eccezione della Baviera - la prammatica sanzione, con cui Carlo VI aveva trasmesso la sua eredità all'unica figlia Maria Teresa, ma che ora aspiravano a spartirsi titoli e dominii del defunto imperatore. Un esercito franco-bavarese invase e occupò l'Austria superiore e la Boemia. Quando, nel gennaio del 1742, Carlo Alberto di Baviera fu incoronato imperatore con il nome di Carlo VII, gli Asburgo sembrarono ridotti al lumicino. Ma nel frattempo Maria Teresa aveva posto le basi della riscossa della sua casa. La regina aveva sacrificato la Slesia sull'altare di una pace con Federico II; si era conquistata, pagando anche in questo caso il debito prezzo, l'appoggio della nobiltà ungherese; aveva ottenuto dall'alleato inglese (il quale sarebbe a sua volta riuscito a guadagnare alla causa antiborbonica l'Olanda) gli indispensabili soccorsi finanziari; aveva, infine, intavolato dei negoziati con la Sardegna, inducendola ad aderire alla cosiddetta "convenzione provvisionale", formalmente una lega difensiva tra l'Austria e il sovrano sabaudo in funzione antispagnola.
L'asse Vienna-Torino non solo sconvolse gli equilibri politico-militari della penisola, ma fece del Piemonte e degli Stati italiani confinanti con esso e con la Lombardia austriaca - dal Ducato di Modena alla Repubblica di Genova, entrambi schierati con i Borboni, allo Stato pontificio, rimasto invece neutrale - uno dei teatri principali della guerra, un parafulmine che la tenne più o meno lontana (salvo che nell'inverno 1745-1746, quando i Gallispani arrivarono ad occupare Milano) dalle frontiere di San Marco. Anche se fu risparmiata dalle occupazioni di eserciti stranieri, Venezia tribolò ugualmente parecchio a causa del conflitto. Da un lato la neutralità armata pesò notevolmente su un bilancio già deficitario; dall'altro la Repubblica fu lungo tutta la guerra uno dei terreni più fertili di quei "tanti timori e tanto numerose pessimistiche previsioni" evocati da Venturi. Le sfrenate ambizioni della Spagna e del re di Sardegna, la disponibilità dell'Austria, dell'Inghilterra e della Francia a rimaneggiare la carta politica dell'Italia senza tenere in alcuna considerazione i diritti dei neutrali (si veda il trattato austro-anglo-piemontese di Worms del settembre 1743, che assegnava il territorio ligure di Finale ai Savoia), il traumatico avvicendamento di sempre nuovi piani di sistemazione della penisola, le pressioni, talvolta al limite del ricatto, per costringere Venezia ad aderire ad una coalizione, le categoriche richieste di utilizzare il territorio marciano a fini logistici (Vienna usufruì sia della strada di Campara, che collegava il Trentino al Mantovano, che di quella di Pontebba), tutto ciò favorì l'avvento di un clima assai pesante, che in alcune congiunture particolarmente difficili portò i savi e il senato ai confini dell'isteria.
La Repubblica rispolverò per l'occasione il collaudato copione che aveva già recitato agli inizi del secolo e negli anni '30. Fu eletto un provveditore generale in Terraferma, un incarico dapprima assegnato al settantacinquenne Angelo Emo e, a partire dal 1743, al non ancora cinquantenne Simone Contarini, uno dei patrizi più competenti in tema di amministrazione, ma affatto privo di un'esperienza militare (137). Le truppe al servizio di San Marco furono gradualmente aumentate: meno di 17.000 uomini nel 1740, ma più di 19.000 già nel 1741, 20.000 nel 1742, più di 25.000 nel 1743; tra il 1744 e il 1747 il totale dei soldati oscillò tra i 24 e i 25.000; infine nel 1748 iniziò una smobilitazione parziale (scomparvero dai ranghi più di 4.000 uomini) (138), che il senato accelerò notevolmente una volta terminata la guerra. Con il decreto del 5 dicembre 1748 la forza di pace fu infatti ridotta dai 20.000 stabiliti nel 1720 a 14.000, una drastica amputazione dettata, più che da urgenze finanziarie (dalla metà degli anni 1740 il bilancio della Repubblica aveva conosciuto, per quel che se ne sa per la prima volta nel corso del secolo, un attivo) (139), dall'evidente rinuncia della Serenissima a recitare in avvenire un qualsivoglia ruolo militare in Terraferma.
È certamente assai curioso che le spese militari della Repubblica conoscessero un sensibile ridimensionamento nella seconda parte della guerra e che per di più il loro andamento non fosse affatto in stretta correlazione con quello del numero delle truppe. I fondi stanziati per le forze armate furono infatti pari a quasi 1.600.000 ducati nell'ultimo anno di pace, il 1740, a quasi 2.850.000 nel 1742 (l'anno che registrò la spesa più elevata) e a 2.310.000 nel 1745 (140). Mentre nel 1740 ogni soldato costò 94 ducati, nel 1742 la cifra salì a 142 per riscendere nuovamente a 96 ducati nel 1745. Una parabola, che forse si giustifica, oltre che con alcune spese straordinarie concentrate nel 1742 (rinnovamento dell'artiglieria, accelerazione nella costruzione di navi), con quei miglioramenti concreti della macchina statale registrati da Andrea Zannini per l'insieme dell'amministrazione proprio in relazione a questi anni (141) e che non sembra azzardato ritenere che Contarini riuscisse ad introdurre anche in un ambito, quello militare, che meglio di altri si prestava ad abusi, furti e sprechi.
Nel corso della guerra l'aumento delle truppe in Terraferma fu ottenuto ricorrendo, come in passato, soprattutto alla mobilitazione di alcune migliaia di cernide e al trasferimento di un numero più o meno equivalente di soldati dai ῾riparti' del Levante e della Dalmazia. Incisero ben poco sia le misure prese per completare le compagnie preesistenti, sia il reclutamento di qualche reggimento "di nuova leva" (nel 1745 la fanteria ne contava soltanto uno contro dieci di "italiani vetterani", quattro di "italiani delle città" e otto di oltramarini). Ancora una volta, nonostante che Schulenburg consigliasse, dopo aver constatato che la Repubblica era "uno stato che non ha o per natura o per arte niuna parte sicura", di formare "un corpo volante di truppe, atto ad accorrere dove più lo richiedesse il bisogno", fu confermata una strategia basata sulle guarnigioni distribuite per lo più nelle fortezze (erano cinque quelle di primo rango, vale a dire, in ordine d'importanza, Verona - dove risiedevano il provveditore generale in Terraferma, il generale in capite, il tenente generale, due dei tre sergenti generali e due dei quattro sergenti maggiori di battaglia - Brescia, Crema, Palmanova e Bergamo) (142).
Quanto alla diplomazia la Serenissima dimostrò di aver perfezionato - come ha osservato Venturi a proposito dei "piccoli potentati italiani" trascinati, quasi sempre loro malgrado, nel conflitto - "l'arte di destreggiarsi, di accettare le truppe di tutti gli eserciti nel proprio territorio senza impegnarsi a loro favore, cercando sempre di soffrire il meno possibile, rassegnandosi ad un destino che cambia[va] rapidamente, anelando ad una neutralità tanto più desiderata quanto più essa sembra[va] sfuggire dalle loro mani" (143). In particolare Venezia non solo decise ancora una volta di avanzare sulla corda tesa della neutralità tra i due opposti schieramenti bellici, ma evitò anche di lasciarsi sedurre dalle offerte di quegli Stati della penisola, che avrebbero voluto opporre ai due ῾blocchi' antagonisti (in effetti due sommatorie di strategie in parte convergenti e in parte divaricate) un'intesa sotto la vecchia, retorica bandiera della libertà d'Italia. Così nei primi mesi del conflitto la Repubblica lasciò cadere l'invito del papa, con il quale del resto rimaneva aperta la vertenza di Goro, di creare un fronte diplomatico in grado di ostacolare gli ambiziosi piani egemonici sull'Italia attribuiti ai Borboni di Spagna (144).
Tra la fine del 1741 e gli inizi del 1742 la Serenissima respinse anche un tentativo del re di Sardegna Carlo Emanuele III (con il quale Venezia aveva forse non del tutto casualmente ripristinato le relazioni diplomatiche, dopo un'interruzione prolungatasi per ben settant'anni, proprio alla vigilia della guerra di successione: era stato Marco Foscarini, che aveva propiziato l'intesa quando era, nel 1740, ambasciatore a Roma e che nel 1741 era stato inviato quale ambasciatore straordinario presso la corte sabauda con il compito non soltanto di stringere formalmente le relazioni, ma anche di sincerarsi delle intenzioni del re, come sappiamo un inquieto tessitore di alleanze belliche) soltanto apparentemente simile a quello promosso dal papa. In effetti, benché anche Torino affermasse di essere a favore di una lega dei principi italiani ed esortasse la Repubblica ad assumere "saggiamente le parti di Principe Italiano" (145), dal momento che il Regno era fin troppo inserito nel gioco mutevole delle alleanze (all'indomani della conclusione della "convenzione provvisionale" tra la Sardegna e l'Austria Girolamo Tartarotti, un segretario di Foscarini, dichiarava ad un amico che "non si [poteva] sapere se questo Re sia unito cogli Spagnuoli o colla Regina d'Ungheria" (146)), un eventuale accordo tra i due Stati avrebbe pericolosamente agganciato Venezia, in un modo o nell'altro, ad uno dei due carri bellici.
Quando anche l'Italia divenne uno dei teatri della guerra, le pressioni sulla Repubblica si accrebbero sia da parte austro-anglo-sarda quanto da parte borbonica. Circolarono a più riprese voci, talvolta messe in giro ad arte, che davano per conclusi degli accordi a danno della Serenissima. Non solo i ῾referenti', che a Venezia mantenevano i rapporti con i rappresentanti diplomatici degli Stati in guerra (Giovanni Emo con l'ambasciatore spagnolo, Daniele Bragadin - come era avvenuto nel corso del precedente conflitto con l'ambasciatore asburgico, Nicolò 3° Andrea Erizzo con l'ambasciatore francese...), e la relativamente fitta rete degli ambasciatori e dei residenti all'estero (una rete che in ogni caso si cercò di rafforzare il più possibile mediante l'invio di ambasciatori straordinari - Foscarini a Torino, come si è visto, ma anche Andrea Tron all'Aia e Pier Andrea Capello a Londra - e tramite la ripresa delle relazioni diplomatiche con quegli Stati - nel 1741 con la Sardegna, nel 1743 con l'Inghilterra, che le aveva sospese nel 1737 a causa dei festeggiamenti tributati dalla Repubblica al giovane pretendente Charles Edward Stuart, lo sfortunato protagonista del tentativo di restaurazione giacobita del 1745-1746 - con cui si erano in precedenza interrotti i rapporti), ma tutto il nucleo dirigente marciano furono sottoposti a tensioni e a prove severe.
Come abbiamo visto, nel corso degli anni '20 e '30 l'élite politica veneziana era rimasta sostanzialmente quella al potere all'indomani della fine della seconda guerra di Morea. Certo, le leggi della natura avevano preteso che uscissero di scena alcuni tra i più anziani (era stato ad esempio il caso, a metà degli anni 1730, di Piero Garzoni e di Carlo Ruzzini), ma le new entries autorevoli erano state visibilmente poche - Daniele Bragadin negli anni '20, Marco Foscarini e Alvise 4° Giovanni Mocenigo nel corso del decennio successivo - e, soprattutto, in larga misura virtuali, dal momento che la cooptazione tra i savi del consiglio aveva premiato, come era oramai diventata la regola, alcuni ambasciatori, che dovevano rimanere più o meno a lungo lontani - talvolta anche, come sarà il caso di Foscarini, per ben dieci anni - da Venezia. La guerra di successione austriaca coincise invece non tanto con una vera e propria frattura generazionale (lungo gli anni '40 misero tuttavia un piede nel cerchio magico del potere parecchi personaggi, da Giulio Contarini ad Antonio Diedo, da Francesco Foscari ad Alvise 1° Contarini e a - soprattutto - Andrea Tron, destinati a recitare un ruolo di notevole rilievo nella seconda metà del secolo) quanto con una ridefinizione degli equilibri politici interni al gruppo dirigente.
Nel 1741 morì il doge Alvise Pisani: gli succedette Piero Grimani, anch'egli membro di una delle case più ricche del patriziato (apparteneva al ramo di S. Polo, mentre Pisani era di quello di S. Stefano, il proprietario della splendida villa di Stra) e savio del consiglio assai sperimentato, benché non particolarmente influente. In più Grimani godeva di un certo prestigio culturale: quando era stato ambasciatore a Londra, la Royal Society, allora presieduta da Newton, lo aveva eletto socio onorario per il suo interesse per le scienze e in particolare per l'astronomia, componeva poesie ed era membro dell'Arcadia, aveva, soprattutto, raccolto una notevole biblioteca, che era anche diventata un punto d'incontro di letterati e scienziati, talvolta di rilievo quali, ad esempio, Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli (147). Ma per la politica veneziana contò soprattutto un'altra successione, in questo caso affatto informale, quella tra Lorenzo Tiepolo, scomparso nel 1742, e Marco Foscarini, che al suo ritorno dall'ambasceria presso il re di Sardegna poté diventare, come registrava l'ambasciatore francese Montaigu o piuttosto il suo segretario Rousseau, "chef d'un Parti" contrapposto a quello "du Procurateur Emo" (148), senza dubbio il ῾partito' delle grandi case del patriziato, dei cosiddetti ῾signori', ma anche, stando ai dispacci dello stesso ambasciatore, il ῾partito' in una certa misura filoaustriaco e, ancora prima, filopiemontese (149).
Come ha scritto Venturi, "la ripresa dei rapporti tra Venezia e Torino [...] aveva certo un evidente sapore antiborbonico", così come la relazione "sullo Stato di Savoia", che Foscarini presentò nel marzo del 1743, alcuni mesi dopo il suo ritorno dall'ambasceria presso Carlo Emanuele III, faceva capire che il neo procuratore di San Marco "era un tipico esponente, tra i patrizi veneziani, di coloro che temevano innanzi tutto un ritorno degli spagnoli sui confini della Repubblica e che erano perciò contrari ad ogni concessione ai gallispani" (150). Tuttavia non bisogna per questo ritenere che Foscarini, così come gli altri patrizi accusati da Montaigu di essere "autrichien", da Pier Girolamo Capello a Nicolò 3° Andrea Erizzo (151), si dessero da fare per indurre il governo veneziano ad entrare in guerra al fianco di Maria Teresa. Anche se le corti straniere raccolsero la voce che nel gennaio 1743 la maggioranza dei savi aveva deciso di accogliere il pressante invito di Vienna ad aderire all'alleanza antiborbonica e che soltanto per pochi voti il senato aveva bocciato la proposta (152), riesce difficile credere che la Repubblica si sia arrestata unicamente all'ultimo minuto sull'orlo di un conflitto, dal quale in ogni caso aveva ben poco da guadagnare (nel 1742 Carlo Emanuele III aveva offerto Cremona e la Ghiaradadda (153), nel 1743 la Spagna e nel 1745 la Francia - quest'ultima nel quadro di un grandioso piano di una lega italiana, che mirava ad estromettere gli Asburgo dalla penisola - avrebbero invece lanciato l'esca del Ducato di Mantova (154)) e moltissimo da perdere.
Le cosiddette inclinazioni filoasburgica e filopiemontese di Venezia erano in effetti - come spiegava Montaigu in un acuto dispaccio del 29 febbraio 1744 - il frutto obbligato dei rapporti di forza esistenti:
independamment du penchant naturel que peuvent avoir les Venitiens à favoriser la Reine de Hongrie, il n'y a pas lieu d'estre surpris de la condescendance qu'ils ont pour les volontés de cette Princesse, et des soins qu'ils prennent pour ne la pas désobliger; ils sont tellement environnés de ses forces et de celles du Roi de Sardaigne, que la crainte seule est plus que suffisante pour produire chés eux tout l'effet de l'attachement; sans Troupes et sans argent ils sont à la merci de tout ce qui les environne, et ne voyant que ces deux Puissances au tour d'eux, toujours à portée d'envahir leurs Pays au moindre mécontentement, rien n'est plus naturel que les ménagements qu'ils ont pour Elles.
Inutile sperare che la Repubblica diventasse un soggetto attivo sulla scena politico-militare italiana. Lo stesso trattato di Worms, che aveva visto Austria, Sardegna e Inghilterra disporre "des Domaines des Puissances de l'Italie", ivi compresi quelli di una potenza neutrale quale Genova, aveva avuto l'effetto paradossale di rendere Venezia ancora più passiva:
car les précautions pour se garantir d'un pareil traitement n'estant pas à sa portée, sa Politique ne lui inspirera jamais de chercher à se soustraire à un danger présent et assûré, par des moyens éloignés et incertains (155).
Era del resto la lezione che Andrea Tron, il più riflessivo tra i diplomatici della Serenissima, traeva dalle peripezie della Repubblica ῾sorella' di Genova, che aveva imparato "colla propria esperienza quanto sia cosa pericolosa l'uscire dalla potestà di se medesima e di fondare la propria sicurezza su trattati, promesse ed impegni di prìncipi". "Libertà, sicurezza, commercio": la triade, che riassumeva, secondo Tron, i principi fondamentali, l'essenza politica sia di Venezia che dell'Olanda, poteva essere garantita unicamente da una politica di "esatta, indifferente e ben conservata neutralità", una "imparzialità" che era "un antemurale più forte e più valido per la difesa de' propri stati, di quello che siano le stesse poderosissime armate". Lucidissima teorizzazione della sovranità limitata della Repubblica ("le materie dei passagi [di truppe] furono sempre incommode, rese tali dalla situazione dei publici stati. Noi dobbiamo gridare, protestare, ma non opponersi con la forza, perché ciò non vale la pena"), i dispacci ufficiali e le lettere private inviate da Tron dall'Aia e da Parigi tra il 1743 e il 1748 declinavano il tema della neutralità veneziana in termini meno consolatori e retorici di quelli foscariniani, ma di fatto analoghi quanto alla loro applicazione pratica.
Il giovane ambasciatore faceva realisticamente riposare la sicurezza e quindi la libertà della Repubblica sulla reciproca "gelosia" delle grandi potenze, "la più solida difesa delli stati di tanti prìncipi mediocri e piccioli che si trovano in Europa". Ciò non voleva dire che Venezia dovesse limitarsi a coltivare il commercio, affidando i suoi destini politici alla provvidenza o, meglio, al "caso", all'"accidente, che ordinariamente nelle cose umane ànno la maggior influenza". Se la Repubblica era costretta ad affidarsi al binomio neutralità-principio d'equilibrio, era perché la sua dissestata "economia pubblica" non le consentiva altro: "se la republica avesse avuto un solo mese di guerra", scriveva nel 1748, alla vigilia della firma della pace di Aquisgrana, al cugino Andrea Querini, "si sarebbe forse sospeso o ritardato ogni pagamento". Il disordine finanziario dipendeva dalla pessima "qualità del sistema", dal "sistema imperfetto del governo". Due i limiti più evidenti: la "continua non interrotta mutazione delle magistrature" e il fatto che "gli uomini più accreditati del governo sono esposti per qualunque più leggiero motivo in quella celebre sala", ovviamente nel maggior consiglio, "alle passioni dei loro nemici e per conseguenza non possono mai operare cosa alcuna di bene, ma conviene si lascino strascinare nelle loro proposizioni e azzioni dalle idee e maniera di pensare della moltitudine sempre indigesta e poco esperta".
Questo "difetto" nel "maneggio" della cosa pubblica si riverberava anche sulla politica estera. Nel 1751, quando la questione di Aquileia era in via di soluzione, Tron avrebbe avvertito Querini che, "riflettendosi all'indole dei nostri savi e del nostro senato, tutti gli affari politici devono necessariamente andar male, onde che la prudenza per tal motivo consiglia ad evitarli e che se mai la republica fosse obligata dalla necessità ad entrare nella scena del mondo con trattati, con convenzioni etc., converrebbe studiare altro sistema, ridursi all'antico consiglio di X cori la zonta o a un equivalente". Ma si rendeva perfettamente conto che l'"altro sistema", gli "altri metodi", "quando questi non si eseguissero con molto riguardo e prudenza, ne nascerebbero maggiori inconvenienti", che erano quanto mai ridotti i margini di manovra per una riforma dello Stato marciano in una direzione oligarchica (una versione veneziana dell'assolutismo praticato dalle corti europee, che egli aveva imparato a conoscere) che potesse permettergli, tramite il corretto "maneggio" tanto delle finanze che della politica estera, di guarire dalla "malattia" che l'affliggeva (156).
Un programma politico non dissimile, per un certo verso, nell'ispirazione riformatrice, anche se non sicuramente nel pathos e, soprattutto, nella concretezza delle riforme istituzionali, a quello proposto in quegli anni da Marco Foscarini. Nella Relazione dello Stato di Savoia il procuratore aveva sottolineato, alla luce del caso subalpino, che "li disordini, eziandio confermati dal tempo ed uso, possono venir tolti dalla sapienza e dalla costanza dei principi, qualora occupare non si lascino da fatali presunzioni l'immaginata difficoltà, imputandone più del giusto la costituzione del dominio e le corruttele del popolo, ed anche l'indole universale della nazione". Pochi anni più tardi, nel 1747, interveniva nel maggior consiglio per porre riparo ad uno dei "disordini" più evidenti, la "comun desolazion" della Dalmazia, sollecitando l'invio di tre inquisitori straordinari nella regione, e due anni più tardi invitava ad introdurre la carta bollata allo scopo di raggiungere il pareggio del bilancio. Il deficit era un'"angustia economica", che aveva impedito alla Serenissima, come aveva evidenziato Tron, di "rialza[re] la fronte"; era "un'età intera" che Venezia tollerava di avere "le forze economiche fuor di equilibrio". Bisogna approfittare dell'"opportunità [...] maravegiosa" concessa dai "tempi da ogni banda tranquilli" - era l'invito che Foscarini rivolgeva al patriziato veneziano, prendendo spunto da una questione specifica senza dubbio minore, ma sempre relativa al problema-chiave della "pubblica economia" - per promuovere il "risorgimento della Repubblica".
Foscarini suggeriva sì delle riforme, ma in dosi omeopatiche e metteva in ogni caso in guardia il patriziato contro chi avesse pensato di approfittare dell'occasione per togliere "parte della sua base o sostegno" ad "una fabbrica intatta, ma però antiga molto" quale era la Serenissima con l'evidente rischio di farla miseramente crollare (157). Tron riteneva invece che fosse necessario cambiare, sia pure "con molto riguardo e prudenza", un "sistema", che giudicava quanto mai "imperfetto". Entrambe le proposte politiche si sarebbero scontrate, all'indomani della pace di Aquisgrana, che aveva posto fine alla guerra di successione austriaca restituendo, tra l'altro, agli Asburgo il rango imperiale (fin dal 1745 il marito di Maria Teresa, Francesco Stefano di Lorena, era stato eletto imperatore con il nome di Francesco I, un titolo riconosciuto anche dagli ex nemici nel trattato di pace), con le preoccupazioni e le velleità di una "moltitudine" patrizia guidata da un composito ed instabile nucleo dirigente, che avrebbe tentato di far leva sui "tanti timori e tanto numerose pessimistiche previsioni" alimentati dall'ultima guerra di successione e rinfocolati dalla crisi di Aquileia per rimettere in discussione gli equilibri al vertice dello Stato marciano, e che in ogni caso il conflitto con Roma avrebbe finito per indurre a ritenere che la strada maestra del "risorgimento della Repubblica" passasse attraverso un consolidamento del corpo-stato aristocratico a spese della Chiesa.
"Gl'ultimi affari politici che la Repubblica ha avuto con li principi confinanti", avrebbe scritto Giacomo Nani nel 1781, "furono quelli di Aquileia cogli Austriaci e quelli di Goro con li Pontifici. Li Veneziani dell'età precedente avevano sostenuto e lasciato indeciso questi ultimi affari per lasciar aperto alla Repubblica il caso di estendere li propri confini. Ma li Veneziani [...] rinunciarono al possibile vantaggio che potea derivarne, per non restar esposti al possibile danno, che più facilmente potea verificarsi nel lasciar aperta quella questione" (158). In realtà, mentre - come si vedrà più avanti a causa della quasi coincidenza temporale e dei legami tra i due "affari politici" - è possibile declinare la soluzione della questione del Po di Goro secondo il paradigma della "rinuncia", quella di Aquileia sembra obbedire a tutt'altra ratio. Se si ripercorrono, dal punto di vista della Repubblica, le tappe principali della crisi finale del patriarcato, non si può evitare la conclusione che il governo veneziano fu costantemente tenuto sotto pressione da un'offensiva del papa Benedetto XIV attivamente pungolata e sostenuta da Maria Teresa. La Serenissima non solo non riuscì ad organizzare un'efficace linea di difesa, ma fu più volte scavalcata dalle iniziative del pontefice e infine costretta a subire la soluzione dettata da Vienna e avallata da Roma.
Nel marzo del 1748 gli "attentati fatti in questi ultimi tempi dai ministri di casa d'Austria" contro un capitolo d'Aquileia di obbedienza patriarcale e, di conseguenza, nella sfera d'influenza veneziana e, soprattutto, l'intenzione manifestata dal papa di inviare un visitatore apostolico nella parte austriaca della diocesi indussero il senato a nominare Francesco Foscari "nobile" - vale a dire ambasciatore straordinario - a Roma allo scopo di "assumere e condurre di quest'unico interesse il maneggio". Questa missione servì più che altro a guadagnare tempo. Quando, nel maggio del 1749, il pontefice comunicò alla Repubblica la bozza del breve di fondazione del vicariato apostolico a parte Imperii, i Veneziani continuarono, come il loro solito, a "tracheggiare e temporeggiare" nella speranza che, come era avvenuto pochi anni prima, nel 1743, l'iniziativa finisse per arenarsi contro uno scoglio. Ma questa volta Benedetto XIV tirò diritto: dopo aver atteso invano le controproposte scritte della Repubblica, il 1° dicembre 1749 il papa pubblicò in concistoro un breve relativo ad Aquileia, che recepiva soltanto alcune delle riserve avanzate a voce da Foscari.
Dopo aver reagito, in un primo tempo, in maniera alquanto confusa e contraddittoria, la Repubblica decise di abbracciare la linea dell'intransigenza, della difesa ad oltranza dei diritti del patriarcato. Fin dal gennaio del 1750 il pontefice fu minacciato, se non avesse recepito le modifiche al breve "ricercate" da Venezia, della rottura delle relazioni diplomatiche. Ma Benedetto XIV, forte dell'appoggio di Vienna, non si lasciò arrestare né dalle proteste, né dai ricatti. In febbraio comunicò al cardinale Carlo Rezzonico, il vescovo di Padova che, unitamente al cardinale Angelo Maria Querini, vescovo di Brescia, era stato spedito a Roma a dar man forte agli ambasciatori veneziani, il piano del breve "in ispezie", con il quale designava quale visitatore apostolico e vescovo in partibus il prelato austriaco Carlo Michele d'Attems. Quando, in giugno, anche questo secondo breve fu promulgato, la Repubblica ruppe le relazioni con la Santa Sede, cacciandosi in tal modo in una situazione di stallo, da cui fu tratta nel gennaio del 1751 dalla mediazione della Francia e dalla contemporanea iniziativa di Andrea Tron, l'ambasciatore veneziano a Vienna. Dopo aver difeso a lungo con ogni mezzo il patriarcato, il governo marciano fu costretto ad accettarne la soppressione(159).
La tesi di Nani di una Venezia che gestisce la crisi del patriarcato di Aquileia sul filo di una strategia della "rinuncia" appare, alla luce di questa sommaria ricapitolazione degli snodi principali dell'affaire, più che altro un tentativo di razionalizzare un episodio che aveva visto la Repubblica rimanere confinata in una testarda opposizione. Tuttavia è anche vero che, pur essendo Venezia incapace di influire in misura apprezzabile sugli sviluppi della vicenda, la soluzione della questione di Aquileia rispondeva perfettamente alla politica estera perseguita dalla Repubblica nel lungo periodo. Come sappiamo, dopo l'ultima guerra di Morea la Serenissima aveva quasi sempre cercato - come avrebbe raccomandato molti anni più tardi Andrea Tron - di "nascondersi come i fanciulli che hanno vergogna di comparire fra gli uomini" (160) "Nù soli crederemo d'esser così fortunadi, che speremo esser intangibili e sacri, benché soli e distaccadi da tutti": era contro questo presuntuoso isolazionismo, che induceva a fuggire lontano dalla giungla internazionale degli "affari politici", che Bernardo Nani aveva preso nettamente posizione nel maggio 1741, quando si era discusso in senato se era opportuno ristabilire le relazioni con i Savoia (161).
In questa prospettiva la soppressione del patriarcato di Aquileia e la sua partizione nelle arcidiocesi di Gorizia e di Udine, così come la contemporanea definizione dei confini tra la Repubblica e l'Impero rappresentavano per Venezia un indubbio successo ῾oggettivo'. Una volta estinto il patriarcato, non solo la frontiera politica assumeva anche il carattere di frontiera ecclesiastica, ma soprattutto venivano a cadere le pretese, che Vienna avrebbe potuto vantare, se fosse riuscita ad attirare il metropolita nella propria orbita, sul Friuli e sull'Istria. In tempi "nei quali", come aveva sottolineato lo stesso Nani nel 1742,
i prìncipi grandi cercan e dissoterran carte e diplomi de tre o quattro secoli, [...] pongon in campo titoli e pretese rancide e obliterade [e] con esempi novi e non più udidi se dispone (non sò se con ingiustizia, ma certamente con prepotenza e arbitrio) dei stati e dei domini dei altri, senza neppur dimandar licenza al padron (162),
in tempi siffatti ῾chiudere' la plurisecolare vertenza di Aquileia sarebbe dovuto essere un obbiettivo al vertice delle preoccupazioni della Repubblica. Eppure, come sappiamo, Venezia si comportò, in modo particolare nel corso del 1750, in maniera del tutto opposta alla strategia della savia "rinuncia": ruppe le relazioni diplomatiche con lo Stato della Chiesa, minacciò e in parte attuò delle ritorsioni (cercò, tra l'altro, di sabotare il pellegrinaggio a Roma in occasione dell'anno santo), arrivò perfino a dichiarare, in un avviso alla Rodomonte datato Padova 23 agosto 1750, che non voleva "alcun sconcerto o militare rottura", ma che in ogni caso stava preparando "con sollecitudine provisioni di soldatesche contro qualunque avversario attentato" (163).
Come si giustifica l'evidente contraddizione tra le due politiche estere della Repubblica, tra quella risoluta, se non avventata, prevalsa nel breve periodo e quella a lungo termine teorizzata, ad esempio, da Nicolò Donà, che raccomandava, dando per scontato che la fragile Venezia non potesse far altro che "nascondersi", la "pieghevolezza agl'insulti" delle potenze straniere e quindi la "rinuncia" agli "affari politici" che potevano metterla in crisi? L'improvviso rialzo della temperatura politica veneziana nel corso della crisi di Aquileia trova una giustificazione, oltre che nel clima degli anni precedenti avvelenato dai sospetti nei confronti dei piani dei "prìncipi grandi", soprattutto nelle tensioni interne all'élite marciana, in una lotta tonificata dal rapido ricambio generazionale che stava avendo luogo in quegli anni all'interno del gruppo dirigente. L'"affare" interessò senza dubbio anche una parte significativa dell'opinione veneziana e veneta, la stessa Repubblica non esitò a lanciarsi in una mirata campagna propagandistica (164), ma la ῾piazza', gli interventi ῾dal basso', non ebbero un'influenza apprezzabile sugli sviluppi della controversia. Il maggior consiglio non recitò alcun ruolo. Lo stesso senato si comportò quasi sempre, come scriveva Andrea Querini, come "un pupillo che si lascia condurre al bene e al male da chi ne tiene in mano le redini" (165), seguì, in altre parole, la linea di volta in volta indicata dalla consulta dei savi.
Nell'ultimo scorcio degli anni '40 i due maggiori esponenti del patriziato erano il quasi ottantenne Giovanni Emo e il poco più che cinquantenne Marco Foscarini. Quest'ultimo era l'indiscusso - o quasi - "idolo del senato", come ironizzava Tron (166): non erano soltanto l'eloquenza ciceroniana e l'alto prestigio culturale che assegnavano a Foscarini una posizione di preminenza, ma, prima ancora, come si sa, la leadership delle grandi case del patriziato. Il vecchio Emo era invece l'abile portavoce del patriziato medio e basso, che si opponeva alle tentazioni oligarchiche dei "signori": tuttavia la vasta esperienza e l'indiscussa caratura gli assicuravano presso il senato una sorta di "primazia", che egli cercava di coltivare smussando spesso gli angoli della rivalità, che l'opponeva ai "ricchi", ed inseguendo con abilità e grandi doti mimetiche il consenso della palude del consiglio (167). Lo scontro politico era inoltre complicato da un conflitto tra "vecchi" e "giovani", che non rivestiva soltanto un carattere generazionale, in quanto i "giovani" uscivano quasi tutti dalle file del medio patriziato e si consideravano svantaggiati nei loro tentativi di affermazione non tanto dalla gerontocrazia imperante quanto da una nomenklatura, che tendeva a favorire, approfittando in particolare della scorciatoia offerta dalle ambascerie, gli appartenenti alla prima "riga" del patriziato.
Nella crisi di Aquileia giocò un ruolo importante un altro fattore, lo stretto rapporto che univa il patriziato veneziano all'establishment ecclesiastico. Quasi un nobile su dieci in età maggiore di ventun anni apparteneva al clero; poco meno di un quarto delle case dell'aristocrazia poteva vantarsi di aver dato alla Chiesa almeno un proprio membro. Nell'impressionante mappa del potere patrizio in campo ecclesiastico spiccavano tre cardinali, due patriarchi, sedici vescovi, un auditore di Rota, una dozzina di canonici e una decina di abati. Vi era per di più un'evidente correlazione tra il rango politico-sociale e quello religioso. Non solo la maggior parte dei membri dell'élite ecclesiastica proveniva da case ῾signorili', ma, in particolare, tutti e tre i cardinali protagonisti delle vicende di Aquileia, il patriarca Daniele Dolfin, Querini e Rezzonico, avevano alle spalle famiglie assai ricche e, fatta eccezione per i Rezzonico, i quali appartenevano alla nobiltà ῾nuova', politicamente influenti (168). Questa collocazione sociale del patriarca era tuttavia a doppio taglio: senza dubbio il cardinale poteva fare assegnamento su una costellazione di parenti in grado di far sentire il loro peso in senato, ma allo stesso tempo era il bersaglio dell'ostilità di coloro che non perdonavano ai Dolfin di aver trasformato il giuspatronato della Repubblica sul patriarcato in un "fideicomisso di casa patritia" (169).
Le "vertenze" di Aquileia, come in generale ogni altro importante affare del governo, videro scendere in campo il brain trust dei consultori in iure (170). In fase iniziale l'onere di orientare il senato ricadde soprattutto sul teologo Paolo Celotti. Quando era sopravvenuta, nel 1741, la penultima crisi del patriarcato, Celotti aveva attribuito agli Austriaci, in una scrittura sottoscritta anche dal conte Triffon Wrachien, l'intenzione di "impadronirsi" della chiesa di Aquileia "con spogliar la Serenissima Repubblica del giuspatronato e con aprir la via dell'elettione ed instalazione d'un Patriarcha Tedesco, il quale con pretesto di titoli estinti promuova molestie a Vostra Serenità". Certo, Venezia doveva guardarsi da "ogni novità", e quindi anche dal progetto del papa di nominare "un vicario generale a parte Austriaca", ma, "rifletendo che il stare come si stà, è il peggio", Celotti finiva per raccomandare che il senato accogliesse il piano di Benedetto XIV, sia pure con le salvaguardie previste da Venezia nel 1628. Sei anni più tardi il ritorno alla ribalta del "gravissimo affare" di Aquileia trovò un Celotti persuaso, una volta di più, dell'opportunità di adottare "il ripiego già pensato dai nostri maggiori", vale a dire la divisione della diocesi in due parti, di cui quella al di qua dei monti rimanesse affidata al patriarca e l'altra fosse assegnata ad un prelato tedesco. Tuttavia Venezia non doveva discutere delle "cose di Aquileia" direttamente con Vienna, come invece pretendeva il papa; "la sola parte" che avesse la Repubblica nella faccenda era il "pubblico ius patronato": "il rimanente è tutto della Santa Sede e dei Patriarchi" (171).
La strategia suggerita dal consultore teologo, così come, più in generale, la politica veneziana nella "materia" di Aquileia, cercava di replicare ad una presunta mistificazione con un'altra mistificazione, inoltrandosi in un gioco obliquo di mascheramenti alla lunga quanto mai controproducente. Maria Teresa pretendeva di avere a cuore unicamente la salvezza delle anime dei sudditi austriaci della diocesi: il senato riteneva che i "motivi di coscienza" fossero la copertura di una politica espansionistica, ma fingeva di stare al gioco in quanto convinto - come avrebbe dichiarato in senato Alvise Emo, figlio e consigliere di Giovanni - di "potere noi riducendo la questione tra ecclesiastico ed ecclesiastico, tra Papa e Patriarca, guadagnare", mentre, "se la questione si faceva temporale tra Repubblica e Repubblica, noi vi averessimo perduto" (172). Di conseguenza la controparte di Venezia doveva essere Roma, non Vienna: mentre un eventuale braccio di ferro con l'Impero si sarebbe certamente concluso con un'umiliazione, si poteva invece sperare di competere con quella che Andrea Querini chiamava la "sdruscita nave di San Pietro" (173). Celotti si preoccupava di trovare "ripieghi" che consentissero di tenere aperto il dialogo con Roma, ma che Vienna fosse costretta a respingere (come l'assurda ipotesi di uno spartiacque orografico-religioso): questa tattica poteva anche consentire di mettere i bastoni tra le ruote dell'"affare" e quindi di guadagnare tempo, ma costringeva tuttavia la Repubblica a pagare un prezzo assai alto, la perdita della credibilità.
In una prima fase Venezia seguì scrupolosamente la politica che mirava a ridurre "la questione tra ecclesiastico ed ecclesiastico". Agli inizi del 1748 il patriarca fu spedito a Roma per tentare di bloccare il progetto papale del vicario apostolico, ma se ne dovette tornare a Udine con le pive nel sacco. Vedendo "a qual estremità sia ora l'affar del Patriarcato", il 2 marzo il senato incaricò i savi di suggerire dei "progetti radicali", che potessero "promuovere quiete a tale faccenda". Nella consulta dei savi si contrapposero due linee: la proposta di Foscarini di inviare al papa un ambasciatore straordinario fu invano combattuta da Emo, che "non volea far questa elezione dicendo di far che il Patriarca parli solo lui [con il papa] e che l'affar stia nell'ecclesiastico per non far crescer voglie"; "invece di spedir un nobile in Roma" il vecchio procuratore "vollea destra mente aprir negotio in Vienna". Foscarini "informò il senato del stato di Aquileia e delle mire degli Austriaci"; "disse che ne passati tempi due volte il Senato decretò quella soppressione col solo fine che ne transeat Patriarchatus agli Imperiali". Fu eletto "nobile" a Roma Foscari, uno dei più fedeli seguaci di Foscarini. Nella ducale inviata al papa per annunciare la svolta impressa al negoziato, non si accennò affatto, come avrebbe sottolineato Bernardo Nani, ai "diritti del Patriarca, anzi si spesero termini di amorevolezza ai desideri di Sua Santità e quasi di declinazione" (174).
Qualche anno più tardi Foscarini avrebbe scritto nelle Memorie di alcune cose della mia vita che l'affare di Aquileia fu "portato al fine da me divisato dopo infiniti contrasti. Informai il Senato e lo condussi a mandare a Roma il Foscari con commissioni che indicavano la estinzione del Patriarcato" (175). Una volta tolta la debita tara (le istruzioni di Foscari erano in realtà assai vaghe; Foscarini non fu il demiurgo delle "cose di Aquileia", anzi, come si vedrà, a partire dal luglio del 1750 fu in larga misura emarginato), le affermazioni del leader dei ῾signori' appaiono, tutto sommato, attendibili. Desideroso di disinnescare la bomba del patriarcato, di salvaguardare ad ogni costo la "quiete" della Repubblica, Foscarini era disposto a calpestare gli interessi delle grandi case patrizie più direttamente coinvolte nella questione. Del resto sapeva bene che, mentre i Dolfin S. Pantalon e i loro alleati avrebbero puntato i piedi, da un lato la maggioranza delle case papaline (il loro portavoce era il cardinale Rezzonico che, come scriveva Nani, era "tutto Romano e pensa[va] ad esser Papa") e dall'altro i senatori ῾zelanti' (erano allora guidati da Giovanni Magno) avrebbero invece favorito un'intesa con la Santa Sede (176). In ogni caso l'ideale sarpiano, a cui si ispirava, anche se con una certa moderazione (177), consentiva a Foscarini di intravedere le ricadute positive della soppressione della diocesi di Aquileia: la Repubblica avrebbe potuto secolarizzare - come infatti avvenne - i dominii patriarcali di S. Vito e di S. Daniele (il terzo, quello di Aquileia, era situato al di là della frontiera austriaca) e quindi uscire dalla crisi con un bilancio, nonostante tutto, attivo, quanto meno sul versante della politica interna.
Ma il piano di Foscarini presentava anche limiti assai evidenti. Il senato non avrebbe mai autorizzato un'iniziativa veneziana a favore dell'"estinzione" del patriarcato. Era necessario far fare al consiglio - come sottolineava Bernardo Nani - "un passo alla volta". Allo scopo di raggiungere il duplice, arduo obbiettivo della ῾conversione' del senato e dell'accordo con Roma, Foscarini si avvalse di consultori più duttili del duo ufficiale Celotti-Wrachien, dal savio di Terraferma Antonio Capello (che fece capire che si poteva anche sacrificare il "lustro d'una delle più nobili Prelature d'Italia" alle "eventualità non impossibili, né forse discoste di più pericolosi cimenti e di vera ragione di Stato") all'abate Pietro Ballerini (che sostenne la tesi che, se fossero state date dal papa alcune garanzie, il vicariato non solo non avrebbe recato "verun pregiudicio ai dritti del Patriarcato e della Repubblica", ma sarebbe stato "piuttosto un riparo a nuovi attentati diretti ad estraere il Patriarcato dalle mani" di Venezia) e al dotto domenicano Bernardo Maria de Rubeis, il quale, pur prendendo in esame anche la possibilità della soppressione del patriarcato, avvertì anche che "pare che con la sola autorità Pontificia nulla possa ottenersi che soddisfi e metta pace", che, in altre parole, era necessario, come aveva proposto a suo tempo Emo, negoziare con Vienna (178).
Foscarini preferì invece continuare ad ignorare la controparte imperiale e insistette nel privilegiare i rapporti con Roma. Ma Benedetto XIV non era disposto a concedere alcun credito alle avances veneziane, che riteneva sostanzialmente dilatorie. Così, quando Foscari accennò all'ipotesi dell'"estinzione" del patriarcato, il papa non diede alcun seguito all'apertura, in quanto la ritenne "un mezzo termine della Repubblica di sfugire il Vicariato Apostolico benché interino" (179). Venezia pensò di conquistarsi la gratitudine del pontefice concludendo un "accomodamento" riguardo "le cose di Goro", che riconosceva allo Stato pontificio buona parte del territorio conteso e decideva l'eliminazione di qualsiasi "apparato militare di offesa o diffesa". Ma, poche settimane più tardi (il trattato circa il Po di Goro era stato sottoscritto a Venezia il 15 aprile 1749 (180)), quando non si era ancora spenta l'eco dell'"alegatione in lode de' Veneziani" pronunciata dal papa in concistoro (181), Benedetto XIV consegnò a Foscari il progetto del primo breve unitamente ad un "piano confidenziale" destinato, nelle intenzioni del pontefice, a disperdere i timori del senato.
Il governo veneziano si affrettò a mobilitare una mezza dozzina di consultori, tra i quali il canonico di Aquileia Antonio di Montegnacco. Furono riunite due "consulte nere", che videro i savi allineare diagnosi e terapie della crisi ispirate a paradigmi assai diversi: vi era chi proponeva "rimedi blandi" e chi "rimedi violenti", chi metteva in guardia dal "gettarsi ad un partito estremo" e chi suggeriva di iniziare una campagna d'intimidazione contro la Santa Sede ("si faccia sparger che [l'] ambasciatore Veneto partirà e così il Nunzio di qui"; "esaminar quanto esce dallo Stato per la Datteria e quanto dalle abbazie dello Stato per le cose Pontificie"). Dalla montagna di scritture e di consulte uscì il classico topolino: prevalse la tesi di protestare, ma senza alzare troppo la voce, con la Santa Sede allo scopo di indurla ad introdurre nel breve le opportune modifiche. Non vi fu alcuna significativa correzione di rotta: tra l'altro continuò ad essere rispettata la direttiva che voleva che "a Vienna non si parli perché è la sede del male ed è tempo perduto"(182).
Quando, nonostante le proteste veneziane, il papa promulgò il primo breve, Foscarini ricorse ad un ardito escamotage, che gli permise di conservare il controllo del senato: "disse che il breve era secondo il pubblico desiderio, che il Papa avea fatto quelle correzioni che la Repubblica gli avea indicato [...], che il male stava non in questo breve di massima, ma nel venturo delle condizioni". Tuttavia quando, nel febbraio del 1750, fu comunicato a Venezia il progetto del secondo breve, apparve chiaro che Foscarini aveva venduto la pelle dell'orso prima del tempo. Del resto fin dal mese precedente era stata adottata una politica nei riguardi del papa più decisa di quella auspicata dal procuratore: era stato inviato a Roma il cardinale Querini a fare da contrappeso al "romano" Rezzonico; erano state sollecitate "deliberazioni robuste" che permettessero di controllare, se non di arrestare, il flusso di denaro che usciva dallo Stato veneto a beneficio di Roma; era stata minacciata la rottura delle relazioni con la Santa Sede. La conversione di Venezia ad una politica muscolare nei confronti di Benedetto XIV aveva immediatamente convinto Vienna a gettare il proprio peso sulla bilancia e a redarguire bruscamente la Repubblica (183).
Il piano del secondo breve pose Foscarini con le spalle al muro: era evidente che il papa seguiva una rotta tutta sua, che lo portava a scontrarsi frontalmente con la Serenissima. D'altra parte la maggioranza dei savi e dei senatori ormai seguiva la linea indicata da Bernardo Nani in un discorso tenuto in senato il 28 febbraio 1750: "se la dolcezza delle nostre direzion passade" (e qui il patrizio alludeva soprattutto alla questione del Po di Goro) "ne ha pregiudicà, forse che la costanza, l'altezza delle rissoluzioni ne salverà". Non rimaneva altro che "tentar le maniere aspre e rissolute": "Roma ne crede incapaci de resister. Se vi è speranza, la vi è nel mostrarsi Principi e nel far veder che no periremo inulti". Nani proponeva di interessare "nella causa presente [...] el clero de Francia" e di rispondere all'eventuale promulgazione del secondo breve con la rottura delle relazioni diplomatiche e con ritorsioni a carico della curia romana e dello Stato pontificio. Quanto alle pretese di Vienna, Nani ammetteva che i papi avevano dato "alla Repubblica il gius patronato d'una chiesa austriaca", una "cosa nuova ed insolita", anzi francamente "mostruosa". Ma Maria Teresa non si accontentava di un compromesso ragionevole e si era fatta dare dal papa le chiavi delle province orientali della Repubblica. Venezia non doveva lasciarsi spaventare dalle minacce di Vienna: si doveva ad ogni costo "sostent[are] la pubblica dignità", la quale era "una non piccola parte dell'essenza dei principati" (184).
Benché Maria Teresa avesse proposto alla Repubblica di trattare circa il versante politico dell'affare di Aquileia, Venezia declinò l'avance con un promemoria mellifluo fatto approvare da Giovanni Emo, allora savio di settimana, in cui si sosteneva che il "negozio" riguardava unicamente "cose canoniche". Tra i patrizi era diffusa la convinzione che, dati gli sviluppi dell'affare, l'avvio di un dialogo con Vienna sulla "materia" di Aquileia equivalesse ad una resa, all'accettazione di una sorta di protettorato imperiale. Bisognava invece continuare a premere su Roma, anche se non si ignorava che le speranze di "far un qualche bene al negotio" erano assai scarse, dal momento che il papa si era "troppo impegnato con Vienna". Si rendeva necessario far pesare sul piatto della crisi la balance of powers europea: si chiese pertanto la mediazione della Francia, ma si ottenne da Parigi un cortese rifiuto. Anche se Venezia non riusciva a segnare punti a proprio vantaggio, tuttavia sembrava a Bernardo Nani e agli altri sostenitori della linea dell'intransigenza che questa fosse in ogni caso pagante: "la fermezza del Senato in questi cinque mesi decorsi", scriveva il patrizio il 30 maggio, "fece onore al pubblico nome, facendo vedere in faccia l'Europa che non siamo insensibili a tutti gli accidenti, ma che siamo capaci di esser scossi dalla indifferenza". Infine, "forse che questo nostro movimento e l'aver noi parlato [...] alla Corte di Francia, farà che Vienna abbia poi dei riguardi temendo che non ci uniamo alla casa di Borbon, se ella ci volesse offender" (185).
La politica della fermezza non era condivisa da tutto il governo veneziano. Anche se in marzo Foscari aveva lasciato Roma, Foscarini non rinunciava ad una strategia diretta a "far finire il negozio come si può": la crisi di Aquileia rischiava non solo di compromettere in maniera irreparabile la neutralità della Repubblica, ma anche di alterarne le consolidate gerarchie interne. Quando la corte austriaca "parlò di Aquileia", Foscarini, facendosi forte anche dell'appoggio di Tron, allora ambasciatore presso Maria Teresa e convinto sostenitore di una politica di appeasement nei confronti dell'Impero, abbandonò la sua vecchia linea e cercò di indurre il senato a "trasferire il negoziato da Roma a Vienna", ma questa volta fu Emo che si oppose con successo alla proposta. In maggio "il triumvirato [Andrea] Memmo, Foscari e Foscarini Procurator" tentò invano di mettere in cattiva luce presso il senato l'intransigente cardinal Querini: questa volta la manovra fu sventata da un intervento di Paolo Renier junior, il leader dei "giovani". Ma lo scontro decisivo tra lo schieramento moderato e quello radicale ebbe luogo il 4 luglio, all'indomani della pubblicazione del secondo breve: avendo tentato il savio di settimana Francesco Loredan, un ῾signore' vicino a Foscarini, di procrastinare la prevista rottura delle relazioni diplomatiche con Roma, Renier riuscì a convincere il senato che la proposta dei savi era "rovinosa alla dignità ed alla libertà della Repubblica"; le minacce di Vienna imponevano a Venezia di reagire senza la minima esitazione: qualsiasi altra decisione avrebbe fatto "cambiar stato alla Repubblica"(186).
La crisi di Aquileia aveva partorito "quasi due partiti: da una parte il Procurator Emo, Renier, Nani, [Girolamo] Grimani, ser Piero Barbarigo. Questi sono li forti. I contrari sono il Procurator Marco Foscarini, Kavalier Memmo, Francesco Foscari" e, più in generale, i "vecchi", da Michele Morosini a Daniele Bragadin. Trionfava pertanto uno schieramento composito, il cui asse principale era dato dall'alleanza tra il ῾partito' di Emo e i "giovani" guidati da Renier; usciva invece fortemente indebolito dalla crisi il predominio tradizionale dei ῾signori'. Lo stesso Foscarini perdeva il suo posto di savio del consiglio. Mentre i conservatori attribuivano la svolta di luglio a "una pazia di giovani e di giovani sconsigliati" e il papa chiamava in causa "il bollore della gioventù veneta", in realtà il partito della "costanza" inseguiva una politica estera più ragionevole di quella che gli veniva attribuita. "Non è già che noi non conosciamo il peso della rottura con Roma e quello che ragionevolmente farà Vienna", confidava Nani alla sua cronaca, "ma la si volle perché, dopo averla fatta risuonare in tutte le corti ed a Vienna stessa, se si cedeva per timor delle minaccie di Vienna, si avea perduta la libertà e la sovranità. Ma, fatto questo passo, la prossima apertura bisogna accomodarsi con Roma meglio che si può e bisogna esser disposti a ricevere anche la cattiva moneta per buona" (187).
In effetti, "il bollore della gioventù veneta" non impediva alla Repubblica di mandare segnali distensivi anche in direzione della stessa Vienna. In settembre si riunirono per la prima volta i commissari veneziani e imperiali per definire i confini tra i due Stati: nonostante le vertenze di Aquileia, questi conservavano buoni rapporti. In particolare Venezia desiderava "ansiosamente" - come avrebbe successivamente sottolineato il senato - "conservar con S.M.I. una perfetta buona armonia ed amichevole vicinanza e toglier dalle radici ogni contesa e disputa tra i sudditi d'ambe le parti" (188). Tuttavia, nonostante l'inclinazione a favore di "un onesto e ragionevole compromesso" circa la questione di Aquileia, il governo veneziano non seppe elaborare una politica estera incisiva. "Nel governo", si lamentava Giovanni Donà, il commissario ai confini del Friuli e dell'Istria, a proposito dell'affare del patriarcato, "oservo titubanza, timori e poscia una alienazione totale alli mezzi valevoli per condurlo alla sua definizione". Le possibili soluzioni erano state indicate dal papa fin da metà giugno, quando aveva fatto presente al cardinale Rezzonico la necessità di un "rimedio radicale", la traslazione oppure la soppressione del patriarcato con la correlata istituzione di due vescovati. Come aveva sottolineato Wrachien, "entrambi li ripieghi da Roma proposti" richiedevano "il requisito e l'atto della Cesarea adesione" e Vienna aveva fatto sapere per tempo e ufficialmente ribadito in un memoriale presentato il 1° ottobre al collegio dall'ambasciatore imperiale a Venezia di essere favorevole unicamente all'ipotesi della soppressione (189).
Ma la Repubblica non volle trarre da tutto ciò le debite conclusioni e, dopo aver lasciato trascorrere parecchie settimane, a fine novembre optò per il progetto della traslazione. Su questa decisione influì certamente la circostanza che la rottura delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica e la Santa Sede costringeva Venezia ad affidare la trattativa agli ecclesiastici ed è naturale che questi ultimi preferissero il progetto giudicato "meno rovinoso al Patriarca". Nelle ultime settimane del 1750 si sviluppò un'offensiva concentrica diretta ad indurre il senato a rassegnarsi all'idea della soppressione del patriarcato: da Vienna Tron insinuava, come riassumeva con astio Nani, "soggezione e timore" agli Imperiali e faceva presente che anche la Francia era convinta che "l'espediente dei due Vescovati era l'unico"; da Roma Rezzonico faceva rimbalzare la medesima notizia; infine il 28 dicembre lo stesso ambasciatore di Luigi XV presso la Repubblica presentò un "ufficio", con il quale invitava Venezia ad aderire all'"espediente". In un primo tempo il senato puntò i piedi: il 2 gennaio 1751 un'ampia maggioranza approvò una risposta all'"ufficio", che accusava il progetto dei due vescovati di essere "estremamente nocevole e pericoloso alle cose nostre". Ma, dopo che il 20 gennaio l'ambasciatore francese era tornato alla carica per consigliare il ripristino dei rapporti diplomatici tra Venezia e Roma, il senato decise, il giorno seguente, di aderire agli "amichevoli consigli", concedendo non solo il ristabilimento delle relazioni con la Santa Sede, ma anche la soppressione del patriarcato(190).
Ancora una volta i tornanti della politica estera veneziana rispecchiavano la dinamica interna al governo. Coloro che fecero inclinare la bilancia verso il compromesso furono Emo e Renier: dopo essere stati - come avrebbe scritto l'irriducibile Andrea Querini in una satira in versi - "nel zelo ardenti", "in un dì si appaciar, non altrimenti, / co' suo' avversari, che Pilato, e Erode, / per porre in croce il Dio delli Credenti" (191). Querini interpretava degli umori diffusi: nonostante l'intesa tra i leaders dei due `partiti', che fino ad allora si erano dati battaglia, il progetto della soppressione del patriarcato di Aquileia fu approvato da una risicata maggioranza: 88 voti a favore, 12 contro e ben 54 ῾non sinceri'. Contemporaneamente a Vienna Tron decideva di forzare la mano ad un senato che riteneva ancora aggrappato alla linea della "fermezza", e otteneva una bozza di trattato, che cercava di "mettere la materia in sistema" in modo da "far per questo motivo cessare tutte le discordie tanto per il presente quanto per l'avvenire" tra Venezia e l'Impero. Dopo una rapida trattativa, il 21 marzo fu firmato a Vienna il trattato, che poneva fine, per quel che riguardava il versante austro-veneto, alle "vertenze" di Aquileia. L'obbiettivo, indicato da Emo in una relazione al senato, di "riporre le cose d'Aquileia in uno stato di vera e soda tranquillità, salvi i riguardi, che non potevano dalla Serenissima Repubblica trascurarsi", era stato finalmente raggiunto (192).
Fu più difficile raggiungere un'intesa con Roma. Montegnacco e Wrachien consigliarono, il 24 febbraio, di invitare il papa a riequilibrare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, nella Repubblica veneta alquanto sbilanciati a favore della seconda, mediante la concessione della "nomina regia de' vescovati dello Stato, o di tutti o di parte d'essi, e delle badie" o, quantomeno, mediante il ricorso ad un "espediente", che consentisse di non conferire tali nomine "ad altri che a nobili veneti o sudditi del Dominio". Il 2 aprile Benedetto XIV decise di venire incontro alle richieste della Repubblica: il papa promise a Rezzonico che avrebbe assegnato i vescovati di Caorle, Chioggia e Torcello in giuspatronato alla Serenissima, se quest'ultima avesse posto in esecuzione il trattato del 1749 sul Po di Goro. Inoltre, poiché l'accordo tra Venezia e l'Impero poneva entrambi gli Stati sullo stesso piano, ne derivava che, al pari dell'arcivescovato di Gorizia, anche quello di Udine diventava di "nomina regia". Se a tutto ciò si aggiunge la secolarizzazione delle terre patriarcali di San Daniele e di San Vito, si è indotti a concludere che uno degli esiti più paradossali e inattesi della crisi fu un notevole ampliamento della sfera giurisdizionale della Repubblica e, più in generale, un sensibile rafforzamento del controllo dello Stato sui propri Dominii (193).
L'"estinzione delle vertenze sopra il Patriarcato d'Aquileia" non fu salutata da un giubilo universale. Anche se Andrea Querini riferiva ironicamente che il governo era "contentissimo" perché aveva "ottenuto dal Papa la nomina dei tre vescovati" e a Venezia "siamo contenti delle nostre perdite come di una solenne vittoria" (194), si sa anche che una minoranza di patrizi trasse dagli esiti della crisi gli auspici più tetri circa l'avvenire della Serenissima. Giovanni Donà scrisse a Bernardo Nani che la condotta del senato l'induceva ad avanzare "pronostici infausti alle pubbliche cose e alla sussistenza della Repubblica". Anche Andrea Querini, dopo aver stigmatizzato "la dolorosa serie dei passi fatti con pubblica indegnità e totale conculcamento del Patriarcato", manifestò la convinzione che "simile affare ha finito per smascherare la debolezza pubblica e i principi nell'avvenire avranno poco rispetto alla Repubblica": "voglia Dio che non sieno segni codesti di morbo mortale", era l'augurio formulato dal patrizio. Certo chi, come era il caso di Querini, aveva considerato la questione di Aquileia "la pietra di paragone della repubblica", non poteva non vedere nei compromessi raggiunti tra il gennaio e l'aprile del 1751 un'umiliante sconfitta. Ma non va dimenticato che, dati i rapporti di forza che vigevano a metà Settecento tra Venezia e l'Impero, il patriarcato di Aquileia non poteva più essere esaltato, come faceva l'enfatico Antonio Diedo di fronte al senato, quale la "gemma la più preziosa del principato", ma, caso mai, si era trasformato, come avrebbe sottolineato Giacomo Nani, da un'arma, che Venezia poteva puntare contro gli Stati austriaci, in una leva, che in mano di Vienna poteva consentirle di scardinare l'assetto territoriale della Repubblica (195).
Quanto a Roma, va osservato che la crisi aveva favorito il decollo di una politica giurisdizionalista, anche se si era trattato più di ritorsioni che di iniziative dettate da un'ampia visione politica. Ma non si deve dimenticare che le "cose di Aquileia" avevano fatto emergere gli ispiratori e i teorici delle battaglie anticuriali e antiecclesiastiche degli anni '50 e '60, tra i quali Montegnacco, così come avevano consentito il rilancio in grande stile del magistero di Sarpi, di "quel Omo" - così lo ricordava Bernardo Nani in senato - "la di cui memoria sarà tanto cara, e tanto illustre quanto durerà la Repubblica" (196). Infine lo psicodramma dell'affare di Aquileia aveva visto sconfitti coloro che "condiscendere voleano alle combinazioni, ai tempi, mossi da sola paura" e prevalere invece "i forti", coloro che avevano adottato per "sistema" "la costanza e l'operar seriamente e gravemente nel negozio" (197). Da un lato le "vertenze" internazionali, dall'altro la lotta dei ῾partiti' avevano fatto maturare una nuova generazione di politici veneziani meno apatica e rassegnata di quella che l'aveva preceduta: non a caso ritroveremo quali protagonisti della stagione veneziana delle riforme molti patrizi, che avevano recitato nel corso della crisi di Aquileia, in uno schieramento o nell'altro, una parte di rilievo e, ciò che più importa, sarà proprio la questione dei rapporti Stato-Chiesa il banco di prova della volontà di sopravvivenza della Serenissima.
Nel marzo 1752, quando morì il doge Piero Grimani, si presentarono quali candidati alla successione il ῾signore' Francesco Loredan, il savio di settimana sconfitto dai "forti" la notte del 4 luglio di due anni prima, quando si era deciso di rompere le relazioni con il papa, e il patrizio di mediocri fortune Giovanni Emo, il mallevadore, più che il capo, del ῾partito' della "fermezza". La vittoria arrise allo scialbo Loredan, il quale, pur essendo da tempo savio del consiglio, non poteva certamente vantare un curriculum all'altezza di quello del procuratore Emo, ma che beneficiava dell'appoggio delle altre grandi case dell'aristocrazia e specialmente di Foscarini (il leader dei ῾signori' desiderava evidentemente impedire al suo maggiore antagonista la conquista della carica più prestigiosa della Repubblica) e che poteva soprattutto guadagnarsi il favore degli elettori, in particolare di quelli provenienti dal patriziato basso, grazie a distribuzioni di zecchini troppo generose per essere alla portata del suo competitore (198). Una conferma della regola non scritta in vigore fin dall'ultimo quarto del Seicento che, come ci ricorda Volker Hunecke (199), concedeva unicamente ai membri delle grandi case di accedere al dogado? Senza dubbio, ma anche un episodio, che segnala il processo di ῾normalizzazione', di un ritorno all'ordine e alle gerarchie tradizionali, che si stava affermando all'indomani della soppressione del patriarcato di Aquileia.
Come abbiamo visto, Marco Foscarini era stato prima scavalcato e poi travolto dagli sviluppi dell'intrigato "affare". Nel giugno del 1750, quando il ῾partito' dei "forti" imperversava in senato, il procuratore in fama di "austriaco" era stato eletto, non senza una buona dose di ironia, "ambasciator estraordinario all'Imperador" con il trasparente intento di allontanarlo da Venezia o comunque di metterlo in difficoltà. Foscarini aveva chiesto di essere sollevato da un incarico che non aveva chiesto: non gli era stato concesso ed era stato costretto ad andare "al bando" (200). Non era stato un trascurabile incidente di percorso: l'ex "idolo del senato" era rimasto in effetti per un biennio ai margini del gruppo dirigente. Soltanto nel dicembre del 1752 Foscarini ritrovò il suo seggio di savio del consiglio, una carica in seguito non più abbandonata, salvi ovviamente i periodi obbligatori di "contumacia", fino all'elezione a doge. In coincidenza con la riconquista della ribalta della scena politica il procuratore diede alle stampe il primo - ma rimarrà di fatto anche l'ultimo - tomo della sua opera principale, Della letteratura veneziana (201).
Nonostante la formula affatto eccentrica rispetto alla tradizione storiografica pubblica, il contributo di Foscarini fu accolto e celebrato dal consiglio dei X come se rispettasse i canoni ufficiali. In tal modo, come ha sottolineato Franco Venturi, la Repubblica riconosceva implicitamente che la sua "reputazion" non riposava più sulle glorie politico-militari, ma su una ricca e complessa cultura civile (202). "Lavoro ponderosissimo, frutto, si può ben dire, di una vita di ricerche e messo insieme con la partecipante collaborazione di vari eruditi" (203), tra i quali Apostolo Zeno, Girolamo Tartarotti, Marco Forcellini e, in modo particolare, Gasparo Gozzi, il primo torno della Letteratura veneziana riguardava "le sole dottrine meglio conferenti allo Stato" e saldava strettamente l'erudizione alla politica, nella scia di una tradizione rinascimentale che insisteva sui legami delle "lettere coll'amministrazione dello Stato". Lo straordinario capolavoro di Foscarini - "l'enciclopedia della civiltà veneta" - nasceva senza dubbio da "una visione più libera della ricerca storica come elemento indispensabile per affermare il diritto delle nazioni alla propria esistenza" (204) e andava quindi ben al di là di una gratificante - ma anche mistificante - risposta al problema dell'identità di uno Stato, quale era la Serenissima nella sua ottica, a sovranità limitata e, prima ancora, della sua classe politica.
Tuttavia è anche evidente che l'opera ubbidiva nello stesso tempo a preoccupazioni culturali e politiche più contingenti, legittimava una visione della Repubblica e della sua storia di segno conservatore. Foscarini intendeva infatti da una parte contrapporre il "patrimonio civile e culturale unico e originalissimo" di Venezia (205) alle influenze culturali transalpine (non a Montesquieu, ma a Sarpi ci si doveva rivolgere per conoscere "il vero spirito delle leggi") e dall'altra ispirare ai patrizi, soprattutto ai giovani, il rispetto degli "autori delle usanze del governo civile" e quindi impedire loro di "alterare" le istituzioni ricevute dagli "antichi". "Ai suoi occhi il passato, la storia erano una intangibile forma entro cui dovevano essere colate le esigenze nuove, quasi ad assicurare il senso della legittimità, quasi a consacrare i provvedimenti dettati dal bisogno, dalla necessità, dall'urgere della vita di tutti i giorni" (206). La ῾santità' del presente era benedetta dalla storia: soltanto ciò che era "da gran tempo introdotto e provà nella Repubblica", aveva affermato alcuni anni prima in senato, poteva aver corso a Venezia. "Lassar le cosse come le sta" (207): era questo il messaggio politico affidato in filigrana alla Letteratura veneziana, un invito che il procuratore avrebbe replicato ad alta voce dieci anni più tardi in un discorso al maggior consiglio nel tentativo, affatto riuscito, di convincerlo a lasciare intatti i poteri degli inquisitori di Stato e più in generale a conservare il tradizionale assetto politico-costituzionale marciano.
Fin dal 1735 Foscarini aveva auspicato "una perfetta istoria civile della Repubblica", che rispettasse i rigorosi canoni dell'erudizione settecentesca, ma nello stesso tempo contribuisse a restituire al patriziato un forte senso d'identità (208). Nella Letteratura veneziana aveva nuovamente sottolineato l'esigenza di "una purgata istoria civile" veneziana, vale a dire di "quella parte d'istoria che si aggira intorno alle leggi, e spiega l'interna costituzione dei principati" (209). Un desiderio in effetti esaudito - quanto meno in nuce - da alcuni mesi, da quando cioè Vettor Sandi, lo storico poco amato da Sismondi, aveva pubblicato il Prospetto di storia civile della Repubblica di Venezia, il battistrada di un'imponente ricerca frutto di un'intera vita di studi - i Principi di storia civile della Repubblica di Venezia - edita in sei volumi tra il 1755-1756 e più tardi, nel 1769-1772, aggiornata con altri tre volumi relativi al Settecento (210). "Algido monumento del conservatorismo politico veneziano, i Principi di storia civile dovevano assolvere nell'ambito degli studi costituzionali una funzione analoga a quella svolta dalla Letteratura veneziana sul piano culturale: erano, le due opere, il frutto più significativo del tentativo di un bilancio filologico e, soprattutto, di un rilancio dignitoso della tradizione civile della Repubblica" (211).
Ma "la Repubblica che esce dai nove ponderosi volumi sandiani non è quella ch'egli sta vivendo", ha recentemente scritto Francesco Dalla Colletta, restituendoci in poche righe il significato profondo dei Principi di storia civile. "È una Venezia che ancora si distingue per la sua grandezza e magnificenza, erede imperitura di una tradizione millenaria di saggezza costruita sulle virtù di governo della classe aristocratica. Una Venezia che nasce religiosa e si mantiene nel corso dei secoli indipendente e libera, senza scivolare in avventure di tipo dispotico, signorile o monarchico e senza mai, per converso, scadere in un regime che potesse avere la parvenza di democratico. È una sontuosa costruzione la Storia sandiana, una possente ricomposizione della coralità delle storie veneziane, edificata sul terreno concreto delle leggi e delle istituzioni [...]. Ecco il terreno, vichianamente ῾certo', su cui rifondare una letteratura storica in grado di rappresentare degnamente la storia di Venezia" (212).
Nella Letteratura veneziana il sarpiano Foscarini aveva lodato, senza dimostrare una particolare simpatia per un'iniziativa, di cui evidentemente non condivideva l'ispirazione troppo sbilanciata in una direzione clericale, un senatore appartenente, al pari di Sandi, ad una casa della media nobiltà, Flaminio Corner. Corner stava pubblicando "una storia generale di tutte le chiese di Venezia", un'opera grandiosa (saranno alla fine ben diciotto i volumi delle Ecclesiae venetae) frutto, oltre che di uno scontato "venetae ecclesiae amplificandae ardor", anche dell'"amor patriae", in altre parole di una visione garzoniana di Venezia quale "città della Madonna" (213). Il senatore, uno dei capi degli ῾zelanti', indicava al patriziato con questo ed altri suoi studi un percorso celebrativo che, come nei casi di Foscarini e di Sandi, si faceva forte dei canoni dell'erudizione muratoriana allo scopo di legittimare un'interpretazione di Venezia e della storia del suo corpo aristocratico, nella fattispecie in una chiave in primo luogo religiosa.
In quegli stessi anni un giovane patrizio, Giacomo Nani, era intento a redigere un Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia, in cui tentava di sezionare il patriziato veneziano in base a due criteri, le "varie situazioni e ricchezze" e il "costume morale". Da una parte distribuiva l'aristocrazia lagunare in cinque classi a seconda del maggior o minor grado di opulenza e della "situazione" politica, vale a dire di un rango spesso direttamente proporzionale alla ricchezza; dall'altra proponeva una ripartizione che teneva invece conto delle scelte ideologiche, di opzioni che soltanto nel caso delle classi ῾estreme' coincidevano con la collocazione socio-politica: i "signori", i "buoni o chietini", gli "spiriti forti, liberi" (erano, secondo Nani, "il partito più giusto", in quanto composto da "persone illuminate": erano "nemici dei signori" perché li imputavano di una gestione oligarchica del regime, ma anche dei "buoni o chietini", perché li accusavano di essere acriticamente fedeli ai miti e ai riti tradizionali) e i "poveri" (214). In questa ottica eterodossa le opere di Foscarini, di Sandi e di Corner si presentavano quale espressione di un asse "signori"-"chietini", di un fronte composito - come abbiamo visto - ma cementato dalla volontà di riaffermare l'identità veneziana in quanto perfezione aristocratica e di opporsi conseguentemente ai tentativi di rimettere in discussione gli equilibri consacrati dalla storia.
Di qui il ripudio di tutto ciò che non era "da gran tempo introdotto e provà nella Repubblica". I cambiamenti potevano essere autorizzati soltanto nel caso in cui si rifacessero al passato, costituissero, più che delle riforme, delle restaurazioni. A questo principio sembrano essersi ispirati anche i più significativi interventi che la Repubblica adottò in quegli anni in materia economica. Nel 1751 fu abbandonata la politica commerciale ῾liberista' del 1736 e furono ripristinati i convogli, due decisioni prese in risposta alle scorrerie dei Barbareschi e alla diminuzione del gettito fiscale a causa della riduzione dei dazi (215). Nel 1756 fu soppresso il magistrato, istituito una cinquantina d'anni prima, dei deputati al commercio: la ῾materia' dci traffici tornò ad essere totalmente affidata ai cinque savi alla mercanzia. Di segno in parte diverso un'altra decisione ῾restauratrice' presa nel 1751, il ristabilimento dell'inquisitorato alle Arti, un magistrato che riuscì ad imprimere una certa accelerazione al processo di - relativa - liberalizzazione delle corporazioni. Nel 1754 fu approvata quale regola generale l'"apertura" delle Arti e cinque anni più tardi ne furono "aperte", dopo un'approfondita inchiesta, trentatré delle oltre centotrenta esistenti (216).
Il problema dei Barbareschi, che si trascinava irrisolto da molti decenni (Venezia esitava ad abbracciare la scelta condivisa da altri governi interessati alla navigazione mediterranea, quella di concludere onerosi accordi con le reggenze nordafricane, mentre sapeva bene di non possedere le risorse militari necessarie per tentare una soluzione di forza), fu affrontato dal senato nell'aprile del 1754: si scontrarono in quell'occasione Marco Foscarini e Alvise Emo, il secondo appoggiato dai "giovani" (gli avversari del procuratore nel corso della crisi di Aquileia?) e dalle quarantie, vale a dire da un blocco ῾generazionale' (in una certa misura, come si sa) e sociale simile a quello che aveva dato vita al ῾partito' della "fermezza". Ma questa volta il bellicoso Emo, che in questo caso era forse anche il portavoce di una radicata tradizione familiare (si erano e si sarebbero illustrati nella `professione del mare' non solo i due Angelo, lo zio e il fratello di Alvise, ma anche il cugino Giacomo Nani e, ancora prima, Antonio, il padre di Giacomo) fu messo in minoranza dal ῾pacifista' Foscarini (217), un'ulteriore conferma del pieno ricupero da parte del procuratore della leadership dopo la crisi del 1750-1751.
Tuttavia i reiterati tentativi di riformare la gestione dell'Arsenale (nel 1752 furono eletti degli inquisitori, per la terza volta nell'arco dell'ultimo ventennio, mentre nel 1757 l'elezione della carica ῾esecutiva' dei patroni all'Arsenale fu di fatto affidata al senato) (218) sembrano indicare che Giacomo Nani, allora - nel 1754 - governatore di nave, non avesse del tutto ragione, quando scriveva a Bernardo che a Venezia "odiano sin li discorsi di cose di mare" (219). Certo, si era trattato di interventi non di rado discutibili (220) e che non avevano inciso, se non in misura marginale, sulle due questioni di fondo concernenti la maggiore manifattura veneziana, gli elevati costi di produzione (le spese per il mantenimento degli arsenalotti e delle strutture della "casa" superavano di parecchio il valore delle navi varate, che in ogni caso venivano a costare più di quelle costruite altrove) e l'arretratezza tecnologica, la quale dipendeva in larga misura dalla fedeltà a procedure di tipo tradizionale, che ignoravano i risultati dell'applicazione della scienza alle costruzioni navali. I riformatori dello Studio di Padova si erano resi conto del problema e nel 1745 avevano istituito una cattedra di teoria nautica e architettura navale, affidandola ad un giovane assai promettente, Gian Rinaldo Carli. Ma l'architettura navale era rimasta una mera etichetta disciplinare e in ogni caso non erano stati attivati i rapporti tra la cattedra e l'Arsenale. Dopo che Carli aveva abbandonato, nel 1751, l'insegnamento, la situazione non era mutata, nonostante che l'incarico universitario fosse stato affidato nel 1756 a Giovanni Poleni (221).
Negli anni che seguirono la pace di Aquisgrana, la finanza pubblica continuò ad attraversare una stagione favorevole (222), che consentì tra l'altro nel 1753 il successo di un'importante operazione di riconversione del debito pubblico. Contemporaneamente si aprì, non solo a Venezia, un dibattito sulle monete, cui parteciparono tra gli altri, partendo da punti di vista assai diversi e con proposte divergenti, patrizi quali Pier Giovanni Capello e Nicolò Donà, funzionari governativi più o meno importanti quali Girolamo Costantini (il principale ispiratore dei bilanci generali) e Carlo Vedoa e un erudito in via di conversione all'economia, proprio tramite gli studi sulle zecche italiane, quale Carli (223). Benché, con l'eccezione di quest'ultimo, il contributo della Repubblica alla querelle non si distinguesse particolarmente né per l'originalità dell'analisi, né soprattutto per la novità delle proposte (come ha sottolineato Venturi, ad esempio Costantini "con l'atteggiamento tipicamente veneziano [...] si mostrava convinto che l'unico rimedio consistesse nel restaurare, nel rimettere in vigore le leggi che si era avuto il torto di lasciar cadere in disuso" (224)), tuttavia nel 1753 esso favorì indirettamente una lacerazione significativa in seno allo stato-corpo aristocratico, i cosiddetti "torbidi" delle quarantie, dei consigli giudiziari.
Una ventina d'anni prima Nicolò Donà, quando aveva suddiviso in quattro classi il patriziato, aveva assegnato l'etichetta di "meccanici" a "tutti coloro principalmente che sono nelle quarantie, e quei ancora che esercitano magistrati di grosso guadagno, sia nella città che fuori", vale a dire a quella parte del corpo aristocratico che, diversamente dai "plebei", godeva di una posizione sociale mediocremente agiata, ma che serviva lo Stato ricavandone, come facevano i barnaboti, un vero e proprio salario, che nel caso delle quarantie era chiamato "sacchetto" (225). Negli anni '40 erano già emerse alcune tensioni in seno alle quarantie, che in parte si possono ricondurre al rapido ricambio generazionale ad un tempo causa ed effetto della crisi di Aquileia. I patrizi più rispettosi delle gerarchie e della costituzione materiale della Repubblica erano spesso sostituiti ai vertici delle quarantie e nei magistrati, che facevano riferimento ai consigli giudiziari (in primo luogo gli avogadori di comun), da giovani irrequieti e desiderosi di "novità": non è certamente un caso che avessero fatto o stessero ancora facendo il loro "giro" nelle quarantie tre dei quattro "spiriti forti, liberi" ricordati per nome da Giacomo Nani. Il regime aveva replicato alla crescente pressione dei "meccanici" e dei "plebei", affrancando i nobili "nuovi" dotati di patrimoni di una certa consistenza e/o imparentati con case "vecchie" appartenenti alle fasce alte del patriziato, dalla maggior parte delle interdizioni politiche, che fino ad allora li avevano colpiti (226).
Se l'omologazione delle case nuove abbienti al patriziato vecchio aveva permesso di controbilanciare, almeno nel breve periodo, le spinte provenienti dalla ῾base' aristocratica, nello stesso tempo questi ῾aggiustamenti' del regime avevano ulteriormente esasperato i giovani delle quarantie impazienti di emergere. Per di più a costoro appariva sempre meno giustificabile una "privata opulenza" concentrata in un numero sempre più ristretto di case. Quanto alla "pubblica povertà" denunciata da Garzoni, sembrava palesemente pretestuoso che il governo continuasse ad invocarla allo scopo di conservare invariato il "sacchetto" dei quaranta e in generale degli impieghi cittadini "di guadagno", dal momento che finalmente il bilancio era ritornato da qualche anno in attivo ed era possibile procedere a vantaggiose operazioni di riconversione dell'ingente debito pubblico. Nel 1753 i quaranta più combattivi pensarono bene di approfittare anch'essi di una finanza statale con il vento in poppa e pretesero un aumento del "sacchetto", una richiesta che appariva tanto più legittima in quanto il dibattito sulle monete aveva messo in luce che l'inflazione aveva eroso in misura notevole il salario nominale (ad esempio Costantini calcolava che il ducato avesse perso nel corso della prima metà del secolo quasi un terzo del suo valore) (227).
Allo scopo di spaventare i savi del consiglio, che volevano continuare a praticare una politica della lesina con l'obbiettivo di ridurre drasticamente un debito dello Stato che aveva superato gli 80.000.000 di ducati (nel lungo periodo tale strategia sarà coronata da un notevole successo in quanto, in meno di quarant'anni, il debito sarà ricondotto poco sopra i 43.000.000 di ducati), e che si erano conseguentemente dichiarati contrari all'aumento del "mensuale assegnamento", i ῾congiurati' tentarono di far eleggere podestà di Bergamo uno dei più tenaci oppositori delle loro richieste. La manovra non solo fallì, ma si ritorse contro i capi della ῾rivolta', in quanto uno di essi, Alemante Angelo Donini, venne eletto podestà della città lombarda. Donini, che non aveva alle spalle una casa così agiata da potersi permettere di ricoprire la costosa carica, chiese di essere dispensato e, essendo stata la sua richiesta respinta dal senato con "voti copiosissimi", fu costretto ad andare al bando e quindi ad abbandonare il suo seggio nelle quarantie. Nonostante la ῾punizione' subita da Donini, l'agitazione in seno alle quarantie continuò. A questo punto i savi chiesero agli inquisitori di Stato di intervenire con la loro "autorità". Colui che fu individuato quale regista dei "torbidi", Lorenzo Bon, fu relegato - dapprima in un monastero; poi nella fortezza di Palmanova - per un periodo di otto mesi (vale a dire un "giro" delle quarantie) e inoltre fu fatto "sparire il ragionato che aveva fatto i conti" dell'inflazione ad uso dei consigli giudiziari (fu, a detta di Giacomo Nani, "l'ultimo esercizio di autorità del Tribunale" (228)).
Anche se non si deve certamente sopravvalutare questo episodio di rivendicazioni salariali tipicamente corporative, va comunque tenuto presente che lo schema delle contrapposizioni politico-istituzionali del 1753 (il senato, il collegio e gli inquisitori di Stato contro le quarantie) sarebbe stato ripreso in larga misura otto anni più tardi e che il caso scatenante la Correzione delle leggi del 1761-1762 avrebbe riguardato Angelo Querini, uno dei capi della quarantia criminal implicata nei "torbidi" promossi da Donini e da Bon. Che i "meccanici" fossero, per un certo verso in misura maggiore dei "plebei", che spesso erano maggiormente condizionati dalla solidarietà ῾verticale' garantita dalle clientele, la componente patrizia meno facilmente omologabile dal regime, lo aveva del resto posto in luce qualche decennio prima il "benestante" Nicolò Donà, quando aveva osservato che, mentre sotto il profilo della competizione politica non costituivano un elemento di disturbo (non aspiravano, infatti, "se non remotamente, e di rado" alle cariche appetite dai "proceri" e dai "benestanti" e, caso mai, si preoccupavano di impedire ai "plebei" di penetrare nelle quarantie), ben diversa era la dinamica istituzionale.
I quaranta - era l'accusa di Donà, che evidentemente non li amava - si consideravano "le più autorevoli e rispettabili persone della Repubblica", erano convinti di essere il "Sovrano jurista" dello Stato marciano. Donà invece rinfacciava loro di essere "Sovrano per accidente" e "jurista per sostanza": i membri delle quarantie dovevano rassegnarsi a "esser simili a quelli che in Francia si chiamano hommes de robe" - un paragone che pochi decenni più tardi, quando al di là delle Alpi i parlamenti avrebbero sfidato l'assolutismo regio, sarebbe apparso a doppio taglio - "conoscendo quanto il loro impiego sia inferiore ad ogn'uno di que' de' benestanti e de' proceri, e quanto per conseguenza la nascita loro e la lor classe sia proporzionata all'impiego cui aspirano". Di qui i "frequenti dissapori e contese" dei consigli giudiziari sia con il pien collegio, "mirato da essi con occhio geloso e come una union di persone che pensano a ridur il governo all'oligarchia per esercitarlo essi solo con dispotismo assoluto", sia con il consiglio dei X e gli inquisitori di Stato, gli organi politico-giudiziari ῾superiori' che attestavano quanto fosse illusoria la loro pretesa di essere il "Sovrano jurista" della Repubblica (229).
In ogni caso il gruppo dirigente veneziano si rendeva conto che il bastone della repressione non permetteva di venire a capo delle diffuse insofferenze. D'altra parte, accogliere le rivendicazioni salariali dei quaranta avrebbe certamente compromesso una politica finanziaria intenta in primo luogo alla riduzione dell'imponente deficit pubblico. Fu con tutta probabilità soprattutto la ricerca di una soluzione, che consentisse di scaricare sulle robuste spalle della Chiesa le contraddizioni della politica marciana, che indusse il senato ad approvare il 7 settembre 1754, su proposta di Sebastiano Foscarini, un savio di Terraferma nipote di Marco, un decreto che, recependo un articolato e meditato parere di Montegnacco, tentava di frenare l'esodo dallo Stato veneto della "quantità immensa di dinaro" incamerata dalla Curia romana in occasione della concessione di grazie, dispense e benefici ecclesiastici (230). In realtà la "quantità [...] di dinaro" in ballo era relativamente modesta (231), un dato di fatto che induceva l'ambasciatore di Francia a Venezia François Joachim de Bernis a ritenere che il decreto fosse unicamente una rappresaglia della Serenissima nei confronti di una Santa Sede, cui si continuava a rimproverare la soppressione del patriarcato di Aquilcia (232).
Che una voglia di ritorsione nei riguardi di Roma circolasse nelle file del patriziato è indubbio, ma è anche certo che una parte del gruppo dirigente, soprattutto quella "quantità di ragazzame che", a detta di Antonio Niccolini, "era alle redini del Governo" (233) e che condivideva gli orientamenti anticuriali del clero giurisdizionalista e filogiansenista (due tendenze che a Venezia spesso coincidevano), puntava, anche se in questa fase senza una particolare lucidità e coerenza, ad un rafforzamento dei poteri dello Stato nei confronti della Chiesa in linea con le tendenze emergenti in molti altri paesi europei e, in particolare, si riprometteva di "risanare le finanze della Repubblica per mezzo dei beni ecclesiastici"" (234). Sotto questo profilo il decreto del 1754 deve essere considerato un ballon d'essai lanciato più che altro ad uso interno, alla caccia di consensi sia presso quella parte del patriziato che aveva tutto da guadagnare da una florida finanza statale e che era quindi facilmente abbacinata dal miraggio della "quantità immensa di dinaro", sia presso quei "chietini", che erano invece favorevoli ad un'azione dimostrativa - come era in effetti il decreto - che avesse comunque il pregio di cospargere di un po' di balsamo l'orgoglio patriottico ferito dagli esiti dell'"affare" di Aquileia (235).
La ferma reazione di Benedetto XIV, che pretese il "taglio" o quanto meno la sospensione del decreto, provocò il rapido smottamento della larga maggioranza che l'aveva approvato e che l'inossidabile giurisdizionalista Andrea Querini aveva celebrato quale "unione stupenda degli animi e costanza che da un secolo e più non si conosceva nel senato". A Venezia si tornò a recitare, a parti rovesciate (questa volta era Roma che premeva sulla Repubblica perché ripristinasse lo statu quo ante), un copione assai simile a quello della crisi di Aquileia. Il patriziato si divise in due ῾partiti' secondo linee che anche in tale "affare" furono prevalentemente generazionali: da una parte il "furore" dei "giovani" Paolo Renier, Andrea Tron, Piero Barbarigo e Sebastiano Foscarini; dall'altra i "vecchi" più favorevoli ad un compromesso con il papa, uno schieramento che comprese fin dalle prime battute del confronto, oltre ai moderati di lungo corso Marco Foscarini e Francesco Foscari e, va da sé, agli "zelanti" e ai "parenti dei vescovi", anche alcuni degli antichi sostenitori della linea della "fermezza", tra i quali Giovanni Emo, Bernardo Nani e Antonio Diedo. Fino alla morte di Benedetto XIV il "partito di quelli che proteggono il decreto" ebbe la meglio, nonostante le importanti defezioni che man mano lo indebolirono (tra esse quelle di Renier e di Barbarigo), sulle manovre di coloro, che il nunzio pontificio a Venezia chiamava i "beneintenzionati".
A partire dal 1756 il peso della difesa della linea intransigente cadde soprattutto sulle spalle di Andrea Tron, che resistette fino all'ultimo sulle proprie posizioni, nonostante il papa avesse fatto intervenire, formalmente in qualità di mediatrici, in realtà al proprio fianco, le corti di Parigi e di Vienna. Se si tiene presente che la Francia e l'Impero erano stati recentemente protagonisti del noto rovesciamento delle alleanze - una svolta strategica per la politica italiana, che avrebbe tra l'altro contribuito in maniera decisiva al congelamento dell'assetto politico della penisola consacrato dalla pace di Aquisgrana - e che quindi Venezia non solo non poteva più giocare, come aveva invece potuto fare ancora pochi anni prima, la carta della rivalità tra i Borbone e gli Asburgo, ma che era stata più che mai isolata nell'ambito internazionale dall'intesa tra le due corti egemoni in Italia, destano non poca meraviglia sia la scelta ῾estremista' del pragmatico Tron, sia, soprattutto, il fatto che ancora nel settembre del 1757 i due terzi dei senatori potessero condividerla.
La controversia con Roma circa il decreto del 1754 terminò soltanto nell'agosto del 1758, quando l'elezione di Rezzonico a papa con il nome di Clemente XIII e una sua richiesta di ritirare il decreto condita "con sensi teneri et affettuosi" verso la patria consentì al senato di uscire dalla trincea da cui stava combattendo una guerra di posizione sempre più difficile, salvando tutto sommato la faccia non solo riguardo alla forma, dal momento che l'embrassons nous tra il governo veneziano e il papa veneziano permise sì al secondo di ottenere il "taglio" del provvedimento, ma anche al primo di mettere nero su bianco il riconoscimento da parte pontificia della "potestà nostra legislativa" in materia ecclesiastica (236). Certamente una battaglia perduta per Tron e il suo ῾partito', ma che non chiudeva affatto la porta ad una ripresa vittoriosa del conflitto. Al contrario la riaffermazione di principio dei poteri giurisdizionali della Repubblica e una troppo fiduciosa apertura di credito nei confronti di Clemente XIII (ci si attendeva da papa Rezzonico una serie di concessioni a favore del corpo aristocratico-stato veneziano, che potessero quanto meno riportare in pareggio i conti finanziari con Roma) ponevano le premesse di nuovi conflitti. Quando Clemente XIII cercherà di pagare il ῾debito' contratto con Venezia con moneta unicamente simbolica (nel 1759 la rosa d'oro, un omaggio riservato alle regine; nel 1761 e nel 1766 la canonizzazione dei due patrizi Gregorio Barbarigo e Girolamo Miani) (237), all'idillio con il "Papa Venezian" subentrerà, anche sotto lo stimolo di un'evoluzione dei rapporti tra Stato e Chiesa in gran parte dell'Europa cattolica in una direzione sfavorevole a Roma e al clero, uno scontro reso ancora più aspro dalla delusione (238).
Anche se Niccolini certamente esagerava, quando nel 1763 attribuiva esclusivamente alla "quantità di ragazzame" alla testa del governo marciano la responsabilità del varo del decreto del 7 settembre 1754, è anche vero che nel corso degli anni immediatamente precedenti era avvenuto un rapidissimo ricambio generazionale all'interno del nucleo dirigente, un fenomeno la cui importanza non può essere sottovalutata qualora ci si proponga di delineare la politica veneziana del secondo Settecento. Non solo erano usciti di scena gli ultimi vecchioni superstiti di quella generazione nata intorno al 1670, che aveva a lungo dominato la scena dopo Passarowitz (nel 1760 scomparve il più longevo e influente di essi, Giovanni Emo), ma quella generazione immediatamente successiva, che si era affacciata alla ribalta della politica negli anni '30, ne aveva raccolto l'eredità soltanto in parte e per un periodo assai breve. Lo stesso Marco Foscarini, il suo più autorevole esponente, aveva dovuto fare i conti - come abbiamo visto - con la marea montante dei "giovani" nati nel 1710 o negli anni di poco successivi, da Paolo Renier (239) ad Andrea Querini (1710), da Piero Barbarigo ad Alvise Valaresso (1711), da Bernardo Nani a Andrea Tron (1712), da Francesco 2° Lorenzo Morosini (1714) a Girolamo Grimani (1716), dal suo stesso nipote Sebastiano e da Alvise Emo (1717) a Girolamo Ascanio Giustinian (1721).
Spetterà ad alcuni di questo gruppo (in particolare a Tron, Morosini, Querini, Valaresso e Giustinian) imprimere alla barra della politica marciana una decisa sterzata riformatrice, mentre altri - e sarà il caso di Barbarigo e di Grimani - cercheranno di contrastarla, assumendo, dopo un'iniziale adesione al fronte giurisdizionalista, la guida dei "chietini" di orientamento filocuriale. Soltanto negli anni tra il 1785 e il 1790, quando scompariranno quasi tutti i più autorevoli membri del gruppo, si assisterà ad un ricambio di analoga portata ai vertici del governo a beneficio dei nati intorno al 1740, tra i quali Zaccaria Valaresso e soprattutto Francesco Pesaro. Ma, mentre negli anni '60 la frattura generazionale aveva posto le premesse di una stagione ῾illuminata', quarant'anni più tardi consoliderà una svolta conservatrice di basso profilo, certamente una delle cause, se non della caduta della Serenissima, quantomeno delle sue poco esaltanti modalità.
Come abbiamo visto, negli anni precedenti la crisi del 1761-1762 i propositi di riforma relativi ai rapporti tra Stato e Chiesa non avevano condotto molto lontano; anche su altri fronti della politica erano stati pochi e comunque poco fortunati i tentativi di intervenire in maniera incisiva per sciogliere i nodi ereditati dal passato: la svolta più significativa era stata probabilmente quella avviata in Dalmazia dai sindaci inquisitori e dal generalato di Francesco Grimani (240). Tuttavia non era difficile prevedere che la pressione di "giovani" spesso formati in ambienti aperti alle suggestioni del razionalismo libertineggiante del primo Settecento (Bernardo Nani era stato educato dal filosofo libertino Antonio Conti, Lorenzo Morosini da docenti universitari seguaci di Gassendi, Renier da un abate amico di Conti, Giustinian da Carlo Lodoli...) (241) e che avevano avuto la possibilità, in alcuni casi, di confrontarsi con i modelli europei avrebbe prima o poi travolto le dighe erette dalla tradizione. In una relazione presentata nel 1752 al ritorno dall'ambasciata di Francia Morosini aveva lasciato cadere una frase, che prendeva chiaramente di mira, sia pure con tutte le cautele del caso, l'immobilismo marciano: avvertiva infatti che era necessario abbandonare quei "principi, i quali, per quanto siano appoggiati alla più saggia direzione e tendano al migliore vantaggio, possono alle volte, nel tenacemente osservarli, più nuocere che giovare" (242).
Il più importante "principio" tradizionale preso di mira dai "giovani" doveva essere, in prima battuta, quello militare. Nel settembre del 1760 Tron e Renier riuscirono a far approvare dal senato, dopo un duro scontro, un ambizioso progetto di riforma dell'esercito presentato un anno prima dal generale scozzese William Graeme (Graham), dal 1756 al 1767 al vertice delle forze di terra della Repubblica, un piano che non solo ricuperava alcune proposte di Schulenburg rimaste fino ad allora sulla carta, ma le inseriva in un insieme coerente ispirato, quanto alla tattica e all'organica, al modello prussiano. La guerra dei Sette anni aveva risparmiato, è vero, l'Italia, ma aveva comunque ricordato - come sottolineava Graeme - che "nelle querelle d'Europa le potenze sono considerate secondo il peso che possono mettere nella bilancia per farla traboccar dall'una o dall'altra parte" e che, nella fattispecie, "la bellezza e la ricchezza del Paese senza mezzi per difenderlo, non è che un allettamento alli vicini". Erano considerazioni alle quali soltanto alcuni patrizi erano assai sensibili: tra costoro Giacomo Nani, che era stato indotto dall'assedio di Praga ad affrontare un "argomento che da oltre quattro secoli [era] da noi [veneziani] intieramente trascurato e negletto" e che pochi anni prima Sandi aveva liquidato con "parole di sicurezza", la difesa della stessa Venezia (243).
Da parte sua Graeme aveva trovato che le truppe della Repubblica erano "poche di numero, senz'ordine ed economia, senza disciplina, oppresse dal servizio, mal vestite, mal armate e ricolme di miseria". In particolare, la Serenissima pagava quasi 14.000 uomini, di cui però soltanto 6.000 prestavano in effetti servizio nelle guarnigioni. Il generale aveva richiamato l'attenzione del governo sulla necessità di istituire, tra l'altro, un'accademia militare per la formazione degli ufficiali, soprattutto di quelli delle armi dotte, e il senato l'aveva accontentato nel marzo del 1759, fondando il Collegio militare di Verona (244). La scrittura dell'agosto 1759 puntava ancora più in alto, insistendo su tutta una serie di problemi e di provvedimenti, alcuni apparentemente tecnici (la "piccolezza delle paghe"; la necessità di "formare per il servizio del mare un corpo" ad hoc, senza dubbio un primo passo a favore di un ridimensionamento della proiezione di Venezia verso il Mediterraneo; una tattica alla prussiana che avrebbe consentito di ridurre di parecchio il numero degli ufficiali; la sostituzione del tradizionale racolage con una sorta di servizio di leva, ecc.), altri coraggiosamente politici (una disciplina militare sottratta alla gestione dei rettori; la drastica limitazione delle "guardie onorarie" addette ai patrizi; soprattutto l'invito - tra le righe - a cancellare l'anomalia veneziana e quindi a consentire "che il primo ordine di nobiltà serva la sua patria nelle truppe") (245).
La vittoria dei "giovani" in tema di riforme militari non ebbe alcuna ricaduta effettuale, in quanto il piano di Graeme fu sottoposto, quanto alle implicazioni finanziarie, al vaglio dei deputati ed aggiunti alla provvision del denaro, i quali pensarono bene di chiuderlo in un cassetto, dove sarebbe rimasto per ben sei anni. Nonostante tutto, i "giovani", che avevano sostenuto il progetto dello scozzese, avevano comunque dimostrato di poter conquistare l'appoggio della maggioranza dei senatori, un obbiettivo raggiunto anche dai riformatori dello Studio di Padova Bernardo Nani e Lorenzo Morosini nel giugno 1761, quando riuscirono a far approvare un'incisiva riforma dell'Università in buona parte ispirata da un docente dell'Ateneo, Simone Stratico (246) La collaborazione tra i patrizi ῾progressisti' e la generazione degli esperti più inclini ad uno strappo nei confronti della tradizione stava avviando, tra molte difficoltà e resistenze, un processo di modernizzazione della Repubblica, quando, nell'agosto del 1761, gli inquisitori di Stato fecero arrestare l'avogador di comun Angelo Querini (247).
Una volta svanita all'orizzonte, almeno per il momento, la possibilità di utilizzare la Curia romana e, più in generale, gli ecclesiastici quale parafulmine delle contraddizioni interne al patriziato, era ripresa l'agitazione in seno alle quarantie e ai magistrati nella loro orbita. Querini, un ex quaranta che era stato implicato nei "torbidi" del 1753, era stato promosso in ancor giovane età, grazie anche all'appoggio di un amico influente quale Girolamo Ascanio Giustinian, avogador, una carica che consentiva una sorta di controllo di legittimità delle leggi: poiché aveva osato utilizzare i suoi poteri per mettere i bastoni tra le ruote al consiglio dei X e quindi si era rivelato un esponente di spicco della frazione del patriziato ῾basso' più combattiva e pericolosa, era stato preso di mira dall'establishment marciano. Ma questa volta la repressione ottenne un effetto opposto a quello raggiunto nel 1753. I partigiani di Querini, tra i quali parecchi dei "giovani" (in testa Renier, Morosini e Giustinian, più defilato Tron, come, di regola, quei "signori", che paventavano una vittoria del patriziato ῾basso', la componente che spalleggiava Querini) riuscirono a costringere il governo a varare una Correzione delle leggi, ad affidare cioè a un magistrato straordinario il compito di proporre delle riforme costituzionali.
Grazie all'abile regia di Marco Foscarini, che seppe fondere in un blocco relativamente compatto non solo la maggior parte dei "signori" (compreso, all'ultima ora, il "giovane" Alvise Valaresso, che contribuì in misura determinante ad assicurargli una vittoria finale, che fu raggiunta nel marzo del 1762 sul filo del rasoio) e dei "chietini" (tra i quali Girolamo Grimani, uno dei correttori, e Sandi, ma anche una frazione minoritaria delle quarantie, ivi compreso il ῾rinnegato' Marc'Antonio Zorzi, un ex "spirito forte, libero", e numerosi barnaboti), il ῾partito' conservatore (era comunemente chiamato "tribunalista", in quanto difendeva i poteri degli inquisitori di Stato, il cosiddetto tribunale supremo) riuscì a sconfiggere i "quirinisti", dapprima conquistando tre seggi di correttore su cinque, poi opponendosi alla liberazione di Querini e infine facendo approvare dal maggior consiglio una normativa che lasciava, di fatto, le cose come stavano, salvaguardando in larga misura i poteri degli inquisitori, che i "quirinisti" avrebbero voluto "spiantare", e del consiglio dei X. La crisi del 1761-1762 mise a ogni modo in luce la crescente influenza del patriziato ῾basso' (contro ogni tradizione ben tre correttori erano usciti dalle file delle quarantie) e l'esistenza di importanti correnti ῾progressiste' all'interno di entrambi gli schieramenti.
Essendo morto il doge Loredan, Foscarini gli subentrò nel maggio 1762 con una votazione quasi plebiscitaria, ma soltanto dieci mesi più tardi raggiunse il suo predecessore nella tomba. Alla brevità del dogado e alla malattia, che lo colpì fin dall'estate del 1762, è stata attribuita la mancata realizzazione di un incisivo programma di riforme. In realtà l'unico episodio significativo, che contraddistinse i pochi mesi del dogado Foscarini, fu di segno reazionario, il ripristino dell'assetto dell'Università di Padova precedente alla riforma del giugno 1761. La sostanziale impermeabilità di Foscarini nei confronti della cultura dei lumi (altra cosa era il ricupero, da lui favorito, del giurisdizionalismo sarpiano) (248) e la sua fedeltà ad una visione ῾stazionaria' della storia e della politica veneziane lo collocavano inevitabilmente tra gli avversari del movimento riformatore: quest'ultimo poté invece prevalere, sotto la guida di Andrea Tron e di Lorenzo Morosini, nel corso del dogado di Alvise 4° Giovanni Mocenigo (1763-1778), una figura senza dubbio incolore, ma anche più aperta e duttile di Foscarini.
Nel 1763 spettò ad Andrea Tron, il paron, come sarà chiamato da amici e nemici, succedere a Foscarini quale maggiore punto di riferimento delle grandi case del patriziato (249). Nell'arco di pochi anni egli riuscì a raccogliere intorno a sé un fronte ῾progressista', nel quale confluirono anche alcuni "signori" (Alvise Valaresso, ad esempio) e alti funzionari (Piero Franceschi, il segretario dei correttori alle leggi nel 1761-1762), che si erano schierati con Foscarini e i "tribunalisti", ma soprattutto i più autorevoli mallevadori del movimento "quirinista", da Lorenzo Morosini a Girolamo Ascanio Giustinian, e parecchi dei loro seguaci. Sotto la leadership di Tron il nuovo ῾blocco' di potere riprese con maggior incisività e continuità già a partire dal 1764 - quando Gian Antonio da Riva, un senatore della generazione di Marco Foscarini, che si era distinto nei dibattiti in difesa del decreto del 7 settembre 1754, approfittò del suo incarico di inquisitore estraordinario alle biade nelle province al di qua del Mincio per un'indagine statistica sulla popolazione, che gli permise di richiamare l'attenzione del senato sull'eccedente numero di religiosi (250) - la politica giurisdizionalista degli anni '50, attribuendole il ruolo di elemento propulsore di un più vasto programma di riforme, a sua volta in larga misura espressione di quella che si può chiamare la variante veneziana dell'assolutismo illuminato (251). Era convinzione di Tron, come è noto, che soltanto uno Stato forte, uno Stato che fosse riuscito a domare la riottosità dei patrizi poveri e a razionalizzare, nei limiti del possibile, una costituzione che favoriva le spinte centrifughe, avrebbe potuto realizzare un progetto di consolidamento della Repubblica, che Francesco Donà avrebbe celebrato a posteriori in quanto "unicamente rivolto alla propria conservazione, all'arricchimento, alla tranquillità de suoi sudditi" (252).
Nell'ambito costituzionale Tron puntò conseguentemente ad un rafforzamento della preminenza del collegio dei savi. L'istituzione di alcune deputazioni straordinarie (e quindi non soggette a quella regola della rotazione delle cariche, che il paron riteneva affatto nefasta), prima fra tutte quella ad pias causas, e in modo particolare la sempre più diffusa prassi di discutere e risolvere le questioni più importanti lontano dal senato in ristrette "conferenze" spesso convocate e dirette da un savio (nel 1775 le "conferenze" in corso erano ben centotrentaquattro), consentirono, senza che si attuasse una riforma a colpi di leggi e di decreti, di raggiungere una notevole concentrazione dei poteri, della quale nella seconda metà degli anni '60 e nella prima metà del decennio successivo lo stesso Tron beneficiò in misura talmente evidente che la Repubblica fu ribattezzata dagli avversari dell'influente cavaliere (dal 1773 anche procuratore di San Marco) "Retrona". Le più importanti "conquiste pacifiche" dell'età di Tron furono promosse nei settori-chiave, intimamente connessi l'uno all'altro, come si vedrà, dei rapporti Stato-Chiesa, dell'economia e dell'istruzione ῾nazionali'. Altri problemi centrali - quello militare, ad esempio - furono invece in larga misura sacrificati sull'altare di un bilancio statale, che si voleva mantenere in attivo.
Quanto alla politica estera, Tron si preoccupò soprattutto di togliere di mezzo i motivi di attrito con le maggiori potenze europee, in primo luogo con l'Impero, in modo da consolidare presso la comunità internazionale l'opinione che la neutralità e l'"imparzialità" fossero la condizione ῾naturale' della Serenissima, il suo modo distintivo di essere al mondo degli Stati. Fin dalla vertenza di Aquileia aveva insistito a favore di una politica che corresse lungo i binari della "flemma" e della "giusta considerazione del proprio interesse" (253), di un interesse che pretendeva, in quanto illuminato da una costante e realistica ricerca della pace, che coincidesse con quello ῾profondo' dell'Europa. Di qui i suoi interventi, talvolta in prima persona, a favore della soluzione sia di problemi di confine e di acque come la questione del Tartaro, che opponeva Mantova a Verona (1764), sia di problemi di comunicazioni come la ῾materia' postale, che nel 1769 fu regolata da una convenzione con Vienna, sia, infine, di problemi di "decoro", come la secolare controversia relativa alle "liste", vale a dire all'estensione delle zone ῾franche' o pretese tali nei pressi delle ambasciate a Venezia (1769-1772), una questione di estrema delicatezza in quanto diretto banco di prova della sovranità della Repubblica, oppure quella, in larga misura parallela, concernente le gondole degli ambasciatori (254).
Mentre sul fronte della politica "da terra", una politica che di fatto riguardava precipuamente l'Impero, Tron raggiunse in larga misura gli obbiettivi ai quali mirava, il mare agì invece da elemento, se non di destabilizzazione, quanto meno di notevole imbarazzo e complicazione soprattutto a causa dei Barbareschi e dei Russi. Nei primi anni '60 i savi alla mercanzia - tra i quali figuravano con un ruolo di punta, oltre ai "giovani" Alvise Valaresso e Gabriele Marcello, anche Gian Antonio da Riva - decisero che anche la Serenissima doveva seguire la strada indicata dalla Toscana e dagli altri Stati, che erano scesi a patti con le reggenze nordafricane, e intavolarono, nonostante l'opposizione di Antonio Diedo e di altri patrizi contrari ad abbandonare, soprattutto per motivi di prestigio, la lotta contro i corsari, delle trattative destinate a sfociare in intese con Algeri e Tunisi (1763), Tripoli (1764) e il Marocco (1765). Sia pure mediante l'esborso di somme notevoli (più di 1.200.000 ducati tra il 1761 e il febbraio del 1769) (255) e non senza il ricorso, quando la controparte non rispettava i patti, alla minaccia di adoperare le maniere forti (nel 1766 Giacomo Nani, tre anni più tardi il cugino Angelo Emo, guidarono con successo due azioni dimostrative contro, rispettivamente, Tripoli e Algeri), Venezia riuscì a rilanciare in misura significativa i propri commerci in tutto il Mediterraneo (e oltre: sempre più spesso le navi della Repubblica si affacciarono negli anni seguenti nell'Atlantico, raggiungendo Londra e perfino l'America) e quindi ad approfittare al meglio di una congiuntura internazionale favorevole, dopo la crisi degli anni '50, all'incremento dei traffici (256).
Se la politica nei confronti dei Barbareschi aveva permesso di ῾pacificare' in misura apprezzabile il Mediterraneo dei Veneziani, la guerra russo-turca (1768-1774) innescò o esasperò le tensioni del Levante, mettendo a nudo, tra l'altro, i limiti del controllo della Serenissima sul mondo ortodosso tanto slavo quanto greco, che era da secoli nella sua orbita politica. Nel 1768 la rivolta montenegrina di Stefano il Piccolo, un avventuriero che presentandosi quale Pietro III di Russia aveva sollevato le tribù locali contro gli Ottomani, costrinse la Repubblica ad inviare Giovanni Zusto quale provveditore estraordinario in Albania con il compito di impedire che l'incendio si estendesse ai Dominii veneziani. Due anni più tardi l'arrivo della flotta russa nel Mediterraneo accese una catena di focolai insurrezionali nelle isole Ionie, che soltanto l'intervento della flotta comandata da Angelo Emo riuscì a tenere a bada (257). Nell'estate-autunno del 1770 il nuovo scenario internazionale ispirò alcuni tentativi di far ritrovare alla Repubblica un ruolo attivo nell'Europa orientale. Paolo Renier propose che Venezia si legasse con rapporti ancora più stretti con Vienna, che diventasse, in una certa misura, il suo braccio navale nel Mediterraneo in funzione, in primo luogo, antirussa.
Renier trovò sulla sua strada Lorenzo Morosini, che invocò "l'assioma politico che allorché una potenza piccola diventa l'alleato di una grande, la piccola potenza diventa suddita e dipendente dall'altra", e soprattutto Tron, che non voleva "impegni" di sorta nel timore che la Repubblica diventasse una pedina di un gioco impossibile da controllare (258). Morosini e, pare, lo stesso Renier, che trovarono l'appoggio, tra gli altri, di Sebastiano Foscarini e di Antonio Diedo, costituirono, a detta dell'ambasciatore imperiale a Venezia, un "partito greco", che cercò di promuovere, invano, stante l'ostilità di Tron, degli accordi politici e commerciali con la Russia (259). La crisi mediterranea costrinse in ogni caso il governo della Serenissima a tentare di mettere a punto, tramite una deputazione straordinaria al militar costituita sul modello di quella ad pias causas, quella che si può pomposamente definire la macchina da guerra della Repubblica. Nonostante l'approvazione del senato il piano Graeme era rimasto lettera morta, in quanto, dopo aver atteso per sei anni il via libera da parte dei deputati ed aggiunti alla provvision del denaro, quando l'aveva ottenuto su istanza di Tron nell'estate del 1766, era stato nuovamente rinviato dal senato al generale con la richiesta che lo modificasse in modo da poterne abbattere i costi (260).
Pochi mesi più tardi Graeme era morto e neppure il suo successore, il generale tedesco Cari von Würzburg, era stato in grado, anche a causa della sua scomparsa nel 1769, dopo appena un anno di servizio nell'esercito marciano, di impostare una riforma. Non che in quegli anni fossero mancati i provvedimenti di rilievo (nel 1764-1765 era stato dato un nuovo assetto al Collegio militare di Verona, che l'aveva trasformato, grazie anche al contributo di Anton Mario Lorgna, in una delle migliori accademie militari europee; nel 1768 erano stati assegnati ai corpi di artiglieria e del genio due sopraintendenti generali straordinari, i colonnelli britannici James Pattison e Matthew Dixon, che avrebbero attuato nel 1770-1771 una riorganizzazione di entrambi i corpi), ma i piani globali erano stati ritenuti intempestivi. Così nel 1770 Tron fu messo in minoranza, quando tentò di approfittare delle preoccupazioni innescate dagli sviluppi della guerra russo-turca per far approvare dal senato la nomina a comandante in capo dell'esercito di Georg Ludwig von der Schulenburg, un generale che portava un cognome che a Venezia costituiva una garanzia e che per di più era raccomandato dall'Inghilterra, il paese al quale si rivolgeva sempre più spesso la Repubblica per avere, oltre che dei militari, anche degli esperti tecnici navali (261). Dopo quest'ultimo sfortunato intervento riformatore di Tron le forze armate della Repubblica rimasero affidate a generali ῾nazionali' privi di una qualsiasi esperienza bellica e a patrizi attenti più ai risparmi che alla trasformazione dell'esercito e della flotta in strumenti mediamente affidabili in caso di guerra.
Divisi in politica estera tra i ῾movimentisti', tipo Morosini e Renier, che non si erano rassegnati al basso profilo della Repubblica sulla scena internazionale, e i neutralisti ῾flemmatici' alla Tron e anche per questo motivo incapaci di promuovere una valida riforma militare, i patrizi ῾progressisti' fecero invece più facilmente blocco sul terreno giurisdizionale, imprimendo ai rapporti tra Stato e Chiesa una svolta ritenuta esemplare nell'Italia anticuriale (262). Fin dall'indomani della revoca del decreto del 7 settembre 1754 Gian Antonio da Riva si era appoggiato a Montegnacco e a Franceschi per preparare il terreno ad un rilancio del moto riformatore in campo ecclesiastico. Il dibattito pro e soprattutto contro i gesuiti aveva creato a cavallo tra gli anni '50 e '60 un'opinione favorevole all'adozione di provvedimenti a danno degli ordini religiosi. Dall'Europa cattolica continuavano ad arrivare notizie sempre più allarmanti per i gesuiti e per lo stesso papa. Così Morosini ebbe buon gioco sia quando fece da sponda nella consulta e in senato alle iniziative di Riva, mettendo in moto con il decreto del 13 dicembre 1764 un processo, che avrebbe condotto nell'arco di un paio d'anni dalle rilevazioni statistiche alle riforme strutturali, sia quando ottenne che fosse di fatto assegnata ad un revisore nominato dal governo la censura ecclesiastica sulle stampe (263).
In un primo tempo Tron aveva considerato con un certo distacco i tentativi di rimettere in discussione gli insoddisfacenti equilibri che era stato costretto a subire nel 1758. Il paron assunse la direzione del movimento anticlericale, assicurandone il successo anche nel medio periodo, quando probabilmente intravide i molteplici vantaggi indotti dalle riforme ecclesiastiche e in particolare dalla lotta contro la manomorta, non ultimo dei quali il favore riscosso dalle iniziative veneziane presso gli Stati, dalle potenze borboniche a quelle asburgiche, impegnati in progetti analoghi. Forse Tron si convinse che era possibile utilizzare il collante giurisdizionalista quale mastice di uno schieramento trasversale rispetto alle divisioni e contrapposizioni ideologiche e sociali del patriziato messe in luce dalla crisi del 1761-1762: anche quei "signori delle quarantie", che avevano dato negli anni precedenti parecchio filo da torcere all'establishment, erano ad esempio "disposti" - stando a quanto riferiva Montegnacco a Franceschi nel luglio del 1767, quando il paron stava preparando, alla luce della scrittura della deputazione ad pias causas del 12 giugno, il decreto, che il senato avrebbe approvato il successivo 10 settembre - "a dar mano valida a regolamenti solidi" (264).
Il trasferimento delle ricchezze fondiarie dalla Chiesa allo Stato e da questo ai privati non solo poteva consentire di rimpinguare - si sperava in misura significativa, dopo aver calcolato, probabilmente con una certa generosità, che le entrate della Chiesa nei Dominii di San Marco, entrate che si sarebbe cercato comunque di minorare triplicando, tra l'altro, tra il 1765 e il 1775 le decime del clero, erano pari a quelle dello Stato - una cassa pubblica ritornata ultimamente in notevole difficoltà (soprattutto a causa del sostanziale fallimento di una troppo spregiudicata manovra di conversione del debito statale tentata nel 1766) (265), non solo offriva alle case abbienti dell'aristocrazia lagunare l'opportunità di convertire i titoli di Stato svalutati, che esse detenevano in abbondanza, in proprietà terriere (il 30% degli oltre undicimila ettari alienati fu acquistato dai nobili della Dominante, mentre a quelli sudditi ne toccò il 16%), ma permetteva anche di coinvolgere in misura significativa in un progetto ῾nazionale' i ceti possidenti della Terraferma e metteva in circolazione somme ingenti.
Una deputazione ad pias causas o, più esattamente, un magistrato di "tre deputati estraordinari alla vendita de' beni ad pias causas aggiunti al collegio dei X savi sopra le decime in Rialto" era stato istituito nel 1739, ma aveva avuto vita breve (266). Nell'aprile del 1766 la deputazione fu ripristinata e affidata allo stesso da Riva, ad Alvise Valaresso e ad Andrea Querini, mentre due anni più tardi Alessandro Duodo fu scelto quale aggiunto ai provveditori sopra i monasteri con il compito di applicare la rigorosa riforma dei conventi prevista dal decreto fondamentale del 7 settembre - una data con tutta probabilità scelta non a caso da Tron, all'epoca savio di settimana - 1768. Il ῾partito' giurisdizionalista promosse una riforma tanto del clero regolare (l'età della professione di fede fu innalzata a venticinque anni, ecc.) quanto dei beni dei conventi (fu espropriato un sesto dei terreni detenuti dagli enti religiosi): ne derivò nell'arco di un paio di decenni una radicale diminuzione di frati e monaci (267). La vendita dei beni immobili della Chiesa, mentre alimentò una cassa "civanzi", alla quale il governo attingerà per realizzare alcune importanti riforme scolastiche, si inserì anche, per un altro verso, in un processo di valorizzazione delle campagne della Terraferma avviato nel 1761, quando i riformatori dello Studio di Padova avevano deciso di istituire una cattedra di agricoltura presso l'Università di Padova.
In alternativa all'impraticabile progetto politico di Scipione Maffei, fu spesso battuta in quegli anni, soprattutto, ma non solo, sul fronte delle campagne, la strada di una maggiore integrazione economica e istituzionale tra la Dominante e la Terraferma, si puntò, in una qualche misura, alla formazione di uno stato-società ῾nazionale', un obbiettivo che per alcuni intellettuali più o meno organici alla "Retrona" (Francesco Griselini, il fondatore, nel 1764, del "Giornale d'Italia spettante alla Scienza Naturale e principalmente all'Agricoltura, alle Arti, ed al Commercio", il primo importante periodico veneziano specializzato in campo economico, e soprattutto il "riformatore e ribelle" Giovanni Scottoni) comportava, quanto all'agricoltura, il coinvolgimento sia della possidenza rurale delle province suddite, che avrebbe trovato dei centri di aggregazione nelle accademie agrarie promosse dal governo in tutto lo Stato a partire dal 1768, che degli stessi contadini, ai quali Scottoni e pochi altri riformatori radicali volevano assicurare "affittanze più sicure e più diuturne" in quanto convinti che, "quando i lavori e le attenzioni dei contadini non hanno avuto per premio la loro quiete, l'arte di coltivare le terre e le piante non si è mai perfezionata".
Scottoni per di più doveva sostenere la necessità di combattere l'"anarchia agraria" mediante l'adozione di "leggi" e tramite "un preside supremo che le difenda a norma di un piano universale", si pronunciava, cioè, a favore di un dispotismo illuminato applicato alle campagne, che tuttavia recepiva nello stesso tempo le istanze liberiste dei fisiocrati. Il "piano universale" richiedeva in ogni caso il rafforzamento dei poteri dei deputati e del sopraintendente generale all'agricoltura, rispettivamente la carica politica (erano stati destinati a sostenere il nuovo magistrato due senatori scelti tra i provveditori ai beni inculti) e quella tecnico-scientifica (a ricoprire l'incarico di sopraintendente era stato chiamato, su interessamento di Tron, Giovanni Arduino, uno dei maggiori scienziati della Repubblica) (268) istituite dal senato tra il 1768 e il 1769 proprio allo scopo di ῾dirigere' "l'arte primaria e la madre di tutte le altre", ma che, dopo una serie di successi iniziali, si erano adagiate in quegli anni in una poco incisiva routine (269).
Mentre Scottoni denunciava l'"anarchia agraria", alcuni anni prima i savi alla mercanzia avevano puntato il dito contro un'analoga anarchia commerciale: "gli uomini che [a Venezia] esercitano [il commercio], disuniti fra loro e spogli di spirito nazionale, vanno per la maggior parte per consuetudine languidamente esercitando ciascuno nelle solite rispettive lor linee, mai prestando studio per ingrandirle, e soggiaciono per il contrario a tutti li mali effetti delle vicende che nella loro inazione il tempo per l'altrui vigilanza vi oppone" (270). La soluzione, che i savi alla mercanzia avevano indicato al senato, era stata quella di istituire una camera di commercio, "di unificare in un corpo permanente la rappresentanza dei circoli mercantili, dispersa in una molteplicità di organi settoriali e impossibilitata a far sentire la propria voce se non in modo occasionale ed extra-istituzionale". Il progetto della camera di commercio era stato approvato nel 1764, ma la sua esecuzione si era incagliata a causa delle "eccezioni di legittimità in relazione alla nomina di alcuni membri, cittadini veneti di origine straniera" e, più in generale, della resistenza di alcune rappresentanze settoriali. Infine nel 1768 il senato aveva annullato i precedenti decreti, dimostrando che, "quando si arrivava a toccare il punto della rappresentanza, sia pure non direttamente politica, dei nuovi ceti economico-sociali, scattava nel vecchio ceto dominante un riflesso condizionato, che riusciva a saldare il fronte conservatore nel rifiuto di ogni riforma" (271).
Una considerazione, questa di Massimo Costantini, che illumina anche altri fallimenti, in particolare quello del tentativo di Andrea Memmo di smantellare il sistema corporativo veneziano, una riforma sostenuta da Francesco Pesaro, Gabriele Marcello e Sebastiano Foscarini, ma avversata, oltre che dai reazionari a ventiquattro carati come Alessandro Priuli, nemici della "libertà licenziosa" e di una politica che "sciolga corpi, proponga novità di sistemi, distrugga il fatto e l'opera de' secoli", anche da Lorenzo Morosini e dallo stesso Tron, entrambi contrari ad "un totale scioglimento del corpo mercantile e delle relative arti manufattrici". Nonostante che avesse appreso la lezione del 1768 e quindi prudentemente moderasse la spinta liberista alla luce della "connessione esistente fra la struttura della ῾veneta aristocrazia' e quella tradizionale dei corpi, quasi ῾piccole repubbliche'", su cui aveva insistito Priuli (272), Memmo vide naufragare, tra il 1772 e il 1773, il suo progetto o, meglio, la vittoria che riportò sul piano istituzionale, la nascita di una deputazione estraordinaria alle Arti sul modello di quella ad pias causas, non ebbe che un modestissimo impatto effettuale, dal momento che riuscì a sciogliere soltanto due corporazioni marginali e per di più una di esse in misura parziale.
Il dirigismo di Tron e quello, meno intransigente, di Morosini, in entrambi un riflesso più delle inclinazioni "dispotiche" che della fedeltà alla tradizione mercantilistica veneziana, quanto meno ostacolarono, se non bloccarono del tutto, come abbiamo visto, le altre due linee - a prima vista divaricate, se non contrapposte, in effetti, come indicano i casi di Scottoni e di Gabriele Marcello, variamente intrecciate, quando non solidali - sviluppatesi all'ombra del riformismo giurisdizionalista: da un lato l'asse liberista e per un certo verso ῾liberale', nel senso cioè che tendeva a stimolare le aggregazioni ῾dal basso' e puntava a far riposare il dominio del patriziato lagunare su un più ampio consenso sociale cementato, oltre che dalle "leggi", anche e soprattutto dall'"interesse" (273); dall'altro la linea dei "piani universali", delle riforme dell'amministrazione dello Stato, dell'economia e della società ispirate a prospettive ῾nazionali', ad una visione dei problemi, che tendeva a ridimensionare lo scarto tra la Dominante e le province suddite.
Le misure di liberalizzazione dell'economia, che pure non mancarono, incontrarono sempre ostacoli e limitazioni. Così nel 1769 furono tolti i vincoli, che pesavano sul commercio dei grani, ma non nel caso della Dominante e comunque sei anni dopo furono ripristinati. Dopo che nel 1767 Gabriele Marcello aveva presentato delle vigorose scritture di impostazione liberista sulle manifatture e i commerci, indicando tra l'altro la necessità di rivedere i privilegi concessi alla Dominante, nel 1771 fu decretata una liberalizzazione del commercio della lana, che tuttavia risparmiò Padova, la città maggiormente interessata a tale settore industriale. Quanto ai progetti ῾liberali', essi furono insabbiati - come accadde nel caso della camera di commercio - o stravolti. Rientra in quest'ultima classe il piano di sviluppo dell'agricoltura presentato nell'agosto 1768 da Pietro Arduino, un fratello di Giovanni che occupava la cattedra di agricoltura pratica all'Università di Padova. Alla luce dei modelli offerti dalla Société œconomique di Berna e dalla Società di agricoltura pratica di Udine, un'iniziativa ῾privata' decollata tre anni prima, Arduino proponeva che fosse costituita una rete di accademie rurali, al centro della quale poneva se stesso quale consulente scientifico ed editore delle memorie presentate dalle società economiche.
L'istituzione dei deputati all'agricoltura trasformò in una certa misura le accademie agrarie in organi periferici, "pubblici", del governo marciano, il che senza dubbio ne rese possibile lo sviluppo e prima ancora in molti casi la nascita, ma anche ne limitò l'autonomia. Nello stesso tempo i deputati non ebbero né le competenze, né l'autorevolezza necessarie per realizzare quel "piano universale" di direzione del settore primario dell'economia auspicato da Scottoni: le iniziative più avanzate delle accademie trovarono quindi più un freno che un volano a Venezia (274). Non furono raccolti, se non sul terreno delle riforme ecclesiastiche, i frutti, che si potevano ricavare da quelle indagini statistiche ῾nazionali', che s'infittirono nei primi anni '60 e culminarono nel 1768 con la redazione delle prime anagrafi generali (275), uno strumento indispensabile in vista della gestione di quella che Francesco Donà chiamava "industria cultrice, lavoratrice, commerziante". Parallelamente non andò in porto la riforma dei rendiconti finanziari avviata nel 1769, quando fu disposta la formazione di un "bilancio ragionato sopra la natura e quantità delle rendite e delle spese", anche se si ottenne comunque il risultato di rendere più affidabili o, meglio, meno inattendibili i bilanci generali (276).
L'occasione ῾nazionale' più importante lasciata cadere dal movimento riformatore fu in ogni caso l'inchiesta condotta in Terraferma dai sindaci e inquisitori Alvise Emo (era stato anche colui che l'aveva proposta nel 1769 e fatta approvare dal senato nonostante la recisa opposizione di Andrea Tron), Girolamo Grimani e Marino Garzoni. La relazione, che presentarono, dopo "due anni e mezzo" di "studi", il 23 novembre 1772, non solo era la punta dell'iceberg di un'imponente massa documentaria (277), ma raccoglieva anche qualche spunto, almeno nel lessico, alla Scottoni (ad esempio, Fabio Asquini, uno dei fondatori, con Antonio Zanon, della Società di agricoltura pratica di Udine, era lodato in quanto "persona molto affezionata all'agricoltura e al bene nazionale", mentre i contadini erano presentati come quel "popolo laborioso e parco [che] forma la forza vera del Principato", un'affermazione che forse rispecchiava, oltre che le suggestioni della fisiocrazia ῾sociale', anche la tradizionale benevolenza dei patrizi veneziani nei confronti di villici, cui si continuava ad attribuire una salda fede "marchesca") e soprattutto insisteva su una politica delle acque in quanto molla principale di uno sviluppo economico ῾nazionale' in grado di favorire ad un tempo l'agricoltura, i traffici e l'industria: "il buon uso di esse [acque] fa cambiar faccia ai paesi, moltiplicando grani, legna, pascoli, animali, manifatture e commercio" (278).
Tron, che pure aveva inizialmente favorito, forse su incitamento del padre Nicolò, il movimento agronomico, facendo tra l'altro approvare dal senato il decreto del 10 settembre 1768, che avrebbe portato alla creazione di una rete di accademie agrarie e all'istituzione dei deputati all'agricoltura (279), non diede seguito ad una relazione, che tra l'altro conteneva duri attacchi agli appaltatori dei dazi, che egli proteggeva. Il paron preferì invece seguire, prima e dopo il 1772, una strada anch'essa, per un certo verso, ῾nazionale', la strada di un dirigismo xenofobo, che intendeva restituire al patriziato e, in subordine, ai ῾cittadini' veneziani un ruolo centrale nell'economia della Repubblica. Mentre il liberista Gabriele Marcello proclamava che "né assolutamente esservi può piazza ricca mercantile senza forastieri; e tanto più ella in sostanza è ricca, quanto più è fornita di mercanti di qualunque nazione" (280), Tron appoggiò invece i tentativi di ῾nazionalizzare' il commercio e le Arti di Venezia. Nel 1764 fu denunciato un trattato con i Grigioni concluso mezzo secolo prima con finalità soprattutto militari, ma che aveva anche permesso agli Svizzeri di occupare una posizione di rilievo in alcune corporazioni (tenevano aperte 245 botteghe nella sola Venezia): due anni più tardi fu adottato un provvedimento di "espurgo" (281). Nei primi anni '70 furono invece presi di mira gli Ebrei a causa del loro ruolo nel commercio dell'olio, ma l'ala liberista di Marcello, Sebastiano Foscarini, ecc. riuscì in questo caso a bloccare le manovre di Tron e degli altri ῾nazionalisti'.
Il partito delle riforme rivelò una maggiore compattezza e, di conseguenza, incisività nell'ambito scolastico-culturale. Morosini, Tron e Sebastiano Foscarini portarono a termine, tra il 1768 e il 1771, un significativo ammodernamento dell'Università di Padova (282). Nel 1773 i deputati all'agricoltura ottennero dal senato l'istituzione di un collegio di veterinaria a Padova, un altro importante provvedimento, dopo l'istituzione della cattedra di agricoltura pratica, a favore delle campagne della Terraferma (283). Ma i riformatori dello Studio di Padova non trascurarono affatto Venezia e, soprattutto, il suo patriziato: nel 1765 fu aperta una cattedra di istituzioni civili (284) e a partire dal 1770 si discusse, alla luce di una stimolante scrittura di Gasparo Gozzi, anche del problema di garantire ai patrizi studi di livello universitario a Padova (285). Nella stessa Dominante furono fondate a beneficio di tutte le classi sociali nel 1770 una scuola di ostetricia, un insegnamento che a Padova sarebbe stato introdotto quattro anni più tardi, e nel 1773 una scuola di chirurgia.
Se si esamina la cronologia delle riforme, appare manifesta una decisa flessione nel numero e nel rilievo delle iniziative negli anni successivi al 1773. La causa principale del fenomeno si deve riconoscere nella crisi del blocco di potere ῾progressista', a sua volta un prodotto del sempre maggiore allungamento della piramide patrizia. Il tentativo di utilizzare il clero regolare quale capro espiatorio delle tensioni interne alla nobiltà lagunare s'era risolto in un sostanziale fallimento. Dell'alienazione dei beni dei conventi avevano beneficiato, come era ovvio, soprattutto i "signori" e alcuni "benestanti" particolarmente intraprendenti come gli Erizzo San Martin, mentre i "meccanici" e i "plebei" erano rimasti a bocca asciutta. Nel 1774 il "partito degli innovatori", un'ala delle quarantie guidata dall'allora trentacinquenne Giorgio Pisani e da altri suoi coetanei, da Marco Zorzi a Matteo Dandolo, si staccò dal carro di Tron, che fu contemporaneamente preso di mira anche da quei ῾progressisti' appartenenti per lo più al patriziato medio, che accusavano il paron e i savi del consiglio a lui succubi di una gestione oligarchica del potere. "La causa immediata consistette nel ῾tentativo del Tron di richiamare alla Camera pubblica tutti i corrieri e le poste dello Stato'" in base al principio che "il diritto postale era tutto pubblico, che avrebbe dovuto essere inalienabile" e che "già era stato recuperato e sostenuto a beneficio proprio da quasi tutti i sovrani d'Europa" (286).
Contro il paron scoppiò nell'agosto del 1774 quella che egli stesso definì un'"insurrezione" (287). Si coalizzarono tutti i nemici del procuratore, dai barnaboti, che temevano che il mezzo milione di ducati necessario per riscattare il servizio postale inducesse il collegio a decurtare le "annue provvisioni che dà loro la Repubblica", agli "zelanti" scandalizzati dalle continue soppressioni dei conventi, dai partigiani di Pisani agli amici del "troppo repubblicano" Alvise Emo, nella scia del padre il maggiore esponente della corrente antioligarchica, e a coloro che rimproveravano a Tron una politica di acquiescenza all'Impero, ad una di quelle grandi potenze, che avevano dimostrato con la spartizione della Polonia di essere pronte ad approfittare di vicini troppo deboli. Fu varata una Correzione delle leggi: furono eletti quattro patrizi appartenenti a case "benestanti" e un ex barnaboto, Alvise Zen, che era stato collega di Angelo Querini quale avogador e il più abile avversario di Marco Foscarini nella Correzione del 1761-1762. Tra essi due ex savi del consiglio, Piero Barbarigo e Girolamo Zulian, l'ex savio di Terraferma Emo (la morte di Giovanni gli aveva praticamente troncato la carriera) e due membri delle quarantie, che però erano lontani dalle posizioni di Pisani, il grande sconfitto, insieme a Tron, nelle votazioni del maggior consiglio.
I correttori intervennero principalmente su tre fronti: cercarono di venire incontro alle rivendicazioni ῾salariali' delle quarantie e dei barnaboti; tentarono di dare una risposta alla crisi demografica del patriziato riaprendo, dopo un intervallo superiore al mezzo secolo, la porta delle aggregazioni; si proposero, infine, di frenare la politica accentratrice di Tron, ponendo dei vincoli ai poteri e all'attività del collegio dei savi. I risultati furono ben lontani dall'essere entusiasmanti, anzi si può parlare di un sostanziale scacco su tutta la linea. Tra il 1776 e il 1788 soltanto dieci delle quaranta ricche famiglie nobili suddite (erano condizioni che mettevano in evidenza più la chiusura del patriziato verso la ῾borghesia' veneziana che un desiderio di integrare i ceti dirigenti del Dominio) che in base alla legge del maggior consiglio potevano essere aggregate al patriziato lagunare nell'arco di un ventennio, chiesero di beneficiare del provvedimento (288). Un segnale evidente del declino delle capacità di attrazione della Dominante nei riguardi dell'aristocrazia della Terraferma (un fenomeno che tuttavia stupisce fino ad un certo punto, dal momento che nel corso dei quarantaquattro anni, che avevano visto rimanere aperto il Libro d'oro tra la metà del Seicento e il primo Settecento, soltanto venticinque famiglie nobili suddite avevano incrementato il corpo aristocratico lagunare) (289) e quindi dell'estrema difficoltà di raggiungere, percorrendo una strada che già Scipione Maffei aveva contestato, l'obbiettivo dello Stato ῾nazionale'.
Emo, il nemico dei "potenti", avrebbe voluto varare energiche misure antioligarchiche, ma il ῾partito' dei savi riuscì, grazie all'aiuto determinante di Barbarigo, nemico di Tron quanto alle questioni ecclesiastiche, ma solidale nella difesa delle prerogative del collegio, a limitare di molto i danni. Lo stesso Tron poté ritornare rapidamente in sella fin dalla fine del 1775 e riproporre, sia pure senza successo stante l'ostilità di Giorgio Pisani, il malfamato piano postale. Benché i correttori avessero aumentato il "sacchetto" dei quaranta e varato altre provvidenze a favore dei patrizi poveri, non erano comunque riusciti a tagliare l'erba sotto i piedi degli "innovatori", sempre più agguerriti nella loro lotta contro l'establishment. I "pisaneschi" si schierarono invano contro Tron in occasione del varo, nel 1777-1778, di una legislazione antiebraica (290), ma nel 1779, quando si aprì la competizione elettorale per la successione al doge Mocenigo, poterono prendersi una bella rivincita, facendo inclinare la bilancia a danno del paron e di un altro candidato delle grandi case e a vantaggio del "benestante" Paolo Renier. Infine nel 1780 gli "innovatori" riuscirono ad imporre un'altra Correzione nella speranza di riuscire a tradurre una buona volta sul piano politico l'accresciuto peso demografico del patriziato basso. L'ala radicale delle quarantie voleva creare un "nuovo governo", "togliere dalle mani de savi l'amministrazione" e "trasportare l'elezione di questi dal Senato al Maggior Consiglio", restituire cioè all'assemblea generale dell'aristocrazia quella centralità che le era riconosciuta soltanto a parole, mediante l'istituzione di una sorta di governo parlamentare.
Inoltre Pisani chiedeva una "legge agraria" che, nonostante l'enfasi rivoluzionaria, mirava unicamente a garantire una distribuzione di terre al patriziato più sfortunato allo scopo di permettergli di raggiungere uno status patrimoniale meno lontano da quello dei "signori". Contro questa duplice minaccia eversiva (come scrisse il segretario dei correttori Piero Franceschi, alla richiesta di "egualità civile" si affiancava quella dell'"eguaglianza de' beni") si costituì un nuovo blocco di potere, che arrivò ad abbracciare gran parte del patriziato medio-alto, ivi compresi alcuni "quirinisti" come lo stesso doge Renier, che svolse un ruolo di rilievo nel corso della crisi, Alvise Emo e Girolamo Ascanio Giustinian. Quest'ultimo fu eletto correttore insieme a Piero Barbarigo e a due membri di grandi case presenti in collegio, Zaccaria Valaresso e Alvise 2° Piero Contarini: dei candidati appoggiati dagli "innovatori" ῾rimase', nonostante che la recentissima elezione di Pisani a procuratore di San Marco avesse fatto sperare diversamente, soltanto il leader del movimento. In ogni caso poche settimane dopo l'elezione dei correttori gli inquisitori di Stato intervennero, arrestando Pisani e i suoi principali fiancheggiatori, spianando in questo modo la strada alla ῾reazione'. Una volta schiacciata l'idra ῾rivoluzionaria', la Correzione proseguì stancamente senza raggiungere alcun risultato di rilievo.
Le divisioni politiche e sociali tra i patrizi impedirono, come abbiamo visto, che in questi anni decollassero alcune riforme significative per l'amministrazione dello Stato come i piani postale e daziale (291) e la revisione dei bilanci generali. Ma il processo avviato a metà degli anni '60 non si arrestò del tutto. Anzi in due ambiti relativamente neutri, scolastico e navale, si registrarono indiscutibili progressi. La soppressione dell'ordine dei gesuiti non solo consentì la conversione dei loro collegi in scuole pubbliche, ma stimolò a Venezia anche una riforma delle scuole dei sestieri, che le trasformò da scuole di grammatica latina in moderne scuole elementari. Il fallimento del progetto di un collegio padovano per i patrizi indusse a riformare l'Accademia dei nobili alla Giudecca. Nel 1779 fu istituita a Padova un'Accademia di scienze, lettere ed arti, che doveva diventare, nelle intenzioni dei riformatori dello Studio, l'accademia "nazionale" dello Stato veneto (292). Salvo quest'ultimo, furono tutti provvedimenti venezianocentrici: le scuole dei sestieri non furono esportate fuori delle lagune, mentre quelle pubbliche ebbero a Padova e nelle altre città della Terraferma, dove furono istituite, uno sviluppo più limitato e comunque non si trasformarono, come accadrà invece a quelle veneziane nel corso degli anni '80, in un'istituzione parauniversitaria, che consentiva di iscriversi al terzo anno dei corsi di laurea padovani. E un carattere analogo ebbero i provvedimenti adottati nel 1775 a favore della marina militare e quelli di due anni più tardi, che portarono alla nascita di una scuola di architettura navale all'interno dell'Arsenale. Venezia tornava ad allontanarsi dalla Terraferma, avvitandosi politicamente su se stessa e guardando nuovamente più al mare che al ῾continente'.
La svolta del 1780 sgombrò la scena politica non solo dei "pisaneschi", ma anche di alcuni apparenti vincitori dello scontro, dallo stesso gruppo, che faceva capo a Tron (Francesco Donà, il pupillo del paron, fu escluso dal senato al suo ritorno dal rettorato di Verona) ad Alvise Emo, che si fece abate, e, più in generale, di un ῾partito' delle riforme indebolito dalla graduale scomparsa o emarginazione dei suoi maggiori esponenti. Alla ribalta rimasero Girolamo Ascanio Giustinian, un mediatore nato, Piero Barbarigo, che poté approfittare dei nuovi equilibri per attenuare la legislazione antiecclesiastica e promuovere delle scuole per il clero, e soprattutto Francesco Pesaro, di fatto il nuovo ῾uomo forte' dell'establishment, un sostenitore di una linea politica attiva in campo internazionale, ma conservatrice sul piano interno. Si consolidò così quella che il barnaboto illuminista Francesco Gritti chiamerà a posteriori un'"aristolidocrazia", un nucleo dirigente incapace di andare al di là di un progetto politico, che non fosse una gestione difensiva del potere e che doveva distinguersi per i suoi interventi repressori, di volta in volta contro i massoni (293) o i ῾vagabondi' (294). Si era disposti a concedere parecchio ai patrizi meno abbienti non solo perfezionando il welfare state ad essi riservato, ma anche assicurando loro spazi politici sempre più ampi: da un lato l'amministrazione del Dominio, esclusi i rettorati delle maggiori città suddite e pochi altri incarichi esterni, era ormai affidata ai quaranta e ai barnaboti, mentre dall'altra gli appartenenti alle case del ῾giro' dei consigli giudiziari stavano prendendo sempre più piede nel consiglio dei X e talvolta (era ad esempio il caso di Alessandro 1° Marcello e di Francesco Battagia) erano cooptati dallo stesso collegio dei savi.
Naturalmente i patrizi bassi non dovevano pretendere, come avevano fatto i "pisaneschi", l'abbandono del tradizionale sistema a base oligo-plutocratica. Ma, a sua volta, questo sistema girava sempre più a vuoto in un clima dominato da quello che Giacomo Nani bollava come un "generale disprezzo al pubblico servizio". "La maggior parte dei signori giovani e agiati", osservava intorno al 1784, "trovando che anche senza alcuna pubblica dignità la loro ambizione può restare soddisfatta, non cura li pubblici onori o, se li cura, non li pregia" (295). Chi rimaneva, nonostante tutto, sulla breccia, come fu il caso di Tron, che ancora un anno prima della morte ribadì in un notevole discorso al senato il suo programma riformatore imperniato su un patriziato commerciante e sulla condanna delle "ostinatissime guerre" del ῾passato' (in effetti l'anatema colpiva il conflitto, appena iniziato, con Tunisi) (296), trovò un qualche spazio soltanto nella misura in cui assecondò un processo ῾naturale', quello di una ristrutturazione delle Arti più importanti (stampa, setificio, lanificio) a beneficio dei mercanti-capitalisti.
Fu dopo la morte di Tron che si poté registrare, in parte anche a causa dell'influenza del liberista Francesco Battagia, una piccola estate di San Martino delle riforme economiche e, in una certa misura, finanziarie. Nel 1788 fu liberalizzato il commercio della lana, l'anno seguente quello dei bovini; nel 1794 fu infine varato, dopo un dibattito infinito, un piano daziario, che lasciava intravedere, mediante il ridimensionamento delle dogane interne, la creazione di uno spazio economico ῾nazionale'. Nello stesso tempo la Dominante conservò quasi tutti i suoi privilegi (si abolì tuttavia la decima verde, di cui beneficiavano i patrizi proprietari rurali, una misura per un certo verso pareggiata dal parziale svincolo dei beni fedecommessi, ai quali si intendessero apportare migliorie), il che spiega, in parte, la persistente vitalità del sistema economico veneziano sottolineata da Walter Panciera (297): è evidente, ad esempio, che la fabbrica di tabacchi fondata nel 1786 traeva la sua ragion d'essere dalla permanenza del sistema tradizionale degli appalti. Assai meno positivo il quadro finanziario tracciato da Andrea Zannini: la lenta discesa del debito pubblico incontrò sempre più ostacoli a causa delle spese di guerra e dell'assenza di interventi radicali sul bilancio.
La classe dirigente veneziana in questi anni guardò soprattutto all'indietro, verso un passato che si voleva conservare e tutt'al più razionalizzare nei suoi vari aspetti. Il codice della marina mercantile adottato nel 1786, che pure fu senza dubbio il prodotto più alto di questa tendenza (298), accoppiava, come ha sottolineato Massimo Costantini nella scia delle fondamentali ricerche di Giorgio Zordan, una "modernità giuridico-formale" ad un "intrinseco tradizionalismo dei contenuti", "una combinazione tra efficientismo e moderatismo che rifletteva fedelmente il clima politico dominante e scontava l'esaurimento di ogni pur cauto impulso riformatore" (299). Le riforme dello statuto civile e del codice penale furono riprese o avviate dopo la Correzione del 1780-1781 con l'istituzione di nuovi magistrati e di un valido staff tecnico, ma la compilazione delle leggi si risolse di fatto nella creazione di un grande archivio storico (300), un'operazione simile a quelle compiute da Giacomo Nani con la sua imponente raccolta Della milizia marittima e da Francesco Donà con il suo incompiuto codice diplomatico Corpus Venetiarum e con l'altrettanto incompiuta silloge di Rerum Venetarum Scriptores.
Non stupisce quindi che quando, nel 1792, uno studio del consigliere ducale Gian Alvise 2° Piero Mocenigo riaprì la discussione sulla necessità dell'"ampliamento del corpo aristocratico", si facesse strada ad opera di Giacomo Chiodo, il funzionario alla testa del progetto di riforma dello statuto civile, l'ipotesi di un'aggregazione limitata ai cittadini ῾originari' veneziani nella prospettiva - pare di intravedere - di una saldatura tra alta burocrazia e ceto patrizio sotto il segno di una Venezia centripeta (301). Certo, vi era anche chi guardava lontano, forse troppo lontano, dalle lagune: si accarezzava il sogno di approfittare della crisi dell'Impero ottomano per riconquistare la Morea (302), si allacciavano relazioni diplomatiche e mercantili con la Russia (303), soprattutto si combatteva, a tutela di un Mediterraneo veneziano in crisi dopo la fine di quella guerra d'indipendenza americana, che aveva consentito un rilancio in grande stile alla neutrale bandiera di San Marco, una lunga, costosa e logorante guerra contro Tunisi (1784-1792) senza riuscire ad imporsi sui Barbareschi (304). Ma erano orizzonti labili, quasi dei miraggi, che la devastante temperie di fine Settecento avrebbe fatto svanire insieme all'arcaica città-stato, che credeva in essi (305).
1. Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, XV, Milano 1819, p. 392. Questa introduzione non solo non raccoglie - come è scontato - l'invito di Sismondi a leggere la vicenda settecentesca di Venezia e della sua Repubblica come una sorta di non-storia, ma si propone anche di abbandonare i binari di una storiografia - si può dire da sempre - assai sbilanciata verso gli ultimi trenta-quarant'anni della Serenissima. Vuoi perché ossessionati dalla questione della caduta (cf. le opere ottocentesche di Girolamo Ascanio Molin, di Fabio Mutinelli e di Girolamo Dandolo), vuoi perché attenti soprattutto al problema dei rapporti tra la città-stato aristocratica, i suoi Dominii e i nessi illuminismo-riforme-rivoluzione (cf. in questi ultimi decenni i fondamentali studi di Massimo Petrocchi, di Marino Berengo, di Giovanni Tabacco, di Gianfranco Torcellan, di Gaetano Cozzi e di Franco Venturi, nonché in questo volume il saggio di Paolo Preto su Le riforme), gli storici hanno trascurato quella storia veneziana tra il 1718 e il 1758, alla quale si è invece deciso di riservare in questa sede, proprio perché la meno indagata e quindi priva di un'approfondita ricostruzione d'insieme, lo spazio più ampio.
2. Pierre Daru, Histoire de la République de Venise, V, Paris 18212, p. 218.
3. Ibid., pp. 218-219, 269 e 273.
4. Cf., tra gli altri, Massimo Canella, Appunti e spunti sulla storiografia veneziana dell'Ottocento, "Archivio Veneto", ser. V, 106, 1976, pp. 73-116 e John Lindon, Foscolo, Daru e la Storia di Venezia, "Revue des Etudes Italiennes", 21, 1981, nr. 1, pp. 8-39.
5. Giorgio Baffo, Poesie, Milano 1991, p. 382.
6. Cf. Stefania Bertelli, Il carnevale di Venezia nel Settecento, Roma 1992, p. 36.
7. Giovanni Rossi, Storia delle leggi e de' costumi veneziani, XI, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1396 (= 9287), c. 231.
8. Cf. il saggio di Gino Benzoni in questo volume e Id., La storiografia e l'erudizione storico-antiquaria. Gli storici municipali e Pensiero storico e storiografia civile, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, e 5/II, Il Settecento, Vicenza 1984 e 1986, pp. 75 (pp. 67-93) e 71-79 (pp. 71-95).
9. Cf. anche Piero Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 129-131 (pp. 123-145).
10. Cf. Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 289-292.
11. Piero Del Negro, Francesco Donà e Giambattista Verci, in Erudizione e storiografia nel Veneto di Giambattista Verci, a cura di Id., "Quaderno dell'Ateneo di Treviso", 1988, nr. 4, pp. 35-57.
12. Cf. Id., Vico nel discorso politico di un patrizio veneziano del Settecento, in Vico e Venezia, a cura di Cesare De Michelis-Gilberto Pizzamiglio, Firenze 1982, p. 192 (pp. 183-197).
13. Cf. Id., Francesco Donà, pp. 48-50.
14. Supplica dell'Abbate controscritto [Angelo Maria Barbaro] al Circospetto Davidde Marchesini segretario degl'Eccellentissimi Riformatori [dello Studio di Padova], in Venezia, Museo Correr, ms. Correr 348, c. 705.
15. Ennio Concina, Venezia nell'età moderna. Struttura e funzioni, Venezia 1989, p. 233.
16. Cf. P. Del Negro, Francesco Donà, p. 50 n. 56.
17. Cf., quale esempio del ritardo con cui fu recepita e teorizzata "la marche de la décadence" di Venezia, i giudizi sulla Repubblica offerti dal Recueil des instructions données aux ambassadeurs et ministres de France, XXVI, Venise, Paris 1958, pp. 159 ss.: mentre nella prima parte del secolo ci si limita a sottolineare che la Serenissima ha "si peu de part et d'influence dans les principales affaires de l'Europe" che la sua è una condizione marginale, a partire dal 1752 si pone, paradossalmente proprio dopo che Venezia aveva rivelato, nel corso della crisi di Aquileia, una certa vitalità, il problema della "ruine totale", dell'"annéantissement" dello Stato marciano.
18. Cf. in questo volume Walter Panciera.
19. Cf. in questo volume Massimo Costantini.
20. Cf. in questo volume il saggio di W. Panciera e, quanto ai censimenti e alle stime settecentesche della popolazione di Venezia, Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, p. 92.
21. Cf. Nicola Mancini, I teatri di Venezia, Milano 1974.
22. Cf. il saggio di Marino Zorzi in questa sede, e Mario Infelise, L'editoria veneziana nel '700, Milano 1989.
23. Cf. in questo volume il saggio già citato di M. Costantini.
24. E. Concina, Venezia nell'età moderna, pp. 186, 194, 221 e 224.
25. Cf. in questo volume il saggio di Salvatore Ciriacono. Ad esempio, i dati relativi al consumo di carne sembrano indicare una qualità della vita quanto meno pari, se non superiore, a quella di Parigi (cf. per quest'ultima città Fernand Braudel, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII), Torino 1977, p. 137).
26. E. Concina, Venezia nell'età moderna, p. 222.
27. Volker Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica 1646-1797. Demografia, famiglia, ménage, Roma 1997.
28. Cf. ibid., pp. 431 e 433, e il capitolo dello stesso Hunecke in questo volume; v. inoltre E. Concina, Venezia nell'età moderna, p. 198 su Venezia "città incline al consumo" e soprattutto le mappe relative alla distribuzione delle abitazioni a fitto basso raccolte nell'Atlante delle funzioni 1537-1740.
29. Cf. il saggio di Giuseppe Gullino sulle campagne in questo volume.
30. Voltaire [François-Marie Arouet de], Candide ou l'optimisme, cap. XXV. Che l'Idealtypus volterriano del patrizio lagunare non fosse molto lontano dalla realtà, sembra indicarlo quanto affermava nel 1732 un anonimo aristocratico veneziano: "della nobiltà si possono contare 60 e più case di facoltà dai 30 mila sino ai 100 mila ducati d'entrata", mentre "nei altri paesi vi saranno ad esempio 8 o 9 case dai 50 mila sino ai 150 mila, o 200 mila scudi" (a Venezia lo scudo valeva circa il 20% più del ducato valuta corrente), "ma alfine sono pochi" (cf. Bernardo Nani, Conversazioni istoriche, in Padova, Biblioteca Civica, C.M. 649.17, c. 26). Su Venezia "città dei piaseri" cf. in questo volume il saggio di Feliciano Benvenuti.
31. Nane e Momolo. Canzoneta, s.n.t. [Venezia 1797], p. 4.
32. Cf. in questo volume S. Ciriacono.
33. Cf. Susanna Grillo, Venezia le difese a mare. Profilo architettonico delle opere di difesa idraulica nei litorali di Venezia, Venezia 1989.
34. Cf. le lettere della deputazione del 13 settembre e del 2 ottobre 1779 al rappresentante veneziano di Padova in Padova, Archivio dell'Accademia patavina di scienze, lettere ed arti, b. 24, nrr. 1042 e 1045.
35. Cf. in questo volume i saggi di P. Preto e Michele Simonetto.
36. Giacomo Nani, Viaggio in Italia, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 396, c. 18.
37. Marco Foscarini, Della perfezione della Repubblica Veneziana. Discorso politico, in Id., Necessità della storia e Della perfezione della Repubblica Veneziana, a cura di Luisa Ricaldone, Milano 1983, pp. 111 e 207-208. Su M. Morosini cf. il giudizio assai positivo dell'ambasciatore di Francia a Venezia Pierre-François de Montaigu (ma frutto di informazioni raccolte dal segretario dell'ambasciatore Jean Jacques Rousseau): "personnage d'un grand esprit, d'un jugement droit, fin politique, et d'une expérience consommée. On le surnomme le Dictateur, parce que son sentiment est communement celui [qui] prévaut. Il est affable, doux, mais très ferme et ne cède pas" (memoria annessa al dispaccio del 9 settembre 1743 al ministro degli affari esteri Jean-Jacques Amelot de Chaillou, in Dépêches de Venise, in Jean-Jacques Rousseau, Oeuvres complètes, a cura di Bernard Gagnebin-Marcel Raymond, III, Paris 1964, p. 1077).
38. Vendramino Bianchi, Istorica relazione della pace di Posaroviz, Padova 1719, p. 4.
39. M. Foscarini, Della perfezione, pp. 113 e 207.
40. Piero Garzoni, ΒάσανοϚ cioè paragone usato [...] sù la Repubblica di Venezia per fare pruova della sua qualità, in Venezia, Biblioteca della Fondazione Querini-Stampalia, ms. cl. IV. 316, cc. 7v, 9v, 19-21v e 88.
41. Id., Diario del Senato [...] 1693 sino al 17[32], ivi, ms. cl. IV. 168 (= 424), c. 313v.
42. Id., ΒάσανοϚ, cc. 102-113.
43. Cf. Piero Del Negro, La retorica dei Savi. Politica e retorica nella Venezia di metà Settecento, in AA.VV., Retorica e politica, "Quaderni del Circolo Filologico-Linguistico Padovano", 1977, nr. 9, p. 125 (pp. 121-130).
44. Esame istorico politico di cento soggetti della Serenissima Repubblica di Venezia (1675), in Padova, Biblioteca Civica, C.M. 84.
45. Opinioni fondate sù l'esperienza, in Venezia, Biblioteca della Fondazione Querini-Stampalia, ms. cl. IV. 313 (= 1112), c. 1v.
46. V. Bianchi, Istorica relazione, p. 162.
47. P. Garzoni, ΒάσανοϚ, cc. 18v, 72-73, 86 e 88.
48. Id., Diario del Senato, cc. 314v-315.
49. Ibid., c. 533.
50. M. Foscarini, Della perfezione, p. 206.
51. Cf. Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, p. 358.
52. Era stato, tra l'altro, provveditore generale in Morea (cf. Gaetano Cozzi, La Repubblica di Venezia in Morea: un diritto per il nuovo regno (1687-1715), in AA.VV., L'età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, II, Napoli 1985, pp. 737-789), provveditore straordinario in Terraferma e provveditore generale in Dalmazia, distinguendosi sempre per le sue iniziative in campo amministrativo e militare (cf. Sebastiano Rumor, Storia breve degli Emo, Vicenza s.d., pp. 95-97).
53. Cf. Maria Pia Pedani Fabris, La dimora della pace. Considerazioni sulle capitolazioni tra i paesi islamici e l'Europa, Venezia 1996, pp. 40-41 e la bibliografia ivi citata, in modo particolare Giampiero Bellingeri, Un frammento di storia veneto-ottomana a Piacenza, "Bollettino Storico Piacentino", 90, 1995, nr. 2, pp. 247-280.
54. Cf. la lettera di Scipione Maffei a Bertoldo Pellegrini, Parigi 9 agosto 1733, in Scipione Maffei, Epistolario (1700-1755), a cura di Cesare Garibotto, I, Milano 1955, p. 650: "il povero Bailo Emo vien lacerato fieramente a Venezia, e credo del tutto a torto".
55. Cf. Alfredo Viggiano, Critica delle istituzioni e progetti politici. Giacomo Nani, le Isole Ionie e la Morea nel Settecento, in Levante veneziano. Aspetti di storia delle Isole Ionie al tempo della Serenissima, a cura di Massimo Costantini-Aliki Nikiforou, Roma 1996, pp. 123-147.
56. V. Bianchi, Istorica relazione, p. 162.
57. A.S.V., Senato, Militar, filza 6.
58. P. Garzoni, Diario del Senato, cc. 297v, 307v e 318.
59. Cf. Giuseppe Gullino, Le dottrine degli agronomi e i loro influssi sulla pratica agricola, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 394 n. 58 (pp. 379-410) e, per quel che riguarda i dispacci, A.S.V., Senato, Dispacci di Provveditori da terra e da mar, filze 283-285.
60. P. Garzoni, ΒάσανοϚ, c. 74v.
61. Cf. Giuseppe Gullino, L'anomala ambasceria inglese di Nicolò Tron (1714-1717) e l'introduzione della macchina a vapore in Italia, in AA.VV., Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Venezia 1993, pp. 185-207.
62. Cf. in questo volume Id., Venezia e le campagne.
63. Cf. P. Garzoni, Diario del Senato, cc. 305v-306, 319v e 320v.
64. Daniele Beltrami, La crisi della marina mercantile veneziana e i provvedimenti del 1736 per fronteggiarla, "Rivista Internazionale di Scienze Sociali", 50, 1942, p. 313 (pp. 304-318).
65. Manlio Brusatin, Venezia nel Settecento: stato, architettura, territorio, Torino 1980, p. 219.
66. Antonio Niero, Spiritualità dotta e popolare, in La Chiesa di Venezia nel Settecento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1993, pp. 127-129 (pp. 127-157).
67. Lettres de Monsieur l'abbé Conti noble vénitien à Madame de Caylus, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. fr. app. 58 (= 12102), c. 36 (lettera del 13 maggio 1727).
68. A. Niero, Spiritualità dotta, pp. 130-133.
69. Cf. in questo volume il saggio di S. Ciriacono.
70. A. Niero, Spiritualità dotta, pp. 138-139.
71. Xenio Toscani, La dinamica delle ordinazioni sacerdotali, in La Chiesa di Venezia nel Settecento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1993, pp. 159-186.
72. Montesquieu [Charles-Louis de Secondat de La Brède et De], Voyages, I, Bordeaux 1894, pp. 24 e 55.
73. Cf. Piero Del Negro, Benedetto Marcello patrizio veneziano, in Benedetto Marcello la sua opera e il suo tempo, a cura di Claudio Mandricardo-Franco Rossi, Firenze 1988, pp. 17-48.
74. Montesquieu, Voyages, pp. 23 e 61.
75. Cf. P. Garzoni, Diario del Senato, cc. 318 e 320.
76. Montesquieu, Voyages, pp. 21 e 38.
77. B. Nani, Conversazioni istoriche, cc. 13v e 42.
78. Nicolò Donà, Ragionamenti politici intorno al governo della repubblica di Vinegia, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 1586, c. 312.
79. Oliver T. Domzalski, Politische Karrieren und Machtverteilung im venezianischen Adel (1646-1797), Sigmaringen 1996.
80. Laura Megna, Nobiltà e povertà. Il problema del patriziato povero nella Venezia del '700, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 140, 1981-1982, pp. 335-336 (pp. 319-340).
81. P. Garzoni, ΒάσανοϚ, c. 102.
82. Cf. V. Hunecke, Il patriziato veneziano, p. 417.
83. Mentre dal 1646 al 1668 erano state ammesse dal e al maggior consiglio ottanta case (media annua: 3,3) e quaranta dal 1670 al 1704 (media: 1,1), tra il 1705 e il 1718 non era stata superata quota otto, vale a dire una media dello 0,6, un indice che segnala, a mio avviso, non tanto il graduale esaurimento del bacino economico-sociale, da cui la Repubblica poteva ῾pescare' i nuovi nobili, quanto il sempre più ridotto interesse per un'aggregazione giudicata troppo onerosa alla luce dello status che effettivamente garantiva. Cf. sulla nobiltà aggregata Roberto Sabbadini, L'acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia, Udine 1995.
84. P. Garzoni, ΒάσανοϚ, cc. 82 e 104.
85. Cf. Gianfranco Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca: Andrea Memmo. Ricerche sulla crisi dell'aristocrazia veneziana, Venezia-Roma 1963.
86. P. Garzoni, Diario del Senato, cc. 375, 378v, 379v e 381. Cf. Id., ΒάσανοϚ, c. 81v.
87. Ad esempio, pochi anni più tardi, nel 1730, i beni del ricco senatore Domenico Tiepolo SS. Apostoli furono assegnati, in forza del testamento del padre, al barnaboto Marc'Antonio Tiepolo S. Polo.
88. Montesquieu, Voyages, p. 21.
89. Cf. la Relazione [...] in cui si descrivono le ricchezze di tutte le Case Nobili di Venezia (1717-1718), in Jean Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris-La Haye 1978, pp. 480-485 (riguardo alla data della Relazione cf. Piero Del Negro, Il patriziato veneziano al calcolatore. Appunti in margine a "Venise au siècle des lumières" di Jean Georgelin, "Rivista Storica Italiana", 93, 1981, nr. 3, pp. 843-844 [pp. 838-848]), che valuta le rendite totali in oltre 3.200.000 ducati, una somma che, dal momento che l'autore dello scritto non registra alcune case certamente benestanti, deve essere incrementata di almeno un paio di centinaia di migliaia di ducati. Un'altra valutazione, più approssimativa e quindi meno affidabile, parla di sessanta case con entrate tra i 30 e i 100.000 ducati (cf. sopra la n. 30): in questo caso si possono ipotizzare per tutto il corpo aristocratico entrate complessive intorno ai 4.000.000 di ducati. Infine la redecima del 1740: le 335 case con rendite annue nette ricavate da proprietà immobiliari pari o superiori a 1.000 ducati totalizzavano quasi 2.000.000 di ducati (cf. Renzo Derosas, Aspetti economici della crisi del patriziato veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di Giovanni Luigi Fontana-Antonio Lazzarini, Roma-Bari 1992, p. 105), una cifra che, tenendo conto del tasso di infedeltà delle dichiarazioni fiscali e delle rendite mobiliari, probabilmente corrispondeva a circa 4.000.000 effettivi.
90. Montesquieu, Voyages, p. 22.
91. Ibid., p. 69.
92. Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, p. 465.
93. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 15.
94. Ibid., cc. 42 e 49v.
95. Ibid., cc. 27-28 e 58.
96. Ibid., c. 58.
97. Montesquieu, Voyages, pp. 22 e 45.
98. Cf. Sergio Perini, La neutralità della Repubblica veneta durante la guerra di successione polacca, "Archivio Veneto", ser. V, 124, 1993, p. 67 (pp. 67-107). Cf. anche Antonio Battistella, La guerra di successione polacca in Italia desunta da lettere private del tempo, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 74, 1914-1915, pp. 1407-1452.
99. Cf. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 61.
100. Cf. S. Perini, La neutralità della Repubblica veneta, pp. 69 e 86.
101. Cf. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 76. Un'opinione non dissimile era avanzata da Nicolò Donà, che considerava il procuratore Tiepolo "diseguale e pericoloso" (cf. N. Donà, Ragionamenti politici, c. 241).
102. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 91. Al 31 agosto di quell'anno la Terraferma era in effetti presidiata da 15.498 effettivi, tra i quali quasi 3.000 miliziani (cf. S. Perini, La neutralità della Repubblica veneta, p. 88). Il passaggio dallo stato di pace a quello di neutralità armata fu ῾risolto' attivando una parte delle cernide: le forze armate di terra furono portate - almeno sulla carta: si sa infatti che vi era uno scarto sensibile tra i soldati "figurativi" e quelli effettivi - da 19.000 (1733) a più di 24.000 uomini (1735) (ibid., pp. 78-83).
103. S. Perini, La neutralità della Repubblica veneta, p. 86.
104. Ibid., pp. 78-83.
105. Ibid., pp. 74-75. D'altra parte nell'estate del 1734 i rapporti tra Venezia e Roma erano ritornati difficili, nonostante la liquidazione della vertenza Canal, a causa di un forte eretto dai Pontifici presso Goro, sul confine fluviale tra i due Stati (cf. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 19753: VIII, p. 52).
106. F. Venturi, Settecento riformatore, I, pp. 277-278.
107. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 100v.
108. N. Donà, Ragionamenti politici, cc. 247, 304, 317 e 323-324.
109. Cf. la ducale del senato del 3 maggio 1738 in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, pp. 47-48.
110. Cf. Andrea Benzoni, La guerra russo-turca del 1736-1739 come fu vista dalla diplomazia veneziana a Costantinopoli, "Archivio Veneto", 13, 1933, pp. 186-202.
111. Giacomo Nani, Principi d'una amministrazione ordinata e tranquilla, in Padova, Biblioteca Civica, C.M. 125, c. 38.
112. M. Foscarini, Della perfezione, p. 207.
113. Cf., oltre al saggio di G. Benzoni in questo volume, F. Venturi, Settecento riformatore, I, pp. 279-281 e Erasmo Leso, Marco Foscarini. Nota introduttiva, in Dal Muratori al Cesarotti, XLIV, t. V, Politici ed economisti del primo Settecento, a cura di Raffaele Ajello et al., Milano-Napoli 1979, pp. 177-179 (pp. 169-202).
114. Cf. Piero Del Negro, Gasparo Cozzi e la politica veneziana, in Gasparo Cozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano, a cura di Ilaria Crotti-Ricciarda Ricorda, Padova 1989, p. 46 (pp. 45-63).
115. Cf., in questo volume, il saggio di chi scrive su La fine della Repubblica aristocratica, alla n. 1.
116. S. Maffei, Epistolario, p. 653.
117. Cit. in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, p. 50.
118. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 75.
119. Andrea Zannini, Il sistema di revisione contabile della Serenissima. Istituzioni, personale, procedure (secc. XVI-XVIII), Venezia 1994, pp. 156-157.
120. Sempre nel 1733 Renier presentò in veste di inquisitore alle pompe una relazione, in cui, dopo essersi apparentemente unito al coro dei laudatores temporis acti in chiave sciovinista ("gli uomini buoni, quelli rassegnati, deplorano la miseria di tanti operarii, piangono sempre che vedono la Merceria desolata, comprendono che l'oro esce dal nostro paese a felicitare l'altrui, e conoscono che l'ultimo avvanzo raccolto ne' secoli andati, felici tanto a questa città per l'affluenza e ricchezza del commercio, va precipitosamente a finire di consumarsi in benefizio degli esteri, che sono tutti nostri nemici"), faceva tuttavia presente che, prima degli altri, erano "quelli che governano la Repubblica" che "disprezza[vano] li nostri lavori" e che condizionavano con il loro cattivo esempio i sudditi, che "li guardano in tutte le azioni loro, e da essi imparano" - concludeva con ironia - "tante e tante cose buone" (cit. in Maria Carla Tincani, I colori del potere nella Venezia del Sei-Settecento, tesi di laurea, Università degli studi di Padova, a. a. 1988-1989, pp. 169-170).
121. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 60v (se è opportuno fare la tara, dal momento che Nani era nipote di Emo, riguardo all'"universale", non va tuttavia dimenticato che parecchi mesi prima della redazione della scrittura dei cinque savi uno degli interlocutori del giovane patrizio aveva denunciato che le gabelle sui beni di consumo erano troppo alte e aveva conseguentemente spezzato una lancia a favore del porto franco: ibid., c. 26v).
122. Va poi ricordato che nel 1718 era stato Renier che aveva convinto il senato ad opporsi alla proposta dei savi di diminuire le tariffe doganali (cf. P. Garzoni Diario del Senato. c. 306). Milita a favore dell'interpretazione qui suggerita il fatto che tra i cinque savi alla mercanzia firmatari della scrittura del 26 settembre 1733 sedesse Giacomo da Riva, che era - come scriveva Antonio Conti alla contessa di Caylus il 13 marzo 1727 - "l'ami intime de Monsieur Emo qui est beaufrère de notre oncle commun" (da Riva e Conti erano figli di due sorelle di Antonio Nani, padre di Bernardo e di Giacomo e cognato di Giovanni Emo): cf. Lettres de Monsieur l'abbé Conti, c. 23.
123. Sul decreto del senato del 21 luglio 1736 cf. in questo volume i saggi di W. Panciera e di M. Costantini.
124. Cf. J. Georgelin, Venise, pp. 76-78.
125. Cf., ad esempio, riguardo alla scuola di nautica che sarà istituita nel 1739, sempre nel quadro della politica di ritorno al mare che aveva ispirato la riforma del 1736, quanto scriveva Bernardo Nani nel 1732: "Antonio Nani fece assai perché fosse stabilita una scuola" ad imitazione di quelle esistenti in Francia e in Inghilterra, "ma nulla poté fare" (B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 12v).
126. Cf. Sergio Noto, Ultime vele veneziane verso Ponente. Prime ricerche sugli uomini d'affari al tramonto della Serenissima: i Perulli, in Maria Luisa Parolini - Sergio Noto - Francesco Vecchiato, Venezia e l'Europa. Soldati, mercanti e riformatori, a cura di Francesco Vecchiato, Verona 1994, pp. 238-239 (pp. 221-271).
127. Scipione Maffei, Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell'anno 1736, Venezia 1797: cf. sul "titolo fuorviante" di tale edizione, sull'intitolazione dei manoscritti dell'opera, che recano invece quello di Suggerimento accolto anche in questa sede, e sulla complessa questione filologica posta dalla tradizione manoscritta Paolo Ulvioni, Note per una nuova edizione del ῾Consiglio politico' di Scipione Maffei, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 301-308. Una sintesi del Suggerimento maffeiano in P. Del Negro, Proposte illuminate, pp. 135-137.
128. Cf. Piero Del Negro, Scipione Maffei e il patriziato veneziano, in AA.VV., Scipione Maffei nell'Europa del Settecento, in corso di stampa.
129. Su Emo e la "brutta vecchia" cf. Id., Politica come sapienza e politica come scienza negli scritti del giovane Giacomo Nani, "Quaderni di Retorica e Poetica", 2, 1986, pp. 155-162.
130. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 24v.
131. Cf. R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione, pp. 89-100.
132. B. Nani, Conversazioni istoriche, c. 15.
133. Cf. Laura Megna, Riflessi pubblici della crisi del patriziato veneziano nel XVIII secolo: il problema delle elezioni ai reggimenti, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 294-295 (pp. 253-299).
134. Su N. Donà e i Ragionamenti politici cf. la voce di chi scrive nel Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 786-789.
135. F. Venturi, Settecento riformatore, I, p. 59. Cf. sul conflitto la recente sintesi di Matthew Smith Anderson, The War of the Austrian Succession, 1740-1748, London-New York 1995.
136. F. Venturi, Settecento riformatore, I, p. 64.
137. Cf. A. Zannini, Il sistema di revisione, pp. 157-158.
138. Cf. Sergio Perini, Venezia e la guerra di successione austriaca, "Archivio Veneto", ser. V, 126, 1995, p. 43 n. 96 (pp. 21-61).
139. Cf. in questo volume il saggio di Andrea Zannini.
140. Cf. S. Perini, Venezia e la guerra di successione austriaca, p. 45.
141. Cf. in questo volume il saggio di A. Zannini.
142. Cf. S. Perini, Venezia e la guerra di successione austriaca, pp. 43-44 e, per quel che riguarda la distribuzione dei comandi e delle truppe in Terraferma, il piedilista datato Verona 1° marzo 1744 in A.S.V., Secreta, Archivio proprio Amadeo Svajer, b. 21.
143. F. Venturi, Settecento riformatore, I, p. 63.
144. Cf. S. Perini, Venezia e la guerra di successione austriaca, p. 22.
145. Cf. Francesco Gandino, Ambasceria di Marco Foscarini a Torino 1741-42, "Nuovo Archivio Veneto", 2, 1892, t 3, pt. II, pp. 432-433 (pp. 387-452).
146. Cit. in Lorenza Frascio, Girolamo Tartarotti e i letterati bresciani, in AA.VV., Girolamo Tartarotti (1706-1761) un intellettuale roveretano nella cultura europea del Settecento, "Atti della Accademia Roveretana degli Agiati", 246, 1997, p. 493 (pp. 459-515).
147. Cf. il profilo tracciato da A. Da Mosto, I dogi di Venezia, pp. 481-490.
148. Cf. il dispaccio del 2 novembre 1743 ad Amelot in Dépêches de Venise, p. 1069.
149. Ibid., pp. 1101, 1104 e 1133 (dispacci del 14 e 21 dicembre 1743 e del 7 febbraio 1744). Cf. anche la lettera di Tartarotti a Giammaria Mazzuchelli, Torino 16 dicembre 1741: "se si stringesse una soda lega, come si va sperando, tra questa Corona e la Repubblica di Venezia non ci dovrebbe essere timore degli spagnuoli in Italia" (citato in F. Venturi, Settecento riformatore, I, p. 284 n. 2).
150. F. Venturi, Settecento riformatore, I, pp. 282-284.
151. Cf. Dépêches de Venise (memoria annessa al dispaccio del 9 novembre 1743 e dispaccio del 18 gennaio 1744), pp. 1076 e 1119.
152. Cf. S. Perini, Venezia e la guerra di successione austriaca, pp. 32 e 37.
153. Cf. F. Gandino, Ambasceria di M. Foscarini, p. 435.
154. Cf. S. Perini, Venezia e la guerra di successione austriaca, pp. 36 e 41.
155. Cf. Dépêches de Venise, pp. 1144-1145.
156. Cit. in Giovanni Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Udine 19802, pp. 80, 84, 86, 88-89, 91, 201-203 e 207.
157. Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, I, pp. 283 e 285-288.
158. G. Nani, Principi d'una amministrazione, c. 38. Sulla questione d'Aquileia cf. soprattutto Girolamo de Renaldis, Memorie storiche dei tre ultimi secoli del Patriarcato d'Aquileia (1411-1751), Udine 1888 (riguardano in particolare gli anni 1748-1751 le pp. 517-543); Federico Seneca, La fine del patriarcato aquileiese (1748-1751), in Saggi di storia ecclesiastica veneta, a cura di Paolo Sambin-Federico Seneca, Venezia 1954, pp. 4-101; Id., Il cardinale Angelo Maria Querini e la sua difesa del patriarcato aquileiese, dal carteggio col patriarca Delfino, in AA.VV., Miscellanea queriniana, Brescia 1961, pp. 267-336; G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 24-28 e 97-105; Giuseppe Trebbi, La questione aquileiese, in Cultura Religione e Politica nell'età di Angelo Maria Querini, a cura di Gino Benzoni-Maurizio Pegrari, Brescia 1982, pp. 669-687; Piero Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato di Aquileia, in AA.VV., Carlo M. d'Attems primo arcivescovo di Gorizia 1752-1774, II, Atti del Convegno, Gorizia 1990, pp. 31-58 (una relazione che sarà in larga misura ripresa nelle prossime pagine).
159. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 31-33.
160. Cf. la frase di Tron raccolta da Daniele 1° Andrea Dolfin in una lettera scritta allo stesso Tron, Parigi 14 maggio 1781, in Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 903.
161. Bernardo Nani, Orazioni, ivi, ms. Cicogna 2111, c. 85.
162. Ibid., c. 20.
163. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, p. 34.
164. Ibid., pp. 35-40.
165. A. Querini al cardinale Angelo Maria Querini, Venezia 5 settembre 1750, cit. in Vittorina Barbon, Andrea Querini. Studio biografico, "Archivio Veneto", n. ser., 18, 1888, t. 36, pt. I, p. 28 (pp. 5-35).
166. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 1.
167. Cf. P. Del Negro, Politica come sapienza.
168. Cf. la recensione di chi scrive a Cultura Religione e Politica, "Rivista Storica Italiana", 96, 1984, pp. 253-265.
169. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, p. 41.
170. Cf. Antonella Barzazi, I consultori "in iure", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 179-199 (in particolare, per questa fase: pp. 192-195). Cf. anche Dionisio Tassini, La questione storico-giuridica del Patriarcato di Venezia (Aquileja), Genova 1906; Id., I Friulani (ignoti) "consultori in jure" della Repubblica di Venezia, I-III: I, Don Antonio di Montegnacco, Udine 1908; II, Frate Paolo Celotti, Tarcento 1909; III, Frate Enrico Fanzio, Udine 1910.
171. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 41-42.
172. Intervento di A. Emo del 20 settembre 1749, in Bernardo Nani, Patriarcato di Aquileia, overo raccolta di carte per esteso, parte in sommario circa il Patriarcato di Aquileia, e differenze con la Casa d'Austria, I-VII: III, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2016 (= 8804), c. 52.
173. Andrea Querini, Nella soppressione del Patriarcato d'Aquileia l'anno 1749, in Venezia, Museo Correr, ms. Correr 1094, c. 65.
174. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, p. 43.
175. Cf. in appendice a Emilio Morpurgo, Marco Foscarini e Venezia nel secolo XVIII, Firenze 1880, pp. 349-350.
176. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, p. 44.
177. Cf. Luisa Cozzi, La tradizione settecentesca dei "Pensieri" sarpiani, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 402-414 (pp. 393-448).
178. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 44-45.
179. Cf. B. Nani, Patriarcato di Aquileia, III, c. 546.
180. Cf. la Raccolta di scritture, decreti ed altre carte concernenti le operazioni per non pregiudicare il Po di Goro e la sua sacca fatta da Bernardo Nani, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 2218, fasc. 5.
181. Cf. Piero Gradenigo, Commemoriali, diario, et annotationi curiose occorse in Venetia, nelle città suddite, et altrove, in Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 67/I, c. 32 (in data 10 maggio 1749).
182. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 45-46.
183. Ibid., pp. 48-49.
184. B. Nani, Orazioni, cc. 90-104v.
185. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 49-50.
186. Ibid., p. 50.
187. Ibid., pp. 51-52.
188. Cf. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, p. 66 n. 52. Sulla questione della definizione degli interminabili confini tra i due Stati, che li avrebbe impegnati lungo una quindicina d'anni, cf. Ivone Cacciavillani, La confinazione veneziana con gli imperiali, Limena 1991.
189. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 52-53.
190. Ibid., p. 53.
191. A. Querini, Nella soppressione del Patriarcato, c. 68v.
192. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, p. 54.
193. Ibid., p. 55.
194. Cf. V. Barbon, Andrea Querini, p. 30.
195. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, pp. 56-57.
196. B. Nani, Orazioni, c. 92.
197. Cf. P. Del Negro, Venezia e la fine del patriarcato, p. 58.
198. Cf. A. Da Mosto, I dogi di Venezia, pp. 490-493.
199. Cf. in questo volume il saggio di V. Hunecke.
200. P. Gradenigo, Commemoriali, c. 76.
201. Cf. il saggio di G. Benzoni in questo volume e la voce di chi scrive su Foscarini, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 390-395.
202. Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, I, pp. 289-292.
203. E. Leso, Marco Foscarini, pp. 186-189.
204. F. Venturi, Settecento riformatore, I, p. 290 e Id., Utopia e riforma nell'illuminismo, Torino 1970, p. 47.
205. E. Leso, Marco Foscarini, p. 188.
206. F. Venturi, Utopia e riforma, p. 47.
207. P. Del Negro, Foscarini, Marco, pp. 394-395.
208. Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, I, p. 280.
209. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Padova 1752, pp. 324-325.
210. Cf. in questo volume il saggio di G. Benzoni, nonché Franco Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, 1761-1797, Torino 1990, pp. 3-14 e 164-171 e Francesco Dalla Colletta, I Principi di storia civile di Vettor Sandi. Diritto, istituzioni e storia nella Venezia di metà Settecento, Venezia 1995.
211. P. Del Negro, Proposte illuminate, p. 138.
212. F. Dalla Colletta, I Principi di storia civile, pp. 12-13.
213. Cf. in questo volume il saggio di G. Benzoni.
214. Cf. Piero Del Negro, Giacomo Nani. Appunti biografici, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 60, 1971 [1977], nr. 2, p. 119 e Id., La "poesia barona" di Giorgio Baffo "quarantiotto". Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento, "Comunità", 1982, nr. 184, pp. 334-335 (pp. 312-425).
215. Cf. in questo volume il saggio di M. Costantini.
216. Cf. in questo volume il saggio di W. Panciera.
217. Marco Foscarini, Memorie di alcune cose della mia vita, in Venezia, Biblioteca del Seminario patriarcale, ms.105, c. 3v.
218. Cf. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, pp. 60-61.
219. Cf. P. Del Negro, Giacomo Nani, p. 119.
220. Cf. la lunga lettera di Giacomo a Bernardo Nani, Corfù 3 marzo 1759, in Padova, Biblioteca Civica, C.M. 270.
221. Cf. Piero Del Negro, Alcune note su Gian Rinaldo Carli tra Padova e Venezia, in AA.VV., Un grande riformatore del '700. Gian Rinaldo Carli tra l'Istria, Venezia e l'Impero, "Acta Histriae", 5, 1997, pp. 135-156.
222. Cf. in questo volume il saggio di A. Zannini.
223. Cf., per quel che riguarda il dibattito veneziano, F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, pp. 443 ss.; in particolare su Carli Ugo Tucci, Teoria e pratica nelle idee monetarie di Gian Rinaldo Carli, in AA.VV., Un grande riformatore del '700. Gian Rinaldo Carli tra l'Istria, Venezia e l'Impero, "Acta Histriae", 5, 1997, pp. 11-24. Sulla scrittura di N. Donà sulle monete cf. P. Del Negro, Nicolò Donà, p. 789 (è ad essa che si riferisce probabilmente Andrea Tron nella lettera a Andrea Querini, Vienna 20 marzo 1751, cit. in G. Tabacco, Andrea Tron, p. 210), mentre quella di Vedoa, intitolata Lettere confidenziali ad un amico con riflessioni critiche sopra il libro intitolato ῾Delle monete' [...] (1752) si trova in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 864.
224. Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, p. 512.
225. Cf. P. Del Negro, La "poesia barona", p. 330.
226. Cf. R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione.
227. Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, p. 511.
228. Cf. P. Del Negro, La "poesia barona", pp. 338-339.
229. Ibid., pp. 330-332.
230. Cf. Anton Maria Bettanini, Benedetto XIV e la Repubblica di Venezia. Storia delle trattative diplomatiche per la difesa dei diritti giurisdizionali ecclesiastici. Decreto veneto 7 settembre 1754, Milano 1931; G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 122-130; Giuseppe Gullino, Sebastiano Foscarini e il decreto del Senato veneto 7 settembre 1754, "Archivio Veneto", ser. V, 92, 1971, pp. 51-74.
231. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 126.
232. Cf. A.M. Bettanini, Benedetto XIV e la Repubblica di Venezia, p. 67.
233. Questo giudizio era confidato a Giacomo Nani nel 1763: Niccolini, che conosceva bene Venezia, era convinto che il decreto del 1754 dovesse essere attribuito "alla finezza di Montegnacco", il quale non aveva avuto alcuna difficoltà a influenzare un "ragazzame", dei "giovani" che "perché non istudiavano erano in necessità di riportarsi alle opinioni altrui" (cf. G. Nani, Viaggio in Italia, c. 6v). Quanto al problema generale sollevato dal fiorentino, quello del ruolo determinante dei consiglieri del principe nella politica veneziana del secondo Settecento, non sembra che sia possibile aderire del tutto alla sua tesi: senza dubbio Montegnacco, così come Piero Franceschi, Gasparo Gozzi, Simone Stratico ed altri funzionari e consulenti del governo marciano diedero un contributo sempre notevole e talvolta decisivo, ma è anche vero che senza l'appoggio dei patrizi riformatori, che erano in grado di indurre il senato ad adottare provvedimenti in linea con le loro proposte, esse non avrebbero avuto alcun seguito.
234. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 130.
235. Cf., da una parte, la reazione entusiastica del "quarantiotto" e "spirito forte, libero" Baffo affidata al sonetto Roma no ga più azion de reclamar (G. Baffo, Poesie, pp. 210-211) e, dall'altra, l'"applauso grande" tributato dal senato alla scrittura di Sebastiano Foscarini (cf. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 122).
236. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 122-130.
237. A. Niero, Spiritualità dotta, p. 133.
238. Cf., riguardo alla svolta, i sonetti dedicati da Baffo a Clemente XIII (ad esempio, nel 1759: "con un fioretto da nasar / pretenderessi, caro cortesan, / le vostre obbligazion de soddisfar?"), in G. Baffo, Poesie, pp. 211-216.
239. Cf. Teresa Maria Marcellino, Una forte personalità del patriziato del Settecento, Paolo Renier, Trieste 1959.
240. Cf. Filippo Maria Paladini, ῾L'Illusione di supporre le Craine un Corpo Militare'. Esperienze di governo in una terra liminare del Dominio veneto, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1995-1996.
241. Cf. Piero Del Negro, Appunti sul patriziato veneziano, la cultura e la politica della ricerca scientifica nel secondo Settecento, in Giampiero Bozzolato - Piero Del Negro - Cecilia Ghetti, La Specola dell'Università di Padova, Brugine 1986, pp. 249-259 (pp. 247-294).
242. Relazione del regno di Francia nell'anno 1752 di Francesco II Lorenzo Morosini, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1864, p. 26.
243. Giacomo Nani, Della difesa di Venezia, a cura di Guerrino Filippi, Venezia 1997, pp. 11-12 e 22.
244. Cf. in particolare Calogero Farinella, Una scuola per tecnici del Settecento. Anton Mario Lorgna e il collegio militare di Verona, "Archivio Veneto", ser. V, 136, 1991, pp. 85-121 e Id., L'accademia repubblicana. La Società dei Quaranta e Anton Mario Lorgna, Milano 1993, pp. 30-57.
245. Cf. Andrea Duse, Aspetti delle strutture militari veneziane nel '700 e tentativi di riforma, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1995-1996, cc. 81-105.
246. Cf. in questo volume il saggio di P. Preto e quello di Giuseppe Gullino su Educazione, formazione, istruzione.
247. Sulla Correzione delle leggi del 1761-1762 cf. P. Del Negro, La "poesia barona", pp. 404-420 e F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, pp. 12-31.
248. Cf. L. Cozzi, La tradizione settecentesca.
249. Su A. Tron cf., oltre alla già citata monografia di Giovanni Tabacco, Gaetano Cozzi, Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel Settecento, in Sensibilità e razionalità nel Settecento, a cura di Vittore Branca, I, Firenze 1967, pp. 373-421.
250. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 132-133.
251. Cf. Massimo Petrocchi, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia 1950.
252. Cf. sopra la n. 13.
253. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 105.
254. Cf. gli studi di Pietro Rigobon e di Federico Seneca cit. da F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, p. 142.
255. Cf. Ristretto delle spese ordinarie e estraordinarie occorse per la pace africana, in Miscellanee economiche e politiche, I, in Venezia, Biblioteca della Fondazione Querini Stampalia, ms. cl. IV. 584 (= 725), c. 81.
256. Cf. in questo volume il saggio di M. Costantini.
257. Cf. Franco Venturi, Settecento riformatore, III, La prima crisi dell'Antico Regime, 1768-1776, Torino 1979, pp. 10-73.
258. Id., Settecento riformatore, V/2, pp. 142-143.
259. Cf. Federico Seneca, Francesco Lorenzo Morosini e un fallito progetto di accordo veneto-russo, "Archivio Veneto", ser. V, 71, 1962, pp. 19-47.
260. Sulla situazione militare veneziana a metà degli anni '60 cf. L'Italia del secondo Settecento nelle relazioni segrete di William Hamilton, Horace Mann e John Murray, a cura di Gigliola Pagano De Divitiis-Vincenzo Giura, Napoli 1997, pp. 377-523.
261 Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, III, pp. 48-49.
262. Cf. Id., Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774, Torino 1976, pp. 101-162.
263. Cf. in questo volume il saggio di M. Zorzi.
264. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 219.
265. Cf. in questo volume il saggio di A. Zannini.
266. Cf. A.S.V., Segretario alle voci, Elezioni dei Pregadi, reg. 23, c. 169v.
267. Cf. Renata Targhetta, Secolari e regolari nel Veneto prima e dopo la legislazione antiecclesiastica (1765-84), "Studi Veneziani", n. ser., 19, 1990, pp. 171-184.
268. Cf. Piero Del Negro, Giovanni Arduino e i Deputati all'agricoltura, in corso di stampa negli atti del convegno su G. Arduino (Verona, febbraio 1996).
269. Cf. Id., Una nota su Giovanni Scottovi e il "Giornale d'Italia", "Archivio Veneto", ser. V, 124, 1985, pp. 122-125 (pp. 115-129) e soprattutto F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, passim e in questo volume il saggio di G. Gullino sulle campagne.
270. Cf. la scrittura del 30 luglio 1763 sottoscritta, tra gli altri, da Gian Antonio da Riva e Gabriele Marcello, in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, pp. 102-103.
271. Cf. in questo volume il saggio di M. Costantini.
272. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 177-178 e 181.
273. Cf. in questo volume il mio saggio su La fine della Repubblica aristocratica.
274. Cf. Piero Del Negro, la politica di Venezia e le accademie di agricoltura, in La politica della scienza. Toscana e Stati italiani nel tardo Settecento, a cura di Giulio Barsanti-Vieri Becagli-Renato Pasta, Firenze 1996, pp. 451-489.
275. Cf. Giuliano Galletti, Nicolò Tron e l'uso del ῾calcolo aritmetico politico' nella Venezia di metà Settecento, "Studi Veneziani", n. ser., 16, 1988, pp. 261-296.
276. Cf. Angelo Ventura, Il problema storico dei bilanci generali della Repubblica Veneta, in Commissione per la pubblicazione dei documenti finanziari della Repubblica di Venezia, Bilanci generali, IV, Bilanci dal 1756 al 1783, a cura di Angelo Ventura, Padova 1972, pp. IX-CXXXVI.
277. Cf. i dispacci dei sindaci in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terraferma, filze 297-302.
278. Cf. la relazione dei sindaci in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, pp. 465-491.
279. Cf. P. Del Negro, Giovanni Arduino.
280. Scrittura del 1776 cit. in Francesco Vecchiato, L'Europa nel pensiero dei riformatori veneziani, in Maria Luisa Parolini-Sergio Noto-Francesco Vecchiato, Venezia e l'Europa. Soldati; mercanti e riformatori, a cura di Francesco Vecchiato, Verona 1994, p. 167 n. 7.
281. Cf. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VIII, pp. 103-106.
282. Cf. Piero Del Negro, L'Università, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Vicenza 1985, pp. 71-73 (pp. 47-76).
283. Cf. Alba Veggetti-Bruno Cozzi, La scuola di medicina veterinaria dell'Università di Padova, Trieste 1996.
284. Cf. Ernesto Garino, Il diritto civile, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 154 (pp. 147-162).
285. Cf. in questo volume il saggio di G. Gullino su Educazione, formazione, istruzione.
286. Cf. F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, p. 174. Sulle correzioni delle leggi del 1774-1775 e del 1780-1781, ibid., pp. 174-190 e 198-220 e Gaetano Cozzi, Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 372-383; cf. anche sulla Correzione del 1774-1775 A. Ventura, Il problema storico, pp. LXXIX-LXXXV e Piero Del Negro, Tra politica e cultura: Girolamo Zulian, Simone Stratico e la pianta di Padova di Giovanni Valle, "Archivio Veneto", ser. V, 132, 1989, pp. 111-113 (pp. 97-128).
287. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 114.
288. Cf. V. Hunecke, Il patriziato veneziano, pp. 17-19 e 46-47.
289. Cf. R. Sabbadini, L'acquisto della tradizione, p. 33.
290. Cf. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 185-190.
291. Cf. Paolo Ulvioni, Politica e riforme a Venezia nel secondo Settecento. Il "piano daziale", in AA.VV., Profili di storia veneta sec. XVIII-XX, Venezia 1985, pp. 65-94.
292. Cf. in questo volume il contributo di G. Gullino su Educazione, formazione, istruzione.
293. Cf. Renata Targhetta, La massoneria veneta dalle origini alla chiusura delle logge (1729-1785), Udine 1988.
294. Cf. Francesca Meneghetti Casarin, I vagabondi la società e lo Stato nella Repubblica veneta alla fine del '700, Roma 1984.
295. Cf. Piero Del Negro, La distribuzione del potere all'interno del patriziato veneziano del Settecento, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine 1984, p. 327 (pp. 311-337).
296. Cf. Andrea Tron, "Serenissimo Principe...". Il discorso del 29 maggio 1784, davanti al Senato della Serenissima, come testamento morale dell'aristocrazia veneziana, a cura di Paolo Gaspari, Udine 1994.
297. Cf. in questo volume il saggio di W. Panciera.
298. Cf. G. Cozzi, Fortuna, o sfortuna, pp. 370-372.
299. Cf. in questo volume il saggio di M. Costantini.
300. Cf. in questo volume il saggio di M. Simonetto.
301. Giacomo Chiodo, Per aggregazione alla Nobiltà Veneta (22 febbraio 1794), una relazione presentata a Girolamo Ascanio Molin, il protagonista di questo tentativo riformatore, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2818.
302. Cf. A. Viggiano, Critica delle istituzioni, pp. 123-147.
303. Cf. Dispacci da Pietroburgo di Ferigo Foscari, a cura di Gianni Penzo Doria, Venezia 1993.
304. Cf. Roberta Penso, L'esercito veneziano del '700 nelle memorie del capitano Antonio Paravia, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1995-1996.
305. Cf. in questo volume il saggio di chi scrive su La fine della Repubblica aristocratica, in cui questo tema è ripreso e sviluppato.