L'ultimo Agostino: la grazia, il potere e le due citta
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Di fronte a un mondo che sembra crollare, il vescovo Agostino cerca di proporre il cristianesimo come unica forza, morale e politica, in grado di raccogliere l’eredità dell’impero romano. Nel corso della sua vita e della sua formazione culturale, il pensatore nordafricano ha saputo accogliere l’insegnamento della cultura classica, per inserirlo in una concezione nuova del mondo e dei rapporti tra uomo e Dio. Negli ultimi anni della sua esistenza, la riflessione di Agostino, animata da dubbi, conversioni, costante dinamismo, si trasforma in assunzione di responsabilità pratiche e politiche.
Immaginare il passato è impossibile. Manca ogni riferimento di carattere sensibile, ogni comprensione delle aspettative, delle speranze e delle paure che accompagnano un qualunque avvenimento della nostra vita e quindi anche della storia. È più facile capirlo che immaginarlo; dare giudizi di tipo intellettuale, costruire teorie che tentino di fornire un senso al succedersi dei fatti è più semplice rispetto a qualunque tentativo di costruire immagini, di provare sensazioni, di pensare ciò che pensarono uomini lontani nel tempo.
Il 24 agosto del 410 non c’erano mezzi di comunicazione che informassero il mondo di quanto stava accadendo a Roma. La città che per il mondo classico si identificava con la storia, la civiltà, la cultura era violata e saccheggiata da guerrieri provenienti da nord, che il potere e la forza di Roma non erano riusciti a fermare. Non sappiamo quanto tempo fu necessario perché la notizia giungesse in ogni luogo dell’impero, ma l’effetto fu senza dubbio devastante. Se si confrontassero i numeri degli invasori, dei combattenti, dei morti, si avrebbe l’impressione di un fatto di piccole dimensioni rispetto alle tragedie della nostra epoca. Eppure l’effetto dovette essere tremendo e forse incommensurabile, rispetto a qualunque nostra immaginazione.
L’11 settembre del 2001 i morti sono stati certamente di più, l’eco nel mondo è stata certamente più immediata e diffusa, le conseguenze sono state terribili e probabilmente hanno cambiato la nostra storia in misura maggiore di quanto ancora ci si riesca a rendere conto. Forse si è chiuso un ciclo storico di secoli, forse è tramontata una civiltà e si sono aperti tempi nuovi, come sempre difficilmente decifrabili da chi in essi vive, forse si è chiusa una fase di egemonia politica, economica e culturale. Si può esserne atterriti, ma non si può dimenticare che di passaggi di questo genere è intessuta tutta la storia dell’uomo e che una storia ci sarà anche dopo.
La percezione di quanto invece avvenne nell’agosto del 410 fu sicuramente molto diversa: non finiva un ciclo storico, ma la storia; non tramontava una civiltà, ma la civiltà; non entravano in crisi una politica, un’economia, una cultura, ma la politica, l’economia, la cultura. “Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?” si chiede Girolamo in una delle sue lettere. Roma era la storia, la cultura, la civiltà, e si sgretolava sotto i colpi di popoli che venivano vissuti non come un’alternativa, ma come il semplice trionfo della forza senza progetto. È impossibile da immaginare, ma il 24 agosto 410 fu infinitamente più drammatico dell’11 settembre 2001.
I tempi erano già incerti e turbolenti quando, vent’anni prima, Agostino rientra in Africa dopo essere stato maestro di retorica a Milano: quando accetta di diventare vescovo, la sua scelta è netta e decisa; si rende perfettamente conto delle responsabilità che si assume e del ruolo politico e istituzionale che la Chiesa sta progressivamente conquistando, in un mondo in cui sono incerti sia il potere centrale di Roma sia i poteri locali nelle province dell’impero. Nell’Africa del Nord, in particolare, è presente il movimento scismatico dei donatisti, di origine incerta, che si segnala per la propria intolleranza nei confronti di quanti vorrebbero rientrare nella Chiesa, dopo averla abbandonata sotto le pressioni delle ultime sanguinose persecuzioni precedenti al riconoscimento della religione cristiana da parte di Costantino. Ne conseguono anche posizioni teologiche che Agostino respinge decisamente, e cioè il rifiuto della validità del battesimo ricevuto fuori della chiesa donatista, il rifiuto della validità dei sacramenti celebrati da sacerdoti indegni, l’interpretazione della Chiesa come istituzione composta di puri e santi, circondata da un mondo di peccato e corruzione.
In modo forse non ancora del tutto consapevole, Agostino sta impegnandosi a costruire e consolidare un riferimento istituzionale e ideologico che sia in grado di resistere alle bufere che il mondo latino sta per affrontare. Di fronte a chi si sente l’avanguardia di altri, a chi si sente più perfetto di altri – secondo una logica che si ripresenta nei secoli alle chiese, ai partiti politici, ai gruppi rivoluzionari – Agostino difende l’idea di una Chiesa capace di contenere in sé anche le imperfezioni del mondo esterno e di trovare la propria identità di gruppo nella coscienza della propria missione e non nella chiusura in se stessa. Non senza ironia osserva: “Le nubi del cielo affermano con voce di tuono che la casa di Dio sta costruendosi su tutta la terra, e dalla palude alcune rane gracidano: ‘Noi soltanto siamo cristiani’” (Expositio in Psalmos, 95.11). Dopo una fase di confronto amichevole e dialettico con i donatisti, Agostino, pur senza mai assumere atteggiamenti di tipo fondamentalista, arriva ad ammettere l’uso della violenza da parte del potere statale, come necessità contingente imposta dalle condizioni storiche.
Agostino è sempre molto sensibile ai segni dei tempi, alla storia e alle condizioni in cui si trova a operare come responsabile della propria comunità. Di fronte agli avvenimenti del 410, reagisce con forza sapendo perfettamente di essere riferimento importante sia dal punto di vista religioso sia da quello istituzionale e politico, e sapendo anche che proprio in questo momento si gioca una partita decisiva per il futuro stesso del cristianesimo: “Il mondo è sconvolto, il vecchio uomo si spoglia, il corpo subisce violenza, si elevi lo spirito. Dicono gli uomini: a Roma è sepolto il corpo di Pietro, a Roma è sepolto il corpo di Paolo, a Roma il corpo di Lorenzo, a Roma sono sepolti i corpi di altri santi martiri: e Roma è desolata, e Roma è in preda al saccheggio; è contristata, è schiacciata, è data alle fiamme, innumerevoli le stragi mortali che avvengono per fame, peste, spada”. (Sermo 296.6).
Agostino capovolge il ragionamento di quanti accusano il cristianesimo di essere causa dell’indebolimento di Roma e della sua cultura; esso è invece la novità che può dare nuovo vigore all’impero romano, la cui decadenza si deve piuttosto ai suoi vizi, alle sue ipocrisie, alla sua incapacità di essere fedele alle grandi virtù descritte dai suoi letterati. Questo impegno di difesa del cristianesimo si colloca entro un’opera grandiosa, il De civitate Dei, secondo quanto egli stesso ricorda negli ultimi anni della sua vita: “Nel frattempo Roma era stata distrutta dalla violenta e disastrosa irruzione dei Goti, guidati dal re Alarico. I cultori di molti e falsi dèi che siamo soliti chiamare pagani, nel tentativo di imputare alla religione cristiana la distruzione della città, incominciarono con maggiore asprezza e animosità del solito a bestemmiare il vero Dio. Ardendo di zelo per la casa di Dio decisi di scrivere dei libri sulla città di Dio, per controbattere i loro errori blasfemi” (Retractationes 43.1).
Nelle sue pagine la storia di Roma si trasfigura quasi nella storia dell’umanità in cui convivono, mescolati in modo inestricabile, gli uomini che mettono al primo posto la ricerca di Dio, cioè dell’assoluto e della virtù, e gli uomini che mettono l’amore per se stessi davanti a ogni altra cosa, cercando solo di soddisfare i propri desideri terreni.
Si tratta delle famose due città – quella di Dio e quella terrena – che mai vengono identificate con Stato e Chiesa, ma rappresentano due modelli di vita che in ogni caso sulla terra sono destinati a convivere. I grandi valori della tradizione romana sono fondati su quelli della città terrena, sulla sete di dominio – libido dominandi – e sull’arrogante ricerca dell’ammirazione e della lode. Il De civitate Dei è una lunga e articolata riflessione sui rapporti fra cristianesimo e cultura pagana e sulla funzione anche provvidenziale della storia di Roma per l’affermarsi e il diffondersi della religione cristiana. È il primo complesso tentativo di proporre entro la nuova cultura una filosofia della storia, che Agostino riesce a costruire grazie alla capacità di pensare l’umanità come un unico organismo vivente sulla base di una propria legge di sviluppo e l’intero corso della storia come dotato di significati comprensibili e governato da un’ordinata successione di età. In ogni epoca gli uomini si orientano intorno alle due città, in una tensione presente fin dall’inizio nello scontro fra Caino e Abele, che si ripropone in circostanze diverse, alle origini della civiltà romana, nello scontro emblematico fra Romolo e Remo.
Possono sembrare riflessioni lontane dalla nostra sensibilità e dai nostri problemi, ma proprio in esse si trovano probabilmente le premesse della storia della civiltà occidentale nei secoli successivi. Il grandioso tentativo di sottrarre il cristianesimo alle accuse dei pagani e, nello stesso tempo, di renderlo protagonista di un rinnovato slancio culturale, civile e politico, non sfocia mai, nelle pagine agostiniane, nel tentativo di sacralizzare l’impero che si viene cristianizzando. La sua funzione può essere stata provvidenziale per la diffusione della nuova religione, ma non si confonde mai con essa: si gettano le basi per un percorso che avrà caratteri del tutto peculiari, distinti da quelli lungo i quali si avvieranno la civiltà bizantina e quella islamica che, qualche secolo dopo, si diffonderà in tutta l’Africa settentrionale.
Gli storici hanno discusso a lungo se questa fase conclusiva della vita di Agostino rappresenti uno sviluppo o una svolta significativa nel suo percorso esistenziale e intellettuale, che negli anni precedenti si era mosso all’interno della ricerca filosofica, in un continuo confronto con la tradizione classica. Le Confessiones (Confessioni) rappresentano un punto di vista privilegiato per affrontare lo studio della prima fase del suo pensiero, in quanto sono scritte negli anni centrali della vita, dopo la sua consacrazione a vescovo di Ippona, nel periodo in cui l’accettazione di responsabilità politiche e istituzionali è destinata a incidere fortemente sul suo pensiero e sulla sua produzione letteraria.
Capolavoro di stile e di sapienza retorica, sono sicuramente l’opera più letta di Agostino, che per secoli ha saputo parlare a storici, filosofi e teologi, per la straordinaria capacità di costruire un racconto autobiografico che è al tempo stesso sia esperienza di formazione culturale e religiosa, sia profonda analisi dell’interiorità dell’autore. Gli anni fra il 395 e il 400 sono quelli in cui Agostino, forse per la prima volta, porta in primo piano il problema del rapporto fra grazia divina e salvezza umana; le Confessiones possono allora essere viste anche come riflessione consapevole sul cammino che, attraverso i vari episodi significativi della vita, lo ha portato fino alla conversione.
Agostino nasce a Tagaste, nell’Africa del Nord, da Patrizio, pagano, e da Monica, convertita invece al cristianesimo, che egli dunque conosce da sempre e dal quale non si allontana mai del tutto, pur non riuscendo ad accettarlo pienamente. Il succedersi degli episodi narrati nei primi nove libri delle Confessiones ripercorre la storia di una ricerca, strettamente intrecciata al processo di formazione di Agostino, in un dialogo serrato tra ragione e fede, che in lui rappresentano dimensioni non contrapposte, ma complementari della conoscenza umana. Dopo avere studiato grammatica e retorica a Madaura e a Cartagine, la lettura di Cicerone suscita in lui l’amore della sapienza: “Fin dal diciannovesimo anno della mia vita, dopo aver letto, nella scuola del retore, il libro di Cicerone, dal titolo Ortensio, fui preso da tanto amore per la filosofia che subito decisi di dedicarmi ad essa” (De beata vita, 1.4). È proprio la ricerca della sapienza a spingerlo a leggere la Scrittura da cui viene tuttavia respinto, a causa dei contenuti così lontani dall’insegnamento cristiano e dello stile assolutamente non all’altezza degli autori classici studiati.
Agostino si allontana allora decisamente dalla Bibbia e cerca nel manicheismo una spiegazione puramente razionale del mondo e una risposta al problema del male, che la dottrina di Mani spiegava ipotizzando due principi tra loro contrapposti. In questi anni si trasferisce a Roma e quindi a Milano dove, mentre svolge la professione di maestro di retorica, ha modo di ascoltare le prediche di Ambrogio e apprezzarne quella lettura allegorica dell’Antico Testamento che lo porterà a dire che “il vero significato di Antica Alleanza è tener segreta la Nuova e il significato di Nuova Alleanza è manifestare l’Antica” (De civitate Dei, 16.26.2). Ma in questa fase della sua vita è quanto mai incerto sulla possibilità di raggiungere qualche verità e si sente dunque vicino alle posizioni scettiche sostenute da taluni rappresentanti dell’Accademia platonica, che gli consentono anche di mettere in discussione talune posizioni materialistiche della dottrina degli stoici, verso i quali si è sempre mostrato interessato, soprattutto per quanto riguarda la loro riflessione di carattere etico. Dalle posizioni scettiche si distacca poi per l’influenza decisiva della lettura di testi neoplatonici – Plotino e Porfirio probabilmente – che gli consentono di acquisire concetti fondamentali, grazie ai quali si riavvicina nuovamente al cristianesimo.
La continua oscillazione fra gli strumenti della ragione e quelli della fede, rappresentata vivacemente nel racconto autobiografico, è anche un’indicazione metodologica a proposito dell’andamento costante della riflessione agostiniana. La fede richiede di essere approfondita e inserita in una visione complessiva fondata sulla ragione che, a sua volta, trova nella fede possibilità e intuizioni che non potrebbe esaurire in se stessa. La ricerca della verità è, in Agostino, un percorso inscindibile dalle vicende esistenziali e, più in generale, la sua proposta teorica, la sua speculazione filosofica non possono mai porsi come indipendenti dal soggetto che le sviluppa. Le conclusioni che di volta in volta sembrano risultati definitivi vengono successivamente rimesse in discussione perché, osservate da punti di vista differenti, rivelano nuovi problemi, pongono nuove domande, si presentano come oggetti nuovi di indagine.
L’itinerario filosofico agostiniano segue due direzioni fondamentali, così come quello biografico descritto dalle Confessiones: dall’esteriorità delle sensazioni del mondo in cui ci si trova a vivere verso l’interiorità del proprio modo di giungere alla conoscenza intellettuale e, nello stesso tempo, di vivere intimamente la ricerca di verità e felicità; questo movimento implica simultaneamente anche un movimento dal livello inferiore, su cui la conoscenza e l’anima conducono la propria ricerca, a un livello superiore sul quale intravedere le ragioni e le risposte ultime.
Al centro delle Confessiones si colloca l’episodio della conversione alla piena fede nel Dio cristiano, che rappresenta in certo senso anche la forma pura dei numerosi mutamenti di punto di vista che ricorrono continuamente nella sua vita e nel suo pensiero. Si può anche osservare che in realtà si tratta di una conversione intellettuale al neoplatonismo che prepara, o si completa, in una conversione morale o di fede. Molte sono state le discussioni fra gli studiosi a proposito della conversione di Agostino, del suo rapporto con la filosofia neoplatonica, del suo modo di concepire la relazione fra cristianesimo e filosofia, a testimonianza di un intreccio, di una vitale convivenza e armonia di livelli e direzioni di pensiero che ogni interpretazione può certo illuminare, con il rischio tuttavia di lasciarne in ombra altri aspetti essenziali. Nel vasto mare della ricerca filosofica, capita di perdere l’orientamento e non sapere più quale direzione prendere, “se talora, contro la nostra scelta e mentre ci affatichiamo in direzione opposta, una qualche tempesta, di cui gli ignoranti possono ritenere che ci allontani dalla meta, non ci gettasse, senza la nostra consapevolezza e malgrado il nostro errore, nella terra tanto desiderata” (De beata vita, 1.1).
Ma la ricerca comunque non si conclude: basti pensare che, subito dopo la conversione, Agostino afferma con grande nettezza di non avere più alcun dubbio sull’esistenza di Dio, per chiedersi tuttavia nelle righe successive che cosa sia quel Dio di cui e a cui parla: la ricerca si riapre, è mutato il punto di vista, si è avuta l’esperienza della conversione, ma la ricerca deve comunque riprendere. Neoplatonismo, conversione e ritorno alla Scrittura grazie ad Ambrogio portano Agostino a contatto con le lettere di Paolo destinate ad avere grande influenza sul suo pensiero, e che forse hanno provocato la stessa composizione delle Confessiones.
Dopo la conversione Agostino si ritira in una villa in Brianza, proponendosi, come emerge programmaticamente nei Soliloquia, di abbandonare l’ansia di soddisfazioni esteriori come onori, ricchezze, piaceri sensibili, per avviare invece un processo di purificazione intellettuale e spirituale e dedicarsi alla ricerca della verità, riprendendo e traducendo per il nuovo contesto cristiano una ispirazione etica di sapore stoico, nella quale la virtù si qualifica come rettitudine di pensiero, intenzione giusta e serenità interiore. Cercare la sapienza coincide, per Agostino, con la ricerca di felicità e bontà, come sostiene nel De beata vita e in molti altri passaggi dei Dialoghi di questo periodo, condotti insieme ad alcuni allievi e alla madre Monica che, quando appare nelle conversazioni filosofiche, rappresenta sempre il punto di vista della fede che si integra con quello della filosofia.
La presenza di due vie per la ricerca – l’intelletto e l’autorità della fede – si incontra anche nella discussione sviluppata nel Contra Academicos a proposito delle posizioni scettiche maturate nella tradizione platonica. Partendo dalla domanda se, per raggiungere la felicità, sia necessario arrivare alla verità o sia sufficiente cercarla, senza mai pretendere di possederla in via definitiva, Agostino si misura con il dubbio scettico che non può essere approvato nella sua formulazione radicale, così come non si può ammettere l’assenso precipitoso di fronte ad apparenti conclusioni.
Seguire con attenzione il percorso tracciato dagli uomini con le sette arti liberali, che rappresentano i modi in cui si è organizzata la loro conoscenza del mondo, consente di dare un certo ordine anche al processo di formazione culturale individuale. Il De ordine, proponendo tale itinerario, pone anche la questione della possibilità umana di afferrare l’ordine del creato nella sua totalità e di ricondurre la molteplicità della conoscenza a quell’unità già affermata dall’antica filosofia di Pitagora.
Nel periodo in cui si ferma a Roma prima del ritorno in Africa, Agostino scrive altre opere significative in cui prosegue la sua ricerca filosofica. Nel De quantitate animae vengono sollevate diverse questioni a proposito dell’anima, ma la riflessione si concentra quasi esclusivamente sulla grandezza dell’anima, da intendersi in termini puramente spirituali, e sul suo rapporto con il corpo. L’anima, che è anche il soggetto della conoscenza, non può avere un ruolo puramente passivo in occasione della conoscenza sensibile. Dapprima Agostino afferma che l’anima si rende conto, perché attenta a quanto accade al corpo, che questo ha subito qualcosa dall’esterno e il “non sfuggire all’anima che il corpo subisce” (De quantitate animae, 23.41) è appunto la conoscenza sensibile.
Più articolata è la tesi esposta nel De musica, composto nello stesso periodo: l’azione vivificatrice operata dall’anima sugli organi di senso viene aiutata oppure ostacolata da quanto proviene dall’esterno e si produce così una sensazione piacevole oppure spiacevole. Particolare attenzione viene data, nel corso dell’opera, ai temi del suono, della percezione uditiva e del giudizio intellettuale che si dà ascoltando qualcosa. L’analisi agostiniana propone una dottrina che si può in certa misura definire “estetica”, al centro della quale si colloca il tema della proporzione, della misura e dell’armonia.
In questi stessi anni si colloca il De libero arbitrio, in cui Agostino sostiene, a proposito della libertà umana, una posizione che successivamente abbandonerà, in occasione della disputa con i pelagiani, in quanto caratterizzata da uno spazio eccessivo concesso alla responsabilità e all’iniziativa dell’uomo.
Tornato in Africa, dopo la morte della madre Monica, oltre a portare a termine alcuni degli scritti iniziati in Italia, scrive il De magistro, contributo essenziale per comprendere la sua teoria della conoscenza e in particolare quell’aspetto spesso ricordato come dottrina dell’illuminazione. La prima parte dell’opera, dedicata a una minuziosa analisi della funzione segnica dei termini del linguaggio, rappresenta forse il primo esempio, nella cultura latina occidentale, di vera e propria “semiologia”. Nella seconda parte, spostando l’attenzione sull’uso del linguaggio per comunicare e insegnare, Agostino, secondo un modo di procedere per lui consueto, conduce il ragionamento fino a una contraddizione apparentemente insolubile: dapprima dimostra che non si può insegnare nulla se non per mezzo di segni, ma subito dopo osserva che propriamente i segni non sono in grado di insegnare nulla, in quanto li si può considerare segni solo se già si conosce il loro significato.
La soluzione sta nel riferimento al maestro interiore: si tratta della capacità interiore di misurare quanto ci viene comunicato, sapendo che esiste una possibilità di giudizio che consente di comprendere la fondatezza di quanto sentiamo, grazie appunto a una sorta di illuminazione. Il maestro interiore – dice Agostino – è Cristo, dimostrando la stretta connessione tra filosofia e fede: una dottrina esplicitamente filosofica trova un punto di appoggio sulla convinzione religiosa secondo cui, almeno in un momento della storia, il Verbo, la sede dei significati delle cose create, si è fatto uomo, cioè segno fra gli altri segni.
La questione del rapporto tra fede cristiana e cultura pagana è molto discusso nei primi secoli del cristianesimo e Agostino è certamente uno degli autori che maggiormente contribuiscono a creare un atteggiamento di grande apertura della tradizione cristiana nei confronti della cultura precedente. Accanto a un evidente utilizzo della filosofia neoplatonica, egli propone di ricorrere, senza pregiudizi alle arti liberali provenienti dal mondo classico. Si è già visto come nel De ordine venisse proposta una specie di gerarchia fra le arti, capace di condurre al principio del tutto. Lo stesso tema ricompare nel De doctrina christiana, accompagnato dalla metafora del furto sacro destinata a grande fortuna nei secoli successivi: come gli ebrei, fuggendo dalla prigionia in Egitto, furono autorizzati a sottrarre agli Egiziani le ricchezze e i mezzi necessari per tornare alla loro terra, così i cristiani possono appropriarsi dei tesori della cultura pagana per costruire una nuova visione del mondo in cui quegli stessi tesori acquisteranno un nuovo significato.
Decisiva testimonianza di questo atteggiamento viene offerta da Agostino stesso, nel suo ultimo scritto, quando critica le sue stesse posizioni di tanti anni prima e si accusa “di aver dato troppo peso alle discipline liberali sulle quali grande è l’ignoranza di molti santi, mentre alcuni, pur conoscendole, non sono dei santi; e di aver menzionato, pur se con tono scherzoso, le Muse come se fossero delle dee; e di aver chiamato imperfezione il fatto di meravigliarsi; e di aver affermato che rifulsero della luce della virtù dei filosofi privi della vera fede” (Retractationes, 1.3.2).
Il De doctrina christiana viene iniziato negli anni immediatamente successivi alla consacrazione a vescovo (395-396) e segna in certo modo l’inizio dell’attività pastorale di Agostino, mettendo subito in evidenza la serietà e la decisione con cui assume le nuove responsabilità e intende percorrere il nuovo cammino, esistenziale e intellettuale al tempo stesso. Interrotta e poi completata intorno al 420, l’opera rappresenta la scelta consapevole di inserire, tramite il modello ciceroniano, la retorica cristiana nel solco della grande tradizione classica, alla quale vengono dunque collegati sia la ricerca dei mezzi con cui diffondere la nuova cultura cristiana sia gli strumenti di interpretazione dei testi sacri.
Le Confessiones, il De trinitate e l’analogia
Le Confessiones raccontano le vicende biografiche di Agostino fino a questi anni in cui si collocano la conversione, la morte di Monica e il ritorno in Africa. Dopo il viaggio nella memoria alla ricerca di se stesso, per comprendere il significato del tempo ormai trascorso della sua vita, Agostino, negli ultimi libri approfondisce proprio questi temi da un punto di vista teorico.
La memoria è luogo non solo delle immagini provenienti dalla conoscenza sensibile, ma anche dei fondamenti delle scienze, dei sentimenti, della coscienza di sé e consente di costruire la propria identità. Solo nella memoria possono trovarsi tracce di eternità e di verità che spingono alla ricerca di Dio; e Dio viene trovato appunto nella parte più intima di se stessi, che è al tempo stesso anche la più alta: interior intimo meo et superior summo meo. Il Dio di cui parla Agostino non può essere del tutto immanente, ma neppure può essere pensato come assolutamente esterno all’uomo, quasi fosse un principio lontanissimo e incomprensibile.
Anche il tempo ha la sua realtà solo grazie alla memoria che collega all’istante presente il passato, che non esiste più, e il futuro, che non esiste ancora; anche in questo caso è il soggetto a conferire unità al tempo, che risulta distentio animi, un protendersi dell’anima verso il passato e verso il futuro. Solo l’individuo con la sua sapienza, la sua cultura, può svolgere il compito impegnativo di costruire un significato per la propria esperienza del tempo e del mondo; in questo senso Agostino interpreta il precetto biblico del “crescete e moltiplicatevi”: assoggettate il mondo riempiendolo delle vostre interpretazioni.
Nell’ultimo libro delle Confessiones, dedicato all’esegesi dei primi versetti della Bibbia, Agostino fa riferimento alla triplice modalità dell’essere dell’uomo – esistenza, conoscenza e volontà – riprendendo uno schema già usato da autori precedenti, ma riservando un ruolo tutto particolare alla volontà. L’articolazione in tre aspetti distinti ma inseparabili si propone come analogia della Trinità divina, come primo riferimento a quella ricerca di tracce del divino che costituisce gran parte di un altro capolavoro agostiniano, il De trinitate. Iniziato nel 399 e concluso nel 420, si occupa di problemi esegetici, opponendosi, nella prima parte, a ogni interpretazione che, come quella ariana, introduca rapporti di subordinazione fra le persone della Trinità, insistendo sul fatto che l’intera Trinità è implicata in ogni opera divina e condivide la medesima trascendenza.
Nel suo sforzo di sostenere e chiarire la dottrina trinitaria, Agostino fornisce un contributo decisivo alla trasformazione del concetto di Dio nel mondo occidentale latino, che presenta notevoli implicazioni anche di carattere filosofico. Mentre, secondo la tradizionale dottrina aristotelica, un predicato può essere unito a un soggetto per dirne la sostanza oppure una qualità accidentale, solo nel caso di Dio i predicati di persona – Padre, Figlio e Spirito – sono predicati di relazione che non dicono dunque tre sostanze diverse e, malgrado ciò, non sono accidentali.
La concezione del principio, o di Dio, che nel mondo classico era una sorta di assolutizzazione della categoria di sostanza, diventa in Agostino, e nella tradizione che a lui si richiamerà, una assolutizzazione della categoria di relazione: si parla di Dio come amore perché l’idea di due soggetti che si amano e dell’amore che li unisce rappresenta proprio la struttura pura della relazione.
Se l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, qualcosa nella sua natura deve essere segno del modo trinitario con cui pensiamo a Dio. La seconda parte del De trinitate è una straordinaria ricerca di analogie sempre più perfette tra la conoscenza dell’uomo e la Trinità divina, a partire dall’articolazione della visione sensibile – soggetto, oggetto e attenzione del soggetto verso l’oggetto – fino alla suprema analogia con le facoltà della conoscenza, memoria, intelligenza e volontà – che non sono sostanze separate ma relazioni interne al processo di conoscenza: una sola vita, di una sola sostanza che, nel momento in cui opera, stabilisce relazioni tra i movimenti cui dà origine.
Nella memoria, come si è detto, si trovano i fondamenti delle diverse scienze costruite dall’uomo; l’intelletto lavora sui dati provenienti dalla memoria e li considera analiticamente; la volontà collega intelletto e memoria, rappresentando la relazione che fra loro intercorre. Emerge in modo molto chiaro il ruolo dell’analogia, strumento fondamentale della ricerca agostiniana e, al tempo stesso, struttura del mondo che questa ricerca si trova di fronte. L’analogia, che non è un rapporto di somiglianza, ma una somiglianza di rapporti, consente di dare unità alla molteplicità dei dati della conoscenza e ai diversi livelli dell’essere, senza per questo dover superare le distinzioni, le dissomiglianze e le diversità di perfezione. Si tratta di una fondamentale conquista intellettuale che illumina tutto il percorso della ricerca agostiniana, mostrandolo dominato proprio dalla logica del desiderio che altro non è che una logica di relazioni costruite sul modello della Trinità divina.
Tornando alla fase matura del suo pensiero e alla sua visione della storia, da cui eravamo partiti, si può dire che anche l’appartenenza a una delle due città descritte nel De civitate Dei non è un dato scontato, un carattere ontologico dell’individuo, ma risponde alla tipica logica relazionale agostiniana: dipende dal rapporto con gli altri, dalla proporzione fra attenzione ai beni del mondo e desiderio di novità radicali, di un altro modo di essere. Questo tratto molto caratteristico dell’ispirazione agostiniana – centralità delle relazioni, delle proporzioni, delle analogie e delle mediazioni – è tuttavia quello che lentamente si perde negli scritti dell’ultimo periodo della vita di Agostino, soprattutto in quelli composti nel vivo della polemica contro il pelagianesimo.
Muta sensibilmente anche la considerazione delle idee e degli autori classici: dopo il sacco di Roma, la difesa della religione cristiana si era delineata come un intenso dialogo con il passato, ma ora la polemica interna alle diverse prospettive religiose si pone come progressivo distacco dai valori di un lontano passato che deve finalmente essere superato.
Pelagio e altri teologi contemporanei di Agostino, che verranno poi identificati genericamente come pelagiani, ritengono che il peccato originale non si trasmetta da Adamo a tutti i suoi discendenti e che quindi la natura umana abbia la capacità di non peccare. Ad essi Agostino contrappone l’idea della trasmissione del peccato originale tramite la generazione carnale, con la conseguenza che ne sono vittime anche i bambini appena nati, della cui colpa rimane un segno nel piacere sessuale che ne accompagna il concepimento. Da un punto di vista filosofico è in gioco una complessiva visione antropologica che Agostino costruisce intorno all’idea di un uomo irrimediabilmente segnato dal male e dalla inutilità dei suoi sforzi per sollevarsi da solo. Ricompare, tra i pelagiani, l’idea dei puri, dei migliori, di quelli che sanno trovare in sé le risorse per farcela e ancora una volta Agostino respinge questa concezione, cadendo nell’estremo opposto di considerare l’insieme degli uomini come una massa dannata.
Sembra lontano l’Agostino del dubbio, del mutamento metodico di punto di vista, dell’analogia fra uomo e Dio. Ma il problema è che, a questo punto della vita, ha scelto di fare di questi discorsi degli strumenti di prassi politica, di organizzazione del consenso, di scontro ideologico, trasformandoli in dogmi nel senso pieno del contesto religioso. Il peccato, il male, la morte, la salvezza diventano oggetti definibili, perdono il carattere relazionale di cui in precedenza erano portatori. Non abbiamo di fronte un altro Agostino, ma sempre il pensatore conosciuto nell’ozio filosofico della Brianza che, posto davanti a quelle che ritiene le urgenze della storia, sceglie di agire, mette in gioco la volontà di operare nel mondo e, forse, di difenderne tutta la complessità. Non si deve dimenticare che un’accusa frequentemente rivolta ai pelagiani è quella di essere superbi, di credere che dipenda dall’uomo la possibilità di superare le proprie imperfezioni e le proprie miserie, cioè, in termini religiosi, di salvarsi. Non è sufficiente il concetto cristiano di provvidenza per rispondere a tutti i problemi posti dalla riflessione antica sul fato e il destino; Pelagio vuole sottrarsi a questi vincoli, al prezzo di una specie di aristocrazia intellettuale che Agostino non accetta.
Ha sempre ammesso l’idea di un’azione di Dio sull’uomo: quando ne parla, come nel De magistro, in termini di illuminazione interiore, sembra sviluppare un discorso sulle categorie della conoscenza; quando invece ne parla nel contesto delle dispute religiose su salvezza e dannazione, sembra sviluppare un discorso sulla necessità del destino, sulla impossibilità di farcela anche senza un oggettivo aiuto da parte di Dio. Compare, con tutta la sua drammaticità il tema della grazia e della predestinazione. Nel succedersi di numerosi scritti, fra cui si possono ricordare De gratia et libero arbitrio, De corruptione et gratia, De praedestinatione sanctorum e De dono perseverantiae, questi concetti si irrigidiscono e diventano armi di scontro anziché ipotesi di ricerca. Già il neoplatonismo ammetteva una comunicazione continua attraverso i gradi gerarchici dell’essere e, in questo quadro, la grazia altro non è che l’operazione per mezzo della quale gli uomini sono spinti a conoscere e amare Dio; è la piena realizzazione dell’anima, intesa sia come sede della vita spirituale sia come centro della attività conoscitiva. Se il desiderio si disperde nella ricerca delle soddisfazioni terrene, si ha il disordine, perché viene meno il legame analogico tra umano e divino. Ma il legame analogico viene meno anche quando viene spezzato, per così dire, sull’altro versante, quando cioè l’azione di Dio non è più armonicamente connessa con il modo in cui l’uomo la pensa.
Allora l’uomo non può sapere perché alcuni ce la fanno e altri no, perché alcuni si salvano e altri non si salvano; è come se un oggetto – dice Agostino – chiedesse all’artigiano che lo ha fabbricato perché lo ha fatto in quel modo, o una bestia chiedesse a Dio i motivi per cui non è stata fatta uomo. Bastano questi esempi per mostrare che è venuto meno il nesso analogico fra uomo e Dio. Mentre i Goti saccheggiano Roma e i Vandali si avvicinano a Ippona, mentre la civiltà romana sembra tramontare e il cristianesimo si profila come ultima ancora di salvezza, Agostino mette in gioco tutta la forza della propria volontà e sceglie di guidare la comunità, offrendo ai suoi fedeli non più dubbi ma certezze.