Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La questione contadina, il mancato sviluppo industriale e il sistema politico illiberale caratterizzano la Russia zarista ai primi del Novecento. La prima guerra mondiale esaspera queste contraddizioni e favorisce lo scoppio rivoluzionario del 1917 che porta all’abdicazione dello zar e alla nascita del regime bolscevico guidato da Lenin. Nel 1922 nasce l’URSS, il primo Stato socialista del mondo. Stalin, il successore di Lenin, costruisce un sistema politico basato su un onnipresente apparato burocratico-poliziesco e su un complesso militare-industriale. Con la partecipazione vittoriosa alla seconda guerra mondiale l’URSS diventa una superpotenza che si contrappone agli Stati Uniti nel periodo della guerra fredda. Dopo il processo di destalinizzazione avviato nel 1956 da Chruscev e la restaurazione autoritaria degli anni Settanta di Breznev, prende forma, a metà degli anni Ottanta, il nuovo corso riformatore di Gorbacev. La crisi economica, l’insorgere dei movimenti nazionalisti e il fallimento di un colpo di Stato portano al crollo dell’URSS nel 1991.
I confini dell’impero zarista, a metà del XIX secolo, sono ormai continentali e si estendono dall’Asia all’oceano Pacifico raggiungendo addirittura l’Alaska e alcune zone della California. Nei primi anni del Novecento, la Russia con una superficie di 22 milioni di chilometri quadrati è lo Stato più esteso del mondo e occupa un sesto delle terre emerse del pianeta. La vastità della compagine statale russa ha riflessi immediati sulla vita politica e amministrativa dell’Impero. Innanzitutto, nella distanza tra i sudditi e le istituzioni centrali. Quindi, nella difficoltà di comunicazione tra il centro e la periferia dell’Impero a causa di un carente sistema dei trasporti. Infine, per la distribuzione disomogenea della popolazione nel vastissimo territorio.
In queste condizioni, la centralizzazione del potere è lo strumento principale scelto dall’autocrazia zarista per far fronte alle spinte centrifughe presenti all’interno del Paese. L’impero zarista è infatti composto, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, da un mosaico di popoli profondamente diversi l’uno dall’altro. L’unico collante di questo coacervo di popoli ed etnie è la supremazia dell’etnia slava dominante, quella russa, sebbene ai primi del Novecento il gruppo etnico russo costituisca solo il 43 percento del totale della popolazione. Uno dei fattori di maggiore instabilità del regime zarista consiste, infatti, nelle continue insorgenze nazionalistiche diffuse soprattutto tra le popolazioni slave (polacchi, ucraini, lituani, bielorussi) e baltiche (estoni, finlandesi, lettoni). Queste spinte disgregatrici vengono soffocate dal regime zarista attraverso un costante processo di "russificazione" e con il ricorso a metodi repressivi volti a impedire la rivendicazione di uno Stato nazionale da parte delle minoranze. Metodi repressivi utilizzati dal regime anche nei confronti degli ebrei che vengono costretti a risiedere in un territorio ben limitato chiamato "zona di residenza", ai confini tra Ucraina e Bielorussia.
L’autocrazia zarista nel primo decennio del Novecento è afflitta da tre grandi problemi: la questione contadina, il mancato sviluppo industriale e il sistema politico illiberale. Oltre l’80 percento dei 170 milioni di abitanti che popolano la Russia nel 1913 vive nelle campagne e i rapporti che legano i contadini con i proprietari terrieri sono ancora di tipo feudale. Le carenze strutturali dell’agricoltura si riflettono sullo sviluppo industriale. La difficoltà della nascita di un ceto medio borghese di estrazione urbana, la mancanza di una borghesia imprenditrice e la scarsezza dei capitali fanno sì che la nascita delle prime manifatture sia frutto delle commesse statali e dei capitali esteri. Lo sviluppo industriale russo riceve infatti un impulso decisivo dalla politica di Sergej Vitte (1849-1915), ministro delle Finanze dal 1892 al 1903, che moltiplica gli investimenti pubblici, soprattutto in campo petrolifero (nei territori transcaucasici) e in quello ferroviario (la Transiberiana si conclude nel 1904). Sebbene nei primi anni del Novecento si assista a un timido sviluppo della siderurgia, il complesso delle strutture industriali è concentrato solo in alcune zone del Paese, soprattutto a Pietroburgo e a Mosca, e la classe operaia rappresenta una striminzita porzione della popolazione (una cifra che oscilla tra i 4 e i 5 milioni). Lo sviluppo economico russo, dunque, se confrontato con i sistemi industriali delle potenze europee denota una condizione di consistente arretratezza e la Russia, all’inizio del Novecento, ha il maggior tasso europeo di analfabetismo e di mortalità infantile.
Il sistema politico zarista, privo delle istituzioni democratico-borghesi diffuse in tutta Europa nel corso del XIX secolo, ha un evidente deficit di rappresentanza democratica che porta alle timide richieste dell’opposizione liberale o alla violenta propaganda rivoluzionaria. I nobili liberali e la borghesia dei distretti (zemstov) iniziano a organizzarsi per chiedere le riforme istituzionali e danno vita nel 1903 alla Lega della Liberazione, primo nucleo del Partito Costituzionale Democratico che sorgerà nel 1905 (i Cadetti). La classe operaia è invece influenzata dall’attività del Partito Operaio Socialdemocratico (POSDR), di stretta osservanza marxista, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov (1856-1918) e che nel 1903 subisce una scissione dividendosi in due formazioni politiche: quella bolscevica (la maggioranza) guidata da Lenin e quella menscevica (la minoranza) capeggiata da Martov (1873-1923). Fra i contadini riscuote un certo seguito il Partito Socialista Rivoluzionario fondato nel 1900 dall’incontro tra la tradizione anarchica e quella populista. Il pope Georgij Gapon (1873-1906), infine, predica con un buon seguito popolare una sorta di “socialismo cristiano”.
Dal 1894, dopo la guerra vittoriosa dell’esercito nipponico contro l’agonizzante impero cinese, il Giappone è in diretta concorrenza con l’autocrazia zarista per il controllo delle regioni del Nord-Est della Cina. Nel 1903, con la ferma convinzione di una facile quanto inevitabile vittoria contro l’Impero del Sol Levante, la Russia rifiuta la proposta giapponese di stipulare un accordo per la spartizione della Manciuria. Nel febbraio del 1904, però, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attacca quella russa nel Mar Giallo e la stringe d’assedio. La guerra russo-giapponese (febbraio 1904-settembre 1905) si risolve in un disastro per le forze zariste che vengono battute in terra (a Mukden in Manciuria) e sul mare (presso l’isola di Tsushima).
La serie di sconfitte militari durante tutto il 1904 e il rincaro dei generi di prima necessità acuiscono le tensioni sociali soprattutto nei grandi agglomerati urbani della Russia dove si addensano gli insediamenti industriali. Gli scioperi e i disordini si susseguono in tutto il Paese. Il 22 gennaio 1905, a Pietroburgo, una manifestazione popolare di 150 mila persone guidata dal pope Gapon si reca al palazzo d’Inverno per chiedere riforme istituzionali e provvedimenti a favore degli operai e contadini. Le truppe zariste sparano sui dimostranti uccidendo 130 persone e ferendone duemila. La brutale repressione della "domenica di sangue" scatena un’ondata di agitazioni e di sommosse in tutto il Paese, dalle città alle campagne. In maggio si ammutinano i marinai della corazzata Potemkin, poco dopo si ribellano le guarnigioni militari di Kronstadt e Sebastopoli. Tra la primavera e l’autunno del 1905 la Russia vive una profonda crisi istituzionale acuita dalla nascita, in molte città, dei soviet (consigli), rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro costituite da membri continuamente revocabili.
Sulla spinta del movimento rivoluzionario lo zar promette una Duma legislativa (parlamento) e concede, con il Manifesto di Ottobre, la Costituzione. Nello stesso tempo, però, la corona incoraggia la formazione di movimenti paramilitari di estrema destra, le Centurie Nere, per bloccare i moti rivoluzionari. Le annunciate concessioni zariste, soddisfacendo le aspirazioni delle forze democratico-borghesi ed emarginando le richieste dei menscevichi e dei bolscevichi, dividono il fronte rivoluzionario. Inoltre, il trattato di pace di Portsmouth (settembre del 1905), che sancisce la vittoria militare del Giappone, riporta l’ordine nell’esercito zarista il quale, una volta ritornato dal fronte, reprime con la forza gli ultimi fuochi rivoluzionari e i soviet. Lo sciopero generale e l’insurrezione operaia di Mosca del dicembre del 1905 sono soffocati nel sangue.
La prima Duma liberamente eletta si riunisce il 10 maggio 1906. Ma la Duma, che non vuole sottostare alle pressioni del governo, viene più volte sciolta e la legge elettorale viene arbitrariamente modificata dallo zar Nicola II (1868-1918) per ridurre la rappresentanza dei contadini e degli operai. Al posto di Vitte, accusato di eccessivo liberalismo, viene nominato primo ministro il conte Petr Stolypin (1862-1911) che attua una profonda riforma agraria (1907-1910) fondata sull’abolizione della struttura comunitaria del Mir e sulla nascita di un sistema di libero mercato costituito da piccoli e medi proprietari agricoli. La riforma riesce solo in parte. Una parte dei nuovi proprietari agricoli (circa 7 milioni) va a ingrossare le fila dei contadini ricchi (kulaki) ma la maggioranza (i mugichi, i contadini poveri) non riesce a trovare una condizione di vita accettabile. Nobiltà conservatrice, da una parte, e rivoluzionari dall’altra si oppongono all’azione riformatrice di Stolypin che viene ucciso in un attentato terroristico nel 1911.
Mentre la corte zarista è dominata dalla sinistra figura del monaco Rasputin, le tensioni sociali nel Paese non accennano a diminuire: l’aumento della proletarizzazione favorisce l’esodo dalle campagne e la disponibilità della manodopera per l’industria; l’intensificazione della propaganda rivoluzionaria accresce pure la sua repressione poliziesca.
L’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, il 28 giugno 1914, da parte dello studente bosniaco Gavrilo Princip (1894-1918), si trasforma in un caso internazionale che mette in moto una catena di reazioni che, in breve tempo, portano allo scoppio della Grande Guerra. Il 28 luglio l’Impero asburgico dichiara guerra alla Serbia e il giorno successivo il governo russo, alleato del piccolo Stato balcanico, ordina la mobilitazione delle forze armate lungo tutto il confine occidentale. Il Reich tedesco interpretando le operazioni militari russe come un atto di ostilità invia un ultimatum alla Russia intimandole di sospendere i preparativi bellici. L’ultimatum non ottiene risposta e il gioco delle alleanze predisposto sin dalla fine dell’Ottocento porta allo scoppio della prima guerra mondiale tra gli eserciti degli imperi centrali, da un lato, e le truppe della Francia, della Russia e della Gran Bretagna, dall’altro.
La partecipazione della Russia al primo conflitto mondiale esaspera tutte le contraddizioni presenti all’interno dell’impero e le prime sconfitte militari gettano ancor più sfiducia sull’autocrazia zarista. La dinastia dei Romanov esce di scena definitivamente il 15 marzo 1917 con l’abdicazione di Nicola II dopo che i circoli di corte e lo zar sono stati incapaci di arginare i sentimenti di ostilità, le proteste e gli scioperi della popolazione. La rivoluzione del febbraio del 1917 porta alla costituzione di un governo provvisorio presieduto dal principe Georgij Lvov (1861-1925) che dura fino ad agosto quando gli subentra Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881-1970). Tuttavia questi governi riflettono la fragilità delle forze politiche liberal-democratiche e non riescono a gestire né la protesta popolare né a porre fine alla guerra. A questa situazione di stagnazione e confusione politica contribuisce, inoltre, il dualismo di poteri che si viene a creare dal febbraio del 1917 tra la Duma, organo di rappresentanza istituzionale, e i soviet, organo di rappresentanza popolare. I bolscevichi, l’ala più radicale dello schieramento delle forze socialiste, lanciano la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” e nei mesi successivi alla caduta dello zar riescono a catalizzare un importante consenso, soprattutto tra le file dell’esercito, promuovendo l’azione insurrezionale. Il pretesto per l’azione rivoluzionaria viene fornito dal fallito tentativo controrivoluzionario del generale Lavr Kornilov (1870-1918). Con l’occupazione del palazzo d’Inverno del 7 novembre 1917 (il 25 ottobre secondo il calendario giuliano in vigore in Russia) e l’arresto dei membri del governo si compie la rivoluzione d’Ottobre. I bolscevichi prendono il potere e formano un governo rivoluzionario guidato dal loro leader, Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin (1870-1924), che come primo provvedimento emana due decreti fondamentali per la vittoria della rivoluzione: il decreto per la fine della guerra "senza annessioni e indennità" e il "decreto sulla terra" che legittima l’appropriazione delle terre dei proprietari terrieri a opera dei comitati agrari. L’ultimo atto di politica interna che istituzionalizza il nuovo potere bolscevico e il successo della rivoluzione d’Ottobre avviene il 19 gennaio 1918 quando viene sciolta d’imperio, da parte dei bolscevichi, l’Assemblea Costituente le cui elezioni, svolte nel dicembre del 1917, hanno sancito la vittoria dei socialisti rivoluzionari. Per far fronte alle minacce controrivoluzionarie il regime rivoluzionario accentua sempre più i tratti autoritari creando nel dicembre del 1917 una polizia politica, la Ceka, e istituendo un tribunale rivoluzionario centrale. Nel maggio del 1918, infine, tutti i partiti d’opposizione vengono messi fuori legge.
Con il trattato di pace di Brest-Litovsk, firmato il 3 marzo 1918, la Russia bolscevica esce dal primo conflitto mondiale ma la reazione delle forze escluse dal potere e delle potenze straniere non si fa attendere. Nella primavera del 1918 le truppe anglo-francesi sbarcano nel nord della Russia, a Murmansk e Arcangelo, mentre alcuni reparti statunitensi e giapponesi penetrano nella Siberia orientale. L’arrivo dei contingenti stranieri rafforza l’opposizione al governo bolscevico e alimenta la guerra civile tra i monarchici conservatori, i bianchi – celebri l’ammiraglio Alexandre Kolciak (1874-1920) e il generale Anton Denikin (1872-1947) – e il nuovo esercito russo, l’Armata Rossa degli operai e dei contadini. Dopo tre anni di durissimi combattimenti e pesanti distruzioni nel tessuto produttivo russo la guerra civile si conclude con la sconfitta delle armate bianche e l’uccisione, nell’estate del 1918, dello zar e di tutta la sua famiglia nei pressi di Ekaterinemburg. Durante la guerra civile i bolscevichi mutano la propria denominazione, in Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, e danno vita alla Terza Internazionale (Comintern) con lo scopo di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello sovietico per fare della Russia il faro del comunismo mondiale.
A partire dall’estate del 1918 il governo bolscevico attua una autoritaria politica economica, il comunismo di guerra, per cercare di risolvere il problema degli approvvigionamenti delle città. In questo modo, mentre vengono nazionalizzati i settori industriali più importanti, nelle campagne vengono istituiti una serie di comitati con il compito di provvedere all’ammasso e alla distribuzione delle derrate. Alla fine del 1921 dopo una terribile carestia che colpisce le campagne russe e quelle ucraine diventa palese il fallimento della gestione autoritaria dell’economia che, in tre anni, ha drasticamente ridotto la produzione cerealicola, ha fatto fiorire la "borsa nera" e ha rinfocolato il malcontento diffuso nelle campagne. Il sollevamento contadino di Tambov e l’ammutinamento dei marinai di Kronstadt costringono il regime sovietico a varare, nel marzo del 1921, una Nuova Politica Economica (NEP) con l’obiettivo di stimolare la produzione agricola e di favorire l’afflusso di generi alimentari nelle città. La NEP, infatti, ponendo fine alle requisizioni dei prodotti agricoli e all’intromissione dello Stato nella gestione delle aziende agricole, permette l’esistenza di un limitato sistema di libero scambio, all’interno del quale i contadini possono massimizzare la produzione e vendere il surplus agricolo sul mercato dopo aver pagato una tassa in natura allo Stato.
La Nuova Politica Economica produce, sin da subito, un sensibile aumento della produttività e le rendite agricole, nel volgere di pochi anni, superano i livelli prerivoluzionari. Dopo le asprezze del comunismo di guerra, nelle campagne riemerge il ceto dei contadini ricchi, i kulaki, mentre la liberalizzazione dei commerci produce la nascita di una nuova classe di imprenditori, i Nepmen. Se le piccole aziende a conduzione familiare riescono a segnare apprezzabili progressi, la grande industria di Stato stenta a riprendere vigore anche in virtù della ristrettezza del mercato. Di conseguenza la classe operaia cittadina, pagata con bassi salari e con lo spettro costante della disoccupazione, nonostante il suo ruolo da protagonista nella rivoluzione, è paradossalmente il ceto sociale più sacrificato dalla NEP.
La NEP si configura, dunque, come un compromesso politico che il regime bolscevico, consapevole della sua fragilità e della sua impopolarità, stipula con "l’oceano piccolo borghese" delle campagne. Lenin, da un lato, ritorna al programma dei socialisti rivoluzionari che aveva permesso la vittoria della rivoluzione nel 1917 e, dall’altro, favorisce il compromesso con le autorità locali e i gruppi nazionalisti che rivendicano maggior spazio politico. La proclamazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) nel dicembre del 1922 è il risultato di questo abile compromesso tra le rivendicazioni sociali dei contadini, quelle politiche dei gruppi non russi e il progetto bolscevico di creare un’unica repubblica socialista russa. La nuova Costituzione sovietica, approvata nel 1924, recepisce queste novità in una complessa struttura costituzionale, in cui, il potere formale viene affidato al Congresso dei Soviet dell’Unione ma in realtà il potere reale risiede nell’unico partito previsto dalla Carta costituzionale, il PCUS. Il partito, infatti, ispira l’azione del governo, controlla la polizia politica e propone i candidati alle elezioni dei Soviet che avvengono su lista unica e con voto palese. Il sistema politico sovietico vede, dunque, la completa sovrapposizione tra l’apparato del partito – organizzato secondo un principio di rigido centralismo – e quello dello Stato. In questo sistema, la democrazia dei Soviet (la democrazia consiliare) e la struttura federale (identica dignità politica tra le diverse etnie e nazioni) vengono totalmente sottomesse alla volontà politica del ristretto gruppo dirigente del PCUS. Anche la struttura sociale del Paese risente della costituzione del primo Stato socialista del mondo. La lotta all’analfabetismo si accompagna alla formazione ideologica delle nuove generazioni attraverso l’iscrizione al Komsomol (l’Unione comunista della gioventù) e attraverso lo studio, in tutti i livelli d’istruzione, della dottrina marxista. La battaglia per la scristianizzazione del Paese, che tende a ridurre drasticamente e a screditare la Chiesa ortodossa, si estende alla morale tradizionale, alla famiglia e al rapporto tra i sessi con la semplificazione estrema delle procedure per il divorzio, con la legalizzazione dell’aborto (1920) e alla proclamazione dell’assoluta parità tra i sessi.
La morte di Lenin, colpito da ictus nel 1922 e deceduto nel gennaio del 1924 dopo una lunga malattia, solleva all’interno del gruppo dirigente bolscevico una feroce lotta tra le fazioni per la successione. L’ala "destra" del partito, generalmente identificata con il gruppo guidato da Nikolaj Bucharin (1888-1938), è favorevole allo sviluppo della NEP che viene intesa come una lunga e necessaria fase di transizione verso la costruzione del socialismo. I dubbi sulla natura dell’Ottobre e sulla possibilità di una rivoluzione socialista in Russia espressi dalla “destra” non sono invece condivisi dalla “sinistra” bolscevica, solitamente identificata nelle posizione di Lev Trockij. Il costruttore dell’armata rossa sostiene, infatti, sia la modernizzazione del Paese attraverso un vigoroso sviluppo industriale che l’esportazione della rivoluzione socialista nell’Occidente capitalistico. Contro questa posizione si schiera, però, il “centro” del partito capeggiato da Josip Djusgavili, detto Stalin (1878-1953), che dall’aprile del 1922 ricopre la carica di segretario generale del Partito Comunista dell’URSS. Stalin, opponendosi alla tesi trotzkijsta della "rivoluzione permanente" si fa assertore della teoria del "socialismo in un solo paese" secondo la quale l’URSS deve concentrarsi sulla costruzione del socialismo solamente nelle repubbliche sovietiche senza tenere conto del mondo occidentale. La poco ortodossa ma realistica posizione di Stalin trova la sua legittimazione nel riconoscimento internazionale dell’URSS da parte delle potenze europee, mentre il congresso del PCUS del dicembre del 1925 sancisce l’inequivocabile vittoria di Stalin, e del suo alleato Bucharin, sugli oppositori Grigorij Zinovev (1883-1936), Lev Kamenev (1883-1936) e Trockij. I leader dell’opposizione di sinistra vengono, prima, allontanati dall’Ufficio Politico e dal Comitato Centrale, e poi addirittura espulsi dal partito e incarcerati. Nel 1927, con l’esilio di Trockij, Stalin suggella la sua posizione di forza all’interno dell’apparato sovietico.
Disfattosi dell’opposizione di sinistra, al XV Congresso del Partito (nel dicembre del 1927) Stalin decide di forzare i tempi dello sviluppo industriale e, per poter far diventare l’URSS una grande potenza militare al pari delle potenze capitalistiche occidentali, stabilisce di concludere l’esperienza della NEP rompendo, in questo modo, la tregua sociale nelle campagne. Bucharin, numero due del regime, nel tentativo di fermare questa strategia politica, viene emarginato dal partito e nel 1930 condannato come un “deviazionista di destra”. La svolta impressa da Stalin, sul finire degli anni Venti, per favorire l’industrializzazione sovietica innesca una vera e propria guerra intrapresa dal regime ai danni dei contadini. Una guerra che da un lato si propone di “liquidare i kulaki come classe” e dall’altro si prefigge di radunare milioni di famiglie in poche decine di migliaia di grandi aziende collettive, i kolchoz, per facilitare l’esazione del tributo richiesto dall’industrializzazione. La necessità di procedere celermente alla collettivizzazione agricola porta alla fucilazione di tutti gli oppositori e di coloro che vengono considerati "nemici del popolo", all’arresto e alla deportazione di milioni di contadini confinati in Siberia o rinchiusi nei campi di lavoro forzato. Tra il 1929 e il 1933 i circa 5 milioni di kulaki vengono cancellati come classe o eliminati fisicamente, mentre la maggioranza dei contadini viene inserita nelle fattorie collettive. Lo scopo principale della collettivizzazione agricola, dunque, è quello di favorire lo spostamento di risorse economiche ed energie umane verso il settore industriale. Settore che con il varo del primo piano quinquennale (1928-1933) conosce un imponente ritmo di crescita fino a far segnare nel 1932 un aumento della produzione industriale del 50 percento, mentre con il secondo piano quinquennale (1933-1937) evidenzia un aumento del 120 percento. All’impressionante sviluppo dell’industria pesante bisogna contrapporre, però, l’altissimo costo sociale rappresentato dalle condizioni di lavoro e dalla disciplina militaresca cui sono sottoposti gli operai e l’utilizzo del lavoro forzato dei detenuti dei campi di lavoro nella costruzione dei complessi industriali.
Il sistema stalinista si regge, dunque, su un onnipresente apparato burocratico-poliziesco e su un complesso militare-industriale, in cui Stalin, autoproclamatosi continuatore dell’opera di Lenin, assume un ruolo di capo carismatico ed è considerato il depositario della dottrina marxista-leninista. Stalin è il padre e la guida infallibile del suo popolo e le stesse attività culturali si devono ispirare alle sue direttive o a quelle di Andrej Zdanov (1896-1948). Lo stalinismo come sistema di potere controlla ogni singolo ambito dell’attività umana. Oltre alla politica e all’economia anche la letteratura, il cinema, le arti figurative e persino le scienze naturali sono sottoposte alla rigida censura del regime e devono svolgere una funzione pedagogico-propagandistica. La storiografia, in particolar modo, riscrivendo il passato recente, diventa uno strumento di importanza centrale nella legittimazione del sistema stalinista. Celebre a questo proposito è la Storia del Partito Comunista dell’URSS che riscrive la storia del partito bolscevico, della rivoluzione d’Ottobre e dell’Unione Sovietica celebrando pomposamente l’azione di Stalin e sminuendo, fino all’oscuramento, il ruolo di Trockij, Zinovev, Kamenev e degli altri vecchi dirigenti bolscevichi esautorati dal dittatore georgiano. Un elemento centrale dello stalinismo è rappresentato dall’uso del terrore. Già presente all’epoca del primo piano quinquennale, diventa sistematico negli anni Trenta quando le pratiche dell’arresto di massa, della tortura e dell’imprigionamento nei campi di lavoro (gulag), dell’assassinio degli oppositori al regime di Stalin diventano di uso comune. Il periodo delle "grandi purghe" inizia nel 1934 con l’assassinio di Sergej Kirov (1886-1934) e continua negli anni successivi con la deportazione nei campi di concentramento e con una serie di processi farsa che colpiscono in larga misura gli stessi quadri del partito. In questo modo, Zinovev e Kamenev vengono fucilati nel 1936, il maresciallo Tuchačevskij (capo dell’Armata Rossa) nel 1937 e Bucharin nel 1938. Trockij, invece, viene ucciso da un sicario in Messico nel 1940.
La drastica epurazione che colpisce i generali delle forze armate sovietiche (nel 1937 vengono eliminati circa 20 mila ufficiali) coglie impreparata l’Unione Sovietica allo scoppio della seconda guerra mondiale. Tuttavia, per assicurare l’influenza sovietica sull’Europa orientale, l’Unione Sovietica stipula, il 23 agosto 1939, il patto Ribbentrop-Molotov, un patto di non-aggressione con la Germanianazista che stabilisce anche la spartizione della Polonia tra il terzo Reich e l’URSS. Per quasi due anni il regime nazista e quello sovietico collaborano attivamente e quando il 22 giugno 1941, con l’avvio dell’“operazione Barbarossa”, le truppe hitleriane oltrepassano il confine sovietico l’Armata Rossa si trova del tutto impreparata. Stalin, facendo ricorso al nazionalismo russo e mettendo da parte le parole d’ordine internazionaliste, dichiara la “grande guerra patriottica” in difesa del nemico invasore. La dirompente avanzata dell’esercito tedesco, che si dipana con tre direttrici su un fronte lungo 1600 chilometri dal mar Baltico al Mar Nero, viene fermata alle porte di Mosca, a Leningrado e a Stalingrado. L’Unione Sovietica riesce a riorganizzare la produzione industriale nelle regioni a est del Volga e nel novembre del 1942 riesce a rompere l’assedio di Stalingrado e a portare una potente offensiva all’esercito del Führer. La lunga controffensiva dell’Armata Rossa si conclude soltanto a Berlino nel maggio del 1945 con la presa del Reichstag e con la fine del secondo conflitto mondiale. La Conferenza di Jalta, del febbraio 1945, tra i tre grandi alleati della guerra contro il nazismo, Roosevelt, Churchille Stalin, sancisce il nuovo status di superpotenza mondiale dell’Unione Sovietica e alla successiva Conferenza di Postdam, dell’agosto 1945, al Paese guidato da Stalin viene accordata una zona d’influenza sugli Stati dell’Europa dell’Est occupati dall’Armata Rossa. Con questi Paesi l’Unione Sovietica fonda nel 1949 il Consiglio di Mutua Assistenza Economica (Comecon) con il compito di regolare i tassi di cambio e la quantità e i prezzi dei beni scambiati nell’area del rublo – in pratica subordina le economie dei Paesi satelliti a quella dello Stato guida – e poi nel 1955 stringe un’alleanza militare, il Patto di Varsavia per contrastare i Paesi dell’Europa occidentale del Patto atlantico che hanno dato vita alla NATO. Nel 1947, inoltre, è costituito l’Ufficio d’informazione dei partiti comunisti (Cominform), una riedizione riveduta e corretta della Terza Internazionale sciolta nel 1943, che collega i partiti comunisti dell’Est Europa con alcuni partiti comunisti occidentali.
La vittoria della seconda guerra mondiale porta un immenso prestigio internazionale all’Unione Sovietica, che viene vista come la patria dei lavoratori e il baluardo dell’antifascismo nel mondo, e al suo leader, Stalin, oggetto di un’autentica venerazione popolare. Nonostante ciò, il sistema politico sovietico non muta i suoi caratteri totalitari e risponde alle sfide politiche, culturali e tecnologiche dell’Occidente con possenti investimenti in campo militare – nel 1949 fa esplodere la sua prima bomba atomica – e accentuando i suoi caratteri autocratici e repressivi avvalendosi della capillare attività della polizia segreta guidata da Laurentij Berija (1899-1953).
Alla morte di Stalin (5 marzo 1953) una direzione collegiale composta da ex collaboratori del dittatore georgiano – Georgij Malenkov (1902-1988), Molotov (1890-1986), il già citato Berija, Artem Mikoyan (1905-1971), Nikolaj Bulganin (1895-1975), Chruscev – raccoglie l’eredità del capo scomparso. Dopo una serie di scontri Nikita Chruscev si impone come leader indiscusso del Paese – cumulando nel 1957 le cariche di segretario del partito e primo ministro – e inaugura una stagione di riforme e di aperture democratiche. In politica estera, è l’artefice della riconciliazione con i comunisti jugoslavi, nel maggio del 1955, e dello scioglimento del Cominform, l’anno seguente. In politica interna, pur non introducendo modifiche sostanziali nella gestione politica ed economica del paese, allenta le maglie del terrore staliniano. Milioni di detenuti dei campi di concentramento riguadagnano la libertà e molte vittime della repressione stalinista vengono riabilitate. L’atto più significativo del riformismo chrusceviano, però, è legato alla demolizione della figura di Stalin e alla denuncia dei crimini commessi in URSS a partire dagli anni Trenta. In un discorso segreto tenuto al XX Congresso del PCUS (febbraio del 1956) Chruscev denuncia gli arresti di massa e le deportazioni, le torture e i processi farsa del terrore staliniano. La salma di Stalin viene tolta dal mausoleo che divide con Lenin e Stalingrado viene rinominata Volgograd. Tuttavia quest’opera di destalinizzazione, che mette in risalto le responsabilità del dittatore georgiano ma non mette in discussione il modello sovietico, è tesa, ancora una volta, a legittimare il gruppo dirigente sovietico. Il rapporto Chruscev, infatti, scuote l’opinione pubblica occidentale ma non viene pubblicato in Unione Sovietica. Gli errori e le deviazioni della storia sovietica vengono attribuite al “culto della personalità” di Stalin e alle frequenti violazioni della “legalità socialista”. Le ripercussioni più profonde della destalinizzazione si hanno, dunque, non all’interno dell’URSS ma in alcuni Paesi satelliti dell’Europa dell’Est. Le agitazioni che sorgono in Polonia (giugno del 1956) e in Ungheria (ottobre-novembre del 1956), sulla scia del cambiamento innescato dal rapporto Chruscev vengono stroncate duramente dall’intervento delle truppe sovietiche.
In questo periodo il regime sovietico post stalinista, abbandonando l’ipotesi del crollo imminente del capitalismo, si concentra su due obiettivi: la crescita militare e la penetrazione nei Paesi del Terzo Mondo. Gli sforzi sovietici nella tecnologia hanno il loro culmine nell’ottobre del 1957 con il lancio dello Sputnik, il primo satellite artificiale del mondo. Dopo la crisi di Berlino Ovest, che si risolve nella costruzione del muro che divide in due la città tedesca (1961), e la crisi cubana dell’ottobre 1962 l’Unione Sovietica decide di firmare con gli Stati Uniti nel 1963 il trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera.
Nell’ottobre del 1964, mentre Chruscev è in vacanza sul Mar Nero, il Presidium del partito si riunisce a Mosca ed estromette Chruscev da tutte le cariche. Al suo posto si installa una direzione collegiale formata da Leonid Breznev (1906-1982), segretario del PCUS, Aleksej Kossighin (1904-1980), capo del governo, e Michail Suslov (1902-1982), massima autorità in campo ideologico. Breznev si afferma subito come leader indiscusso e per diciotto anni, fino alla sua morte (1982), rimane il segretario del partito. La nomenklatura di partito riafferma in modo autoritario le sue prerogative e ogni spinta riformistica viene sopita. Le timide aperture chrusceviane vengono congelate dal nuovo gruppo dirigente che, oltre a un radicale mutamento nello stile politico (minor accento sulla destalinizzazione e sulle iniziative clamorose), accentua la repressione di ogni forma di dissenso, soprattutto quella intellettuale. Alcuni intellettuali, fra cui il celebre scrittore Aleksandr Solgenitsyn (1918-2008), vengono lasciati emigrare in Occidente, altri dissidenti vengono internati in ospedali psichiatrici e sottoposti a trattamenti farmacologici e ad altre torture. Anche la dissidenza nei Paesi del Patto di Varsavia non viene tollerata e il 21 agosto del 1968 le truppe sovietiche, insieme a quelle della Germania Est, della Polonia e dell’Ungheria, occupano Praga e mettono fine al tentativo riformatore promosso da Aleksander Dubcek (1921-1992).
L’accentuazione dei tratti burocratico-autoritari del regime interno è visibile anche nell’organizzazione economica dell’URSS. Il potere centrale, oltre a stringere ancor di più il controllo sui singoli settori produttivi, non riesce a comprendere alcune innovazioni tecnologiche come la plastica, le fibre sintetiche e soprattutto i computer. L’insistenza sullo stretto controllo dell’informazione fa sì che l’URSS venga esclusa dai progressi delle tecnologie informatiche e che l’apparato centrale di pianificazione si concentri sempre sulla produzione delle stesse merci. Il periodo di stagnazione economica dell’era brezneviana fa segnare un continuo calo demografico, un alcolismo endemico, una corruzione dilagante e soprattutto una profonda crisi del settore agricolo, che vede l’Unione Sovietica costretta a importare ingenti quantitativi di cereali dall’Occidente. La corsa agli armamenti della guerra fredda ha obbligato l’establishment sovietico a enormi investimenti nell’apparato militare-industriale sottraendo, in questo modo, risorse ingenti all’industria produttiva. Nei primi anni Ottanta il divario con l’Occidente sia sotto il profilo dell’innovazione tecnologica che del reddito pro capite, è amplissimo. Nel 1979, inoltre, l’Unione Sovietica va incontro a un durissimo conflitto nel cuore dell’Asia islamica, in Afghanistan. Per imporre un governo fedele a Mosca, con l’obiettivo di cambiare la direzione politica di un Paese che fino a quel momento è schierato con i Paesi non allineati, le truppe sovietiche si scontrano per tutto il decennio degli anni Ottanta con una ostinata resistenza di gruppi guerriglieri islamici. Nel 1989, dopo più di dieci anni di guerriglia che ha avuto un altissimo costo di vite umane, l’Unione Sovietica si ritira dall’Afghanistan.
Alla morte di Breznev (novembre 1982) l’URSS è un Paese stremato da gravi conflitti politici e sociali. La gerontocrazia sovietica cerca di porre rimedio a questa situazione eleggendo al vertice del partito prima Yuri Andropov (1914-1984) e poi, alla sua morte, Kostantin Cernenko (1911-1985). I due anziani e malati leader politici muoiono poco dopo la loro salita al potere. Nel marzo del 1985, il Politburo, con una scelta di discontinuità politica, nomina come segretario del partito il giovane (54 anni) Michail Sergeevič Gorbacev. Il programma politico del nuovo leader sovietico, rappresentante di una generazione non coinvolta nelle pratiche staliniste, si riassume nelle due parole d’ordine, perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza), che propongono una liberalizzazione del sistema economico e una democratizzazione del sistema politico. Gorbacev inserisce elementi di economia di mercato nell’asfittico sistema economico sovietico e si fa promotore nel 1988 di una nuova costituzione che, senza intaccare il monopartitismo, introduce un sistema di candidature plurime su lista unica. Questo limitato pluralismo politico porta all’elezione del Congresso dei Soviet, nel 1989, di Andreij Sacharov, dissidente perseguitato nel periodo brezneviano. Il tentativo di rianimare il sistema senza scardinarne le fondamenta elaborato da Gorbacev si scontra sin da subito con la nomenklatura sovietica trincerata dietro i suoi privilegi. Inoltre l’apertura di nuovi spazi di dibattito politico mette in moto tensioni non facilmente controllabili, soprattutto tra le popolazioni non russe che richiedono una maggiore autonomia o addirittura l’indipendenza da Mosca. Sorgono movimenti indipendentisti nelle repubbliche caucasiche – con scontri sanguinosi tra gli armeni cattolici e i musulmani azeri nel febbraio del 1988 – e nelle tre repubbliche baltiche (Lettonia, Estonia, Lituania). Anche la Repubblica Russa chiede più autonomia dal potere centrale e, nel 1990, elegge alla presidenza il riformista Boris Eltsin (1931-2007). Queste tensioni etniche e nazionaliste, che si aggiungono alla persistente crisi economica e alla dissoluzione dei regimi socialisti nei paesi dell’Est Europa – il cui avvenimento simbolo è il crollo del muro di Berlino il 9 novembre 1989 – portano al collasso del sistema sovietico. Nell’agosto del 1991 un gruppo di dirigenti del PCUS organizza un colpo di Stato esautorando Gorbacev dalle sue funzioni e sequestrandolo nella sua dacia in Crimea. Il golpe fallisce per la vigorosa protesta popolare e per il mancato sostegno dell’esercito. Boris Eltsin, protagonista indiscusso della resistenza ai congiurati, si propone, in qualità di presidente della Repubblica Russa, come l’unico detentore del potere. Il fallimento del colpo di Stato accentua così la disgregazione dell’URSS. Le spinte separatiste traggono legittimazione da questa debolezza politica e dopo l’Estonia, la Lettonia e la Lituania anche la Georgia, l’Armenia, la Moldavia e l’Ucraina proclamano la secessione unilaterale dall’URSS. Il 21 dicembre 1991 ad Alma Ata in Kazakistan i rappresentanti di undici repubbliche dell’URSS, sorpassando la proposta gorbaceviana di un nuovo trattato di Unione, danno vita a una nuova organizzazione internazionale di Stati sovrani, la Comunità di Stati Indipendenti (CSI). Il 25 dicembre 1991, dopo le dimissioni di Gorbacev e l’innalzamento della bandiera russa sul Cremlino al posto della bandiera rossa, l’Unione Sovietica cessa di esistere.