L’università italiana e il pamphlet di Croce
Il 7 e il 12 luglio 1914, a poche settimane dallo scoppio della Prima guerra mondiale, Croce scrisse a Gentile due lettere a commento degli ultimi sviluppi della recente vicenda universitaria che aveva coinvolto quest’ultimo. Gentile aveva accettato il trasferimento dall’Università di Palermo a quella di Pisa, sulla cattedra che era stata del suo maestro, Donato Jaja, dopo aver tentato inutilmente di essere chiamato dalle facoltà di Filosofia di Torino o di Roma, le quali, dopo mesi di trattative, gli avevano rifiutato il passaggio in quelle due sedi assai più ambite. Come sempre, in simili questioni, c’erano stati contatti, pressioni e promesse non mantenute. Nelle due lettere Croce si lasciò andare ad amare considerazioni:
Io non so che gente ci sia in codesto mondo universitario: certo, è gente che non ha ricevuto la più piccola ed elementare educazione morale, quella che fa obbligo di osservare la parola data. [...] Non mi meraviglio, e quasi non ne ho provato dolore. Ho avuto sempre pochissima fede nella moralità universitaria. I casi tuoi a Roma e a Torino, dopo quelli di Napoli, mi hanno tolto l’ultimo residuo di fede. Nulla est redemptio, né moralmente né intellettualmente (Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, pp. 474-75).
Il finale, con un improvviso cambio di registro, passava dalla risentita rassegnazione, all’ironia:
Quando io sarò morto, certamente mi faranno qualche busto o statua, almeno in qualche paesetto d’Abruzzo, se non in qualche stradicciuola di Napoli. Ebbene, io spero che allora ci scriveranno sotto il mio elogio: Tolse la filosofia e la letteratura dalle mani dei professori universitarii... (p. 475).
La battuta chiudeva l’intervento attivo di Croce, sotto forma di battaglie e interventi pubblici, in una sua lunga guerra dichiarata ai «professori universitarii», iniziata nel 1902 e culminata nel 1909 con la pubblicazione di un documento di eccezionale durezza, il pamphlet su Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana. All’origine del pamphlet era stata ancora una disavventura occorsa a Gentile, cui era stato negato in quell’occasione il trasferimento da Palermo a Napoli. Si era nel momento più intenso della collaborazione tra Croce e Gentile, che conducevano e scrivevano insieme dal 1903 «La Critica», e l’intervento di Croce, che sperava di poter lavorare fianco a fianco con l’amico nella stessa città, aveva indubbiamente un risvolto personale, ma nelle intenzioni dell’autore andava ben al di là del pretesto relativo al caso singolo: era un j’accuse che investiva un intero ambiente, volto dichiaratamente a sollevare un questione d’interesse pubblico.
Non era il primo, anche se il più vistoso e plateale. Croce aveva esordito sul giornale del Partito socialista, l’«Avanti!», con due durissimi articoli, nei quali si commentavano altrettanti esempi di malcostume universitario (Tre cattedre da abolire, 23 gennaio 1902; Succhioni universitari, 21 dicembre 1903). Nel primo articolo attaccava Raffaele Mariano, un esponente della vecchia ‘destra’ hegeliana, allievo di Augusto Vera e docente a Napoli di storia della Chiesa dal 1885, per il privilegio concessogli di un comando a Firenze, interpretato come una vera e propria sinecura. L’episodio avrebbe avuto come risultato la rottura dei rapporti personali tra Croce e Mariano, con un lungo strascico di polemiche, ma anche interrogazioni parlamentari che portarono alla richiesta dell’aspettativa da parte del docente. Nel secondo articolo l’accusa era ripetuta nei confronti di Alessandro Chiappelli, docente di storia della filosofia a Napoli dal 1887, che nel 1903 aveva ottenuto un analogo comando a Firenze per eseguire ricerche di storia dell’arte, materia di cui era cultore ma che non aveva nessun rapporto con i suoi specifici obblighi didattici.
Al di là dei due casi personali, a Croce, che in tal modo rispondeva anche all’inchiesta del quotidiano socialista sugli sprechi nella pubblica amministrazione, stava però soprattutto a cuore – ed è motivo su cui tornerà insistentemente in seguito – additare gli inizi della pratica della moltiplicazione delle cattedre «inutili», che a Napoli si intendeva coprire o istituire, nella fattispecie, su impulso del rettore, Filippo Masci (che sarà poi al centro delle successive polemiche crociane): storia della Chiesa, estetica, filosofia della storia. Croce si basava su dati statistici, ritenendo che il numero di circa cinquanta cattedre filosofiche, con una media di quattro per ogni sede, non dovesse essere innalzato artificialmente. Ma argomentava soprattutto con motivi di ordine teorico, strettamente legati al suo impianto dottrinale, in quanto riteneva che quelle cattedre non corrispondessero a settori disciplinari autonomi, ma piuttosto ad aspetti che potevano essere trattati all’interno degli insegnamenti esistenti: la storia della Chiesa poteva rientrare nel settore della storia moderna; estetica e filosofia della storia, in quello della filosofia teoretica. Se l’estetica inoltre aveva una sua legittimità (ma in realtà in Italia avrebbe dovuto essere piuttosto incrementato l’insegnamento di storia dell’arte), nessuna se ne doveva attribuire alla filosofia della storia, se non per gli aspetti metodici, e, come insegnamento a sé, gli sembrava più confezionato a misura di qualche «spostato degli studi classici» o di qualche «sedicente sociologo» (Tre cattedre da abolire, cit.). Croce concludeva raccomandando un’inchiesta, che stabilisse quali cattedre fossero davvero necessarie agli studi, e quali invece risultassero una manifestazione di interessi «consorteschi» di particolari circoli accademici.
Sulla stessa falsariga si muovevano anche successivi interventi, sempre mirati su casi specifici e documentati. Nel 1905 Croce criticò un provvedimento ministeriale che limitava arbitrariamente le nomine nelle commissioni dei concorsi, introducendo inverosimili criteri di incompatibilità (Nuove costumanze nei concorsi universitari, «Il Marzocco», 15 ottobre 1905). Negli anni seguenti tornò sulla incongruità dei criteri di istituzione, moltiplicazione e copertura di alcune cattedre, peraltro dai dubbi contorni scientifici, e di assegnazione di incarichi, non esenti talora dai sospetti di una disinvolta sovrapposizione di interessi privati e familistici: questi, in un caso, sempre all’Università di Napoli, furono riconosciuti dal Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e portarono così all’annullamento della relativa delibera (su alcuni di questi casi esemplari, si vedano per es. Come si provvede alle cattedre universitarie. La cattedra di estetica nell’Università di Napoli, «La Cultura», 1907, 26, pp. 136-37, e Pasticci universitari, «Nuovi doveri», 1908, 2, pp. 41-42). Partendo da un sanguinoso fatto di cronaca, Croce – anticipando ciò che avrebbe scritto poco dopo in un impressionante e provocatorio articolo Gaetano Salvemini (Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita, «La Voce», 3 gennaio 1909, pp. 9-10) – delineò anche un fosco quadro sociologico, mettendo l’accento sul degrado morale dell’ambiente studentesco, causato a suo parere anche dalla superficialità con cui si gestivano le lauree nella facoltà di Filosofia (Le lauree in filosofia e il caso Laganà, «La Critica», 1907, 5, pp. 86-87).
Il libello del 1909, la cui prefazione fu subito anticipata da Giuseppe Prezzolini nella «Voce» (4 marzo 1909, pp. 45-46), segna, rispetto a queste schermaglie, un salto di qualità: da allora e fino in tempi recenti, «quando ci si voleva riferire alla “disonestà universitaria” si sarebbe ritornati al pamphlet crociano» (Tognon 1990, p. 128). L’opuscolo ristampava il carteggio intercorso tra Croce e il ministro Luigi Rava, già apparso nel giugno e nell’ottobre del 1908 sulla rivista del movimento degli insegnanti della scuola secondaria, «Nuovi doveri». Il testo ebbe ampia diffusione e provocò un dibattito assai vivace: «La Voce» se ne fece eco e intervenne più volte sulla questione, sollecitando inutilmente una risposta pubblica da parte degli oppositori di Croce e di Gentile.
La carriera universitaria di Gentile aveva trovato inciampi già nel 1903, quando gli era stata negata l’eleggibilità per il concorso alla cattedra nell’Università di Palermo, da una commissione formata, tra gli altri, da Felice Tocco e da Masci: le prime prove di Gentile, in particolare La rinascita dell’idealismo (prolusione, pronunciata il 28 febbraio 1903, a un corso libero di filosofia teoretica tenuto all’Università di Napoli), con le critiche ivi espresse al neokantismo, non dovettero certamente ben disporre i giudicanti, e questa fu almeno la convinzione che Croce e Gentile ricavarono dalla vicenda.
Nel 1905 Gentile vinse il concorso per l’Università di Palermo, ma tre anni dopo, come si è detto, il tentativo di un trasferimento a Napoli sulla cattedra di Chiappelli (messo a riposo) andò incontro a un naufragio. L’intera vicenda, trascinatasi dall’ottobre del 1908 fino al giugno dell’anno seguente, è documentata dal carteggio di Croce e Gentile con altri protagonisti: Croce si impegnò in prima persona e a tutto campo per far prevalere i diritti dell’amico e collaboratore, ma senza esito. A Gentile fu preferito Aurelio Covotti, che era risultato secondo dopo Gentile al concorso palermitano: da qui, fra l’altro, la richiesta di Gentile che fosse negato al suo concorrente il trasferimento diretto e che la cattedra vacante venisse messa a concorso. Nel 1910 una commissione ministeriale d’inchiesta, pur riconoscendo la parziale fondatezza delle lamentele di Gentile, sancì l’operato della facoltà napoletana.
L’impianto del testo crociano era costituito da una minuta contestazione dei dettagli regolamentari della vicenda, nel tentativo di dimostrare l’irregolarità del procedimento e dell’intervento ministeriale. Il punctum dolens della questione era costituito dalla richiesta di un intervento volto a sottrarre alla facoltà la decisione sul trasferimento mediante il bando di un concorso: ciò era previsto dalla legge in presenza di ragionevoli dubbi sull’obiettività dei criteri e delle motivazioni adottate da una facoltà o comunque a tutela delle garanzie di terzi. La critica – sul filo della decisione finale della commissione ministeriale d’inchiesta – ha letto per lo più i rilievi crociani specifici come una forzatura rispetto alla lettera dei regolamenti o come un approccio relativamente strumentale, dettato da partigianeria e persino da un atteggiamento genericamente moralistico. Il che tuttavia è vero solo in parte: quello che Croce mise in rilievo, con indubbia chiarezza, fu un certo carattere di ambiguità nei regolamenti dell’epoca, dentro i quali sussisteva realmente, al di là della circostanza specifica, un margine di arbitrio destinato a dar luogo a possibili irregolarità, se non ai veri e propri «intrighi», «soprusi» e «abusi» che egli agitava con enfasi. Pare indubbio, per es., che quando Croce eccepiva sulle motivazioni addotte dalla facoltà napoletana della preferenza accordata a un candidato piuttosto che a un altro, in base all’esigenza del proseguimento di una determinata «tradizione» di studi o all’esplicita e incongrua controvalutazione dei risultati del concorso di Palermo del 1905, non additasse cavilli pretestuosi, bensì possibili insidiosi precedenti (Il caso Gentile, cit., pp. 26-31).
Concludendo l’introduzione all’opuscolo, Croce tese a ricondurre il problema del caso Gentile, che considerava esaurito e privo ormai di qualunque carattere personale, a una questione generale, fondata «sopra un esempio vivo e preciso» (p. 16), ossia ai progetti di riforma universitaria che si andavano discutendo all’epoca (pp. 12-17). Egli giudicava quello dei concorsi e dei trasferimenti un problema rilevantissimo, ponendo il problema della giurisdizione e dei limiti dell’«autonomia» universitaria: «L’Italia, sorta dalla rivoluzione unitaria, ha assetto e tradizioni liberali e non corporative; e il solo sistema universitario, che le si confaccia, è quello dei concorsi» (p. 7), unica tutela di una selezione del personale ispirata a criteri obiettivi e al principio della «democrazia del merito» (p. 19).
Croce si richiamava qui addirittura ai classici, come Johann Gottlieb Fichte, ma risuonavano nel suo intervento anche accenti più vicini nel tempo, legati a una consolidata tradizione politica, e posizioni a lui da sempre familiari: L’università e la libertà della scienza, discorso inaugurale dell’anno accademico che Antonio Labriola pronunciò all’Università di Roma il 14 novembre 1896, e i quattro discorsi tenuti da Silvio Spaventa nel gennaio-febbraio del 1884 alla Camera sull’autonomia universitaria (poi raccolti, con il titolo L’autonomia universitaria, in La politica della Destra. Scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce, 1910, pp. 341-407), testi dei quali Croce stesso si era fatto editore, rispettivamente nel 1897 e, come detto, nel 1910, giusto l’anno dopo il pamphlet sul caso Gentile.
Labriola aveva posto come urgente il problema di una riforma dei metodi della nomina dei docenti, criticando il sistema dei concorsi in cui «si creano i professori in absentia, su la sola lettura dei titoli a stampa» (L’università e la libertà della scienza, in Da un secolo all’altro, 1897-1903, a cura di S. Miccolis, A. Savorelli, 2012, p. 14). Ma soprattutto aveva insistito contro una concezione corporativa dell’università, secondo la quale i diritti dovrebbero essere esercitati in modo collegiale:
l’organico di un pubblico servizio, che venga esercitato nell’interesse della società, non ha nulla di comune coi titoli e coi gradi gerarchici di una corporazione. I corpi, che in altri tempi esercitarono le funzioni dell’insegnare, ottenuto il privilegio, tiranneggiarono poi assai spesso i singoli membri loro. La scienza moderna, per giungere alla presente maturità di libera ricerca, ha dovuto, oltre che dagli altri impedimenti, emanciparsi anche dallo spirito corporativo (p. 23).
Nel presentare i discorsi di Spaventa, basati sullo stesso principio, Croce – del tutto empatico con questa impostazione – richiamava la necessità di meditarli con attenzione, «ora che si riparla, con confusi criterî, di non so quale autonomia da introdurre nelle Università italiane» (“Avvertenza” a La politica della Destra, cit., p. viii).
L’eccezionale aggressività del pamphlet del 1909, manifesta già nel titolo e ancor più in quelli apposti alle lettere aperte al ministro apparse su «Nuovi doveri», dove campeggiavano i termini «indecente» e «cammoristico», saliva di tono in un crescendo di espressioni assai forti, anche dirette, rivolte ai membri della facoltà napoletana. Croce non nascose peraltro che la virulenza dell’attacco – ove riemergevano i giudizi ad personam largamente profusi in molti dei suoi scritti sulla «Critica» indirizzati contro i difetti, in generale, della cultura universitaria – stava a indicare qualcosa che andava oltre la denuncia di un banale episodio di malcostume, di favoritismi o di capziose interpretazioni dei regolamenti. In realtà, dietro il caso Gentile, Croce agitava il tema della ‘riforma intellettuale e morale’ che stava alle spalle del progetto della «Critica» e che era stata gettata, in modi inconsueti, volutamente provocatori e dissacratori, nel quieto agone del mondo accademico, scompigliandone le forme e i rituali.
La denuncia si reggeva di fatto, più che su argomentazioni legali, «sull’autorappresentazione dei due intellettuali [Croce e Gentile] convinti della superiorità della propria proposta culturale e della necessità di affermarla nel mondo universitario» (Turi 1995, 20062, p. 179). Per questo Croce non esitò ad affermare che il «motivo reale» del trattamento riservato a Gentile nel concorso napoletano, come era già accaduto dietro le quinte della bocciatura palermitana del 1903, stava in una vera e propria minacciosa ritorsione o «vendetta»: sia per le numerose recensioni – tutte estremamente negative – cui i principali esponenti della facoltà e protagonisti dell’episodio del concorso gentiliano erano stati sottoposti negli anni precedenti sulla «Critica», sia, in generale per il giudizio storico impietoso sull’evoluzione del pensiero filosofico nella facoltà di Napoli (Il caso Gentile, cit., pp. 6-8). Croce aveva criticato duramente a più riprese (tra il 1903 e il 1908) Masci – rettore di quella università e docente di filosofia teoretica, e principale responsabile del concorso del 1909 –, Igino Petrone – docente di filosofia morale –, Francesco D’Ovidio e Manfredi Porena – figlio di Filippo Porena, docente di geografia, già attaccato duramente nel 1907 (nel citato Come si provvede alle cattedre universitarie) per un caso di nepotismo. «Col Masci sono stato un po’ duro», scrisse Croce a Prezzolini il 25 aprile 1904, raccontandogli che Masci «gli aveva tolto il saluto», ma «egli non meritava riguardi» (B. Croce, G. Prezzolini, Carteggio. 1904-1945, a cura di E. Giammattei, 1° vol., 1990, p. 12).
Non si era trattato di un accanimento speciale nei confronti dell’Università di Napoli: Croce e Gentile avevano condotto una polemica, sistematica, costante e senza riguardi di ‘scuole’, della quale furono bersagli i principali esponenti delle correnti filosofiche dominanti, positivistiche, neokantiane e spiritualistiche, eredi dei capofila della generazione precedente, come attestano, tra il 1903 e il 1914, le serie di articoli sulla «Critica» La filosofia in Italia dopo il 1850 (di Gentile) e La letteratura della nuova Italia (di Croce). Ne fecero egualmente le spese – talora in maniera indiscriminata, come la critica non ha mancato di sottolineare – ora personaggi di rilievo, come Francesco De Sarlo e Federigo Enriques, ora più modesti epigoni (Giuseppe Tarozzi, Bernardino Varisco, Giacomo Barzellotti, Francesco Orestano, Raffaele Trojano e così via). Indubbiamente, in questo quadro gli attacchi ai docenti napoletani si segnalarono per la loro irriguardosità.
Gentile, per parte sua, aveva confutato nel 1904 (nella prefazione all’edizione dei Principi di etica di Bertrando Spaventa) la lettura fatta da Masci dell’etica hegeliana. Croce, che andava da tempo combattendo D’Ovidio, a suo giudizio erede inconsistente di Francesco De Sanctis, polemizzò con Chiappelli, e mise spietatamente alla berlina, non senza motivi, la pochezza teorica, la verbosità retorica e compilatoria, l’eclettismo confusionario e gli errori dei testi di Masci, di Petrone e di autori più giovani con loro variamente collegati. Sintetizzò il suo punto di vista in un breve, acre saggio (La mancanza di senso scientifico e i libri italiani di filosofia, «La Critica», 1906, 4, pp. 383-85), precisando che i difetti della letteratura accademica nascevano spesso dallo «stimolo esterno dei concorsi e delle promozioni» (p. 385) e parlando, sul piano teorico, di una tendenza compromissoria tra positivismo e spiritualismo parallela a un’inarrestabile involuzione scolastica.
Non è difficile supporre che l’irritazione e il risentimento già palesi nel 1903, dopo gli attacchi della «Critica», si siano dunque trasformati nell’ambiente accademico ufficiale in ostilità e guerra aperta, dichiarata non a Gentile ma all’intero progetto dei rumorosi sostenitori della ‘rinascita dell’idealismo’, percepito come l’irruzione di un mondo di irregolari, di un metodo scorretto e pericoloso, di un tentativo di scardinare equilibri costituiti e della base di un programma egemonico sulla cultura filosofica italiana da scongiurare con forza. Napoli era divenuta, nella visione di Croce, il terreno di scontro specifico per un conflitto a tutto campo con la ‘vecchia’ cultura – positivista o spiritualista che fosse –, la quale si opponeva al rinnovamento e che finiva per palesare, a suo parere, sia nei metodi sia nei comportamenti, sintomi di un degrado etico parallelo alla sua decadenza culturale e speculativa.
È infatti questa l’intenzione che anima l’ultima parte del saggio La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 («La Critica», 1910, 8, pp. 241-62, poi in La letteratura della nuova Italia, 4° vol., 1914, rist. 1973, pp. 251-330): un quadro a tinte cariche che ambiva a una compiuta storicizzazione dei presupposti dell’evento discusso nel pamphlet. Croce vi istituiva un intenso confronto tra la cultura universitaria napoletana dopo l’Unità, dominata da figure come Spaventa e De Sanctis e dai loro ‘scolari’ diretti, e quella dei successori, avvicendatisi sulle stesse cattedre dopo il 1883-85: confronto che andava a tutto scapito di questi ultimi. I tratti principali della vecchia scuola erano il vigore filosofico, metodico e dottrinale, riconosciuto e apprezzato anche fuori d’Italia, congiunto con un’opera di carattere ‘politico’, che consisteva nella «coscienza di essere ben più che insegnanti», ma «educatori ed eccitatori di tutte le forze morali» e «apportatori di qualcosa di nuovo nella vita spirituale della nazione»; da qui l’estraneità a qualunque chiusura dottrinale (come di una «chiesa»), l’avversione al burocratismo e al «disegno di tramutare la facoltà di filosofia e lettere in una fabbrica d’insegnanti» (in La letteratura della nuova Italia, cit., p. 277).
Gli sviluppi successivi avrebbero segnato un deciso arretramento e un immeschinimento sul piano teoretico, sia nel settore filosofico (dove prevalsero «eclettiche combinazioni», lo studio di «congerie di fatterelli attinti ai manuali scientifici» e un «profondo indifferentismo morale»: p. 308), sia in quello letterario, con il prevalere della mera erudizione filologica e del formalismo, l’affievolirsi del rapporto tra arte e ‘vita’ – nell’ottica desanctisiana – e la chiusura nei confronti delle letteratura contemporanea italiana e straniera. Ne furono sintomi anche il venir meno della discussione sui grandi temi teorici, l’abbandono di ambiziosi progetti editoriali (l’esempio più vistoso era stata l’edizione delle opere di Giordano Bruno, promossa da De Sanctis e iniziata nel 1879), la fine dei vivaci periodici attivi nella fase precedente e il ristagno di istituzioni parallele come le importanti accademie locali. Netta era la contestazione crociana dei Rimpianti (1903) di D’Ovidio, che, nella forma di una laudatio temporis acti di tipo sentimentale e personale, avevano espresso tra l’altro un «rammarico» per i «tristi giorni» (p. 192) delle polemiche tra le componenti della cultura postunitaria: in questo «atteggiamento pacifistico» Croce scorgeva il simbolo dell’incapacità di storicizzare il significato, filosofico, letterario e civile, delle dure battaglie che avevano visto contrapposti l’hegelismo e la tradizione «retorico-cattolica», e con ciò della definitiva rinuncia al «patrimonio ideale» (La vita letteraria a Napoli, cit., p. 311) trasmesso dalla generazione che aveva fatto l’Unità, il che implicava anche un preciso giudizio politico.
Ciò che a Croce preme tuttavia notare, al di là dell’oggettiva differenza di spessore culturale, è anche la diversa provenienza, formazione e riproduzione dei corpi accademici. La prima generazione si era formata per «vocazione» e in un regime ‘di concorrenza’, transitando spesso verso l’università pubblica dopo l’esperienza nei numerosi ‘studi privati’ – era accaduto, per es., a Spaventa e a De Sanctis – aboliti poi dopo l’Unità: era costituita dunque da ecclesiastici passati allo stato laico, da «rivoluzionari mutati in uomini di governo» e in definitiva da «autodidatti diventati professori ufficiali» (p. 284).
L’eccellenza dell’università «creata dallo Stato italiano» fu dovuta non soltanto ai buoni ordinamenti, ma all’«opera spontanea dei cittadini» (p. 283): l’università in sostanza era da lui concepita come il riflesso di una più generale condizione della cultura, e a Napoli, in particolare, essa si era giovata principalmente proprio di una sorta di «aristocrazia degli Studi» a essa esterna (p. 284). È questo un concetto sul quale Croce ritornerà anche in altre occasioni, manifestando un larvato scetticismo sull’efficacia come tale delle riforme e dei provvedimenti legislativi e più in generale dall’interno di radicate convinzioni sul rapporto tra Stato e società. La contrapposizione istituita tra il periodo ‘eroico’ dell’Università di Napoli e la situazione successiva è netta: il terreno di reclutamento della compagine accademica non era più il risultato del «moto delle iniziative sociali» (p. 312), quanto piuttosto il meccanismo della libera docenza, che Croce stigmatizza come un torbido sistema di clientes in attesa di cattedre e incarichi. I nuovi ranghi universitari sono bollati con parole di fuoco, come la casta di una burocrazia professorale che avrebbe finito per replicare uno «stato ecclesiastico», dove, tra intrighi e discordie, molte cattedre apparivano come «canonicati» e «molti bilanci universitari» come la manomorta (pp. 312-13).
Questa ricostruzione della vita universitaria napoletana, polemicamente concitata, non priva di forzature e a tratti di maniera, si concludeva con un significativo richiamo al presente:
Quel che ancora mancava, era un movimento di pensiero, ripresa e ringiovanimento della tradizione del 1860; il che non era dato ottenere senza passare attraverso una ampia e varia polemica contro l’Università, infedele a quella tradizione (p. 331).
Era così definitivamente stabilito, con il successivo accenno alle «nuove riviste» (p. 331) e alle nuove collane editoriali, un esplicito legame tra la generazione postunitaria e la ‘rinascita dell’idealismo’, non solo sul piano filosofico ma anche su quello del costume e in generale dell’atteggiamento intellettuale. Ed è proprio quest’ultima la parola chiave della questione che Croce agitò nel primo decennio del secolo, al di là delle discussioni teoriche e di quelle sull’assetto istituzionale e i problemi dell’università: la battaglia ingaggiata in nome di una nuova intellettualità, che ambiva riprendere, nelle forme e nei modi dell’intervento culturale, l’antica «aristocrazia» di quei primi e lontani «autodidatti» (p. 284). Molto proveniva a Croce dalla propria storia personale, di studioso «svoltosi liberamente» e che nel 1902 aveva rinunciato a intraprendere la carriera universitaria, consapevole di un ambiente «sfavorevole per le menti indipendenti» (Memorie della mia vita, scritte tra il 1902 e il 1912 e pubblicate in Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal “Contributo alla critica di me stesso”, a cura dell’Istituto italiano per gli studi storici, 1966, p. 25), che avrebbero potuto riuscire a suo giudizio più efficaci «con l’opera della penna» (p. 31). Né gli era stato estraneo il carattere anticonformista e persino stravagante dei pochi docenti che aveva frequentato con certa regolarità, come Antonio Tari e Vittorio Imbriani, e soprattutto Labriola, uomo di opposizione, così poco accademico e anzi sempre polemico contro l’aura professorale di certa cultura contemporanea non estranea nemmeno allo stesso movimento socialista.
Questi influssi presero forma con la fondazione della «Critica», concepita da Croce stesso come il primo vero spartiacque nella sua formazione, e si vennero confrontando e incrociando negli stessi anni con l’apparire – non per la prima volta, ma certo in forma più consapevole che in passato – di un vero e proprio ceto o movimento di ‘intellettuali’, frazione nazionale, con proprie caratteristiche, di un fenomeno europeo. Definito al tempo da una parola di conio recente, esemplata sull’esperienza francese, l’intellettuale si presentava come un nuovo tipo di professionista della cultura, dominato da uno spirito di estraneità, indipendenza e opposizione rispetto al sapere ‘ufficiale’, e, diversamente che in quello, dalla dichiarata volontà di un intervento attivo nella vita politica e nell’opinione pubblica, attraverso l’agitazione di questioni di rilievo sociale e il richiamo a ‘valori’ alternativi. Terreno d’azione di questa nuova intellettualità furono varie iniziative editoriali, collane e periodici; la punta più attiva del mondo delle nuove riviste è costituita da quelle operanti a Firenze a partire dal 1903: «Leonardo» (1903-1907) e «La Voce» (1908-1916), entrambe fondate da Prezzolini e Giovanni Papini, «Il Regno» (1903-1906), fondata da Giuseppe Corradini, ed «Hermes» (1904-1906), fondata da Corradini e Giuseppe Antonio Borgese. Con questo gruppo Croce entrò in sintonia, cogliendone gli elementi di forza e di novità, e con l’ambizione di indirizzarne e disciplinarne le energie e di esercitare su di esso una sorta di discreta egemonia, fondata sul rapporto tra una vicenda ormai nel pieno della maturità e le movenze dinamiche ma acerbe di un ambiente di ‘giovani’. Già dal 1903, in realtà, Croce era cosciente delle differenze tra i due diversi progetti, a partire dall’ambiguità e dagli equivoci del comune riferimento all’‘idealismo’, diversamente segnato da forme di volontarismo irrazionalistico, nel caso dei ‘fiorentini’, e da un richiamo al senso del limite e all’uso della ragione nella versione crociana e gentiliana. Nonostante ciò, e nonostante altre notevoli differenze, non ultime la collocazione sociale dei protagonisti, i distinti riferimenti culturali (il pragmatismo e il dannunzianesimo da un lato, l’idealismo italiano e tedesco, De Sanctis e Giosue Carducci dall’altro) e le propensioni politiche (là esasperatamente antidemocratiche, qua ispirate a un liberalismo risorgimentale moderato), Croce parve piuttosto privilegiare inizialmente i tratti, più o meno generici, di affinità. Da qui il suo elogio della cultura irregolare contro i ‘mestieranti’, della produzione intellettuale libera contro quella condizionata dai meccanismi accademici, della spregiudicatezza – anche politica – contro il servilismo, dell’impegno politico, anche se nella forma indiretta di una militanza volta al risveglio delle coscienze, contro le organizzazioni partitiche e le incrostazioni istituzionali, dell’autopresentarsi come un’élite interprete del Paese reale e come autocoscienza di una nuova classe dirigente.
La polemica con il mondo universitario, al di là degli episodi contingenti, fu uno degli elementi unificanti più vistosi di questa momentanea alleanza tattica tra Croce e la scapigliatura fiorentina, non di rado anche negli accenti indiscriminati e persino per il comune, latente sottofondo di aggressivo moralismo. Giocò certo in questo senso la comune ostilità al positivismo, letto, anche nelle ambigue contaminazioni napoletane, come una filosofia inferior, anacronistica – la cesura del secolo fu avvertita anche come il passaggio a un nuovo modo di pensare –, ritenuta compromessa con una detestata ideologia ‘democratico-massonica’ e una sorta di chiesuola accademica. Papini, fustigatore del positivismo – nella persona del suo caposcuola, Roberto Ardigò, e dei suoi allievi – nel 1905 non esitava a mettere in parallelo la lotta dei «due gruppi» – fiorentino e napoletano – fianco a fianco contro «l’ignobile contaminatio di cattivo spinosismo e di puerile naturalismo» dei positivisti, per la «vivacità della critica contro i capoccia de’ nostri circoli accademici e universitari» (La logica di B. Croce, «Leonardo», 1905, 3, p. 116).
Coeve affermazioni di Croce sono in parte sovrapponibili a questo schema. In numerosi, brevi interventi polemici apparsi tra il 1906 e il 1912 sulla «Critica» e sulla «Voce» – e ristampati poi in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici (1914) –, ricorrono la continua irrisione, la satira del malcostume e l’acredine contro le miserie e meschinità universitarie, la corrispondenza tra povertà di pensiero e interessi concreti di carriere, clientele e gruppi di potere – magari attraverso le invettive di Bruno contro i pedanti – non appaiono molto diverse. «Tra la filosofia e i suoi professori corre di solito», esclama Croce all’apice di un irrefrenabile empito satirico, «lo stesso rapporto che tra il sale e il tabacco e le persone che ne hanno ottenuto la rivendita: bassi ufficiali al riposo e vedove d’impiegati» (La mancanza di senso scientifico, cit., p. 385).
Come è stato ripetuto da Eugenio Garin, tuttavia,
più di una volta il Croce ha sottolineato la differenza del proprio atteggiamento da quello, ad esempio, di un Papini, iconoclasta programmatico ed avversario astioso dell’università in quanto tale
giacché «la polemica crociana, più ancora che contro istituti e uomini, era rivolta contro un concetto del filosofare» (Garin 1997, pp. 176-77), sì che mettere sullo stesso piano la lotta della «Critica» e delle riviste fiorentine risulta infine un «paragone abusato» (Garin 1962, rist. 1976, p. 94). La presa di distanza di Croce riguardo a questo punto è invero precoce, perché, se ancora nel 1908 ripeteva – anticipando la metafora che più tardi chiuderà La vita letteraria a Napoli – che la rinascita del pensiero filosofico passava soprattutto attraverso l’opera di «laici, cioè di non universitarî, e di universitarî solo in quanto si sentano anch’essi laici» (Il risveglio filosofico e la cultura italiana, «La Critica», 1908, 6, p. 175), negli stessi anni andò fissando alcuni importanti distinguo.
L’università, precisa Croce nel 1906, «trasmette problemi, soluzioni, esperienze, metodi di orientamento e di apprendimento: è un grande istituto economico ai fini del sapere» (Scienza e università, «La Critica», 1906, 4, p. 319), per cui non è lecito «contrapporre una scienza extrauniversitaria alla scienza universitaria» (p. 321) – anche perché la maggior parte degli studiosi appartiene di fatto al mondo accademico – ma solo combattere le degenerazioni del sistema. Queste ultime sono fenomeni dannosi, ma meschini, la lotta contro i quali non va assolutamente letta anacronisticamente come un conflitto tragico, d’altri tempi, tra «gli innovatori ribelli e la scienza ufficiale» (p. 320). Non è difficile scorgere in quest’ultima affermazione contro «gli innovatori ribelli», la prima manifestazione di una punta polemica contro le avanguardie fiorentine, che Croce intensifica di lì a poco, sancendo una rottura teorica che diviene presto irreversibile: gli attacchi di Papini al ‘crepuscolo’ dei filosofi, ossia alla tradizione filosofica – da Giambattista Vico a Georg Wilhelm Friedrich Hegel – cui guardavano Croce e Gentile, sono respinti; l’atteggiamento di «superatore» di Borgese, e più in generale dei «cosiddetti intellettuali» è bollato di «lue dannunziana» (in Cultura e vita morale, a cura di M.A. Frangipani, 1993, p. 117).
Ha valore simbolico la recensione negativa («La Critica», 1909, 7, pp. 296-98) all’edizione papiniana (1907, con il titolo La filosofia delle università) del saggio di Arthur Schopenhauer Über die Universitätsphilosophie (1851), nella quale Croce scorge un pretesto letterario utilizzato in funzione del falso obiettivo dell’«annullamento totale» della filosofia universitaria. Da allora in poi è tutto un susseguirsi di nette prese di posizione, il cui bersaglio costante è non più solo la casta professorale, ma, accanto a essa, il «dilettantismo» superficiale, il «ribellismo», l’«immaturità mentale», la «torbidezza» delle «agitazioni di nervi», le «gonfiezze e i falsi colori», gli «amori con le nuvole» e il «misticismo filosofante» di chi si atteggia a «creatore» e a «uomo nuovo» (in Cultura e vita morale, cit., pp. 113, 115-17, 121 e 125-29).
In I laureati al bivio («La Voce», 4 febbraio 1909, p. 1, poi in Cultura e vita morale, cit., pp. 109-13), l’attacco è portato ai «letterati-giornalisti», disabituati alla considerazione scrupolosa del vero e proni all’improvvisazione, ai quali è contrapposta la severa disciplina del lavoro nella scuola. Nel 1911, in un catalogo ragionato dei suoi dissensi dal gruppo fiorentino, Croce potrà concludere drasticamente:
I signori professori italiani [...] hanno ingenerato come reazione una critica, una storia e una filosofia giovanili, alla quale non manca né il calore né pensieri, ma manca certamente il metodo della scienza. [...] non vedo quale guadagno ci sarebbe a togliere, in Italia, la critica, la filosofia e la storiografia di mano ai pedanti, se bisogna poi consegnarla nelle mani dei giornalisti dilettanti (in Cultura e vita morale, cit., pp. 123-24).
Il fronte comune era rotto. Papini lamenta che proprio «La Critica» si andasse riducendo a «un moderato esercizio della ragione» (“La Critica”, «Leonardo», 1906, 4, p. 362), e che non ci fosse ormai più differenza, per es., tra Gentile e i tanto disprezzati Masci e i Chiappelli. Anche sulla «Voce» (dalla quale Salvemini si dissocia nel 1911, mentre Prezzolini si dimette da direttore nel 1912 per lasciare il posto a Papini) le posizioni si vanno differenziando, proprio sul tema dell’università e, all’occasione di un concorso a cattedra, con discussioni molto aspre. Papini e Giovanni Amendola, sostenendo ancora l’«ingegno libero», l’«attività extra accademica» e la «superiorità dell’ingegno non ordinario sui titoli legali e sull’erudizione minuta», accusano la rivista di aver abbandonato la lotta contro la «poca nobiltà dei costumi universitari» (G. Papini, G. Amendola, G. Prezzolini, G.A. Borgese, Per la cattedra a Guglielmo Ferrero, «La Voce», 2 giugno 1910, p. 333). Prezzolini, in sintonia con Croce, rispondendo alle obiezioni di Papini e Amendola confessa che, se la cultura accademica significa professionalismo, pigrizia, noia e insensibilità, nella cultura libera cominciano a notarsi fenomeni di avventatezza, leggerezza, fretta, arrivismo, avidità di denaro e ricerca della popolarità: e perciò confessa di non riuscire «a prender più partito così in blocco, come nel passato», poiché ci sono docenti che educano alla serietà degli studi e, viceversa, una cultura libera dominata da «leggerezza» e da «piccola vanità» (pp. 332-33). Croce gli fa eco in una lettera del 23 settembre 1911 («ho avuto il dispiacere di vedere parecchi giovani, nei quali avevo riposto speranze, sviarsi e dissiparsi», palesando «fiacchezza morale, egoismo, edonismo, atomismo»; Carteggio. 1904-1945, cit., p. 338).
Dopo molte punzecchiature, il saggio di Croce L’aristocrazia e i giovani («La Critica», 1912, 10, pp. 60-66) andava a colpire, in forma di definitivo congedo da essa, l’ideologia giovanilistica o quel «mito della gioventù che attraversa e scandisce la cultura vociana» (Giammattei 1987, p. 144), alimentato di continuo da Papini, da Prezzolini e i loro sodali, e che stava al fondo della polemica antiuniversitaria. Quel mito non era fondante come tale, perché la «giovinezza» per Croce può intendersi solo come «passaggio», un momento di crescita e di crisi, dal quale si deve uscire, e che come tale può contribuire a sanare le «infermità della vecchia Italia» solo recuperando la «poesia del lavoro» (in Cultura e vita morale, cit., p. 172). Il divorzio dai ‘giovani’ era consumato, e a breve sarebbe stato sancito dalla guerra, segnando anche il declino di quell’egemonia che Borgese, per es., rispondendo al saggio crociano, respingeva, rifiutando lo scenario di giovani che avrebbero dovuto tornare, «docili e quieti», a «far gli operai eruditi e specialisti» (Croce e Vico, Croce e i “giovani”, «La cultura contemporanea», marzo-aprile 1912, p. 171), e di conseguenza respingendo anche l’ormai sofferta tutela dell’ormai maturo maestro.
Molti anni dopo – ma ci saranno di mezzo la guerra, il suo incarico di ministro della Pubblica Istruzione nel quinto governo Giolitti (1920-21), la nascita del fascismo e il dissidio con Gentile –, Croce avrebbe ancora ripercorso il conflitto tra «laici» e «universitarî» del primo decennio del secolo, con la vittoria riportata dai primi, ricordando tuttavia che gli altri, sotto attacco, «come potevano, migliorarono alquanto e si studiarono di tenere il passo e d’imitare in qualche modo gli esempî fortunati» (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, a cura di G. Talamo, A. Scotti, 2004, p. 237). Assai meno invece era concesso allo «spettacolo da caleidoscopio» delle «riviste giovanili» (pp. 238-39) cui aveva un tempo offerto qualche credito; alle quali veniva contrapposto l’antico programma della «Critica»: combattere le «opposte schiere dei vecchi e dei giovani, dei positivisti, empiristi e filologisti da una banda, dei genialoidi e mistici dilettanti dall’altra» (p. 240).
E. Garin, La cultura italiana tra ’800 e ’900. Studi e ricerche, Bari 1962, Roma-Bari 1976, pp. 81-106.
E. Giammattei, Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento, Bologna 1987, pp. 141-62.
G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990, Roma-Bari 2002.
G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italiana tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia 1990.
M. Moretti, I. Porciani, Il reclutamento accademico in Italia. Uno sguardo retrospettivo, «Annali di storia delle università italiane», 1991, 1, pp. 11-39.
G. Oldrini, La “rinascita dell’idealismo” e il suo retroterra napoletano, «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2-3, pp. 205-25, poi in Id., L’idealismo italiano tra Napoli e l’Europa, Napoli 1998, pp. 175-205.
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E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1960, 1° vol., Roma-Bari 1997, pp. 21-221.
R. Pertici, Appunti sulla nascita dell’“intellettuale” in Italia, postfazione a Ch. Charle, Gli intellettuali nell’Ottocento: saggio di storia comparata europea (trad. it. di Naissance des “intellectuels”, 1880-1900, Paris 1990), Bologna 2002, pp. 309-46.
S. Cingari, Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea, 1° vol., Soveria Mannelli 2003, pp. 127-214.