L’università
«L’università è la sola istituzione presente in tutti gli Stati europei con i medesimi obiettivi, simili strutture e una comune cultura. Essa rappresenta una comunità intellettuale che riflette la necessità e le potenzialità dell’integrazione sociale e politica dell’Europa». L’incipit dell’introduzione di Andris Barblan, all’epoca segretario generale dell’EUA (European university association), alle relazioni che si tennero a Bologna nel 2001 in occasione della costituzione dell’Osservatorio della Magna charta universitatum è solo una delle testimonianze della perennità dell’istituzione, non solo in Europa, ma nelle diverse aree culturali del mondo (Observatory for fundamental university values and rights, Autonomy and responsibility. The university’s obligations for the XXI century, atti della costituzione dell’Osservatorio della Magna charta universitatum, 2002). Che si tratti di una istituzione molto particolare lo si deve al suo essere un’aggregazione che unisce in forma non episodica un insieme di individui dediti allo sviluppo della conoscenza secondo proprie peculiari predisposizioni intellettuali e interpretazioni della realtà. La formazione delle prime università nel Medioevo conferma, peraltro, l’indispensabilità dell’istituzione per lo sviluppo duraturo dell’attività intellettuale e il suo consolidamento all’interno di un quadro organizzativo stabile. A tale proposito lo storico inglese A.B. Cobban ha ben descritto questa necessità confrontando il successo dell’università di Bologna con l’evanescenza della Scuola di Salerno, che non avrebbe saputo sviluppare un’organizzazione protettiva e coesiva per sostenere il progresso intellettuale messo in moto in quel contesto (R.B. Clark, The higher education system. Academic organization in cross-national perspective, 1983).
L’istituzione dell’università appare oggi come il frutto di una serie di circostanze in parte accidentali. Con il termine universitas si indicava in origine un’aggregazione di persone – come corporazioni di docenti e di studenti sorte per fini di mutua assistenza – e non un luogo (cui era attribuito il nome di studium). Qui si riunivano spontaneamente con il nome di universitates le aggregazioni (dette gilde) di docenti e studenti a cominciare dai secc. 11° e 12°. Nelle diverse fasi proprie all’evoluzione dell’istituzione universitaria si possono rintracciare alcune costanti che ne caratterizzano la natura e ne sottolineano le peculiarità. I rapporti con le forme organizzate della società e dell’economia e dunque il susseguirsi delle funzioni attribuitele (o che l’università si è attribuita) si sono riflessi sulle forme organizzate dell’istituzione accademica.
Un aspetto di rilievo che resterà una costante del mondo accademico e che si riscontra sin dai primordi è il tentativo da parte dei poteri sociali e politici di controllare il sapere. Inizialmente a opera dei due poteri maggiori dell’Europa medioevale: il papato e l’impero, che si attribuiscono il diritto di fondare e/o riconoscere gli studia generalia (antesignani delle università). Sorge infatti l’esigenza, da parte delle diverse forme di potere, di controllare in maniera stabile lo sviluppo della conoscenza, in funzione della gestione della società. In questo senso le nuove università sono viste dal potere politico come agenzie al servizio di una serie di bisogni sociali, dunque con finalità utilitaristiche (A.B. Cobban, Universities: 1100-1500, in The encyclopedia of higher education, 2° vol., 1992).
Imperatori, re e signori dei diversi territori vengono interessandosi alle università sia al fine di consolidare le proprie istituzioni amministrative, sia per contrastare le spinte centrifughe provenienti dalle aristocrazie terriere e cittadine. Il caso più vistoso del tentativo di utilizzare in questo senso le istituzioni di istruzione superiore è rappresentato dalla creazione dell’università di Napoli a opera di Federico II, nel 1224.
In seguito, l’attività di certificazione viene riconosciuta come primaria funzione universitaria dai poteri laici locali. Questi acquistano sempre più quel ruolo di autorità cui spetta il riconoscimento delle funzioni dell’università, inizialmente svolto dal potere papale e da quello imperiale.
Più in generale, i rapporti tra Stato e università si vengono precisando grazie alla graduale secolarizzazione delle pubbliche amministrazioni nel sec. 18°, alle politiche educative dei dispotismi illuminati, alla definizione dei sistemi universitari nazionali dopo la Rivoluzione del 1789 e alla loro centralizzazione nel periodo napoleonico. Mentre da una parte cresceva il controllo statale nel settore pubblico, dall’altra il liberalismo consentiva in vari Paesi il sorgere di università cittadine o private, a volte riconosciute dallo stesso Stato.
L’intreccio con le trasformazioni sociali e politiche non poteva non incidere nel tempo sulla struttura e sul funzionamento dell’università: dalla Riforma e dalla Controriforma allo sviluppo delle burocrazie statuali, dall’assolutismo e dal dispotismo, al liberalismo all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese. A un tempo, il prodotto dell’università ha certamente contribuito allo sviluppo dei processi di industrializzazione e di secolarizzazione e questi, a loro volta, hanno inciso sulla ridefinizione delle funzioni dell’università, a tal punto che le trasformazioni che interverranno nell’istruzione superiore nel sec. 20° non saranno in gran parte che il logico sviluppo di quanto elaborato e sperimentato nei secoli precedenti.
L’aspetto che forse più di ogni altro rappresenta la continuità storica è quello dell’enfasi sull’autonomia quale prerequisito della scienza, che si traduce nell’indipendenza rivendicata per l’insegnamento, l’apprendimento e la ricerca (W. Frijhoff, Universities:1500-1900, in The encyclopedia of higher education, 2° vol., 1992).
L’interesse per il mantenimento dell’autonomia delle istituzioni universitarie rese non sempre facili i loro rapporti con i poteri laici e religiosi.
Solo molto lentamente il divario tra università e società cominciò qua e là a ridursi. Mentre in Germania e Francia le università si mantenevano lontane da ogni contatto con il mondo industriale e degli scambi, negli Stati Uniti le relazioni fra i due ambiti erano migliori, come dimostra l’introduzione nelle università delle scuole di gestione aziendale.
All’inizio del sec. 20° le università non erano vere e proprie «torri d’avorio», come è stato detto, ma non erano nemmeno istituzioni di servizio che fornivano conoscenza e competenze su richiesta (E. Shils, Universities: since 1990, in The encyclopedia of higher education, 2° vol., 1992).
I rapporti tra autorità pubbliche e università si sono sviluppati secondo almeno tre modelli in parte diversi che si riscontrano rispettivamente nei Paesi dell’Europa continentale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (G. Neave, The European dimension in higher education: an historical analysis, paper nella conferenza The relationship between higher education and the nation-state, 1997).
Il modello europeo continentale si caratterizza, fra l’altro, per il principio della «omogeneità legale», da cui deriva lo status di dipendenti pubblici attribuito anche al personale universitario, al fine di proteggerlo dalle possibili pressioni e dagli interessi settoriali e locali, temuti a priori come parziali, arbitrari ed egoistici. Per contro, il potere centrale si suppone per definizione garanzia di uniformità, imparzialità, razionalità. Ma lo Stato ha anche bisogno dell’università per ragioni diverse, che vanno dal consolidamento dei valori nazionali e dello spirito unitario alla formazione di varie categorie professionali e soprattutto dei quadri e dei dirigenti pubblici.
Tuttavia, l’interesse delle classi dirigenti appare rivolto soprattutto alla formazione di alcune categorie professionali. Da qui il controllo della formazione sia attraverso gli esami di Stato per l’esercizio di varie professioni, sia attraverso le autorizzazioni alla creazione di nuove cattedre. Formalmente ciò non viola la libertà dell’università di fissare i contenuti dei corsi di studio e di conferire le lauree, ma i programmi vengono certamente influenzati dai voleri delle classi dirigenti che concepiscono l’università come una scuola professionale.
In diversi Paesi l’università è stata costretta a venire a patti con il potere politico statuale che aveva bisogno della formazione ad alto livello dei suoi funzionari. In alcuni casi (Francia, Unione Sovietica) lo Stato centrale ha trattato direttamente con l’università le attività formative, riconoscendo, a un tempo, l’importanza della ricerca scientifica e sviluppandola in strutture separate di alto livello e riservate alle élite. In altri casi (Inghilterra, Stati Uniti) le diverse categorie e i vari interessi organizzati a livello comunitario si sono fatti portatori delle esigenze formative e di ricerca e hanno trovato un canale diretto con le università, aperte – specialmente negli Stati Uniti – alle varie richieste del mondo esterno.
È emersa così la logica correlazione tra contesti culturali, specifici valori e strutture (nel caso, accademiche), che non possono che essere filiazioni dei contesti culturali e dei valori che in tali contesti si sono sviluppati. Si spiega in tal modo la nascita negli Stati Uniti del modello di multiversity, definita dall’allora presidente dell’università della California, Clark Kerr, come struttura aperta alle diverse necessità formative, conoscitive e di ricerca espresse dalle più differenti categorie sociali (C. Charle, J. Verger, Histoire des universités, 1994).
Dagli anni Settanta in poi, il rapporto università/Stato si è venuto profondamente modificando in ragione di un certo numero di processi innovativi, specialmente nei rapporti tra mondo accademico, Stato ed economia internazionale.
Innanzitutto, si sono venuti sviluppando, in Europa, organismi sovranazionali sulla scorta del processo di unificazione europea; in parallelo e autonomamente, si assiste alla globalizzazione dell’economia e all’integrazione economica, cui si somma l’evoluzione rapidissima della tecnologia, dei processi di produzione e delle competenze professionali (G. Neave, On instantly consumable knowledge and snake oil, «European journal of education», 1992, 27).
Da un lato, dunque, le logiche di riorganizzazione dell’economia tendono a spostare i momenti decisionali al di sopra dello Stato nazionale; dall’altro, gli apparati pubblici centrali rivelano da tempo crescenti difficoltà nel fornire adeguati servizi alla molteplicità delle categorie di cittadini-utenti; dall’altro ancora, alcune funzioni dello Stato centrale e centralizzatore (si pensi alla necessità di rafforzare la coesione interna e l’unità nazionale) vengono meno, anche per il declinare degli antagonismi politico-militari tra i principali Paesi occidentali in favore di unioni sovranazionali, non solo con finalità economiche.
Quello che in particolare va notato è il crescente e accelerato processo di internazionalizzazione dell’istruzione superiore. In virtù del quale oggi – con riferimento alle singole istituzioni – non è più possibile distinguere un ateneo a vocazione locale, uno a dimensione nazionale e uno proiettato a livello internazionale, essendo spinte tutte le università a essere a un tempo collocate nelle tre dimensioni.
A livello generale di sistema il processo si articola in una serie di direzioni: la conoscenza viene trasferita sempre più largamente da un sistema nazionale all’altro sia attraverso i media, sia attraverso la mobilità fisica di ricercatori, studiosi e studenti, sia grazie al proliferare di programmi di ricerca internazionali e di accordi di formazione in comune fra diversi atenei. La dimensione internazionale caratterizza un crescente numero di settori scientifici per la necessità di impostare in termini comparativi l’approfondimento dei più diversi ambiti disciplinari, ma anche in coerenza con l’allargamento dei mercati occupazionali e la mobilità geografica di soggetti appartenenti a culture diverse (K. Janson, H. Schomburg, U. Teichler, The professional value of Erasmus mobility, 2009).
Muta dunque lo scenario nel quale si inserisce l’università e mutano, in conseguenza, le finalità a essa attribuite dalla società.
La logica che guida queste dinamiche politiche tra università, Stato e società è sempre più legata alla ridefinizione e all’uso della «conoscenza utile», finalizzata al benessere economico dei diversi Paesi e al sostegno del loro livello di competitività internazionale. Per la medesima logica lo Stato tende – in particolare nei Paesi dove la competizione è stata recepita con maggior prontezza – ad aver bisogno di personale tecnico ad alto livello. Esso tende quindi a privilegiare sempre più la qualità della formazione superiore: creazione di scuole di eccellenza, crescente importanza delle specializzazioni post-laurea (M. Rostan, M. Vaira, Politiche per l’eccellenza e ristrutturazione dei sistemi d’istruzione superiore, in Torri d’avorio in frantumi? Dove vanno le università europee, a cura di R. Moscati, M. Regini, M. Rostan, 2010).
L’economia acquista dunque una rilevanza del tutto centrale nelle diverse componenti della società. In particolare, le relazioni tra scienza e tecnologia si modificano e si intrecciano al punto da rendere del tutto conveniente, quando non indispensabile, stabilire strette collaborazioni tra le scoperte scientifiche e le loro applicazioni, dunque tra università e imprese industriali. Ne deriva il rischio di dover far dipendere ciò che deve essere studiato da interessi e decisioni esterne.
Nel complesso, dunque, l’università si è trovata a occupare una crescente quantità di ruoli e ha voluto/dovuto rispondere a molteplici esigenze del mondo esterno. I sostenitori delle funzioni tradizionali dell’università ritengono quindi che, per realizzare ancora il proprio ruolo nella società, essa debba comunque, oggi più che mai, ripensare sé stessa e concentrarsi sulla realizzazione dei propri compiti specifici. Il problema appare comunque legato alla possibilità di combinare le nuove funzioni attribuite all’università nel mondo moderno con quelle tradizionali, elaborate in un contesto sociale certamente diverso, dove la scienza aveva poche applicazioni pratiche. Il timore di non riuscire a combinare il moltiplicarsi di funzioni con la qualità della produzione scientifica contrappone i tradizionali modelli di università, sviluppatisi nei principali Paesi europei, a quello anglosassone (in particolare nella versione statunitense), assai più flessibile e articolato in diversi livelli e istituzioni con compiti distinti. Quest’ultimo sembra influenzare progressivamente quelli europei sotto il profilo della diversificazione delle istituzioni e dell’apertura al mondo esterno.
Resta il rischio, paventato da diverse parti, di un abbassamento generale dei livelli culturali e scientifici; altri, tuttavia, considerano infondato tale timore. L’espansione delle attività scientifiche non sembra aver abbassato gli standard di qualità, e l’élite degli scienziati puri non è scomparsa nelle università degli Stati Uniti (D.C. Bok, Beyond the ivory tower: social responsibilities of the modern university, 1982).
Ma quello che appare di particolare rilievo è l’effetto di questa evoluzione sulle modalità di funzionamento dell’università.
Questa evoluzione è stata anche definita «rivoluzione manageriale» dell’istruzione superiore (Prometheus bound: the changing relationship between government and higher education in Western Europe, a cura di G. Neave, F.A. van Vught, 1991; Higher education policy: an international comparative perspective, a cura di L. Goedegebuure, F. Kaiser, P. Maassen, 1993). Da qui deriva tutta una serie di misure innovative nell’organizzazione delle attività accademiche: dall’attribuzione di somme forfettarie per il finanziamento degli atenei, alla conseguente larga discrezionalità nella strutturazione dei bilanci, alla rilevanza dell’acquisizione di commesse esterne, alla ricerca della produttività delle attività interne e alla loro verifica, alla cruciale identificazione di una leadership di qualità per lo sviluppo dell’ateneo, espressione della centralità del management strategico in grado di guidare le politiche di relazione con le forze esterne e gestire il «mercato della formazione». Tale mercato comprende sempre più chiaramente la competizione per l’acquisizione non solo delle risorse economiche dirette, ma anche degli studenti (risorse economiche indirette). Questa tendenza da un lato attribuisce una particolare centralità alle figure dedite alla gestione dell’ateneo (a cominciare dal rettore-presidente), con effetti imprevedibili sugli equilibri interni di potere, e, dall’altro, proprio attraverso le nuove figure di manager (spesso reclutati all’esterno), contribuisce a far penetrare nell’ambiente universitario una serie di valori e modelli di comportamento tipici della cultura aziendale. Quanto questo incida sulle caratteristiche proprie del mondo accademico non è ancora del tutto chiaro (B.R. Clark, Creating entrepreneurial universities. Organizational pathways of transformation, 1998; The higher education managerial revolution?, a cura di A. Amaral, V. Lynn Meek, I.M. Larsen, 2003; B.R. Clark, Sustaining change in universities. Continuities in case studies and concepts, 2004; University governance. Western European comparative perspective, a cura di C. Paradeise, E. Reale, E. Bleiklie, E. Ferlie, 2009).
Un aspetto di sostanza che distingue le finalità da attribuire al sistema formativo si riflette sulle politiche della valutazione. La valutazione infatti tende a stabilire graduatorie, dunque a sanzionare le differenze, ma può essere usata anche per una politica che miri a ridurle. Correlativamente può essere adottata da politiche che si fondino sul principio di differenziazione o su quello di eguaglianza, oppure su quello di equità. Quest’ultimo sembra avere oggi la preferenza nei diversi sistemi formativi, alla luce dell’autonomia crescente degli atenei e quindi dell’importanza attribuita alla diversificazione delle offerte dei percorsi formativi e alle politiche tese a renderli accessibili al maggior numero di utilizzatori.
Lo Stato – come si è visto – tende a modificare le proprie funzioni e a diventare «Stato valutatore»: la concessione dell’autonomia ai singoli istituti formativi comporta la valutazione delle performance e, in conseguenza, il controllo, sotto diversa forma, da parte dello Stato; mentre consente il perseguimento dell’uniformità dell’offerta formativa insieme alla ricerca della qualità delle prestazioni. Lasciando libertà di impostazione e conduzione delle attività accademiche lo Stato rende le università maggiormente collegate con i fruitori (nel modello anglosassone, con gli studenti e con i committenti delle ricerche, entrambi intesi come i propri azionisti/stakeholder), ma contemporaneamente, attraverso i controlli dei risultati (e in conseguenza dei processi per raggiungerli), mette in atto meccanismi di convergenza e uniformità che garantiscono il cittadino forse meglio e più di come non accadeva nel sistema centralistico di un tempo (C. Musselin, La longue marche des universités françaises, 2001; Governing higher education. National perspectives on institutional governance, a cura di A. Amaral, G.A. Jones, B. Karseth, 2002).
In un’ottica riassuntiva va osservato come l’università abbia dimostrato, nei diversi periodi storici, una significativa capacità di adattarsi ai mutamenti. E tuttavia ora i mutamenti richiesti appaiono estremamente accelerati e di portata particolarmente vistosa.
Si assiste, in conseguenza, a una perdita di identità dell’università che trova sempre maggiori difficoltà a definire la propria finalità (o, come si tende a dire, «missione») specifica. Un esempio tra i più evidenti è rappresentato dalla progressiva erosione della distinzione interna tra settore «nobile» e settore professionalizzante. Distinzione che aveva rappresentato la tradizionale risposta (difensiva) dell’università al primo crescere della domanda sociale. Così si configurano un tipo di università che svolge i compiti tradizionali, detta anche core university, e un diverso tipo aperto alle nuove richieste della società: che vanno dalla ricerca e sviluppoalla educazione ricorrente, ai programmi formativi particolari, richiesti dalla comunità locale, detta distributed university (P. Scott, The changing role of the university in the production of new knowledge, «Tertiary education and management», 1997, 3, 1). Ma in diversi contesti questo secondo modello tende a prevalere e le distinzioni tra i due a ridursi progressivamente. A un tempo, in quella che sta configurandosi come la «società della conoscenza» perde spazio la cultura accademica che si basava su quella distanza critica dalla società ritenuta necessaria per svolgere il proprio ruolo, e diviene sempre più forte ed evidente il coinvolgimento dell’accademia con il mondo reale, circostante, e con il mercato, non solo inteso in senso strettamente commerciale (Knowledge society vs. knowledge economy. Knowledge, power, and politics, a cura di S. Sörlin, H. Vessuri, 2007).
Si veda anche