L’università
Lo Stato raccolse la scienza, i suoi strumenti e i suoi cultori, come il primo capitale civile, derivando da questo tesoro la educazione e la istruzione dei cittadini e il maggior bene loro e del comune. Né a questo si arrestò. Volle che la scienza avesse assidui custodi che la conservassero e via via l’accrescessero e la dilatassero; e i maestri delle generazioni costituissero un ordine pubblico che fosse guardia della civiltà come il magistrato è della legge, come il soldato è guardia dell’indipendenza (Atti e Documenti del Governo Provvisorio Toscano, 5° vol., Firenze 1860, pp. 299-300).
Con queste parole il governo provvisorio toscano costituitosi nel 1859 dopo la cacciata del granduca Leopoldo II sottolineava la funzione della nuova università di cui intendeva dotarsi, individuandone il ruolo centrale nell’inedito spazio che si apriva per costruire ex novo le istituzioni di uno stato libero e costituzionale.
Al momento dell’Unità affermazioni come quella riportata sopra furono ricorrenti e costituirono un leitmotiv della pedagogia patriottica più alta, che, concentrandosi sulle istituzioni e sul primato della Kulturnation, esaltava la libertà della scienza all’interno di un paese libero e con un governo rappresentativo. A questo tema si aggiunse immediatamente anche quello della «scienza nazionale»: un’altra espressione la cui incisività sarebbe difficile misconoscere. Questi due termini si intrecciarono immediatamente, e segnarono i primi passi del nation-building.
Nel 1860 non si poteva certo parlare di una comunità scientifica italiana e i congressi degli scienziati ne avevano costituito soltanto una prima embrionale formulazione. Fu dunque proprio il nuovo assetto dell’istruzione superiore a creare le infrastrutture necessarie per compiere un’efficace opera di costruzione della nazione a partire dall’alta cultura. L’esempio a cui ispirarsi sarebbe stato ben presto individuato nella Germania, e proprio pensando a quel modello il grande storico Pasquale Villari avrebbe riflettuto sul valore fondante della scienza e sulla necessità di contribuire a rafforzare le tradizioni italiane.
Nell’anno convulso dell’indipendenza apparve dunque in tutta la sua urgenza la necessità di puntare sull’alta formazione per ridare vita all’antico genio nazionale, per rinsaldare l’identità culturale facendo leva su un antico primato e per formare le nuove classi dirigenti. Se la nazione era ancora tutta da fare, l’università ne avrebbe costituito un pilastro decisivo. Un paese senza grandi eserciti e flotte, un paese nuovo e ancora fragile – scrisse Carlo Matteucci, fisico destinato a occupare un posto di grande rilievo nella progettazione delle nuove infrastrutture accademiche – doveva investire immediatamente in scienza e sapere: non c’era tempo per colpevoli ritardi.
Eventi pubblici come l’apertura dell’anno accademico e poi ancora alcuni importanti centenari, come quello dell’Alma Mater bolognese, orgogliosamente celebrata come il più antico ateneo d’Europa, costituirono un’imponente cassa di risonanza per questo discorso programmatico e pubblico quasi universalmente condiviso. Vi fu chi paragonò esplicitamente l’università a una istituzione preziosa e conquistata a fatica: il nuovo Parlamento, il luogo più alto della sovranità popolare, un istituto avvolto in un’aura di rispetto e quasi di venerazione. Nel gennaio del 1867 il ministro della Pubblica istruzione Domenico Berti affermò che università e grandi istituzioni letterarie e scientifiche costituivano il Parlamento della scienza, al quale competeva il ruolo di formare la parte più giovane e vigorosa della nazione.
Sottolineare il grande investimento compiuto dallo Stato liberale nell’università dell’Ottocento – un investimento forse più simbolico che materiale, dato che i bilanci erano fortemente condizionati dalle nuove e tante necessità del paese – significa metterne in evidenza la funzione costituzionale, chiaramente individuata da Pierangelo Schiera per la Germania (Schiera 1987). L’istituzione destinata a formare le classi dirigenti diventava un fattore politico costituzionale decisivo nel momento in cui le veniva affidato il compito di fondare la scienza della nazione e, al contempo, di garantire il valore dei titoli di studio per le professioni. Nell’Ottocento l’università si iscriveva dunque nella costituzione materiale e assumeva un significato centrale proprio in rapporto allo Stato.
Non si tratta solo della potente spinta all’organizzazione data dal sistema napoleonico e dall’università di Berlino, alla quale sempre si guarda come al paradigma dell’università ottocentesca. Uno sguardo comparato rivolto all’Europa intera sulla base di una vasta ricognizione consente di far emergere questo aspetto con forza ancora maggiore (Porciani, Raphael 2010). Dall’inizio del XIX secolo, le innovazioni introdotte dal modello napoleonico erano state determinanti, per rinnovare sistemi universitari diventati ormai da tempo asfittici (come nel caso dell’Olanda), o per stimolare la nascita di nuovi atenei come quello di Berlino, generato dalla necessità di difendere l’identità tedesca minacciata dalle armate francesi. Di lì a poco, questa tendenza trovò ulteriori conferme. Quando nel 1814 la Norvegia entrò in un regime di personale unione con la Svezia e fu dotata di istituzioni proprie in tutti i campi a eccezione della monarchia, la nuova università fondata tre anni prima divenne un punto di riferimento decisivo non solo per la formazione di funzionari statali, uomini di chiesa, giuristi e medici, ma anche per il suo ruolo cruciale di caposaldo dell’identità nazionale. Non altrimenti si spiegherebbe il fatto che tutti gli studenti, inclusi quelli di medicina, fossero tenuti a sostenere un esame di storia. Nel 1816, meno di un anno dopo la fondazione del Regno unito d’Olanda, il sistema universitario fu rinvigorito e nuovi atenei vennero fondati. Il Belgio, dopo il trionfo della rivoluzione nazionale e liberale del 1830, potenziò ulteriormente il proprio sistema accademico basato su un dualismo tra istituzioni laiche e cattoliche, anche per consolidare il sentimento che, se lo Stato era giovane, la nazione aveva invece antiche radici. Anche il nuovo Stato greco, tre anni dopo lo spostamento della capitale ad Atene, fondò l’università, prima ancora della banca nazionale.
Nel corso dell’Ottocento, dovunque in Europa si pose il problema del rapporto tra la costruzione dell’identità nazionale e il sapere, e tra lo Stato e il sistema universitario. In Italia, questo rapporto venne declinato in modo particolare, in virtù dell’antico primato delle università-comunità del medioevo. Il rapporto con quelle formazioni, assai diverse per struttura e per ambito rispetto a quelle dell’età dei nazionalismi, era piuttosto debole, ma la loro tradizione, rinverdita e in qualche modo reinventata in una continuità nei fatti inesistente, sarebbe stata spesso richiamata alla memoria per celebrare un’età dell’oro e un primato italiano nel confronto con le altre nazioni.
La cesura definitiva – dopo una lunga decadenza protrattasi fino agli ultimi anni del Settecento – era stata segnata anche per l’Italia dall’ingresso nell’orbita napoleonica, con la parziale eccezione di Torino, che aveva iniziato un processo di riforme accademiche qualche anno prima, nell’ambito della monarchia illuminata. Fu, insomma, a partire dall’età francese che integrazione verticale del sistema scolastico e funzione di validazione dell’università si intrecciarono in modo decisivo. Saltò l’ordinamento municipalistico-corporativo di università come quella di Bologna e si affermò la nuova struttura per facoltà, destinata a una lunga fortuna. Si fece una decisa scelta statalista, che dava agli atenei il sostegno forte dello Stato e allo Stato una forma di controllo sul sistema di istruzione superiore: da allora i professori divennero pubblici funzionari. Solo molto più tardi – dopo l’unificazione – si affermò invece l’idea che l’attività di ricerca fosse in qualche modo collegata con l’insegnamento universitario e che i professori dovessero essere scelti sulla base di un prestigio conquistato attraverso pubblicazioni e lavori scientifici.
Strumento centrale per la formazione della classe dirigente, luogo identitario forte, momento simbolico – talvolta anche nella scelta degli edifici –, l’università si affaccia in modo diseguale ma rilevante nel discorso pubblico fin dal 1848. Da allora diventa oggetto di dibattito in Parlamento e sulla stampa, e si creano le premesse per l’intervento di Gabrio Casati, cruciale per lo Stato unitario.
Nell’età della Restaurazione non erano mancate riforme, che avevano prodotto situazioni di eccellenza, come le università asburgiche di Padova e Pavia, incluse tra quelle di prima classe dell’Impero, e la riaperta Scuola Normale di Pisa, di origine napoleonica. Era stata creata anche una qualche uniformità all’interno di ciascuno degli Stati preunitari, passaggio che avrebbe poi segnato il panorama universitario all’indomani dell’unificazione. Certamente, però, al di là delle caratteristiche di ciascuno Stato, permaneva e in qualche caso si accentuava una dicotomia forte: quella tra università grandi e ben articolate e atenei a volte piccolissimi, marginali e periferici, destinati a una spesso inadeguata autoriproduzione delle élites locali. Di questo elemento conviene tenere conto, perché fu uno dei temi centrali del dibattito dal 1859 alla fine del secolo e in qualche modo anche nel Novecento, quando la scelta di mantenere le piccole università si affermò nei fatti e restò a improntare di sé il sistema universitario nazionale. Sarebbe tuttavia errato considerare questo aspetto come una specificità esclusivamente italiana, poiché una tendenza simile è riscontrabile in vari paesi europei.
Di certo il Quarantotto costituì uno spartiacque. Tra le prime dimostrazioni politiche romane, quelle studentesche tra la fine del 1846-47 avevano chiesto al nuovo papa la riorganizzazione della Sapienza. Nella Torino in cui si inserivano insegnamenti di diritto costituzionale e di storia nazionale, Carlo Boncompagni aveva centrato il suo progetto sul forte controllo statale e sulla laicizzazione dell’istruzione e dell’università.
Con il fallimento dell’ondata rivoluzionaria europea e non solo italiana del 1848, si aprì una fase di durissima repressione, che colpì anche in Italia le università e gli universitari, colpevoli di aver partecipato in modo significativo alla protesta. Furono così introdotte forme di controllo poliziesco all’interno degli atenei, che ne impoverirono ulteriormente la didattica. Per l’università questo significò l’interruzione di un periodo di riforme, intraprese nell’area asburgica e avviate anche in altri Stati preunitari. Ma significò anche la vera e propria chiusura di alcuni atenei: e furono proprio le disposizioni che colpirono Pisa e Siena a incrinare in modo definitivo il rapporto delle élites toscane con Leopoldo II, mentre in altri Stati la repressione lasciava senza punti di riferimento tanti intellettuali che avevano trovato spazio nell’università e nel mercato del lavoro intellettuale. Nell’insieme, questo brusco cambiamento potrebbe essere definito come il passaggio da una stagione di innovazioni e riforme a un’altra di vera e propria controriforma. La prospettiva dell’università consente allora di vedere tutti i limiti della definizione di «decennio di preparazione» tradizionalmente formulata dalla nostra storiografia, tutta concentrata sulla prospettiva teleologica dell’unificazione nazionale e tanto distante dalla definizione di neoassolutismo generalmente accolta in area tedesca.
Un’eccezione, però, fu degna di nota. Il Piemonte – in parallelo con la costruzione del proprio ruolo egemone all’interno del movimento nazionale – cominciava a mettere in cantiere una seconda fase di ambiziose innovazioni. Nel 1854 un aristocratico vicino alla monarchia, Luigi Cibrario, cercò di formulare un piano organico di riforma dell’istruzione, per riprendere l’iniziativa e rispondere in modo efficace alla politica riformatrice austriaca. Il suo progetto si arenò in una estenuante discussione parlamentare, ma costituì l’occasione per affrontare – tra l’altro – il grande tema della libertà di insegnamento. Molti dei punti presenti nel progetto furono significativamente ripresi da Casati nella legge nota con il suo nome, che fu varata il 13 novembre 1859 in regime di pieni poteri a causa della guerra: una legge destinata in sostanza a durare fino alla riforma Gentile del 1923.
Se dal livello del discorso pubblico – in larga misura coerente con se stesso e dotato di una marcata continuità – passiamo a osservare il farsi concreto di leggi e decreti, e le politiche relative all’istruzione superiore nei mesi che precedono immediatamente la proclamazione del Regno, è possibile identificare con maggior precisione una serie di scansioni, che permettono di capire in che modo prese forma il sistema universitario. Il crollo degli antichi Stati italiani determinò immediatamente e dovunque una grande attenzione programmatica ai problemi dell’istruzione superiore, che si tradusse in riforme poi superate al momento dell’unificazione, ma importanti per situare nel giusto contesto l’intervento in ambito universitario. In altre parole, è dal 1859 – periodo liminare in cui furono protagonisti i governi provvisori – che comincia quella che può a buon diritto essere definita una fase costituente destinata a lasciare un’impronta quasi indelebile sull’università italiana.
Come si sa, le istituzioni messe a punto in Piemonte furono poi fatte proprie dallo Stato italiano e sarebbe impossibile negare il ruolo, anche e prima di tutto di indirizzo, svolto dalla legge Casati. Ma ci sembra opportuno allargare lo sguardo anche alle politiche messe in atto dai governi provvisori, che rivelano la grande attenzione della classe dirigente liberale per l’istruzione superiore e al tempo stesso svelano evidenti campi di tensione tra identità locale e nazionale proprio in rapporto alla questione dell’università.
In questo senso il vero terminus a quo della nuova università italiana deve essere identificato non nel momento della proclamazione del Regno e neppure in quello della promulgazione della Casati, ma nell’aprile del 1859, quando vennero revocate in Toscana le disposizioni del 1851 con le quali erano state abolite le università di Siena e di Pisa, e nei due mesi seguenti, quando furono abrogati a Parma i licenziamenti dei docenti, sospesi nel 1848. Immediatamente dopo, in Emilia, la giunta centrale di governo assunse il controllo delle università. In rapida successione si registrò l’istituzione di nuove cattedre, a cominciare da quelle di Pubblica economia e di Filosofia del diritto.
Già nel settembre del 1859 iniziò inoltre a delinearsi una sorta di koinè universitaria nazionale, se è vero che si procedette all’equiparazione dei titoli ottenuti nelle università sarde, lombarde, parmensi, modenesi, bolognesi e toscane, aprendo dunque uno spazio nazionale di circolazione e di competenze. Subito dopo, furono create altre cattedre nuove, percepite come uno degli effetti positivi della nuova libertà politica nell’ambito della scienza. A coprirle vennero chiamati prima di tutto gli esuli, che spesso furono contesi fra i vari atenei.
La politica universitaria prendeva forma a colpi di decreti, e ben presto anche di regolamenti. Ma altrettanto decisivo fu l’impatto delle nuove chiamate. Di fatto, fu proprio questa prassi a rinnovare il personale docente e di conseguenza anche il volto dell’università. Non si trattò soltanto di un momento eccezionale, e certo irripetibile, in cui tutto parve, e in qualche misura fu, possibile, e non mancò lo spazio per l’utopia: si aprì una stagione che potremmo definire di riforme plurali, destinata a lasciare segni profondi se non nell’intero sistema in quanto tale, almeno in una serie di istituti ciascuno dei quali si configurò come una sorta di «eccezione». Ne uscì confermato il carattere di un sistema policentrico privo di un centro dominante che continuò a segnare il sistema universitario italiano. Questo sistema policentrico ebbe le sue origini non soltanto negli antichi Stati, ma anche nell’opera dei governi provvisori. In questo senso si può affermare che i caratteri originari del sistema universitario presero forma proprio nel biennio 1859-61. Essi trovano dunque le loro radici e la loro ragion d’essere nel modo in cui avvenne l’unificazione italiana.
La legge Casati si inserisce tra le prime iniziative dei governi dell’Italia centrale e la seconda ondata di provvedimenti, di cui fa parte la fondazione in Toscana dell’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento: l’ambiziosa istituzione che avrebbe dovuto restituire a Firenze il primato di Atene d’Italia, e che può essere letta come la risposta delle élites toscane alla legge Casati. Ma non si deve dimenticare che in Sicilia, immediatamente dopo l’arrivo di Giuseppe Garibaldi, la prodittatura promulgò una legge sulle università, e che altre leggi in proposito furono varate dalla luogotenenza napoletana.
Un aspetto di questo fitto dialogo, almeno altrettanto importante e forse addirittura cruciale, non è però stato messo adeguatamente in luce. Possiamo guardarlo da vicino sulla scorta di documenti rinvenuti di recente, che consentono di spostare l’attenzione dalle modalità di approvazione della legge alla sua fase preparatoria. Si è scritto che la Casati fu messa in cantiere rapidamente – quasi nel gabinetto del ministro – sulla base di parecchie indicazioni del precedente disegno Cibrario del 1854, o del progetto Lanza del 1855-57. Che essa fosse tributaria della Cibrario è vero, ma dalla documentazione preparatoria emerge uno scenario inedito, che mostra come proprio sulla Casati – la legge fondativa del sistema dell’istruzione ma soprattutto dell’università – la politica di egemonia culturale piemontese si dispiegasse con forza, chiarezza e lungimiranza, all’interno di un quadro mutato, quello della costruzione di uno spazio universitario nazionale. Fu proprio questo approccio a consentire di tradurre in progetto e poi in legge un disegno egemonico, acquisendo, sia pur fuori dal Parlamento, un largo consenso.
La Casati, infatti, non fu frutto solo dell’opera di un ristretto gruppo di collaboratori del ministro e meno che mai del lavoro solitario di chi la firmò. Fu invece sottoposta a un ampio novero di docenti universitari e uomini di cultura di quasi tutti gli Stati preunitari. Fu discussa attraverso fitti scambi di lettere. Non si trattò semplicemente di una «commissione pel riordinamento degli studi universitari» inizialmente composta da elementi tutti piemontesi: il progetto venne messo in circolazione anche al di fuori dei confini del Regno di Sardegna, e trasmesso almeno a qualche decina di persone. In questo senso riprendeva un orientamento che si era già manifestato nel 1848, quando il plenipotenziario Alberto Montecuccoli-Laderchi aveva coinvolto nel grandioso progetto di riforma scolastica e universitaria i professori delle università del Lombardo-Veneto, che all’inizio del 1850 avevano presentato le loro proposte.
La legge Casati – una legge quadro che normava l’intero sistema dell’istruzione, dagli organi più alti fino alla scuola elementare – dedicava all’università molti dei suoi articoli: 140 su 380. Basterebbe questo dato a far capire quanto l’università stesse a cuore al legislatore: un dato confermato anche dall’enorme e addirittura prevalente attenzione ad essa dedicata nelle corrispondenze intercorse tra il ministro e gli intellettuali italiani.
Cardine dell’istruzione universitaria era il principio del finanziamento e del monopolio statale, compensato da quello della libertà di insegnamento. Come Casati affermava nella relazione di accompagnamento alla legge:
Tre sistemi principali si offerivano da abbracciare: quello d’una libertà piena e assoluta, la quale, come in Inghilterra, esclude ogni ingerenza governativa; quello in cui, come nel Belgio, è concesso agli stabilimenti privati di far concorrenza cogli istituti dello Stato; quello infine praticato in molti paesi della Germania, nel quale lo Stato provvede all’insegnamento non solo con istituti suoi proprii, ma ne mantiene eziandio la direzione superiore, ammettendo però la concorrenza degl’insegnamenti privati con quelli ufficiali. A quale di questi sistemi volersi dar la precedenza non fu oggetto di molte dubbiezze. Una libertà illimitata che è conveniente ed opportuna in Inghilterra, dove i privati sono da tanto tempo avvezzi a far da sé ciò che altrove è lasciato al Governo, non potrebbe senza pericolo esperimentarsi da noi. Anche al secondo sistema possono essere opposte varie difficoltà da chi si preoccupi di certe condizioni peculiari del nostro paese. Restava perciò da abbracciare il partito più sicuro, vale a dire un sistema medio di libertà sorretta da quelle cautele che la contengano entro i dovuti confini e da quelle guarentigie che l’assicurino e la difendano contro i nemici palesi ed occulti i quali la farebbero traviare e ne guasterebbero il frutto (cit. in Saredo 1899, pp. 5-6).
Mentre nell’istruzione elementare e media era prevista la possibilità dell’insegnamento privato, che si svolgeva di fatto in istituti religiosi, questo era decisamente proibito per l’università, anche se non lo si diceva a chiare lettere. Di fatto le università degli Stati sardi e della Lombardia per le quali la legge era stata varata erano solo statali, e venivano elencate una per una insieme con la nuova Accademia scientifico-letteraria di Milano e con l’università che avrebbe dovuto essere fondata a Chambéry, allora ancora parte del Regno insieme alla Savoia.
L’articolazione degli atenei era per facoltà, e queste erano definite con precisione: medicina, giurisprudenza, lettere e filosofia, scienze fisiche, matematiche e naturali, e infine teologia. Era infatti ritenuta ancora possibile una collaborazione su questo terreno, con la formazione di un clero non nemico dello Stato e sotto l’ombrello di una struttura accademica dello Stato stesso: un tema che sarebbe stato di lì a qualche anno oggetto di non poche controversie fino alla scelta, operata negli anni Settanta, dell’abolizione delle facoltà teologiche, a differenza di quanto avveniva proprio nel paese al quale tanto si guardava come modello accademico: la Germania. Ma nei due paesi, come si sa, il rispettivo ruolo della Chiesa cattolica e di quella evangelica era ben diverso.
Restavano formalmente esterne rispetto allo scheletro istituzionale dell’università vera e propria le scuole di ingegneria, definite «scuole di applicazione per ingegneri» e ispirate a una rilettura dei due modelli d’Oltralpe: quello francese e quello tedesco.
Ricalcava il modello torinese anche la struttura interna delle facoltà, per le quali erano definite una per una le discipline ammesse e in qualche modo obbligatorie. Come è stato messo in evidenza, questa scelta ebbe ripercussioni immediate e suscitò malcontento al di fuori dei confini del Piemonte e della Liguria. Si veniva infatti a trovare in una situazione di oggettiva difficoltà l’università di Pavia, che vedeva «sfaldarsi» la propria facoltà filosofico-matematica, a vantaggio delle nuove istituzioni create a Milano, che fino a quel momento di istituti universitari era stata priva. D’altra parte, la scelta piemontese scontentava anche i toscani, mettendo in minoranza e di fatto travalicando il modello di studi medici introdotto a Firenze dal grande clinico Maurizio Bufalini che proprio sulla clinica, e dunque sull’osservazione e la pratica diretta, aveva puntato per formare i medici dell’ex Granducato.
La struttura impostata con la Casati era destinata a durare. Significativamente, fu però molto presto abrogato l’articolo della legge che prevedeva la chiusura dell’università di Sassari per privilegiare centri di formazione maggiori, articolati in modo completo, e distribuiti in modo razionale nello spazio geopolitico. Ma l’opposizione dei deputati delle città sedi di piccole università fu compatta, vivace e vincente, e aprì la strada al policentrismo che abbiamo menzionato in precedenza.
L’ordinamento universitario previsto dalla Casati era accentrato. Il ministro della Pubblica istruzione presiedeva il consiglio superiore, organo di consulenza e di controllo disciplinare. Il rettore – che diversamente da quanto previsto nel sistema tedesco assommava in sé la funzione di amministratore e di responsabile della vita accademica dell’ateneo – dipendeva direttamente dal ministro, anche se di fatto il ministro rispondeva al Parlamento. In questo modo veniva riconfermato il controllo dell’esecutivo su una funzione chiave che per soli due anni, e cioè a partire dalla legge Lanza del 1857, era stata, sia pure in modo mediato, elettiva. In questa piramide gerarchica al di sotto del rettore stavano i presidi delle varie facoltà, responsabili anch’essi sia degli aspetti accademici che di quelli amministrativi. Ma l’università era – ed è – fatta soprattutto di professori, il cui numero era almeno teoricamente fissato e il cui reclutamento avveniva sia per concorso che per nomina regia (di fatto ministeriale).
Le discipline impartite nelle varie facoltà erano fissate per legge, e in seguito sarebbero state definite ancora più nettamente con lo strumento dei regolamenti. La libertà di insegnamento, che costituiva il cardine del sistema casatiano per i livelli intermedio e inferiore dell’istruzione, si articolava dunque all’interno dell’università in modo ben diverso, e con precisi limiti. Tenuti fuori i privati – e di fatto la Chiesa – dall’istruzione superiore; delimitate chiaramente le strutture all’interno delle quali si poteva conseguire un titolo universitario – di fatto abilitante all’esercizio delle professioni – e definite chiaramente le materie che gli studenti dovevano studiare, la libertà di insegnare e di apprendere era dunque incanalata in modo assai preciso, e comunque entro i confini segnati dal monopolio statale.
Diversamente da quanto avvenne in altri paesi si fece con molta moderazione uso dello strumento previsto dall’art. 106 della legge, che elencava le circostanze in seguito alle quali un membro del corpo accademico poteva essere rimosso: tra queste, «l’avere coll’insegnamento o cogli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l’ordine religioso e morale, o tentato di scalfire i principii e le guarentigie che sono posti a fondamento della costituzione civile dello Stato». I pochi casi in cui si fece ricorso a questo articolo fecero scalpore. A Bologna furono sospesi dall’insegnamento Giosue Carducci, Giuseppe Ceneri e Pietro Piazza, accusati di aver creato scandalo fra la popolazione e danno alla disciplina scolastica per aver firmato un documento rivolto a Giuseppe Mazzini in occasione dell’anniversario della Repubblica romana del 1849 e per aver festeggiato l’onomastico di Mazzini e di Garibaldi nel 1867, quando ancora l’eroe dei due mondi non era assurto al pantheon nazionale e poteva apparire pericoloso. Ma questa vicenda e gli interventi di fine secolo contro Ettore Ciccotti e Maffeo Pantaleoni – deferito dal ministro Emanuele Gianturco al Consiglio Superiore per essere venuto meno ai doveri dell’impiegato dello Stato per motivi politici – rimasero tutto sommato casi isolati. Questi avvenimenti dovettero comunque creare qualche problema, se tra i fascicoli del consiglio superiore conservati all’Archivio centrale dello Stato manca quello relativo al procedimento disciplinare in questione.
Se la figura del professore era codificata nei minimi dettagli, altrettanto ben definita era quella dello studente. Una chiara articolazione su due livelli distingueva lo studente vero e proprio dall’uditore, che era autorizzato a seguire i corsi ma non a sostenere gli esami, e quindi non poteva formalizzare il proprio percorso di studi. La secolarizzazione era chiaramente percepibile nella scelta di non esigere più le fedi di battesimo, né l’assolvimento del precetto pasquale. Due elementi che erano stati fonte di preoccupazione per i governi preunitari, e non soltanto nello Stato pontificio: chi consulti gli archivi universitari della prima metà dell’Ottocento si imbatte frequentemente nella documentazione al riguardo, segno evidente di un forte controllo da parte della Chiesa.
La Casati costituì una sorta di statuto fondamentale della pubblica istruzione ed ebbe un’indubbia efficacia direttiva. Tuttavia, questa legge era stata varata quando il Regno d’Italia non esisteva ancora, e ampi settori dell’opinione pubblica e del mondo accademico manifestarono immediatamente la propria insoddisfazione nei confronti di essa, chiedendo di correggerla. La vicenda è complessa e vale la pena ricapitolarla a grandi linee al fine di cogliere, da un lato, i tratti di fondo delle opinioni che si contrapposero e, dall’altro, il risultato complessivo che si ottenne lasciando in piedi la legge e ritoccandola in base a strategie di compromesso.
Il primo tentativo di avviare un’ampia riforma fu compiuto a ridosso della proclamazione del Regno, quando il ministro della Pubblica istruzione Terenzio Mamiani si pose il problema di riordinare l’intero codice dell’istruzione pubblica. Mamiani prevedeva tra l’altro la possibilità di un forte concorso di province e comuni per istituire università che si affiancassero a quelle governative, e che fossero regionali o libere. Ma il suo progetto rimase sulla carta, come del resto sarebbe avvenuto a tutti quelli che cercarono di intervenire nei decenni successivi in modo forte sul sistema accademico.
Una certa insoddisfazione per la Casati fu chiaramente percepibile fin dal momento dell’unificazione nelle discussioni in Parlamento, nei carteggi relativi all’istruzione superiore e nella pubblicistica, che spesso fece da cassa di risonanza ai dibattiti parlamentari. Ma questa insoddisfazione, generalizzata anche se multivocale e discorde, non si tradusse affatto in una grande legge quadro di riforma. Si tradusse invece in una pratica assai diffusa, quella delle «leggine» che intervennero di volta in volta su questo o quell’aspetto, senza però toccare in modo sostanziale l’insieme, né ridiscutere criteri di fondo, inquadramento generale, orientamenti di base del sistema universitario. Fu questa, crediamo, una specificità italiana, che distingue la storia universitaria del nostro paese da quella di altri Stati europei.
Fu una «leggina» – anche se ancora non definita esplicitamente come tale – a intervenire quasi immediatamente a correggere quello che era stato percepito come un atto di imperio e un sopruso: l’abolizione dell’università di Sassari, considerata inutile e troppo onerosa per lo Stato. Un giurista del calibro di Pasquale Stanislao Mancini, parlamentare eletto proprio a Sassari, prese le difese del piccolo ateneo e non faticò a raccogliere il consenso di tutti i parlamentari che portavano a Torino la voce di altre città dotate di piccoli atenei incompleti, e più in generale di quanti erano portavoce degli interessi locali della periferia contro quelli della capitale e del governo, e contro un progetto che in qualche modo si poteva definire di razionalizzazione. Come avrebbe scritto l’illustre politico Cesare Correnti nella relazione presentata alla Camera dei deputati nella tornata del 10 marzo 1870, in Italia era «riuscito più facile, infinitamente più facile, sopprimere le capitali che traslocare le Università» (Correnti 1893, 3° vol., p. 185).
Il dibattito sull’università nell’Italia postunitaria fu complesso e toccò aspetti eterogenei. Ma se volessimo individuare un filo rosso che lo percorre per intero e che ne definisce il senso complessivo, questo potrebbe essere identificato proprio nella questione delle piccole università.
Per le città che ne erano sedi, gli atenei – piccoli o grandi che fossero – erano davvero importanti, e certo non soltanto per l’indotto, spesso molto modesto, che producevano. Entravano in gioco tanto la consuetudine quanto la possibilità di formare «in casa» la propria classe dirigente, i funzionari e i professionisti. Ma contavano anche altri elementi meno facilmente quantificabili, eppure importanti, nell’Italia delle cento città delle quali, dopo l’unificazione, si ridisegnavano rango e gerarchie. L’orgoglio della piccola patria, la fiera consapevolezza dell’essere città erano dati di fatto decisivi a livello simbolico, e potevano essere anche utile moneta di scambio per le negoziazioni tra il centro e le periferie, portate costantemente avanti da clientele e lobbies locali tramite i deputati del collegio. La tenace difesa delle piccole università fu appunto un tassello di questo gioco più ampio.
Nel 1861, all’indomani della conquista del Sud, quando parve vincente il progetto di un accentramento amministrativo – accolto sulla carta ma del quale oggi la storiografia ha individuato non pochi elementi di debolezza – il senatore Carlo Matteucci intese affrontare con decisione il problema di un sistema eccessivamente policentrico e troppo fragile, nel quale la dispersione delle risorse sia finanziarie che umane gli pareva mettere a rischio la formazione di un sistema universitario solido quanto quello che «un gran Regno» avrebbe dovuto avere (Porciani 1994, p. 141).
Matteucci aveva sposato le ragioni di un sistema come quello francese, nel quale le istituzioni di eccellenza erano tutte concentrate nella capitale e dove centralizzazione e vocazione alla ricerca erano strettamente collegate. Nella sua proposta emergevano il carattere squisitamente politico e amministrativo della questione universitaria e il rapporto tra politica e scienza. Egli partiva dalla constatazione del basso livello dell’istruzione superiore, ulteriormente sminuito a causa del fatto che dovunque era possibile ottenere il medesimo titolo di studio valido per tutto il Regno. I flussi migratori di studenti che cercavano di concludere gli studi in fretta e con poca spesa indicavano con tutta evidenza che nel sistema c’erano falle alle quali bisognava porre rimedio. A parere di Matteucci era necessario fondare pochi centri di istruzione superiore che potessero essere definiti a tutti gli effetti «completi», e alcune «scuole speciali per gli studi pratici e di perfezionamento». La conservazione di tante università imperfette gli pareva in buona sostanza inutile. Ma la vicenda di Sassari lo aveva reso prudente, e il termine «soppressione» era accuratamente evitato. Meglio dunque proporre una nuova articolazione dell’istruzione superiore in università articolate in sei facoltà (teologia, giurisprudenza, scienze fisiche e naturali, medicina e chirurgia, filosofia e filologia), i cui insegnamenti dovevano essere organizzati in modo assai prescrittivo, che non lasciasse più spazio a varianti locali. Cattedre e discipline dovevano essere indicate con cura e gli studenti non avrebbero più avuto grande libertà nell’articolare il proprio corso di studi: faceva così il proprio ingresso l’idea di un piano di studi ben definito.
Inoltre, Matteucci interveniva su un altro versante apparentemente eterogeneo ma in realtà altrettanto decisivo, abolendo la possibilità che fossero i vari atenei a fissare l’importo delle tasse universitarie. Di fatto, portava a una chiara distinzione tra università maggiori e complete sulle quali concentrare le risorse e università minori, formate da poche facoltà, irrimediabilmente destinate a decadere. L’idea di una distinzione delle università su due livelli non era nuova, ma questa volta prendeva corpo in modo molto chiaro, e con conseguenze precise. D’altra parte Matteucci prevedeva anche di sottrarre al corpo accademico ogni controllo sul reclutamento.
La legge apriva, dunque, nuovi margini per la nomina diretta e comunque prevedeva che l’intero reclutamento del corpo accademico fosse controllato da poche istituzioni di élite, che avrebbero dovuto garantire un freno efficace alle mire di atenei disposti a chiudere un occhio sul livello scientifico per favorire localismi e intese poco virtuose.
A François Guizot, Matteucci scrisse di proprio pugno quello che non osava neppure comunicare ai suoi stretti collaboratori: «Si j’avais été libre je n’aurais mis qu’une seule grande Université». Ma dove metterla? L’Italia non era la Francia e troppe sarebbero state le sedi in lizza: Roma, Napoli, Torino, Firenze, e anche altre (ivi, p. 147). Era presente in Matteucci anche l’idea di risollevare, attraverso una generazione di insegnanti ben formati, il sistema di educazione secondaria che gli appariva decisivo in Germania. Infine, era per lui importante che l’insegnamento fosse in stretto contatto con la ricerca. Ma troppi erano gli interessi toccati, e di conseguenza il progetto fallì.
Sconfitto in questo primo tentativo, Matteucci, che nel frattempo era diventato ministro della Pubblica istruzione il 31 marzo 1862, cercò di riproporre sotto altre spoglie il proprio progetto. Conviene soffermarsi su questa vicenda perché fu il primo tentativo organico di rimettere mano all’organizzazione dell’università e al tempo stesso consentì di costruire un momento omologante utilizzando lo strumento dei regolamenti: fu questo il legato che rimase, anche dopo la sconfitta politica del ministro.
Il paesaggio universitario italiano era assai disomogeneo. Da un lato annoverava macroatenei come quello napoletano, che in realtà funzionava soprattutto come un gigantesco esamificio, si appoggiava in gran parte sull’insegnamento privato e sfuggiva di fatto a ogni controllo di tipo statistico, al punto che sarebbe stato difficile definirne il numero degli studenti, e dall’altro i piccolissimi centri come Urbino, che contava da sola non più di trenta iscritti. Anche le norme che reggevano tanti di questi atenei erano ben lontane dalla Casati, e non era infrequente l’abitudine degli studenti di iscriversi dove si pagava meno e dove in breve tempo, e con pochi controlli, si era ammessi a superare i singoli esami e anche l’esame di laurea. «Le università sono scuole, e nelle scuole convien studiare; e per farlo con profitto bisogna studiare con metodo e perseveranza», scriveva Matteucci, pensando anche alla riduzione delle vacanze e a più rigide norme per gli esami (cit. in Fioravanti, Moretti, Porciani 2000, p. 39).
Matteucci aveva costruito un progetto coeso e ben articolato, che aveva lo scopo di innalzare la scienza nazionale: «Una buona organizzazione degli studj, e la grandezza intellettuale di una Nazione sono i più saldi fondamenti della potenza degli Stati e della vera e ordinata libertà dei popoli» (Matteucci 1865, p. 21). Ma si trattava anche di un progetto in qualche modo poco realistico di fronte ai tanti interessi locali messi in campo. Non può dunque sorprendere il suo nuovo, amaro fallimento. Ma di università Matteucci si occupò ancora, di lì a tre anni, in un ampio rapporto sull’istruzione superiore.
Nel 1865, rispettando per l’unica volta un obbligo stabilito dalla Casati, il Consiglio superiore pubblicava una relazione generale sulla pubblica istruzione nel Regno. La sezione sull’università era stata affidata proprio all’ex ministro Matteucci, che delineava un quadro non troppo rassicurante della situazione italiana. Inchieste propriamente dette non erano state svolte, né il questionario indirizzato dallo stesso Matteucci ai rettori poteva essere considerato una soddisfacente fonte di informazioni. La produttività scientifica del paese, osservava Matteucci, era ancora modesta, e con opportuno realismo in quelle stesse settimane Pasquale Villari scriveva a Theodor Mommsen: «Quanto agli studi si fa ancora poco […]. Libri non ne possiamo far molti, perché è sotto il torchio un grosso volume che si chiama Italia, e ci vuol tempo ancora a finirlo») (cit. in Voci 2006, p. 417); il livello del corpo docente non era sempre adeguato e gli esami affidati al professore della singola materia non offrivano sufficienti garanzie di serietà. Più che per il suo valore documentario, la relazione Matteucci è rilevante per il suo impianto politico: l’ex ministro tornava sul suo progetto basato sulla concentrazione delle risorse umane e materiali e sull’attribuzione alle varie sedi universitarie di un ordine gerarchico e di differenti funzioni, con la previsione di un disimpegno statale dal finanziamento di alcuni atenei, che avrebbero potuto essere trasformati in università libere.
Tuttavia, non era solo strumentale la denuncia delle gravi difficoltà materiali nelle quali si trovavano molte università, dei limiti strutturali – situazione edilizia, dotazione di attrezzature scientifiche, stato delle biblioteche – che segnavano la vita degli atenei italiani. Ancora in un’inchiesta pubblicata nel 1910 sarebbero state documentate vicende indicative in questo senso, come quella di un clinico che aveva contribuito di tasca propria a ripianare i debiti del suo istituto, o quella di un rettore che, mancando di fondi e dovendo aprire una finestra in un muro, si era rivolto per un prestito al carbonaio, rimborsandolo poi con fatturazioni maggiorate. Non sono, del resto, questioni da trattarsi per via di aneddoti: il problema del finanziamento dell’università rimase aperto e centrale, decisivo anche nella proposta, fallita, di un riordinamento generale del sistema in senso autonomistico e nel ricorrente riemergere del dibattito sul numero e sulla distribuzione territoriale degli atenei, sulle piccole università e sulla loro sopravvivenza. La struttura dei bilanci, piuttosto rigida e organizzata a livello centrale per capitoli generali di spesa, dava anche luogo, per quel che riguardava la destinazione di finanziamenti per interventi straordinari, a complesse contrattazioni fra singole sedi e ministero; accanto alle discussioni sui vari progetti di riforma universitaria meriterebbero adeguata attenzione anche gli annuali dibattiti sul bilancio del ministero della Pubblica istruzione.
Nel decennio 1865-1875 la politica universitaria fu caratterizzata anche dalle sollecitazioni che provennero da alcuni importanti passaggi della storia nazionale. Sono anni nei quali si ridefinirono i confini non solo geografici e politici del nuovo Stato. La guerra del 1866, che portò all’Italia l’università di Padova, determinò anche un approfondimento del confronto, già avviato, con il sistema formativo prussiano-tedesco, adottato anche nelle università asburgiche nei primi anni della seconda restaurazione. La presa di Roma, nel 1870, causò fra l’altro un aspro contrasto per il riassetto della Sapienza. Due spostamenti di capitale non mancarono di incidere sulle scelte in campo accademico. A Firenze si lavorò a riqualificare e rafforzare l’Istituto di studi superiori, fondato nel 1859; Roma, nelle intenzioni dichiarate di uomini come Quintino Sella, sarebbe dovuta divenire il centro della moderna scienza italiana.
Queste vicende incisero anche sugli orientamenti del discorso pubblico e della progettualità politica attorno all’istruzione superiore. Di università e riforme scrissero allora in molti: da Ruggiero Bonghi, che nel 1866 raccolse in volume il frutto di conversazioni e confronti con altri protagonisti del dibattito e della politica universitaria dell’epoca come Francesco Brioschi ed Enrico Betti, a Pasquale Villari, che, subito dopo essersi interrogato sulle cause della sconfitta italiana nel 1866, pubblicò alcuni importanti articoli di argomento universitario, a Matteucci. Altri studiosi illustri, come Graziadio Isaia Ascoli, ed esponenti di generazioni intellettuali al tramonto, come Niccolò Tommaseo, presero allora la parola in materia, mentre in relazioni e prolusioni cominciava a delinearsi, sia sul terreno istituzionale sia su quello delle prospettive e dei bilanci disciplinari, una riflessione interna al corpo accademico in via di costituzione. Alle discussioni si affiancarono numerosi progetti legislativi. I ministri, da Michele Amari in poi, insediarono commissioni di studio e presentarono disegni di legge di riforma, rimasti tutti peraltro sulla carta, da Domenico Berti nel 1866 a Emilio Broglio, d’intesa con il consiglio superiore, nel 1868-69, fino a Cesare Correnti e Antonio Scialoja nel 1872. La frequenza dei tentativi legislativi documenta tensioni e insoddisfazione attorno al funzionamento del sistema, e le questioni più spesso affrontate in questi testi forniscono anche un sommario di quelli che venivano percepiti come i più rilevanti problemi aperti: l’assetto e la struttura delle facoltà, l’accesso all’insegnamento superiore e la composizione del corpo docente, l’organizzazione della didattica e degli esami e la disciplina studentesca e, in modo ricorrente, la cosiddetta libertà «esterna», la possibilità per soggetti diversi dallo Stato di istituire e gestire atenei. I condizionamenti finanziari giocarono, in questo quadro, un ruolo rilevante. Nel 1870 Sella, nell’ambito dei provvedimenti per il contenimento della spesa, propose la chiusura delle facoltà nelle quali il rapporto fra docenti e studenti fosse stato inferiore a 1:8 nel periodo 1861-70. Nonostante le gravissime difficoltà, l’ordinamento dell’istruzione superiore non fu mai, allora, concepito solo in funzione della spesa; e la richiesta rimase senza esito, salvo che per le facoltà di teologia, la soppressione delle quali veniva prospettata già prima del 20 settembre 1870.
Furono poche le leggi rilevanti approvate in questo periodo, e si trattò di interventi che miravano più a un assestamento del sistema che alla revisione di alcuni suoi caratteri fondamentali. Lo scarto fra i discorsi sulla riforma e il graduale definirsi di una prassi di governo, della gestione ordinaria della vita universitaria, appare con evidenza anche sul piano della normativa minore: regolamenti per le singole facoltà, provvedimenti su personale e organici, criteri di ammissione alle scuole universitarie professionalizzanti come farmacia e veterinaria, istituzione di insegnamenti e disposizioni sugli esami di laurea. Le esigenze di riordinamento si tradussero anche in sforzi conoscitivi, in ispezioni che, illustrando situazioni locali nelle quali avevano un certo corso anche scorrettezze e abusi, come la vendita di diplomi o la registrazione di falsi esami, illuminano un microcosmo popolato di impiegati infedeli, che agivano con il sussidio di un «maestro di scherma», di un parroco, di un «ex gesuita» e di una «femmina da conio» (Fioravanti, Moretti, Porciani 2000, p. 223).
Per tornare alle leggi, oltre alla chiusura, all’inizio del 1873, delle facoltà teologiche, va segnalata almeno quella che nel 1872 «parificava» le università di Padova e Roma a quelle primarie del Regno. Il procedimento inclusivo vanificò, di fatto, le spinte a favore di più ampie riforme emerse ancora durante il dibattito parlamentare; la ricerca di un punto di equilibrio fra suggestioni germaniche, potenziale esemplarità di un nuovo ateneo nella nuova capitale, problemi legati al passaggio dalla Sapienza pontificia all’università italiana, si rivelò troppo complessa, mentre l’estensione ai due atenei dei primi due titoli della Casati era praticabile senza troppi intoppi. La parificazione, del resto, non chiuse la complessa partita romana, né sul piano edilizio e degli investimenti per strutture e dotazioni scientifiche, né su quello dei rapporti con il papato. Il ministro Bonghi, nel 1874, insediava una commissione per studiare le possibili nuove localizzazioni dell’ateneo romano. Lo stesso Bonghi, con un decreto del marzo 1876, avrebbe ordinato la chiusura della cosiddetta università vaticana che era stata organizzata in Palazzo Altemps dai docenti della Sapienza che non avevano prestato il richiesto giuramento, e che per alcuni anni attrasse oltre un centinaio di studenti.
A Roma nacque anche la nuova Accademia dei Lincei. Già riorganizzata da Pio IX nel 1847, fu di fatto rifondata da Sella, eletto presidente nel marzo del 1874. Sella, grazie alla sua larga conoscenza delle varie esperienze scientifiche europee, riteneva che le accademie potessero avere un ruolo centrale di promozione, diffusione e controllo del lavoro scientifico, ruolo che le università, da sole, non avrebbero potuto svolgere. Per questo richiese e ottenne l’istituzione, nel febbraio del 1875, di una Classe di scienze morali, storiche e filologiche che affiancasse l’antica Classe scientifica; inoltre si adoperò a favore di un aumento delle dotazioni e per garantire all’Accademia la sanzione del suo carattere nazionale. I nuovi Lincei convissero con altre importanti strutture accademiche ereditate dagli antichi Stati: l’Accademia delle scienze di Torino, gli Istituti lombardo e veneto a Milano e Venezia, la Società reale di Napoli, oltre alla fittissima rete di istituzioni minori presenti nell’Italia delle città. La funzione delle accademie, e di strutture per più versi analoghe – si pensi alle deputazioni e società di storia patria – fu certamente rilevante, dal punto di vista editoriale (riviste, pubblicazioni erudite e specialistiche), della promozione della ricerca, anche attraverso il bando di concorsi a tema e la concessione di premi, della comunicazione e della socialità scientifica. Ma la vicenda italiana non può essere paragonata a quelle di paesi a più forte polarità fra strutture accademiche e università: la Francia, da un lato, e vari Stati dell’Europa centrale e nord-orientale dall’altro.
A un quindicennio dall’unità erano ormai visibili, nella situazione universitaria italiana, vari elementi di stabilizzazione. Il ministero aveva intrapreso la pubblicazione di un proprio bollettino ufficiale e gli annuari delle università presero ad apparire regolarmente. Fra il 1875 e il 1876 venne definito a livello nazionale l’assetto degli studi di ingegneria, con un regolamento sostituito solo nel 1913 dal ministro Luigi Credaro. Sempre nel 1875 una legge per l’università di Napoli impose anche agli studenti di quell’ateneo l’obbligo dell’iscrizione ai corsi. Il numero degli studenti universitari, difficile da definire con precisione anche a causa di queste eccezioni normative, viene stimato al momento dell’unificazione fra i 7.000 e gli 11.000. I dati disponibili (Polenghi 1993, p. 525; Cammelli, Di Francia 1996, p. 21) mostrano una moderata crescita attorno al 1870, da 12.000 a 13.000, una fase di stasi e di relativo declino nei primi anni Settanta, e una successiva ripresa. Si parla, comunque, di un sistema universitario nel quale gli studenti si contano a migliaia e i professori, come si vedrà, a poche centinaia. Pure, di questa piccola comunità si può almeno dire che fu capace, nel corso di alcuni decenni, di reimmettere a pieno titolo la scienza italiana nei circuiti internazionali.
Un altro confine venne allora intaccato: quello di genere. La Casati, formalmente, non vietava alle donne l’iscrizione all’università, anche se questo silenzio non pare interpretabile in senso liberale, quanto piuttosto in quello della scontata impraticabilità di una simile prospettiva; e i licei, del resto, erano di fatto maschili. Pure, per una sorta di paradosso dell’arretratezza, le donne, poche inizialmente, entrarono nelle aule universitarie italiane ben prima che ciò avvenisse, ad esempio, in Germania. Già il ministro Scialoja, nel suo progetto di legge del 1872, aveva ipotizzato un accesso delle donne all’università grazie ad un esame speciale; Bonghi, nel regolamento generale del 1875, prevedeva esplicitamente l’ingresso delle studentesse all’università. La questione, fondamentale, del percorso di studi secondari che avrebbe dovuto preludervi fu risolta alcuni anni dopo con la formale autorizzazione, per le ragazze, a frequentare gli istituti secondari classici.
Non mancarono parziali eccezioni alla regola del monopolio statale in campo universitario, e furono presenti già nella fase costitutiva del nuovo sistema. Quella più vistosa fu rappresentata dalle quattro università riorganizzate come «libere» fra il 1860 e il 1862. Erano quattro atenei secondari dello Stato pontificio, secondo l’ordinamento stabilito nel 1824 con la bolla Quod divina sapientia, e modificato nel 1826: Urbino, Ferrara, Perugia, Camerino. Subordinate alle due università primarie di Roma e Bologna, quelle secondarie erano materialmente deboli; il finanziamento era affidato «ai proventi delle tasse universitarie e della gestione di quella parte dei beni recuperata dopo il periodo napoleonico, con occasionali interventi del governo pontificio» (Moretti 1998, p. 535) e, in particolare, degli enti locali. Questi si trovarono a essere investiti di un primario compito di salvaguardia nel momento di passaggio verso la riorganizzazione unitaria.
Fra il febbraio e il dicembre del 1860 il governatore dell’Emilia, Luigi Carlo Farini, e il commissario in Umbria, Gioacchino Pepoli, avevano riconosciuto come libere le università di Ferrara e Perugia. Nel gennaio del 1861, quando i provvedimenti governativi riguardavano ormai anche Camerino, il ministro Mamiani richiese ai comuni e alle autorità accademiche interessate di predisporre gli statuti degli atenei per la successiva approvazione del ministro: le amministrazioni locali avrebbero dovuto sostenere finanziariamente le rispettive università cittadine, mentre il governo manteneva, almeno sulla carta, ampi poteri ispettivi.
Non sempre i gruppi dirigenti locali avevano unanimemente condiviso la scelta a favore dell’università e in alcuni casi, come a Ferrara, si registrarono difficoltà: l’impegno materiale sarebbe stato comunque notevole e il ruolo di quei piccoli atenei nel nuovo contesto nazionale limitato. Non era poi molta la libertà che, a livello ministeriale, si intendeva riconoscere alle università libere. Nel corso degli anni Sessanta, in effetti, la possibilità di concedere a enti locali o privati la facoltà di istituirne di nuove fu prevista in più di un disegno di legge, ma anche in questi progetti si conservava il controllo dell’esecutivo sugli statuti e sull’impianto didattico delle future università libere e, soprattutto, quelle esistenti non venivano assunte come punti di riferimento, ma considerate semmai come anomalie residuali. Nei primi decenni successivi all’unificazione le università libere si trovarono in condizioni difficili, con pochi iscritti e con la necessità di ridurre l’offerta didattica per motivi di bilancio, mentre il quadro delineato dalle ispezioni governative non era confortante. A Ferrara i 120 studenti dell’anno accademico 1860-61 divennero 29 nel 1883-84; a Camerino si passò dai 60 del 1860-61 ai 18 del 1875-76. Nel suo nuovo statuto del 1872 l’università di Ferrara, ad esempio, conservava nella sua integrità solamente la facoltà giuridica, mentre gli studi medici e matematici furono ridotti al primo ciclo. Si mantennero però delle scuole universitarie destinate a soddisfare specifiche e localizzate esigenze di formazione professionale, quelle di veterinaria, farmacia, ostetricia.
Altra minore peculiarità, anche questa radicata nella politica scolastica di uno degli antichi Stati italiani, era quella rappresentata dai licei universitari presenti nel Mezzogiorno continentale. Eredità del passato napoleonico e borbonico, aboliti «per norma generale» dai decreti luogotenenziali del febbraio 1861 sull’ordinamento scolastico e universitario nelle province napoletane, furono riorganizzati fra il 1862 e il 1863 a L’Aquila, Bari e Catanzaro. Come scriveva il ministro Amari presentando al re un decreto per l’istituzione di nuove cattedre in questi licei, si trattava di «facilitare i giovani, i quali si addicono alla professione di notaio, di farmacista, di flebotomo, non che le levatrici ne’ loro studi, senza che essi fossero obbligati portarsi […] nella Università di Napoli, ove, per la ristrettezza dei loro mezzi, loro è impedito far dimora» (Amari 1989, pp. 803-804).
Alle finalità pratiche, in casi come questo, era riservata una certa priorità rispetto alle esigenze di omogeneità formale del sistema; non tale, però, da assicurare un più organico raccordo fra i licei universitari e le facoltà. Nel 1890 il regolamento generale universitario avrebbe vietato il passaggio dalle scuole universitarie annesse ai licei alle facoltà universitarie durante gli studi, intervenendo così su una prassi che aveva probabilmente una certa consistenza. Furono colpiti i corsi di notariato, dai quali il transito alle facoltà di giurisprudenza doveva essere stato più agevole. Tali corsi poi scomparvero con la legge del 1913 che imponeva il possesso della laurea per l’esercizio della professione. La riforma Gentile, che ridefinì la posizione delle università libere anche attraverso il riconoscimento dell’Università Cattolica di Milano, avrebbe invece posto fine all’esperienza dei licei universitari.
La preoccupazione di veder sorgere, accanto alle università di Stato, nelle quali era garantita la libertà interna dell’insegnamento e della cattedra, altre istituzioni di insegnamento superiore in nome della libertà esterna di fondarne senza autorizzazione di legge si manifestò in più di un caso, e condizionò anche i più tardi dibattiti sull’autonomia universitaria. Come avrebbe scritto Augusto Graziani, «laddove gli studi possono compiersi in istituti privati o di persone giuridiche diverse dallo Stato o da questi non delegati, si corre pericolo che la scienza soggiaccia ad interessi sociali, politici, religiosi, ad interessi insomma non suoi» (Graziani 1905, p. 850).
L’argomento fu usato, in modo strumentale, anche nel 1872, quando fu presentato il disegno di legge a ratifica della convenzione fra lo Stato e gli enti locali fiorentini per il mantenimento dell’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento. L’Istituto aveva stentato ad acquisire una precisa fisionomia nel panorama accademico regionale e nazionale a causa di una certa indeterminatezza delle sue finalità, divise, in sostanza, fra il completamento clinico-pratico degli studi universitari di medicina e l’avviamento alla ricerca in campo scientifico, filosofico, filologico attraverso apposite sezioni. Pochi studenti, soppressione di cattedre e rischi di chiusura: i primi anni di attività non furono certo conformi alle aspettative dei fondatori.
Solo a partire dal 1867 fu fatta maggiore chiarezza. Fermo restando il biennio conclusivo degli studi medici compiuti presso le facoltà di Pisa e Siena, l’Istituto venne allora autorizzato a rilasciare diplomi validi per l’accesso all’insegnamento secondario. Cercare di attribuire all’attività dell’Istituto un indirizzo più definito – negli anni di Firenze capitale – non significava, del resto, muoversi nella prospettiva di un suo completo adeguamento al sistema universitario. Dopo il trasferimento della capitale a Roma, e poche settimane dopo l’approvazione della legge che «pareggiava» gli atenei di Padova e Roma alle altre università primarie del Regno, la legge 30 giugno 1872 assicurava all’Istituto, oltre a un finanziamento tripartito fra lo Stato e le amministrazioni comunale e provinciale, un relativo grado di autonomia garantito dall’esistenza di un consiglio direttivo composto dai delegati degli enti finanziatori: autonomia che si traduceva, ad esempio, nella possibilità di disporre di eventuali avanzi di bilancio per istituire nuovi insegnamenti.
Una soluzione almeno in parte analoga fu adottata, nel 1875, per Milano, con la legge per il coordinamento degli istituti di istruzione superiore cittadini. La Casati aveva collocato nel capoluogo lombardo due nuovi istituti di istruzione superiore, l’Accademia scientifico-letteraria e l’Istituto tecnico superiore. L’Accademia, che secondo la Casati avrebbe dovuto sostituire la facoltà letteraria pavese, incontrò difficoltà non troppo dissimili da quelle dell’Istituto fiorentino, e riuscì a consolidarsi seguendo la stessa via, quella dell’abilitazione all’insegnamento secondario. Il provvedimento del 1875, che riguardava, fra l’altro, anche la Scuola superiore di agricoltura e la Scuola di veterinaria, regolava il contributo dello Stato e degli enti locali agli istituti consorziati e l’attività degli organi collegiali ai quali sarebbe stato affidato il coordinamento. All’interno del consorzio, nucleo della futura università, un ruolo particolare assumeva, allora, l’influente direttore dell’Istituto tecnico superiore e uomo politico lombardo Francesco Brioschi.
Firenze e Milano vedevano dunque rafforzato il loro nuovo ruolo di città universitarie grazie anche a soluzioni istituzionali che si discostavano – solo in parte – dal complessivo assetto del sistema. Simili scelte non mancarono di suscitare le proteste e le resistenze di centri accademici di antica tradizione come Pisa e Pavia. Altrove la costituzione di consorzi universitari a sostegno dei rispettivi atenei non dette luogo ad altre sperimentazioni amministrative. Va tuttavia sottolineato il rapido intervento finanziario degli enti locali in campo universitario, che integrava, e nella prassi modificava, le disposizioni dell’art. 50 della Casati, che aveva posto «a carico dello Stato» la spesa per l’istruzione superiore.
Già nel corso degli anni Sessanta si delineò, in Italia, un insieme di istituti di istruzione superiore non riconducibili direttamente alla sfera universitaria intesa in senso stretto. Abbiamo appena accennato alla Scuola superiore di agricoltura di Milano, fondata nel 1870; ma a partire dal 1860, nel settore dell’istruzione agraria, si assistette a «soppressioni, declassamenti, nuove dislocazioni», con lo «slittamento dell’istruzione agraria verso il livello secondario» (Moretti 2004, p. 675). Già nel 1862, con un disegno di legge presentato dal ministro di Agricoltura Filippo Cordova, si era tentato, senza successo, di rimettere ordine nella materia, muovendo proprio dall’istruzione superiore agraria. All’inizio degli anni Settanta, con l’istituzione delle Scuole di Milano e di Portici – sostenute da enti e forze economiche locali – il quadro si fece più articolato.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, nell’imminenza dell’apertura del canale di Suez, si fece strada a Venezia l’idea di impiantare una grande Scuola superiore di commercio e navigazione. La Scuola, nata anch’essa sulla base di un consorzio, avviò la sua attività alla fine del 1868 e trovò un assetto più stabile a partire dall’anno successivo. In queste complesse dinamiche istituzionali oltre agli enti locali ebbe un ruolo anche il ministero di Agricoltura, industria e commercio, e per Venezia fu interpellato anche il ministero degli Esteri. Accanto agli atenei e alle scuole annesse come quelle di veterinaria, farmacia, di applicazione per gli ingegneri, prendeva corpo una rete di centri di istruzione superiore, con livelli di accesso diversificati, che solo nel corso degli anni Trenta del Novecento sarebbe stata pienamente omologata al sistema delle facoltà. Il decreto n. 3174 del 18 giugno 1876 elencava una serie di istituti – fra questi la Scuola superiore di nautica di Genova, e la Scuola delle zolfare in Palermo – che costituirono, di fatto, l’altro polo principale del quadro, composito e asimmetrico, dell’istruzione superiore nell’Italia liberale.
Il Corpo Accademico in tutte le Università è formato dai Professori ordinari, e, là dove vi sono, dai Dottori aggregati. Le persone che senza appartenere ad alcuna delle Facoltà, sono deputate a titolo di professori straordinari o ad un altro titolo qualunque autorizzate a esercitare qualche uffizio accademico nella Università, non fanno parte di questo Corpo.
Il dettato, assai rigido, dell’art. 56 della legge Casati, stabiliva un primato di lunga durata nella storia accademica italiana: quello del professore ordinario, titolare di cattedra. La legge, all’art. 70, fissava anche il numero dei professori ordinari; ma la questione degli organici rimase in realtà aperta a lungo. La via normale di accesso alla cattedra era il concorso, per titoli o per esami, ma veniva garantito al ministro un sostanziale controllo delle procedure di reclutamento, dato che toccava a lui nominare i membri delle commissioni giudicatrici. Inoltre, sulla base dell’art. 69, si poteva procedere a nomine in base alla «meritata fama», prescindendo da ogni prova, e non solo per quel che riguardava le cattedre.
La previsione di un corpo accademico così ristretto, tuttavia, si sarebbe mostrata insostenibile. Poco rilevanti i dottori aggregati, ai quali la legge riservava però molta attenzione. Figura legata in particolare, ma non esclusivamente, agli atenei degli antichi Stati sardi, l’aggregato era nominato per concorso, e avrebbe dovuto svolgere funzioni di assistenza e di supplenza in caso di impedimento del professore ufficiale. Gli aggregati, inoltre, erano di diritto liberi docenti. L’abilitazione all’insegnamento riguardava tutti gli insegnamenti impartiti nella facoltà, marchio di un’origine arcaica: «Si comprende che quando minore era la specializzazione dei rami di scienza insegnati in una Facoltà rispondesse allo scopo l’istituto dei dottori aggregati, ma si comprende anche, come collo sviluppo scientifico, l’aggregazione debba vieppiù cedere il passo alla docenza privata» (Graziani 1905, p. 970).
Il ruolo che non ebbero i dottori aggregati nell’ambito dell’insegnamento superiore fu invece almeno in parte assunto da un’altra figura menzionata solo di sfuggita all’art. 70 della Casati, quella degli «incaricati speciali», riguardo ai quali la legge non dava specifiche indicazioni; e proprio questa assoluta indeterminatezza sarebbe stata alla base di una certa fortuna istituzionale. L’ordinamento prevedeva poi altri due tipi di docente: il professore straordinario e l’insegnante a titolo privato. Gli straordinari, estranei al corpo accademico, avrebbero dovuto essere di nomina ministeriale, con incarico annuale ma rinnovabile; nelle facoltà avrebbero dovuto coprire una parte dei corsi curricolari, o «darvi gli insegnamenti di perfezionamenti speciali». Il loro numero non avrebbe potuto oltrepassare, in ogni facoltà, quello degli ordinari, salvo che nel caso di duplicazione di insegnamenti resa necessaria dal numero degli studenti; e il fatto che lo stipendio degli straordinari fosse fissato al massimo ai sette decimi di quello degli ordinari rendeva il ricorso a questi professori particolarmente vantaggioso. Del resto, come avrebbe notato Bonghi nel 1870, il professore incaricato «ha la preziosa qualità di poter essere pagato meno» anche degli straordinari (Moretti 2001, p. 170); notazione non aneddotica, ma che rinvia alle grandi difficoltà materiali che accompagnarono il processo di costruzione del sistema universitario nazionale.
In linea di principio, gli straordinari avrebbero dovuto essere scelti fra i dottori aggregati e gli abilitati al privato insegnamento; ma anche in questo caso il riferimento a persone «venute in grido di molta dottrina» lasciava ampi margini di discrezionalità all’esecutivo. Quanto agli insegnanti a titolo privato, la Casati regolava minuziosamente la loro posizione, e per una precisa ragione di principio: «l’istituzione del privato insegnamento all’interno delle strutture universitarie pubbliche era la peculiare traduzione data dalla legislazione piemontese al principio della libertà di insegnamento» (ivi, p. 164), che era libera manifestazione di pensiero, con i limiti pure previsti dall’art. 106 della Casati, e non libertà di fondare atenei al di fuori del controllo statale.
Anche i professori ufficiali e i dottori aggregati avevano il diritto di tenere corsi liberi, e soprattutto i primi lo esercitarono, determinando in qualche caso situazioni di conflitto di interessi materiali. I docenti «privati» potevano essere abilitati direttamente dal ministro, sentito di norma il Consiglio superiore, o conseguire il titolo superando un esame. Ma già il regolamento generale Mamiani dell’ottobre del 1860 apriva la strada a una terza modalità di nomina: quella per titoli. I programmi dei corsi liberi avrebbero dovuto essere comunicati ai rettori e al consiglio superiore; corsi sorvegliati da rettori e presidi, che avrebbero potuto anche disporne la sospensione. L’abilitazione non era permanente: se per cinque anni consecutivi, «senza legittimo impedimento», il libero insegnante non avesse tenuto corsi, avrebbe perso il diritto a tenerne in futuro.
Fra le difformità normative registrabili in campo accademico al momento dell’unificazione, una riguardava proprio la libera docenza: la legge Imbriani del 1861 stabiliva per Napoli che gli insegnamenti privati avrebbero potuto essere impartiti da tutti i laureati autorizzati dal «Capo della Pubblica Istruzione». Cessata la luogotenenza nel Mezzogiorno continentale, fu di fatto, per un quindicennio, il rettore dell’università di Napoli a governare, localmente, la libera docenza; e questa prassi, accanto a una specifica tradizione cittadina preunitaria, contribuì a determinare una particolare situazione che sarebbe stata oggetto di più tarde polemiche. I corsi liberi avrebbero dovuto essere compensati sulla base delle tasse di iscrizione ai corsi stessi pagate dagli studenti; ma già dal 1862, con le modifiche introdotte dal ministro Matteucci in materia di tasse universitarie, il quadro si complicò e dal 1875 i liberi docenti furono retribuiti dalle casse universitarie tenendo conto delle firme di iscrizione ai corsi, soluzione che avrebbe dato luogo a vari abusi.
Lo scarto più significativo fra la norma originaria e la prassi avrebbe però riguardato la funzione assegnata al libero insegnamento. La legge Casati, sul punto, era esplicita: l’art. 100 stabiliva che «l’autorizzazione d’insegnare a titolo privato è conceduta per le città dove esiste un’Università od una Facoltà, e rispettivamente pei soli corsi che ivi si professano a titolo pubblico». Funzione concorrenziale, dunque: sulle stesse materie si sarebbero confrontati professori ufficiali e liberi docenti. In realtà i corsi liberi assunsero in molti casi un carattere di integrazione e complemento, con le abilitazioni concesse per quelle che nel lessico del tempo erano dette le «parti di materia»: qual era, ad esempio, la storia medievale rispetto al più generale corso di storia moderna. Il percorso dell’istituzionalizzazione di nuovi insegnamenti, rispetto al rigido quadro didattico formalizzato nei regolamenti, mosse spesso dal conferimento di una libera docenza. Nelle grandi facoltà professionali la frequenza ai corsi liberi, in questo caso spesso paralleli a quelli ufficiali, rispondeva invece piuttosto a esigenze legate al superamento degli esami, e allo specifico mercato locale delle professioni.
Nel primo quindicennio postunitario il ruolo dell’esecutivo rimase centrale nel reclutamento accademico. Le maggiori attribuzioni assegnate in materia al Consiglio superiore riguardavano un organo che era ancora di nomina ministeriale, e solo nel corso degli anni Ottanta sarebbero state introdotte delle pratiche elettive per la composizione delle commissioni di concorso. I governi provvisori, e poi il governo nazionale, si valsero largamente dei propri poteri discrezionali, e ne beneficiarono personaggi centrali nella vicenda intellettuale dell’Italia unita, da Carducci a Villari, da Alessandro D’Ancona a quel Graziadio Isaia Ascoli del quale il ministro Mamiani ignorava persino il nome proprio. Come era ovvio e necessario, in quella delicatissima fase di trapasso e di fondazione, nelle nomine si tenne conto di vari fattori, e non si trattò sempre di scelte di eccellenza, o scientificamente del tutto pertinenti. Non mancarono elementi di sorpresa e di disagio. Il noto commediografo Paolo Ferrari, insediato sulla cattedra di storia moderna dell’Accademia scientifico-letteraria di Milano, avrebbe informato il ministero di aver accettato l’ufficio, nonostante fosse tanto lontano «dal mio genio e da’ miei studi, […] avendo moglie e sei figli» (Moretti 1993, p. 93).
Non si dispone di ricerche prosopografiche sistematiche, che sarebbero necessarie sia a cogliere nel suo insieme la composizione del corpo accademico all’indomani dell’Unità, sia a seguire le diverse vicende delle varie sedi universitarie nel passaggio dagli antichi Stati al Regno d’Italia. A questo proposito si pensi alla drastica azione di Francesco De Sanctis nei confronti dei professori napoletani nell’autunno del 1860, nei pochi giorni in cui fu alla guida della pubblica istruzione locale; oppure, a dieci anni di distanza, ai problemi legati all’inserimento della Sapienza romana nel quadro accademico nazionale. A Roma si ebbero molte nuove nomine rispetto ai quadri dell’università pontificia, e tensioni interne di matrice anche religiosa – «nell’aprile 1871 molti professori inviarono un indirizzo di solidarietà a Döllinger, che aveva rifiutato di sottoscrivere il dogma dell’infallibilità pontificia» (Polenghi 1993, p. 387) – e la situazione che si era determinata indusse il ministro Correnti a chiedere ai docenti il giuramento di fedeltà, provocando dinieghi e abbandoni.
Dati anche i condizionamenti finanziari e formali, di organico, che pesavano sullo sviluppo del corpo docente, nei primi anni successivi all’unificazione si puntò sulla nomina di docenti incaricati e di professori straordinari. Dai concorsi, del resto, uscivano graduatorie di «eleggibili» – oggi diremmo di idonei – che furono anche punto di riferimento per l’accesso alla carriera accademica. Come ricordò il ministro Bonghi nel 1875, l’alto numero degli incaricati, oltre 120 nel 1865-66, aveva indotto l’amministrazione ad accorpamenti di corsi; ma, nonostante queste misure, dopo il «pareggiamento» di Padova e Roma, il numero degli incaricati era superiore ai 200. Un decreto del febbraio 1874 aveva fissato il numero dei professori ordinari, straordinari e incaricati, rispettivamente a 483, 148, 181; ma si trattò di prescrizioni inefficaci, e successivamente abrogate. Nei fatti, la normativa casatiana venne dunque rapidamente accantonata, con la selezione per concorso degli straordinari già adottata ben prima che una legge del 1904 venisse a ridefinire complessivamente la materia.
Le nomine ministeriali e i concorsi determinarono una certa mobilità dei docenti, incoraggiata anche, per alcuni decenni, dall’esistenza di una non trascurabile differenza di stipendio fra le università primarie e secondarie. Una legge sui trasferimenti sarebbe arrivata solo nel 1907 e il passaggio ad altra sede era legato all’esito di un nuovo concorso, o a un provvedimento governativo. Gradualmente venne dunque consolidandosi una comunità scientifica nazionale; la rapida generalizzazione delle procedure di selezione per titoli rispetto a quelle per esame era chiaro indizio di una più moderna concezione del lavoro accademico. In qualche caso questi processi determinarono tensioni fra gli esponenti delle antiche gerarchie intellettuali cittadine e gli uomini nuovi delle università. A Firenze, ad esempio, professori come Michele Amari e Pasquale Villari non erano assimilabili per origine sociale, provenienza geografica e orientamenti culturali ai principali esponenti della tradizione locale, e tutto ciò non mancò di avere riflessi sull’attività dell’Istituto di studi superiori.
Il corpo accademico italiano era molto diversificato ed eterogeneo nella sua prima composizione; il suo progressivo consolidamento fu legato a una formalizzazione dei percorsi di formazione e di selezione, rispetto alla quale fu segnalata l’esigenza di organizzare specifiche attività di «perfezionamento», di avviamento alla ricerca scientifica. Si trattò, e solo per alcuni atenei italiani, di una prassi legata all’esistenza di particolari indirizzi di ricerca e sostenuta dalla concessione di un limitato numero di borse di studio; altrimenti, per i laureati italiani esisteva la possibilità di trascorrere un periodo di studio all’estero, nel quadro di una più articolata, anche se nel complesso modesta, politica di sostegno ministeriale. Non mancarono dubbi e critiche a questo proposito. L’interesse nazionale avrebbe richiesto di dotarsi di strutture di alto insegnamento, mentre esistevano carenze di base che spesso rendevano poco fruttuosa l’esperienza all’estero. Infine la destinazione, al rientro, poteva non essere particolarmente soddisfacente, passando i giovani studiosi dalle università tedesche alla nomina «come reggenti in qualche ginnasio remoto dai grandi centri, dove mancava ogni biblioteca e ogni corredo scientifico anche modesto» (Raicich 1996, p. 144).
Il discorso non riguarda solo la riproduzione del ceto accademico, ma soprattutto un aspetto fondamentale della storia universitaria di quegli anni: la formazione di un nuovo corpo insegnante per la scuola secondaria, delicatissimo punto di snodo all’interno del sistema. Per circa un quindicennio vennero sperimentate, su questo terreno, delle specifiche soluzioni istituzionali per affiancare l’opera delle facoltà. La Normale pisana, come si è detto, fu riorganizzata nel 1862 mantenendo il modello del collegio-convitto con proprie attività didattiche che integravano quelle delle facoltà. Anche all’Accademia scientifico-letteraria di Milano e all’Istituto di studi superiori di Firenze venne concesso di rilasciare titoli abilitanti, mentre fra il 1868 e il 1869 si dispose l’apertura di una Scuola normale superiore a Napoli. Attorno alla metà degli anni Settanta si adottò però una linea diversa rispetto a quella degli istituti speciali. Le università di Torino, Padova, Roma e Napoli ebbero dei corsi normali superiori abilitanti nel 1874; subito dopo furono istituite, nelle facoltà di lettere e scienze, parallelamente ai corsi universitari, delle Scuole di magistero, destinate del resto a un’esistenza controversa e stentata. L’esperienza pisana rimase unica nel genere; altrove vennero concessi sussidi. Ma il problema maggiore rimase, nel primo periodo postunitario, quello dello squilibrio fra domanda di insegnanti e offerta di personale laureato, risolto con la concessione di abilitazioni all’insegnamento a candidati che non avevano seguito un regolare corso di studi.
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