Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo che nei primi secoli del Medioevo erano prevalse descrizioni fantastiche del cosmo, ispirate al libro biblico della Genesi (e ai dotti dell’epoca non poche difficoltà erano state poste dai versetti in cui si parla di acque superiori, trattenute dal cadere sulla terra mediante una distesa in cui sono incastonate le stelle, il sole e la luna), la teoria dell’universo geocentrico fu reintrodotta in Europa occidentale nel XIII secolo, grazie alle traduzioni dall’arabo delle opere di Aristotele e dell’epitome che dell’Almagesto di Tolomeo aveva composto al-Farghânî (Alfraganus). Un’esposizione elementare del sistema tolemaico viene redatta a metà del XIII secolo da Giovanni di Sacrobosco nel suo trattato De sphaera, per quasi quattro secoli il principale testo di astronomia elementare, base dell’insegnamento accademico ancora quando Galileo viene assunto dall’università di Padova e fra i compiti assegnatigli vi sarà appunto quello di spiegare ai suoi studenti quell’opera.
La descrizione dell’universo che troviamo nel De sphaera ci è ancora abbastanza familiare, poiché su di essa si fonda la visione del cosmo della Commedia di Dante: la sfera del primo mobile imprime la rotazione a un armonico sistema di sfere concentriche e racchiude la sfera delle stelle fisse, all’interno della quale sono le sette sfere dei sette pianeti; al loro centro sta immota la Terra.
Le osservazioni che vengono compiute mettono tuttavia in luce fenomeni che non si conciliano con tale ordinamento celeste, e i diversi tentativi di spiegazione dati dagli studiosi non sono privi di gravi incongruenze. Proprio le controversie fra i “mathematici” inducono il canonico polacco Nicolò Copernico – addottoratosi a Cracovia e successivamente a Bologna, a Padova e a Ferrara – a studiare gli scritti degli antichi pensatori greci che hanno parlato del moto della Terra, e a esaminare in via di ipotesi se tale moto non consenta di dare una spiegazione migliore, arrivando a concludere che l’errore fino allora compiuto è consistito nel fare della Terra il centro dei movimenti celesti. La sua nuova teoria dell’universo viene esposta nel De revolutionibus orbium cælestium, pubblicato a Norimberga nel 1543, ma l’elaborazione di questo testo fondamentale per la nuova astronomia dura molti anni: da ciò che scrive Copernico stesso, sembra che egli abbia sviluppato le prime riflessioni su tali problemi alla fine del suo soggiorno all’università di Padova nel 1506, e la stesura del trattato deve essersi conclusa fra il 1529 e il 1531.
Tuttavia, consapevole di avere portato a termine un lavoro rivoluzionario, si convince a darlo alle stampe – non senza cautelarsi – soltanto dopo che un suo discepolo, Georg Joachim Retico, ha messo in circolazione un rapporto riassuntivo delle sue teorie. Andreas Osiander, il teologo luterano incaricato di curare la pubblicazione, premette al testo un avvertimento al lettore, in cui spiega che l’astronomo non ha il compito di ricercare le cause sconosciute o i movimenti reali dei corpi celesti: è sufficiente che colleghi le proprie osservazioni mediante ipotesi atte a far calcolare le posizioni visibili degli astri; né tali ipotesi devono essere necessariamente vere o verosimili: basta che siano comode e semplici spiegazioni dei “fenomeni”, ossia di ciò che appare (questo è appunto il significato del termine derivato dal greco). Anche Copernico, che per precauzione dedica l’opera al papa, afferma di aver voluto avanzare soltanto un’ipotesi, ma le sue parole sono senza dubbio più ardite: egli dichiara di non curarsi “dei mataiológoi (chiacchieroni) che, ignoranti di matematiche, si arrogheranno un giudizio su di esse, e in base a qualche passo della Scrittura, malamente distorto a loro comodo, ardiranno biasimarmi e diffamare questa impresa”.
Copernico cita Lattanzio, il padre della Chiesa vissuto nel IV secolo, che “parlò in modo del tutto puerile della forma della Terra”, e conclude: “mathemata mathematicis scribuntur”, la scienza è riservata agli scienziati, una distinzione fra teologia e studio della natura che invano verrà invocata vari decenni dopo da Galileo.
Se l’acquisizione di una nuova concezione della geografia terrestre procede senza gravi intoppi, in campo astronomico le cose vanno diversamente. Certo, anche riguardo alla visione del globo terrestre molte credenze e inveterate concezioni resistono a lungo, e con difficoltà anche i dotti arrivano a prendere coscienza della frattura operatasi con il vecchio sapere; per decenni, insieme alle moderne conoscenze convivono antiche dottrine, ormai superate: le fasce climatiche non tollerabili per la vita umana, le carte dell’atlante di Tolomeo con l’Africa congiunta alla “Terra Australis” e, ovviamente, il mappamondo senza l’America e perfino un oltretomba situato nell’emisfero meridionale. In ambito geografico, però, le nuove idee sono più facilmente accettabili rispetto a una teoria che contrasta non solo con i dettami di autorità quali Aristotele e Tolomeo, ma anche con il presunto buonsenso: infinite volte viene ripetuto l’argomento che, se la Terra si muove, chi lancia una freccia perpendicolarmente in alto, non potrebbe raccoglierla. D’altra parte, in anni in cui l’osservazione del firmamento è affidata esclusivamente allo sguardo umano, senza l’ausilio di alcuno strumento, come dare conto dell’asserzione che non è la Terra al centro dell’universo, ma il Sole, e che anch’essa, come gli altri pianeti, ruota intorno al grande astro luminoso? Non senza difficoltà lo stesso Copernico arriva a formulare la sua ipotesi. In effetti il suo è un procedimento prevalentemente di deduzione intellettuale, fondato sullo studio di testi antichi, a cui sono applicati i criteri della nuova scienza umanistica, la filologia, appresa da Copernico insieme al greco fin dagli anni bolognesi: da quelle letture trae elementi essenziali per elaborare la sua teoria, che deve invece assai poco a osservazioni dirette del cielo. Il suo universo, pertanto, non è ancora lo spazio infinito, ma è “globosum”, interamente compreso entro la sfera delle stelle fisse, “la prima e la più alta di tutte, che contiene se stessa e tutte le cose” (libro I, cap. IX). All’interno di questa sfera, il primo dei pianeti è Saturno, “che compie il suo circuito in trent’anni”; segue “Giove, che si muove con una rivoluzione di dodici anni; poi Marte, che ruota in un biennio. Occupa il quarto luogo nell’ordine la rivoluzione annua in cui [...] è contenuta la Terra, con l’orbe lunare come epiciclo. Nel quinto luogo Venere ritorna in nove mesi. Mercurio finalmente occupa il sesto luogo, girando intorno nello spazio di ottanta giorni. In mezzo a tutti sta il Sole: chi infatti in questo bellissimo tempio porrà questa lampada in un altro luogo, migliore di quello da cui può illuminare tutto nello stesso tempo? [...]. Così certamente, come assiso su un soglio regale, il Sole governa la famiglia degli astri che lo attornia”.
Concettualmente, la visione del cosmo di Copernico non appare molto diversa da quella tolemaica. Certo, la Terra, lungi dall’essere immobile, conosce un duplice moto: di rotazione su se stessa e di rivoluzione intorno al Sole, e gli elementi principali delle orbite planetarie vengono descritti in modo nuovo. Tuttavia –come ha notato Alexandre Koyré (1970), un grande storico del pensiero scientifico –l’astronomia moderna sembra avere progredito negando taluni principî asseriti proprio da Copernico: “si è cominciato col rifiutare il principio fondamentale dei moti circolari uniformi, per giungere addirittura a rinunciare alla circolarità del moto degli astri; si sono soppressi gli orbi planetari, e persino la volta celeste”, nonché l’idea che l’universo abbia un centro, non più occupato dalla Terra, ma dal Sole. Ma un altro studioso, J.L.E. Dreyer, ha osservato (1970) che il sistema di Copernico appare “suscettibile di essere ulteriormente sviluppato non appena un infaticabile osservatore avesse concepito la necessità di sottoporre con perseveranza i cieli a osservazioni minuziosissime”. È quanto accade con il danese Tycho Brahe e soprattutto con Galileo che, grazie al cannocchiale (costruito dopo avere sentito parlare di uno strumento con due lenti poste a una certa distanza, adoperato in Olanda per avvistare le navi, ma da lui usato per esaminare la volta celeste), procede a una serie di osservazioni di cui darà notizia nel Sidereus nuncius (1610). I quattro satelliti di Giove da lui scoperti, le macchie della luna e le fasi di Venere gli dimostrano la fondatezza delle idee copernicane e al tempo stesso gli offrono un’immagine del tutto nuova dell’universo.
Il primo allarme per l’ipotesi copernicana viene lanciato nel mondo protestante. Già Lutero, in uno dei suoi “discorsi a tavola”, si scaglia contro quel “nuovo astrologo” che va cianciando del moto della Terra. “Il folle vuole sconvolgere la scienza dell’astronomia, ma, come la Sacra Scrittura mostra, fu al Sole e non alla Terra che Giosuè ordinò di fermarsi”.
Per parte sua, il dotto Melantone, grande ammiratore dell’opera di Sacrobosco, accusa Copernico – in uno scritto dedicato alla doctrina physica – di “mancanza di onestà e di dignità” per le sue insensate teorie che contraddicono ciò che mostrano i sensi e le Sacre Scritture.
Calvino, nel suo commento alla Genesi, pone a sua volta la questione: “Chi avrà l’ardire di porre l’autorità di Copernico al di sopra di quella dello Spirito Santo?” Tuttavia le Chiese riformate non dispongono di strumenti repressivi efficienti su larga scala per combattere quelle idee, come ne ha invece la Chiesa di Roma. In quanto istituzione, essa non prende subito posizione nei confronti dell’astronomo polacco e, anzi, nel mondo cattolico le discussioni si sviluppano a tal punto da illudere Galileo di poter far riconoscere la teoria copernicana allo stesso pontefice. Le cose andranno diversamente; forse, proprio il passaggio dal campo delle ipotesi all’enunciato teorico, reso possibile grazie alle osservazioni di Galileo, nel 1616 spingerà il Sant’Uffizio a pronunciare la condanna di quella dottrina, giudicata incompatibile con la fede cattolica.
Viene fatto di domandarsi perché la cosmologia della Genesi non abbia impedito l’adozione del sistema tolemaico, mentre alcuni passi della Scrittura che si limitano ad accennare al Sole in movimento o alla Terra immobile e che possono essere interpretati come modi figurati di esprimersi adatti alla comprensione umana –alla stessa stregua di quando nella Bibbia si parla della mano o dei piedi di Dio, del suo pentimento ecc. sono stati giudicati testi fondamentali per la fede. In realtà, il sistema copernicano comporta un sovvertimento profondo nel rapporto fra l’uomo, il creato e la divinità, dal momento che la Terra diventa un pianeta come gli altri, e il dettato della Genesi viene trascurato o quanto meno interpretato allegoricamente. Se la Terra non è che uno dei pianeti, la stessa storia della caduta e della redenzione dell’uomo può essere discussa, perché altri mondi potrebbero essere abitati. Già è stato arduo accettare l’umanità degli indigeni americani, ma ancor più pericolosa è l’ipotesi di una vita fuori della Terra. Inoltre l’uomo, insieme alla Terra, viene a perdere la sua posizione centrale nel creato; non solo, o la Terra partecipa della natura dei corpi celesti, e non può dunque essere quel mondo di perdizione in cui Satana, almeno temporaneamente, è in grado di prevalere, oppure anche i cieli perdono la loro purezza e non possono essere indicati come la dimora divina. Giordano Bruno, che parla De l’infinito universo e mondi, dà la misura delle conseguenze a cui il copernicanesimo, da lui abbracciato, può portare. Proprio il passaggio da un cosmo chiuso all’universo infinito idea – avanzata, oltre che nell’opera di Bruno, in quelle di astronomi sempre più arditi nell’ampliare le concezioni da cui sono state sconvolte le dottrine tradizionali – appare intollerabile alla Chiesa, in anni che la vedono impegnata a condurre una battaglia senza esclusione di colpi contro tutto ciò che può attentare al dogma. Oggi lo stesso pontefice dichiara erroneo quel giudizio e la Chiesa tende a mostrare Galileo come uno scienziato pio e ossequiente nei confronti dei dettati cattolici. Si tratta però di capire come la rivoluzione astronomica iniziata da Copernico abbia provocato una crisi inarrestabile nelle idee che erano alla base del pensiero tradizionale, a cominciare dall’aristotelismo, su cui il Concilio tridentino fonda tanta parte delle sue enunciazioni da far diffondere la leggenda che al centro di quell’assemblea di vescovi e teologi fosse stata collocata la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino.
Il senso di smarrimento probabilmente provato dagli uomini colti del tempo viene espresso dal poeta inglese John Donne: “la nuova filosofia pone tutto in dubbio. L’elemento del fuoco è affatto spento. Il Sole è perduto, e la Terra [...]”. Quel che è peggio è che la stessa gerarchia su cui si reggono le società viene scossa dalle fondamenta: “Tutto quanto a pezzi, ogni coesione scomparsa, ogni giusta provvista e ogni rapporto: principe, suddito, padre, figlio, sono cose dimenticate, perché ogni uomo da solo pensa che ha ottenuto di essere una fenice”. In effetti l’idea dell’universo infinito libera l’uomo da inveterate costrizioni e gli insegna a volare alto.
Ludovico Ariosto
Da tutti li altri amici, Annibale, odo;
fuor che da te, che sei per pigliar moglie:
mi duol che ’l celi a me, che ’l facci lodo.
Forse mel celi perché alle tue voglie
pensi che oppor mi debbia, come io danni,
non l’avendo tolta io, s’altri la toglie.
Se pensi di me questo, tu te inganni:
ben che senza io ne sia, non però accuso
se Piero l’ha, Martin, Polo e Giovanni.
Mi duol di non l’avere, e me ne iscuso
sopra varii accidenti che lo effetto
sempre dal buon voler tennero escluso;
ma fui di parer sempre, e così detto
l’ho più volte, che senza moglie a lato
non puote uomo in bontade esser perfetto.
Né senza si può star senza peccato;
che chi non ha del suo, fuor accattarne,
mendicando o rubandolo, è sforzato;
e chi s’usa a beccar de l’altrui carne,
diventa giotto, et oggi tordo o quaglia,
diman fagiani, uno altro di vuol starne;
non sa quel che sia amor, non sa che vaglia
la caritade: e quindi avien che i preti
sono sì ingorda e sì crudel canaglia.
Che lupi sieno e che asini indiscreti
mel dovreste saper dir voi da Reggio,
se già il timor non vi tenesse cheti.
Ma senza che ’l dicate, io me ne aveggio;
de la ostinata Modona non parlo,
che, tutto che stia mal, merta star peggio.
Pigliala, se la vuoi; fa, se déi farlo;
e non voler, come il dottor Buonleo,
alla estrema vecchiezza prolungarlo.
Quella età più al servizio di Lieo
che di Vener conviensi: si dipinge
giovane fresco, e non vecchio, Imeneo.
Il vecchio, allora che ’l desir lo spinge,
di sé prosume e spera far gran cose;
si sganna poi che al paragon si stringe.
in Tutte le opere di Ludovico Ariosto, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1984