L'usucapibilità dei beni immateriali
Cass., S.U., 5.3.2014, n. 5087, ha per la prima volta affrontato il problema dell’usucapibilità dell’azienda, affermando che essa, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito. In applicazione di tale principio, la Cassazione ha riconosciuto, a favore di un farmacista, l’usucapibilità di una farmacia, al cui interno aveva esercitato la sua professione per oltre vent’anni comportandosi come se fosse stato il proprietario. Da qui lo spunto per analizzare il più ampio problema della possibilità o meno di possedere ed usucapire i beni immateriali in genere.
L’usucapibilità dell’azienda, e in genere dei beni immateriali, non è espressamente prevista dalla legge. La Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 5087/2014, afferma la possibilità di usucapire un’azienda ritenendo che il riconoscimento legislativo dell’unità economica dell’azienda (art. 2555 c.c.) importa implicito accoglimento di tutte le soluzioni unitarie, che non siano escluse da disciplina espressa contraria: in questa prospettiva, norme (2558, 2559, 2560, 2112 c.c.) dettate per gli acquisti a titolo derivativo, diverrebbero applicabili per analogia agli acquisti a titolo originario, fra i quali l’usucapione è il mezzo nettamente più diffuso.
Sembrerebbe dunque che la Cassazione abbia individuato l’argomento decisivo a favore dell’usucapibilità dell’azienda nella considerazione che dalla disciplina di quest’ultima si ricaverebbe un principio secondo il quale essa debba essere considerata unitariamente e che tale principio sia applicabile in via analogica in quanto da altre norme codicistiche (artt. 1140, 2556, 2561 c.c.; 670 c.p.c.) non si evincerebbe – e anzi sembrerebbe risultare il contrario – che l’azienda non sia suscettibile di possesso. Pur condividendosi la soluzione adottata, sembra che il ragionamento giuridico seguito sia probabilmente da un lato inutilmente farraginoso dall’altro non del tutto tecnicamente condivisibile. Ciò in quanto la Cassazione ha trascurato di considerare il noto brocardo latino secondo cui “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”: se infatti in una trama normativa non sia stata espressamente prevista una fattispecie o non sia stato analizzato un determinato aspetto (nel nostro caso l’acquisto a titolo originario di un’azienda), ciò non significa necessariamente che vi sia un vuoto normativo colmabile con l’analogia,ma si potrebbe presupporre che il legislatore consapevolmente non abbia voluto disciplinare determinati aspetti e che pertanto, in difetto di una norma, non si debba procedere ad una applicazione in via analogica.
Un aspetto trascurato dalla Cassazione, e che probabilmente avrebbe consentito di concludere ugualmente per l’usucapibilità dell’azienda con una minore forzatura interpretativa, riguarda la possibilità di equipararla ad una universalità di beni: già secondo Cass., 12.6.2007, n. 13765 il complesso di beni costituito in azienda costituisce una tipica universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c. Se così fosse il problema dell’usucapibilità di un’azienda sarebbe risolto, perché in virtù dell’art. 1160 c.c. le universalità di mobili sono usucapibili in venti anni.
Sembrerebbe in effetti che ricorra una identità di ratio tra l’universalità di mobili disciplinata dall’art. 816 c.c. e l’azienda di cui all’art. 2555 c.c.: si tratta in entrambi i casi di complessi di beni (il gregge o la collezione di quadri dell’art. 816 c.c. come l’azienda di cui all’art. 2555 c.c.) che hanno una certa rilevanza economica, che quindi fanno venir meno le esigenze di tutela di buona fede del terzo acquirente, e che dunque sono sottratti dal legislatore alla regola di cui all’art. 1153 c.c. del possesso di buona fede vale titolo; ma ciò non significa che non possano essere usucapiti, sia pure con il decorso del termine massimo previsto dal nostro codice per l’usucapione (ossia venti anni, lo stesso termine valido per gli immobili).
L’art. 816 c.c. sembra dunque una norma la cui ratio sia da un lato quella di facilitare la prova del possesso ad usucapionem di una pluralità di beni aventi una destinazione unitaria e dall’altro quella di equiparare – in virtù del loro particolare valore economico – questo insieme di beni agli immobili, circostanza quest’ultima che permette di superare il tenore letterale dell’art. 816 c.c. nella parte in cui parla di beni mobili e non anche di immobili.
2.1 Il possesso di cose immateriali
L’usucapione altro non è che un risultato (l’acquisto della proprietà a titolo originario) che si consegue col possesso continuato nel tempo (artt. 1158 c.c. ss.), e il possesso è il potere su una cosa (art. 1140 c.c.): si tratta allora di comprendere se l’azienda possa essere o meno equiparata ad una cosa e se su di essa possa quindi esercitarsi un possesso, che è definito dalla giurisprudenza come un potere di fatto sulla cosa, circostanza questa che sembra sottolineare innanzitutto la prospettiva di un rapporto fisico,materiale, statico, quasi primitivo, con una cosa concreta, che potrebbe pertanto sembrare incompatibile con una concezione dell’azienda come di un bene dinamico e immateriale; nessun problema invece pone la presenza dell’animus possidendi che è facilmente ipotizzabile anche per una cosa immateriale. Cass. n. 5087/2014 osserva che nella definizione dell’art. 2555 c.c., l’elemento unificatore della pluralità dei beni è ancorato a un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’impresa): l’attività, come tale, è certamente un’espressione del soggetto, che trascende la categoria dei beni giuridici e non può essere oggetto di possesso. È necessario allora riconoscere che l’art. 2555 c.c. esprime una valutazione dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento genetico (organizzativo) e finalistico con l’attività d’impresa, ne sancisce una considerazione oggettivata (di “cosa”, oltre che di strumento di attività), costituente la premessa alla possibilità che essa diventi oggetto di negozi giuridici e di diritti, così come del resto avviene nei successivi articoli dal 2556 al 2561 c.c.
Uno dei principali ostacoli concettuali al possesso ad usucapionem dell’azienda riguarda però l’usucapibilità di una delle sue componenti essenziali, l’avviamento, ossia l’idoneità del complesso aziendale a creare, attraverso la produzione o lo scambio di beni o servizi, nuova ricchezza: se esso costituisse un bene immateriale, potrebbe sembrare non suscettibile di possesso, ossia di un rapporto materiale tra una esso ed una persona. Tuttavia questo problema appare superabile seguendo l’insegnamento della Cassazione1, secondo cui, in caso di cessione di azienda, l’avviamento non è un bene compreso nell’azienda ma è una qualità immateriale della stessa. La teoria dei beni giuridici e la relativa disciplina hanno inoltre subito una profonda trasformazione per adeguarsi ad un sistema socio/economico che non è più fondato sulla ricchezza materiale, incorporata nella proprietà fondiaria, ma su quella derivante dagli scambi di mercato, sicché la possibilità di qualificare l’avviamento come bene giuridico non può che risentire di questa evoluzione.
Si è detto delle difficoltà di ritenere usucapibile un’azienda in virtù da un lato della pluralità di elementi disomogenei che la compongono (difficoltà di una sua considerazione unitaria) e dall’altro della presenza in essa di elementi immateriali (come l’avviamento, servizi, proprietà intellettuale, rapporti giuridici di debito-credito, rapporti di lavoro), che stridono con la fisicità tipica del possesso ad usucapionem. Il problema dunque non può essere affrontato prescindendo dalla consapevolezza delle difficoltà concettuali insite nel dover rapportare un istituto dinamico e moderno come l’azienda e inserito nel libro quinto del codice civile con altro istituto così concettualmente lontano, nonché statico, quasi arcaico e legato saldamente ai principi del terzo libro del codice civile quale è l’usucapione.
3.1 L’usucapione di eredità, di quota societaria, di azioni
Nel caso risolto da Cass. n. 5087/2014 il soggetto che ha usucapito l’eredità, era altresì coerede, insieme al soggetto ai cui danni è avvenuta l’usucapione della farmacia (quindi tecnicamente l’usucapione è avvenuto solo per la metà della farmacia stessa). La Cassazione ritiene che il coerede il quale, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri coeredi: a tal fine, lo svolgimento di trattative con gli altri coeredi per la vendita da parte di costoro dei diritti loro spettanti sulla comune eredità non è incompatibile con il possesso esclusivo del coerede che sia anche possessore che non abbia ancora maturato l’usucapione2; analogamente, aveva in precedenza affermato la Suprema Corte che il coerede può acquistare per usucapione la quota di altro coerede o il compendio ereditario per l’intero, ove egli abbia posseduto per il tempo necessario ad usucapire, animo domini, in modo esclusivo ed incompatibile con la possibilità di fatto di un godimento comune con il coerede cui appartiene la quota o con tutti gli altri coeredi, e ciò senza che sia necessaria una interversione del titolo del possesso3.
Deve altresì ribadirsi che la qualificazione di un bene come immateriale non ne impedisce la possibilità di possederlo, come del resto ha fatto la Cassazione a proposito della quota di una s.r.l., addirittura semplicemente mediante la sola iscrizione nel libro soci della s.r.l. del trasferimento della quota sociale.
Secondo la Cassazione4, la quota di una s.r.l., è un bene immateriale equiparato ex art. 812 c.c. ad un bene mobile materiale non iscritto in pubblici registri e quindi sottoposto alla relativa disciplina legislativa, in quanto tale quota esprime una posizione contrattuale obiettivata. Poiché però l’azienda, nella normalità dei casi, è formata sia da beni mobili che immobili, la Cassazione la definisce come universalità di beni, per evitarne l’acquisto secondo la regola possesso vale titolo di cui all’art. 1153 c.c., non certo per impedirne l’usucapibilità tout court. Peraltro, anche la sentenza n. 5087/2014 ritiene che la nozione di cosa non sia naturalistica ma economico-sociale, per cui non potrebbe escludersi la configurabilità di un bene costituito da una cosa immateriale, come nei casi di proprietà intellettuale, e non vi sarebbero quindi ostacoli insormontabili al riconoscimento dell’azienda come “cosa” costituita da un “complesso organizzato di beni”.
È poi utile riassumere lo scarno dibattito che si è sviluppato intorno alla usucapibilità delle azioni e, più in generale, dei titoli di credito, in quanto essi, consistendo in un diritto di credito (quindi, potremmo dire, un bene immateriale, o meglio un “non bene”) incorporato in un documento (quindi in un bene mobile), hanno un po’ la “doppia natura dell’azienda”, che vista da un certo punto di vista può essere considerata come un insieme di beni mobili e immobili-materiali e per un altro può essere considerata come un unico bene immateriale. E in effetti, un problema relativo alla rilevanza del possesso dei titoli di credito, in cui si è creata confusione in virtù del fatto che sugli stessi si può vantare un diritto reale ma allo stesso tempo rappresentano un diritto di credito, è proprio quello della loro presunta usucapibilità: secondo la Cassazione i titoli di credito sono qualificabili come beni mobili e sono suscettibili di possesso in senso tecnico, dato che la disponibilità del documento attribuisce al soggetto la tutela giuridica degli interessi che quel documento esprime: è dunque ammissibile il possesso ad usucapionem degli stessi5. La fattispecie esaminata riguardava dei titoli azionari relativamente ai quali l’intestazione a favore dell’acquirente era avvenuta sia sugli stessi che nel registro dell’emittente, sulla base però di un atto non autenticato (l’art. 2022 c.c. richiede invece che l’acquirente che chieda l’intestazione oltre ad esibire il titolo deve dimostrare il suo diritto mediante atto autenticato): i giudici del Supremo Collegio hanno sostenuto la possibilità di usucapire tali titoli di credito in virtù dell’art. 1161 c.c., che disciplina l’usucapione abbreviata decennale delle cose mobili. È stato in particolare affermato che, ai fini dell’usucapione abbreviata decennale di un titolo nominativo azionario a favore del possessore di buona fede, la mancanza di un titolo idoneo, presupposto dall’art. 1161, ricorre quando il negozio di trasferimento manchi o sia radicalmente nullo, ma l’acquirente lo ritenga per qualsiasi ragione esistente (cd. titolo putativo). Le argomentazioni addotte dalla Cassazione sono tutte incentrate sulla natura di res del titolo di credito, sull’interpretazione letterale dell’art. 1157 c.c. – che non escluderebbe l’applicabilità ai titoli di credito dell’istituto dell’usucapione – e sul fatto che il possesso ad usucapionem del titolo di credito deve essere in armonia con le norme di circolazione,mancando altrimenti il requisito della manifestazione all’esterno di un potere di fatto corrispondente all’esercizio del diritto6.
3.2 L’usucapione di azienda
Venendo all’azienda, deve considerarsi che le norme che consentono l’usucapione già rispondono ad una logica di bilanciamento tra le due ragioni, in quanto la proprietà può sì soccombere alle ragioni dell’impresa – dovendosi ritenere possibile l’usucapione dell’azienda – ma solo con il passaggio di un congruo numero di anni, durante il quale il possessore dell’azienda abbia dimostrato, proprio attraverso l’esercizio continuato di tale possesso, di aver fatto fruttare il complesso produttivo. In effetti, già l’art. 1160 c.c. – che prevede 20 anni come tempo necessario perché maturi l’usucapione – sembra “stare stretto” all’azienda, in quanto il termine previsto in tale norma appare troppo lungo nell’ottica di voler premiare le ragioni dell’impresa rispetto a quelle della proprietà: a maggior ragione sembra irragionevole ritenere che l’azienda non possa mai essere usucapita, se non altro anche per ragioni di certezza nei rapporti giuridici, che esigono, anche a tutela dell’affidamento dei terzi, una coincidenza tendenziale tra situazioni di fatto e di diritto. Risulta conseguentemente preziosa l’intuizione di Galgano7 secondo cui andrebbe favorita la circolazione dell’azienda in ossequio al principio secondo cui, in caso di conflitto tra le ragioni della proprietà e quelle dell’impresa, quest’ultime dovrebbero prevalere. Tale orientamento sembra anzi negli ultimi anni essere ancora maggiormente condiviso e diffuso, soprattutto grazie all’opera della Consulta. In effetti nel nostro ordinamento costituzionale le ragioni dell’impresa, in quanto strettamente legate a quelle del lavoro (i diritti costituzionali al diritto di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. e al lavoro di cui agli artt. 1, 4 e 35 Cost. sono infatti indissolubilmente legati all’impresa) hanno un valore per lo meno uguale, se non superiore8 rispetto a quelle della proprietà (cfr. artt. 41-44 Cost., norme che esprimono il concetto che la proprietà può subire limitazioni anche significative quando ciò sia necessario per la tutela di interessi aventi dignità costituzionale quali il lavoro, garantito dall’esercizio dell’impresa).
Deve, altresì, sottolinearsi che è proprio l’attività organizzativa dell’imprenditore a costituire una modalità del possesso tale da investire l’intera azienda (ossia tutti i beni aziendali, compreso l’avviamento, che da tale possesso anzi riceve nuova linfa) ed è in grado di imprimerle quella destinazione unitaria che è requisito essenziale, ai sensi dell’art. 816 c.c., per qualificarla come universalità di mobili e allo stesso tempo risponderebbe alla stessa ratio di quest’ultima, la quale come l’azienda è considerata avere un notevole valore, superiore alla mera somma degli addendi che la compongono. Le conseguenze giuridiche che discendono da questa alta considerazione economica delle universalità di mobili sono assai rilevanti: da un lato esse sono considerate dal legislatore usucapibili nel loro insieme – pur non essendo un unico bene ma una pluralità di essi – per impedire che un complesso di rilevante valore non venga sfruttato per troppo tempo, e dall’altro si esige che l’usucapione su di esse possa maturare solo nello stesso tempo previsto dal codice civile per i beni considerati di maggiore valore, ossia gli immobili. In questa prospettiva (e solo in questa) è così dunque possibile rinvenire, nel possesso di azienda da parte di un imprenditore (e solo di un imprenditore: un possesso quindi non statico ma dinamico, in quanto caratterizzato da un’attività di organizzazione di tutti i beni facenti parte dell’azienda), quella stessa ratio che è alla base degli artt. 816 e 1160 c.c. e che giustifica il possesso ad usucapionem per un complesso di beni che, pur non dovendosi necessariamente considerare come un’unica entità giuridica, è tuttavia usucapibile nel suo insieme.
1 Cfr. Cass., 8.3.2013, n. 5845.
2 Cass., 9.12.2005, n. 27287.
3 Cass., 28.9.1973, n. 2430.
4 Cass., 26.5.2000, n. 6957 e Cass., 12.12.1986, n. 7409.
5 Cass., 6.4.1982, n. 2103, in Foro it., 1983, I, 1695.
6 Cfr. Delli Priscoli, L., La rilevanza del possesso nei titoli di credito, in Banca borsa, 2009, II, 7.
7 Galgano, F., Diritto commerciale, L’imprenditore, Bologna, 1986, 89.
8 Cfr. C. cost., 20.7.2012, n. 200 e 22.7.2010, n. 270.