Negli anni Novanta il tasso di fecondità totale di periodo (tft) è sceso sotto 1,3 figli per donna nell’Europa meridionale e orientale, oltre che in alcuni paesi asiatici, come il Giappone. È sembrato, in quegli anni, che si stesse imponendo un nuovo regime demografico, caratterizzato da una natalità che avrebbe portato, se fosse rimasta tale abbastanza a lungo, a un declino rapido e implacabile della numerosità della popolazione. Per farsi un’idea, basta riferirsi ai risultati della persistenza di un valore del tft pari a 1,3 e immaginarne il proseguimento: la seconda generazione dopo la presente sarebbe del 40% inferiore a quest’ultima, mentre la quarta generazione presenterebbe una dimensione pari al solo 15% della prima. Un declino demografico così devastante da apparire senz’altro irreale. Le conseguenze strutturali di simili tendenze sono in parte scritte nelle piramidi delle età della stragrande maggioranza delle popolazioni, in particolare di quelle europee: un invecchiamento progressivo, con quote di ultrasessantacinquenni che sfiorano il 25% del totale della popolazione.
Se esiste concordanza in letteratura circa la tesi che la bassa fecondità di periodo sia in buona misura l’effetto del continuo rinvio (‘effetto cadenza’) con cui le generazioni hanno affrontato maternità e paternità, è altrettanto vero che il declino dell’intensità della fecondità dipende da una serie di costrizioni che allontanano i potenziali genitori dal proprio modello di ‘fecondità desiderata’, che per lo più si attesta sui 2 figli per donna – livello che assicura la sostituzione generazionale.
Le costrizioni sono sia economiche, sia culturali e fra di esse, per quanto riguarda in particolare il contesto sud-europeo, sono state spesso evocate la persistenza della famiglia tradizionale, il ritardo dell’uscita dei figli dalla famiglia di origine, il relativamente basso tasso di partecipazione alla vita lavorativa delle donne, l’alta disoccupazione dei giovani.
In ogni caso si può affermare che la bassa fecondità nelle società avanzate (ben diverso sarebbe il discorso se volessimo ragionare sui livelli di fecondità – ormai vicina ai 2 figli per donna – di alcune regioni che per vari motivi non possono catalogarsi in questo gruppo, come l’Iran) appare il risultato di due fenomeni importanti, connessi al cambiamento economico e sociale, ossia il liberalismo sociale e la ristrutturazione economica. Entrambi questi fenomeni hanno aumentato le aspirazioni individuali relative alla qualità della vita.
Tuttavia, pur con differenti modalità nei diversi ambienti culturali e nei diversi sistemi di welfare, entrambi hanno condizionato la capacità di formare e mantenere una famiglia, sollevando importanti questioni, fra le quali la trasformazione del ruolo femminile e la crescente incertezza che caratterizza il mercato del lavoro.
Da un lato, si è assistito all’affermarsi dell’equità di genere, in particolare nel campo dell’istruzione, che ha condotto a nuove prospettive per le donne al di fuori delle mura domestiche, modello che in taluni casi (come in Italia) non si è accompagnato alla trasformazione dei ruoli di genere all’interno della famiglia. Dall’altro, il senso globale di incertezza dei giovani si è sostanziato nella crescente avversione al rischio in un mercato del lavoro sempre più competitivo, con le donne a rappresentare la parte più fragile della società a causa della ‘doppia presenza’. In Italia (e, più in generale, nei paesi dell’Europa meridionale, caratterizzati dalla debolezza dei sistemi di welfare) la mancanza di conciliazione dei ruoli di madre e di lavoratrice continua a rappresentare la chiave di volta sia dei bassi livelli di fecondità, sia dei modesti tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Il quadro demografico si è modificato negli ultimi anni. Prendendo come esempio l’Italia (ma, a parte lievi differenze quantitative, si potrebbe ugualmente riferirsi all’esperienza di molti paesi diversi, quali Russia, Armenia, Polonia e Giappone), si è assistito a una lenta ripresa e, dopo il minimo di 1,19 figli per donna raggiunto nel 1995, il tft attuale è pari a 1,4 (dati 2009). La ripresa è dipesa sostanzialmente dal recupero che le generazioni ‘del rinvio’ hanno attuato, con una crescita della fecondità delle quarantenni, e dai flussi crescenti di immigrati (per i paesi come l’Italia e la Spagna), caratterizzati sovente da una fecondità più elevata.
Su queste evidenze, il dibattito si è acceso circa l’opportunità delle politiche di contenimento del processo di invecchiamento, con la considerazione che le sole migrazioni non riescono a risolvere il problema della bassa fecondità e riconducendo la discussione nell’alveo delle misure di sostegno alla famiglia e alla fecondità. Queste ultime, a parere della larga parte degli studiosi di varia estrazione, non possono che rappresentare l’altra faccia della medaglia delle ragioni della bassa fecondità. L’obiettivo delle soluzioni al dilemma è quindi costituito dalla rimozione degli ostacoli che determinano i divari fra fecondità ‘desiderata’ e fecondità ‘raggiunta’.
Sinteticamente, gli interventi di policy possono classificarsi in quattro categorie: la protezione alla maternità, i congedi parentali, i servizi all’infanzia e gli aiuti ai bambini. Le valutazioni in merito a questo quadro di politiche concordano nell’affermare una doppia serie di considerazioni. In primo luogo, i paesi che hanno inserito tali interventi nell’ambito delle politiche del mercato del lavoro, delle politiche di cura (sia per i bambini che per gli anziani) e delle politiche di genere (come la Francia o la Svezia) sembrano avere ottenuto i risultati desiderati anche in termini di rialzo del numero medio di figli. In secondo luogo, le strategie di conciliazione devono condurre a cambiare il mercato del lavoro in modo che donne e uomini possano condividere i compiti familiari e professionali.
Si parla – dunque – di politiche pubbliche di assistenza all’infanzia come requisito preliminare di occupazione dei genitori, così come di politiche orientate verso il cambiamento dei contratto di genere per quanto riguarda la divisione del lavoro e della cura nella famiglia e nella società.