Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Medioevo occidentale la conoscenza della Bibbia (da biblia, in greco “libri”) era il punto di riferimento principale, insieme alle opere dei Padri della Chiesa (Ambrogio, Girolamo, Agostino e Gregorio), della formazione scolastica, della cultura monastica, ecclesiastica e liturgica, e influenza in misura determinante l’elaborazione artistica e intellettuale e la produzione giuridica.
Pseudo-Dionigi Areopagita
La parola di Dio
La gerarchia celeste
Con la maggior semplicità la parola di Dio si è servita di sante finzioni poetiche applicandole agli spiriti senza forma, in considerazione, come è stato detto, del nostro intelletto, provvedendogli una via di ascesa familiare e connaturale e foggiando per lui le scritture sacre atte a questa ascesa.
in P.C. Bori, L’interpretazione infinita, Bologna, Il Mulino, 1987
Gregorio Magno
Sacre scritture
Moralia in Iob
La sacra Scrittura trascende senza paragone ogni scienza e ogni insegnamento: prescindendo dal fatto che annuncia la verità, richiama la patria celeste, muta il cuore di chi legge affinché si volga dai desideri terreni ad abbracciare le cose celesti; prescindendo dal fatto che con espressioni più oscure allena i forti mentre alletta i piccoli con un parlare dimesso; che non è così chiusa da intimidire, né così aperta da svilirsi; che ai lettori semplici è quasi perfettamente nota e ai colti appare sempre nuova; prescindendo dunque dalla sostanza, la Scrittura sacra supera ogni scienza e ogni insegnamento con lo stesso modo di esprimersi, perché con una stessa parola mentre espone il testo enuncia un mistero e riesce così a dire ciò che è stato in modo tale da predire con ciò stesso quel che sarà; e, senza mutare l’ordine del discorso, con le stesse parole sa descrivere ciò che è stato compiuto e annunciare quel che sarà.
in P.C. Bori, L’interpretazione infinita, Bologna, Il Mulino, 1987
Gregorio Magno
Una questione di “progressione”
Omelie su Ezechiele
Quanto più ciascun uomo santo progredisce nella sacra Scrittura, tanto più questa stessa sacra Scrittura progredisce in lui […] perché la comprensione delle parole divine, come più volte si è detto, cresce secondo la capacità di sentire di chi legge.
in P. C. Bori, L’Interpretazione infinita, Bologna, Il Mulino, 1987
Giovanni Scoto Eriugena
Teologia e Ars poetica
Sulla Gerarchia celeste di Dionigi
Come l’arte poetica sviluppa interpretazioni morali o cosmogoniche mediante storie immaginarie e allegorie per stimolare la mente dell’uomo […] così la teologia, simile a una poetessa, adopera invenzioni intellettuali per adattare la sacra Scrittura alla capacità dell’intelletto.
Scoto Eriugena, Sulla Gerarchia celeste di Dionigi, P.L. 122, col. 146 BC., trad. it. F. Stella
Paolo Alvaro
Dedica della Bibbia per Loevilgido
Questi i doni di Dio, che sempre in fiore
fulgono santi come luci in cielo;
queste le gemme belle:
lampeggian più del sole,
rinnovando i pensieri,
sciogliendo la tristezza.
Questi del cielo tengono
le chiavi o danno i premi;
questi del paradiso ricreano
i prati fiorescenti.
Qui si chiarisce il senso spirituale
del valore che la lettera nasconde:
la storia in superficie adorna ciò
cui l’etica dà senso.
Chi beve dolcemente
ne coglie la dolcezza,
sazia e rinfanca i cuori questo cibo.
Queste di Dio le glorie
che tenebre del mondo
vibrante al raggio vincono
e bionde rasserenano.
Legge di Dio preziosa brilla come neve,
luce fa più del sole,
rifulge come porpora marina;
tutto quanto si crea con l’arte umana
questa con il valore
vince, che vien dall’alto;
con la pietà illumina divina
ciò che l’oscurità attenebra.
Dispone il testo di una e mille vie,
spiega in parole chiare
e cose alte rivela.
Così placidamente corre l’onda
a figurare le profondità;
così in profondo echeggia
per rivedere in breve cose piccole.
Con cento sensi indaga nei misteri,
sapientemente, e cerca verità
chiare in purezza e le conserva all’anima.
Questa dottrina valida lampeggia
di splendore celeste,
e a lei gonfia del giogo
si inchina la superbia.
Forte di un dono multiplo chi legge
le glorie celesti per amor di fede
è casto e giusto e pio.
A queste ogni selvaggio, o cieco strugge
la mente ed è respinto al senso oscuro
multiplo, ed è turbato.
La legge della fede corre sempre
fedele a chi è fedele, e al cuor ribelle
falsa si offre a chi la affronta falso.
Come in conchiglia perla
splende e biancheggia a neve,
così Dio Cristo grande
si cela nella “lettera”.
Come topazio eccolo,
colore d’acqua e d’onda:
lava le impurità e rinnova
l’albore pei redenti;
qui è carbonchio ardente il Fulgido
che alle fiamme purifica le infamie
e palpita di alito divino;
forte del verde eterno, uno smeraldo
nei secoli onorato da dodici gemme,
e ventiquattro inginocchiati adorano
anziani e chini il Dio signore agnello.
Questa la legge eterna,
finché con la sua luce
il sole cielo e tenebre rischiara,
finché Cinzia le notti
adorna e il buio caccia,
fin che nel cielo palpitano stelle,
finché […].
in F. Stella, La poesia carolingia, con trad. it. F. Stella, Firenze, Le Lettere, 1995
In epoca tardoantica il patrimonio di testi cui corrisponde il concetto di Bibbia (Biblia sacra, Bibliotheca, Sacra Scriptura, Testamenta) è un dato fluttuante, progressivo e difficile da determinare. Nel 367 Atanasio di Alessandria fissa il canone del Nuovo Testamento, e pochi anni dopo, a Roma, papa Damaso presiede un concilio nel quale viene concordato definitivamente il canone cattolico dei 72 libri biblici (canone che i protestanti ridurranno, escludendo i cosiddetti libri deuterocanonici, cioè Giuditta, Tobia, Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruch, Lettera di Geremia, storia di Susanna, parte greca di Esther, preghiera di Azaria e Cantico dei tre ragazzi nella fornace). Ma il testo che corrispondeva realmente a questi libri era ogni volta diverso: le versioni in uso alla fine del IV secolo sono quella greca nella traduzione dei Settanta (canone alessandrino), che aggiunge alcuni libri in greco (deuterocanonici) alla Bibbia ebraica (canone palestinese); ma circolano anche la traduzione siriaca chiamata Peshitâ (oltre a traduzioni armene, georgiane, boheiriche), il Nuovo Testamento gotico del vescovo Wulfila e versioni parziali in latino adottate nelle comunità cristiane locali e denominate secondo la provenienza Vetus Latina, Afra o Hispana, oggi ricostruite sulla base di antichi manoscritti o delle molte citazioni nei Padri latini della Chiesa. Damaso incarica allora Girolamo di Stridone, suo segretario, di preparare una versione ufficiale che poi sarà chiamata Vulgata.
La traduzione di Girolamo sostituisce gradualmente le veteres, ma riuscirà a imporsi solo dopo l’età carolingia. In questo periodo infatti Carlo Magno sollecita nella sua Admonitio generalis (789) una revisione critica del testo biblico, con lo scopo di assicurare alla liturgia di tutte le terre da lui governate un unico testo di riferimento. A questa impresa filologica, che si fonda sulla Vulgata, risalgono molti esemplari manoscritti che si riconducono all’opera di Alcuino e del suo scrittorio a Tours (fra queste la Bibbia Vallicelliana di Roma e la Bibbia di Moutier-Grandval ora a Londra, che sono fra i primi esemplari di bibbie integrali, secondo il modello della Bibbia Amiatina, attualmente conservata alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze). Ma hanno lasciato tracce di una revisione filologica del testo biblico anche il vescovo Teodulfo, dal suo scrittorio a Saint Mesmin o Micy, e altre officine monastiche a Corbie o a Metz. Gli sforzi dei carolingi producono testi più corretti e testi completi, ma non un’edizione “concordata”: risultato che si deve sostanzialmente solo al lavoro dei correctoria dell’università parigina fra XII e XIII secolo, e a personalità come Stefano Langton che per primo introdurrà la divisione in versetti di tutta la Sacra Scrittura. Alle traduzioni importanti si aggiungerà infine, nel IX secolo, quella dal greco in paleoslavo, realizzata da Cirillo e Metodio, evangelizzatori della Grande Moravia e fondatori della tradizione linguistica e liturgica della Chiesa slava ortodossa. In altre zone europee, dominate dalla tradizione latina o prive di una lingua evoluta si dovrà invece aspettare la Riforma di Wyclif nel XIV secolo o quella luterana nel XV per avere traduzioni vernacolari della Bibbia, salvo eccezioni singole come la Genesi anglosassone di Aelfrico o il Salterio e il Libro di Giobbe versati in antico alto tedesco da Notker Labeone di San Gallo e la traduzione-commento in francone del Cantico dei cantici che Williramo di Ebersberg affianca a una rielaborazione metrica in latino e al testo della Vulgata.
L’esperimento di Pietro Valdo, che basa sulla comprensione popolare della Bibbia la sua catechesi, sarà cancellato dalla trasmissione manoscritta, così come la versione provenzale usata dai catari albigesi. Ma sotto il regno di Luigi IX l’università di Parigi riuscirà a produrre la prima versione francese integrale della Bibbia. Nello stesso periodo cominciano le traduzioni spagnole, con Alfonso X il Saggio, catalane, durante il regno di Alfonso III di Aragona, mentre l’Italia deve attendere il 1320-1330 per vedere il volgarizzamento di un libro biblico (gli Atti degli apostoli) di Domenico Cavalca. L’interesse di molte sette eretiche per la lettura della Bibbia in lingua contemporanea susciterà spesso l’avversione della Chiesa e delle autorità civili: nel 1229 si arriverà a proibire, nel sinodo di Tolosa, il possesso di libri religiosi in volgare, sospetti di consentire l’organizzazione di gruppi indipendenti dalla Chiesa romana; analoghi e più pesanti divieti, destinati peraltro a scarso successo, saranno emanati da Giacomo I d’Aragona, nel 1233, e dall’imperatore Carlo IV, nel 1350 e nel 1369.
Il termine deriva dal greco [apokrypha (apò)= da + krypto = nascondere], “ciò che è tenuto nascosto e lontano”. Nel Medioevo occidentale i glossari lo rendono con secreta oppure con recondita vel occulta. In origine quindi il concetto non fa riferimento a un problema di canoni, ma di accessibilità. La segretezza deriva non da un contenuto pericoloso ma dall’oscurità della loro provenienza, come scrive Agostino nel Contra Faustum: earum occulta origo non claruit patribus (“la loro ignota origine non fu chiara ai padri”). Per questo le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, l’enciclopedia più letta dell’alto Medioevo, definisce libri apocrifi i libri segreti, quia in dubium veniunt (“perché suscitano dubbi”, VI 2, 51), cioè suscitano dubbi circa la loro autorevolezza e quindi sull’attendibilità di quanto tramandano.
Sul piano canonistico la prima condanna arriva dal concilio di Toledo del 400, seguito da una decretale del 405 di Innocenzo I e da ulteriori pronunciamenti in sinodi nei secoli successivi. Quali siano in concreto questi libri lo stabilisce il Decretum de libris recipiendis et non recipiendis (Decreto sui libri da accettare e da non accettare) attribuito a papa Gelasio ma redatto verosimilmente in Gallia nel VII secolo e accolto ufficialmente dalla Chiesa nel IX secolo. Vi figurano molti libri rifiutati con la definizione di apocripha (a causa della provenienza da eretici o scismatici), ma anche testi che eserciteranno una profonda influenza sulla cultura medievale di tutte le lingue, come gli Atti di Tommaso, ilProtovangelo di Giacomo, nonché libri completamente estranei al canone biblico ma autorevoli sul piano intellettuale come le opere dell’apologeta Tertulliano, di Lattanzio, del poeta Commodiano. In realtà la percezione del pubblico colto resta variegata e sfumata. Già Girolamo mette in guardia dalla tentazione di cercare “l’oro nel fango” degli apocrifi, ammettendo tuttavia che questo è l’uso corrente, specialmente nell’intenzione di ricavare dagli apocrifi elementi narrativi sui miracoli di Gesù o degli apostoli: tale pratica è ad esempio suggerita nel VI secolo da Gregorio di Tours, padre della storia di Francia, che propone di sradicare dagli Atti di Andrea le chiacchiere (verbositas) eretiche e limitarsi a estrarne i miracoli. L’atteggiamento dei medievali nei confronti degli apocrifi è confermato dall’estensore del De nativitate Mariae, una riduzione del Vangelo dello Pseudo Matteo falsamente attribuita a Girolamo, che nella lettera prefatoria dichiara di limitarsi a riferire “ciò che sta scritto o che verosimilmente avrebbe potuto essere scritto”.
Si oscilla dunque da una questione di autenticità dimostrata alla ricerca di una verità di fede anche in opere non autorizzate dalla Chiesa ma universalmente diffuse, la cui utilità consiste soprattutto nel colmare lacune narrative dei Vangeli e degli Atti. Fra i generi più popolari sono infatti le apocalissi, che raccontano gli avvenimenti misteriosi verificatisi fra la morte e la risurrezione di Cristo: soprattutto la Visio Pauli e il Vangelo di Nicodemo, che descrive accuratamente la visita di Gesù agli inferi. Questa ambiguità darà origine a dispute teologiche come quella che contrapporrà Incmaro, arcivescovo di Reims, che aveva accolto fra i libri della sua cattedrale un opuscolo sulla nascita della Madonna, a Ratramno di Corbie, fautore di un rigore ispirato al Decreto pseudogelasiano. Nella disputa Incmaro sembra farsi portavoce di una certa tolleranza ispirata al bisogno di informazioni supplementari su fatti e personaggi lasciati parzialmente nell’oscurità dai libri canonici. La soluzione adottata e ripetuta da molti teologi successivi è la distinzione fra apocrifi totali (in totum reiicienda) e apocrifi parziali (non penitus abominanda) intendendo apocrifo come “libro con contenuto parzialmente segreto, da non leggere in pubblico” ma leggibile in privato, pur senza essere citabile come fonte autorevole nei dibattiti teologici. E questo, fra molte sfumature e distinzioni, sarà il principio riconosciuto nel resto del Medioevo, tanto che Vincenzo di Beauvais, re degli enciclopedisti del basso Medioevo, scrive una Apologia de apocriphis giustificando l’usus Ecclesiae così permissivo con la presenza di apocrifi perfino nelle lettere di san Paolo e san Giacomo, e Iacopo da Varazze, nella sua Legenda aurea, raccolta di vite di santi destinata a una immensa popolarità europea e a un profondo influsso su letteratura e iconografia artistica, accetta in alcuni casi di citare gli apocrifi come fonti agiografiche.
Per gran parte dell’alto Medioevo la riflessione teologica ha come strumento e contenuto principale il commento, o esegesi (cioè “spiegazione”) della Bibbia: l’esegesi è il campo nel quale più vistoso e massiccio è l’impegno intellettuale dei medievali, e lo sforzo di attribuire uno o più significati, non solo a ogni personaggio, evento o fenomeno della Scrittura, ma anche della realtà, elabora la chiave di accesso all’interpretazione medievale del mondo e della vita. I risultati di questo impegno sono relativamente ben conosciuti e studiati per il periodo patristico, mentre restano ancora in parte inesplorati per l’età carolingia e la successiva, per la quale la maggioranza dei testi è ancora inedita e quasi nessuno di essi ha avuto traduzioni in lingue moderne.
Il periodo medievale si apre con l’Expositio Psalmorum di Cassiodoro, caratterizzata dal modello agostiniano di “continuo confronto tra la teologia cristiana e la cultura pagana (o, per dire meglio, enciclopedica)” (Leonardi), nel quale le arti liberali sono lo strumento principale di comprensione della Bibbia e insieme di formazione di una scienza cristiana. E in questo Cassiodoro compone l’articolazione secondo uno schema che resterà in uso nella scuola: divisio, cioè sintesi della struttura, expositio cioè spiegazione, e conclusio sul contenuto. E già qui, sulla scia di Agostino, si formalizza la compresenza di più sensi: la cosiddetta intellegentia secundum historicam lectionem: cioè il significato storico o letterale delle vicende narrate; intellegentia spiritualis, cioè il significato spirituale (a sua volta definito attraverso un’interpretazione allegorica, o tropologica, cioè morale, o figurale, o tipologica), e infine un senso mistico, relativo alle realtà ultime di Dio e della storia umana. In questo modo, ad esempio, l’arca di Noè può essere letta come strumento di salvezza dal diluvio o come prefigurazione allegorica della Chiesa che offre un rifugio dal male (configurando la coppia di tipo-antitipo / arca-Chiesa), e il Mar Rosso si può interpretare come figura o allegoria del sangue di Cristo, l’albero dell’Eden riconduce al legno della croce, Caino a Giuda, e così via, in un vero e proprio sistema aperto di relazioni, sempre implementabile ma costantemente imperniato sull’asse Antico-Nuovo Testamento.
Si sviluppa così un patrimonio di corrispondenze, di terminologia specifica, di elaborazione teologica non sistematica che caratterizzerà la fase “monastica” della cultura altomedievale. E fin dall’inizio l’esegesi dimostra la consapevolezza delle proprie specificità di genere letterario: Cassiodoro infatti nel primo libro delle Institutiones (Fondamenti) elenca, dopo i libri della Bibbia, i nomi di coloro che hanno cercato di penetrarne il significato: gli introductores, maestri di metodo esegetico (come Agostino nel De doctrina Christiana) e gli expositores (“commentatori”), come i Padri Girolamo e Ambrogio. Fra gli strumenti più diffusi nei secoli successivi troveranno ampia diffusione le Scripturarum claves dello Pseudo Melitone, ma anche le Formulae spiritalis intellegantiae di Eucherio di Lione (compendio dell’VIII secolo), il De situ et nominibus locorum Hebraicorum di Girolamo, con il significato etimologico e allegorico dei nomi di luogo della storia sacra, e la parallela Interpretatio nominum Hebraicorum dello Pseudo Beda.
Con Gregorio Magno, monaco e poi papa, l’esegesi opera una svolta decisa verso la finalità spirituale e pastorale, che sarà massicciamente ripresa nel pieno Medioevo; nei suoi scritti si esprime la piena consapevolezza della mutevolezza storica delle interpretazioni bibliche. Ma i secoli dei regni romano-barbarici segnano l’esigenza di una sistemazione scolastica del sapere, che porta alle sintesi di Isidoro di Siviglia, autore di Allegoriae quaedam Sacrae Scripturae sul significato allegorico dei personaggi biblici e di Quaestiones in Vetus Testamentum (o Mysticorum expositiones sacramentorum, “spiegazioni dei misteri spirituali”). In quello stesso periodo si sviluppa una esegesi irlandese, studiata a fondo da Bernhard Bischoff, che si contraddistingue per la coesistenza di una pratica diffusa, per l’assenza di grandi maestri e per un legame strutturale con i metodi della scuola, che finisce per parcellizzare ulteriormente, rispetto a Isidoro, i problemi interpretativi in questioni isolate e commenti a singoli passi. La figura di spicco dell’esegesi nel secolo VIII è inglese ma non si forma sulla cultura insulare, bensì sulla patristica, utilizzata a fondo in una serie di commenti ai Vangeli di Marco e Luca, agli Atti degli apostoli e ad alcuni libri storici dell’Antico Testamento (Genesi, Esodo, Re, Esdra, Neemia, Tobia): è il Venerabile Beda, considerato il padre della storia inglese. Beda è fra i primi a segnalare, nel margine dei suoi manoscritti, le fonti cui attinge, sviluppando un modello che avrà molta fortuna in età carolingia, ed è forse il primo a redigere strumenti esegetici per un’epoca che non ha il problema del conflitto culturale o eretico ma può porsi il problema del senso complessivo della Bibbia.
All’esegesi carolingia, che rielabora il patrimonio patristico, si sta riconoscendo negli ultimi anni un ruolo chiave nella sistemazione delle conoscenze che diverranno poi definitiva acquisizione della cultura medievale e della tradizione cattolica. Questo sforzo ermeneutico viene letto ora come un risultato culturale autonomo, che caratterizza in senso religioso anche sul piano quantitativo l’apporto specifico della rinascita carolingia: è stato calcolato che per ogni codice di contenuto classico si trascrivono in questo secolo 20 manoscritti di contenuto patristico. Rabano Mauro traccia il quadro sintetico ma ampio del lavoro esegetico del celebre manuale De clericorum institutione. Sul versante degli expositores le novità consistono anzitutto in una trasformazione del metodo di citazione, che ingloba dai Padri ampie sezioni di commento, spesso messe a confronto fra loro, creando così veri e propri repertori di citazioni fedeli e omogenee, ma soprattutto complete: si tende quindi a integrare i commenti patristici che non avevano completato la trattazione di un libro biblico. Tale metodo è stato valutato da alcuni studiosi come semplice compilazione, mentre le ricerche più recenti tendono a valorizzare questo tipo di raccolte come “espressione di una diversa esigenza culturale, che mira a recuperare non tanto una particolare lettura della Scrittura, ma l’intera tradizione interpretativa” (Cantelli). La capillarità di questo sforzo è misurabile dall’esempio di Floro di Lione, che mette insieme un commento alle Epistole di Paolo basato esclusivamente su scritti di sant’Agostino, ma siccome Agostino non aveva mai scritto commenti a san Paolo, Floro aveva dovuto individuare e riportare dalle numerose altre opere del genio di Ippona 4000 passi relativi a san Paolo: un tipo di impresa culturale che presuppone un salto di qualità nella storia dell’esegesi e della scuola.
Si costituisce così un reticolo esegetico raccolto e disposto in modo critico, guidato, consapevole, che fa leva soprattutto sulla giustapposizione di versetti paralleli (utile a spiegare passi di cui non si hanno commenti precedenti sulla base di passi simili di cui si hanno commenti) e sull’etimologia del nome, spesso accompagnati da riflessioni sul metodo e sulle tecniche seguite. I maestri più influenti in questo campo sono nella prima generazione Wigbodo di Trier, scoperto e pubblicato di recente, Alcuino di York, Claudio di Torino, impegnati soprattutto nella raccolta delle fonti (collectanea), e nella generazione successiva Rabano Mauro e Angelomo di Luxeuil, che completano il lavoro di rielaborazione ordinando i materiali secondo i diversi sensi di interpretazione. La generazione posteriore all’830 si può permettere di lavorare su sintesi preesistenti e di approfondire con maggiore personalità i confronti e le discussioni: così fanno Aimone di Auxerre, Pascasio Radberto di Corbie – che porta l’esegesi sul terreno della lettura storica e politica e allo stesso tempo sul piano stilistico e retorico – e soprattutto Giovanni Scoto Eriugena, che si interessa del Vangelo di Giovanni come occasione di formulazione teologica e cosmologica, sviluppando le premesse teologiche dello Pseudo Dionigi Areopagita. Sulla base di questo immenso lavoro si cominciano a compilare le raccolte di spiegazioni integrali alla Bibbia che costituiranno, nella scuola di Anselmo di Laon, la famosa Glossa ordinaria – un tempo attribuita al carolingio Walafrido Strabone – destinata a restare fino all’età moderna la chiave universale della Sacra Scrittura.
La pervasività della Bibbia nella produzione culturale della tarda antichità e del Medioevo si manifesta in misura significativa anche su quello che oggi siamo abituati a chiamare “letteratura”.
Se William Blake poteva dire che l’Antico e il Nuovo Testamento sono il “grande codice dell’arte”, e poteva fare della Bibbia l’ipotesto permanente della sua poesia, tanto più in età antica il rapporto fra Bibbia e poesia si pone come uno degli assi portanti della composizione, anche se spesso in maniera indiretta e mediata. La presenza di parti poetiche all’interno della Scrittura (i Cantici di Mosè, i Salmi, Giobbe, le Lamentazioni) ha instaurato fin dai primi secoli cristiani una relazione biunivoca fra poesia e Bibbia: Davide salmista diventa modello del poeta cristiano, che canta lodi a Dio, e insieme oggetto di nuova poesia, convertita in linguaggio adatto al sistema culturale greco-latino a cui si rivolge.
Questo rapporto si è presto articolato in generi e tipologie, all’interno delle quali si individua una specificazione più direttamente definibile “poesia biblica”: la poesia che ha come oggetto e fonte la Bibbia. Si tratta, per importanza storica, del terzo ciclo mitologico della poesia europea, dopo quello omerico e quello carolingio-arturiano. Ma è senz’altro il maggiore per numero e dimensione delle opere coinvolte.
Gli inizi vengono abitualmente collocati in una produzione innodica e parafrastica, di cui restano in greco, a parte qualche esercitazione ritrovata nei papiri, i centoni dell’imperatrice Eudocia, la parafrasi dei Salmi attribuita al siriano Apollinare di Laodicea e la parafrasi del Vangelo di Giovanni composta dal poeta egiziano Nonno di Panopoli. In Occidente la tradizione si forma gradualmente, attraverso i cosiddetti centoni virgiliani di argomento cristiano: composizioni che riciclavano e cucivano mezzi versi virgiliani per narrare episodi biblici o trattare argomenti religiosi: un esempio importante, letto fino al Rinascimento, è stato, intorno al 360, il centone di Proba. Mentre questi esercizi contribuiscono a creare un linguaggio poetico familiare al pubblico colto ma capace di comunicare contenuto biblico, la tradizione della poesia biblica latina viene fondata dagli Evangeliorum libri (composti intorno al 330) di Giovenco, probabilmente un prete spagnolo, che si attiene a una riscrittura in 3219 versi del dettato evangelico, e allo stesso tipo appartengono l’Eptateuco in esametri di Cipriano poeta, e microepos come il De Evangelio e il De Macchabeis dello Pseudo Ilario. Più libere e più aperte a sviluppi esegetici o lirici sono le rielaborazioni di Celio Sedulio – il Carmen Paschale, che dedica un libro all’Antico Testamento e tre al Vangelo –, Mario Vittore – l’Alethia, centrata sulla Genesi –, e soprattutto Draconzio, che nel De laudibus Dei (fine V sec.) associa una riscrittura molto emotiva e insieme molto erudita della creazione biblica del mondo con una rilettura della storia umana (romana nella fattispecie) e una confessione personale delle proprie colpe. Siamo alle soglie del Medioevo in senso stretto, che non vede fratture in questa evoluzione: all’inizio del VI secolo infatti Alcimo Avito di Vienne scrive il De spiritalis historiae gestibus (Le imprese della storia spirituale), in cinque libri di forte respiro epico sulla Genesi, il Diluvio universale e il passaggio del Mar Rosso, con una narrazione anch’essa di grande intensità alla quale danno respiro le numerose digressioni geografiche e scientifiche, e una raffinata allusività stilistica. Nello stesso periodo Aratore si cimenta per la prima volta con gli Gli Atti degli apostoli, che presentano uno sviluppo narrativo più agevole da conciliare con lo stile epico, eppure l’opera risulta rivoluzionaria per l’alternanza, scelta dall’autore, fra racconti in versi e spiegazioni allegoriche degli episodi narrati.
Di recente sono stati pubblicati da un manoscritto di Trier lunghi brani dei libri VIII, IX e X del Metrum in Evangelia di Severo di Malaga, ma l’alto Medioevo precarolingio non ci ha lasciato testi importanti nel genere: la notizia principale è relativa a Caedmon, pastore semianalfabeta e poi monaco a Withby, in Inghilterra, che traduce oralmente in versi vernacolari il contenuto delle Scritture che ha sentito raccontare da un interprete. Ce lo racconta Beda, che ci riporta in latino un brano del cantore inglese, di cui poi è stata trovata una redazione in lingua. Di tutt’altra importanza è invece l’Esamerone in versi giambici di Giorgio di Pisidia, uno dei monumenti poetici della letteratura bizantina, ispirato all’Esamerone di Basilio di Cesarea, capolavoro dell’esegesi biblica greca.
L’età carolingia non deve più affrontare l’esigenza di formare per le scuole cristiane e per il pubblico colto un corpus poetico alternativo a quello dell’epica pagana (Virgilio, Ovidio, Lucano, Claudiano) e vede una ripresa di microforme parafrastiche che tendono, non a raccontare, ma a riassumere il contenuto dell’intera Bibbia (Versus de bibliotheca) o dei Vangeli (Floro di Lione, Oratio cum commemoratione antiquorum miraculorum Christi Dei nostri), oppure a liricizzare singoli salmi o brevi episodi (Walafrido Strabone, Vandalberto di Prüm), o a estrarre i momenti salienti della storia sacra per enfatizzarne i contenuti teologici (Audrado di Sens, Giovanni Scoto Eriugena). Nello stesso periodo è proprio la poesia biblica a dare i natali alla letteratura in antico inglese (Caedmon, le Genesi A e B, l’Exodus, il Daniel, il Christ and Satan del ms. Oxford, Junius 11) o in antico tedesco (Heliand sassone, la Creazione di Wessobrunn, il Muspilli sul Giudizio finale, l’Evangelienbuch di Otfried, tutti nel IX secolo e alcuni, come Otfried, formati alla scuola carolingia (di Rabano Mauro). In questo periodo la connessione con l’esegesi dei passi biblici già sensibile in Avito e Aratore si intensifica fino a fare dell’esegesi stessa e dei suoi procedimenti di significazione un oggetto di poesia e un codice retorico nuovo.
Nei secoli successivi la poesia biblica – anche indipendentemente dagli sviluppi teatrali del dramma sacro – attraverserà una vera e propria proliferazione, sia in latino che nelle altre lingue, ma soprattutto in forme nuove e più ambiziose. Il X secolo è probabilmente quello in cui viene composta l’Ecloga Theoduli, opera di immensa fortuna scolastica, in cui ai racconti mitologici di Menzogna si contrappongono, quartina contro quartina, quelli biblici di Verità. Nello stesso secolo l’Occupatio di Oddone di Cluny si cimenta in uno stile ermetico e sperimentale, probabilmente influenzato dal gusto delle scuole irlandesi. Nell’XI riprendono invece i grandi poemi teologici: Enrico di Augsburg sulla creazione del mondo (Planctus Evae), il De nuptiis di Fulcoio di Beauvais sulle nozze fra Cristo e la Chiesa, e l’unificazione dei due Testamenti, mentre i secoli successivi vedranno il rifiorire della parafrasi narrativa. Sarà questo il filone che porterà a capolavori della poesia occidentale come, ancora in latino, il De partu Virginis di Iacopo Sannazaro, Il mondo creato di Torquato Tasso, La Sepmaine di Guillaume Du Bartas, il Paradise Lost di John Milton, il Messias di Klopstock.
Mille forme caratterizzeranno questo genere come campo di infinite sperimentazioni: dal poema epico alla lirica sentimentale, alla preghiera, alla tenzone di due entità in conflitto, alla filastrocca mnemonica, alla drammatizzazione emotiva, alla intellettualizzazione teologica, alla semiologia esegetica o allegorica.