Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La biochimica come disciplina autonoma si sviluppa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, distaccandosi dall’ambito della fisiologia, a sua volta in forte sviluppo in quel periodo. La biochimica, o chimica fisiologica come è anche chiamata all’epoca, si interessa dell’isolamento e caraterizzazione delle specie chimiche che compongono la cellula e dello studio delle loro relazioni e trasformazioni nel metabolismo. I decenni dal 1920 al 1950 vedono un rapido sviluppo della disciplina in termini teorici e sperimentali, coronato da una messe di notevoli risultati, come la definizione della natura chimica delle proteine e degli acidi nucleici, la descrizione dei cicli metabolici e delle strutture fisiche della cellula. Dagli anni Quaranta ai Sessanta, gli studi di biochimica tendono a convergere con una parte della moderna genetica e della citologia, costituendo una delle radici della biologia molecolare.
La ricerca di una specificità disciplinare
La biochimica è la scienza che s’interessa dell’isolamento e caratterizzazione delle specie chimiche che compongono la cellula, e che ne studia le interazioni e trasformazioni nel corso del metabolismo. Sebbene il termine sia piuttosto antico (risale all’incirca alla metà dell’Ottocento), la definizione della disciplina è rimasta vaga fino agli anni Trenta del Novecento, quando una serie di innovazioni tecniche e concettuali ha consentito di circoscriverne l’oggetto nei termini sopra esposti e di affrancarla definitivamente dalle diverse tradizioni mediche e scientifiche cui era legata. Tuttavia, le principali linee di ricerca che confluiranno più tardi nella biochimica si consolidano, negli ultimi due decenni dell’Ottocento e nel primo Novecento, in relazione a questioni proprie di altre discipline, come la fisiologia, la medicina, la scienza della nutrizione e la chimica organica. La chimica biologica (o fisiologica) dell’Ottocento si interessa da un lato dei processi metabolici basilari, in particolare della respirazione e della nutrizione, da un lato; dall’altro, invece, delle strutture interne della cellula e del loro ruolo nella vita cellulare. Il principale ostacolo allo sviluppo autonomo di questa branca della scienza è costituito, in questo periodo, dalla conoscenza approssimativa di tali strutture, in particolare del vasto campo intermedio fra la cellula intera (considerata l’unità del vivente) e la molecola, elemento della chimica. Nella seconda metà dell’Ottocento, nell’ambito del dibattito sulla fermentazione sono introdotti nuovi concetti, come diastasi (l’agente responsabile della conversione dell’amido in zucchero), proteina (termine utilizzato dallo svedese Jöns Jacob Berzelius per indicare sostanze sintetizzate dalle piante e assimilate dagli animali), enzima (termine coniato da Willy Kühne nel 1876 per indicare i principi attivi della fermentazione: la diastasi sarà successivamente riconosciuta come un enzima), ma l’ambiguità sulla natura di queste sostanze chimiche e sulla loro funzione fisiologica resterà notevole fino alla fine del secolo. È proprio dall’incontro delle due tendenze su menzionate, quella più propriamente fisiologica e quella chimica, che si pongono, in questo periodo, le basi per la definizione di una specificità epistemologica della disciplina.
Un punto di svolta in questo senso è considerata l’esperienza dei fratelli Hans ed Eduard Büchner, chimici tedeschi che nel 1897 riproducono in vitro, cioè al di fuori dell’ambiente cellulare, la fermentazione degli zuccheri, indicata anni prima da Louis Pasteur come il segno della presenza di vita. L’importanza di questa esperienza risiede principalmente nell’aver dimostrato, contro quanto sostenuto dai microbiologi contemporanei, che fenomeni vitali possono aver luogo anche in assenza di cellule, e che quindi possono essere descritti e spiegati senza dover ricorrere a concetti ambigui come la “forza vitale” degli organismi, e superando la interpretazione tautologica che riconduceva tutte le funzioni vitali all’integrità e indivisibilità della cellula o alle proprietà metaboliche del protoplasma. L’esperienza di Büchner contribuisce inoltre a provare, ancorché indirettamente, l’esistenza e la funzione degli enzimi.
La centralità degli enzimi
La teoria degli enzimi guadagna rapidamente popolarità alla fine dell’Ottocento, contribuendo all’affermazione di una concezione più analitica dei fenomeni vitali. Nei decenni successivi, infatti, il maggiore sforzo dei chimici biologici e fisiologici sarà dedicato all’isolamento e alla descrizione di un grande numero di enzimi, sulla base della convinzione sempre più diffusa che ogni fenomeno del metabolismo sia legato all’azione specifica di una di queste molecole. La teoria “enzimatica” del metabolismo, tuttavia, incontra la ferma opposizione dei chimici, che, nella molteplicità e onnipotenza di questi agenti, scorgono il pericolo di un ritorno a spiegazioni vitaliste, celate sotto l’identificazione di un agente ad hoc alla base di ogni evento della vita cellulare. A cavallo del 1900, una serie di risultati sperimentali definisce con maggiore precisione il ruolo degli enzimi nei processi metabolici. Nel 1898, l’inglese Arthur Croft Hill dimostra che l’enzima maltasi è in grado di catalizzare reazioni sia di degradazione sia di sintesi. Inoltre, lo studioso inglese osserva come la caratteristica specifica dell’attività enzimatica sia il potere catalitico, cioè la capacità di facilitare reazioni chimiche che richiederebbero diversamente un consumo di energia elevatissimo.
In base a questi risultati, il tedesco Franz Hofmeister enuncia, nel 1901, una teoria enzimatica del metabolismo, secondo cui ogni reazione del metabolismo è dovuta all’azione specifica di un particolare enzima. Questa teoria ha un ruolo fondamentale nello sviluppo della disciplina, poiché introduce la nozione di specificità funzionale degli enzimi e indica per la prima volta in maniera chiara il legame fra la struttura di questi costituenti cellulari e la loro funzione. In quello stesso periodo, i chimici tedeschi Paul Ehrlich ed Hermann Emil Fischer contribuiscono, secondo diverse prospettive, a precisare il concetto di specificità di azione dell’enzima e la sua importanza per spiegare il metabolismo della cellula e dell’organismo. Nel 1897 Ehrlich propone una interpretazione del fenomeno immunitario basata sulla capacità delle antitossine (che oggi chiameremmo anticorpi) di costituire complessi stabili con le tossine, grazie alla loro plasticità strutturale. Parallelamente, a cavallo del 1900, Fischer elabora, a partire da osservazioni precedenti sulla struttura asimmetrica delle molecole di zucchero, la teoria dell’analogia strutturale fra enzima e substrato, secondo cui alla specifica conformazione della sostanza nutritiva corrisponde una “forma” altrettanto tipica dell’enzima che l’attacca. Il chimico tedesco esprime questa complementarità con il celebre modello chiave-serratura, precisando in tal modo la teoria di Hofmeister e i risultati ottenuti da Büchner: è nella forma dell’enzima che si deve cercare la spiegazione della sua peculiarità (specificità stereochimica). Nel 1902 Fischer e Hofmeister elaborano indipendentemente un’ipotesi sulla struttura delle proteine, secondo la quale esse sarebbero dei polimeri costituiti di aminoacidi, uniti da un legame detto peptidico fra i gruppi acidi e quelli amminici (CH2-NH-CO-). Sulla scorta del modello chiave-serratura, inoltre, il francese Victor Henry elabora nel 1903 la teoria del complesso reversibile enzima-substrato, secondo cui i fenomeni di degradazione propri del metabolismo trovano spiegazione della creazione di legami reversibili fra il metabolita (la sostanza da degradare, il “nutrimento” della cellula) e l’enzima che lo attacca. Questa osservazione getta le basi per un campo di studio nuovo, la “cinetica enzimatica” (misurazione temporale dell’evoluzione delle reazioni metaboliche cioè della sintesi e degradazione e delle loro relazioni). Dagli studi cinetici, specialmente quelli condotti dalla scuola francese negli anni Trenta e Quaranta, verrà un apporto decisivo alla confluenza fra biochimica e biologia molecolare, simboleggiato dai fondamentali contributi di Jacques Monod e dai suoi collaboratori.
Le conseguenze di questa importante sintesi si dovranno però attendere per almeno un ventennio, a causa di rilevanti impedimenti di ordine sperimentale e teorico; in primo luogo l’incertezza circa la natura chimica degli enzimi o – dal momento che lo stesso concetto di enzima come entità individuale non è universalmente accettato – sulla natura dei composti che intervengono nelle varie fasi del metabolismo cellulare. In particolare, alcuni chimici e chimico-fisici (alcuni dei quali di grande valore, come Jacques Loeb e Otto Warburg) dimostrano una certa insofferenza verso l’eccessivo potere esplicativo del concetto di “enzima”, considerato una riedizione mascherata dell’idea di “molecola vivente”, cara ai vitalisti della fine dell’Ottocento. Il maggiore ostacolo sperimentale alla teoria enzimatica sta nella difficoltà di isolare e caratterizzare gli enzimi e le proteine in generale, in particolare nell’impossibilità di ottenere dei cristalli sufficientemente puri di queste molecole.
I primi decenni del Novecento sono però caratterizzati da una grande quantità di acquisizioni sperimentali che contribuiscono a precisare la comprensione dei processi metabolici, se non altro per quel che riguarda le specie molecolari coinvolte e le loro relazioni. Dal 1912 gli inglesi William Henry e William Lawrence Bragg, padre e figlio, intraprendono l’ambizioso progetto di applicare i raggi X all’analisi delle molecole (una tecnica chiamata diffrattometria ai raggi X), guidati dall’osservazione compiuta quello stesso anno dal chimico Max von Laue. Von Laue osserva come questi raggi abbiano una lunghezza d’onda inferiore a quella della luce, grosso modo pari alla distanza fra gli atomi di un cristallo, e sottolinea l’importanza di questo particolare per lo studio strutturale delle molecole: come la luce solare, passando attraverso una grata, produce una figura di diffrazione ordinata (l’ombra a rete), allo stesso modo i raggi X avrebbero potuto “rivelare” la struttura cristallina delle molecole. Gli studi cristallografici costituiranno un potente strumento per l’analisi fine delle molecole biologiche, contribuendo a confermare una interpretazione rivoluzionaria elaborata nel 1922 dal chimico tedesco Hermann Staudinger: l’idea che i costituenti cellulari siano “macromolecole”, cioè aggregati di aminoacidi polimerizzati dotati di una conformazione stabile, di dimensioni assai maggiori rispetto alle molecole note alla chimica. Questa idea suscita infatti reazioni contrastanti nella comunità dei biochimici, ma soprattutto incontra l’opposizione dei chimici puri. Oltre al sospetto con cui si guarda all’introduzione di un modello di struttura che sarebbe esclusiva caratteristica delle molecole biologiche – non avendo analoghi nel mondo inorganico – la maggiore obiezione che si muove è che, se le molecole biologiche fossero davvero così grandi, sarebbe difficile spiegare le strutture ordinate che esse mostrano all’analisi con i raggi X. Ancora negli anni Venti, infatti, la spiegazione dominante circa le trasformazioni dell’ambiente cellulare legate al metabolismo è, coerentemente con il contemporaneo sviluppo della chimica organica, la cosiddetta teoria dei colloidi, in base alla quale le strutture cellulari sono costituite di vasti aggregati instabili di piccole molecole, tenute assieme da forze di attrazione, che reagiscono alla presenza del substrato (la sostanza, ad esempio uno zucchero, che può essere degradata da una cellula) secondo le leggi della fisica (reazioni di superficie, che possono essere interpretate in funzione delle forze fisiche di aggregazione che tengono insieme le molecole) più che in base alla specificità della loro struttura chimica (della loro “forma”, si potrebbe dire). La contrapposizione fra teoria macromolecolare e teoria colloidale rappresenta un punto critico nella storia della biochimica, tanto sotto l’aspetto sperimentale (per la già citata difficoltà di isolare e cristallizzare le proteine), quanto sotto quello teorico (l’opportunità o meno di introdurre enti “speciali” come le macromolecole nella spiegazione dei processi metabolici).
Gli acidi nucleici
Al di là delle controversie interpretative, pur importanti, i primi decenni del Novecento segnano un rapido progresso nella descrizione dei costituenti cellulari. Le proteine sono ovviamente il centro dell’attenzione dei chimici biologici, per la grande quantità di funzioni che svolgono e per la variabilità che dimostrano, ma questo periodo vede anche un sostanziale progresso nello studio dell’altra classe di costituenti cellulari, gli acidi nucleici. La prima osservazione di questa specie chimica risale al 1868, quando Friederich Miescher isola la “nucleina”, una sostanza concentrata nei nuclei di cellule di pus e ricca di fosforo. È quella che oggi si chiama acido nucleico e se ne riconoscono due grandi specie, l’acido desossiribonucleico – DNA – e l’acido ribonucleico – RNA.
Nel successivo trentennio, Albrecht Kossel, Albrecht Neumann e Alberto Ascoli riescono non solo a determinare la composizione della nucleina, isolando le diverse basi che ne caratterizzano la struttura, ma anche a dimostrare la sua presenza costante in tutte le cellule, sia animali sia vegetali. Fra il 1908 e il 1912, Phoebus Aaron Levene e i suoi collaboratori ottengono la frammentazione della nucleina nelle sue unità elementari, che risultano composte da un acido fosforico, una base azotata e uno zucchero complesso. Nel 1913, Levene propone un’ipotesi di struttura per l’acido nucleico, il cosiddetto tetranucleotide. Secondo questa ipotesi, la molecola di DNA sarebbe un polimero monotono, caratterizzato dalla ripetizione di una unità costituita dai quattro nucleotidi, secondo la formula (ATGC)n. L’accumulo di nuove informazioni, tuttavia, non porta immediatamente a una chiarificazione delle relazioni fra le diverse specie molecolari che costituiscono la cellula, né dei processi metabolici. La difficoltà principale è rappresentata sempre dalla mancanza di una prova certa circa la natura macromolecolare delle proteine e degli acidi nucleici, nonché dalla difficoltà di isolare queste specie molecolari.
Nuovi strumenti, nuove acquisizioni
È solo dalla metà degli anni Venti che si verificano sviluppi in alcuni settori correlati, che consentiranno una rapida risoluzione della disputa sulle macromolecole. Particolarmente impressionanti sono alcuni progressi tecnologici che consentono un’analisi più fine dei costituenti cellulari. La già citata diffrattometria ai raggi X fornisce già dalla fine degli anni Trenta risultati incoraggianti su molecole organiche relativamente semplici, come la cheratina, dimostrandone la conformazione a polimero. La scuola di cristallografia dei Bragg, prima con William Astbury, poi con Max Ferdinand Perutz e John Cowdrey Kendrew, rappresenta in questo settore un punto di riferimento contribuendo in misura determinante alla soluzione di importanti questioni di biochimica e alla nascita della biologia molecolare negli anni Cinquanta.
Contributi rilevanti vengono anche dall’introduzione di tecniche di analisi innovative, come il microscopio elettronico, l’elettroforesi (Arne Tiselius, 1938) – procedimento che consente di separare le diverse specie di molecole, ma anche le basi azotate e gli aminoacidi, grazie all’utilizzo di un campo elettromagnetico – e la cromatografia su carta, un metodo chimico che consente risultati analoghi. Ma il maggiore contributo alla soluzione della disputa sulle macromolecole è stato fornito dall’ultracentrifuga, uno strumento resosi disponibile nei primi anni Quaranta ma inventato alla metà degli anni Venti dal fisico svedese Theodor Svedberg. Grazie all’impressionante forza che sviluppa (fino a 100 mila volte superiore alla forza di gravità) l’ultracentrifuga ha reso possibile la separazione delle diverse specie molecolari in base alla loro densità, contribuendo sia a verificare l’ipotesi delle macromolecole (il peso molecolare delle proteine e degli acidi nucleici determinato con l’ultracentrifuga prova oltre ogni dubbio le loro grandi dimensioni), sia a distinguere le diverse specie di molecole in base al loro peso.
Anche la ricerca fisiologica progredisce in questo periodo, in termini di tecnologia e di apparato concettuale. Nel corso degli anni Venti il chimico tedesco Otto Warburg introduce nella sperimentazione fisiologica, sulla scorta di alcune osservazioni di Jacques Loeb, la misurazione delle variazioni di alcuni parametri fisici (consumo di ossigeno, viscosità delle membrane) nel corso del metabolismo cellulare, grazie al celebre manometro da lui inventato. Questa soluzione consente di mettere in relazione, dal punto di vista sperimentale, l’intero complesso dei processi di degradazione e di sintesi che costituiscono il metabolismo cellulare, suggerendo una via per indagare le loro relazioni. Tuttavia è nell’analisi strutturale che si ottengono i risultati di maggior rilievo. A metà degli anni Trenta John Howard Northrop (1891-1987) e James Sumner riescono finalmente nell’intento di cristallizzare due enzimi, rispettivamente la pepsina e l’ureasi, determinandone finalmente la natura proteica.
Nello stesso periodo, il quadro delle reazioni metaboliche è completato, almeno dal punto di vista statico (cioè relativo all’individuazione dei suoi componenti), con la definitiva chiarificazione del ruolo dei coenzimi, piccole molecole inorganiche che “facilitano” le reazioni metaboliche. Questa linea di ricerca contribuisce non solo all’interpretazione di base dei meccanismi metabolici, ma anche alla descrizione e al contrasto di diverse malattie come la pellagra e il beri-beri, già identificate negli anni Dieci come “malattie da carenza”, cioè legate a specifiche mancanze nella dieta delle popolazioni affette. Questi studi, che appartengono più alla storia delle scienze alimentari che a quella della biochimica, portano alla individuazione di fattori essenziali allo svolgimento di alcune funzioni metaboliche (come la degradazione di alcuni substrati). Tali fattori, noti da tempo, erano stati chiamati vitamine (Casimir Funk, 1912), perché si credeva fossero amine (cioè sostanze organiche azotate) necessarie alla vita. Si deve alle ricerche di Albert Szent Györgyi (1935) e di Hans von Euler Chelpin (1936) l’identificazione delle vitamine con una particolare classe di coenzimi, un ulteriore tassello aggiunto alla comprensione del meccanismo metabolico e dei suoi costituenti.
Nel 1936 Linus Pauling (1901-1994) e Robert Corey (1897-1971) propongono una interpretazione quantistica della struttura delle proteine, basata sulla considerazione della struttura dei singoli atomi che le compongono, e introducono su questa base una importante distinzione fra la struttura primaria delle molecole, caratterizzata da legami covalenti, forti, e una struttura secondaria, contraddistinta invece da legami deboli (legami idrogeno), che sarebbero responsabili della strutturazione ulteriore (secondaria e terziaria) delle proteine, e quindi della loro specificità d’azione. La ricerca di Pauling sulle proteine (in particolare sull’emoglobina) prosegue fino ai primi anni Cinquanta, portando alla definizione del modello di struttura primaria di tutte le proteine (la cosiddetta α-elica).
Il primo trentennio del Novecento può dunque essere considerato il periodo di fioritura, in termini di tecniche e di risultati, di una serie di linee di ricerca avviate nel secolo precedente: quella sulla composizione chimica dei costituenti cellulari; quella sul ruolo e il modo di azione degli enzimi; quella sulla struttura delle molecole di importanza biologica (proteine, acidi nucleici, piccole molecole organiche, zuccheri e grassi) e sulle relazioni fra le diverse strutture.
Nel decennio compreso tra il 1936 e il 1945 una serie di esperienze contribuiscono a ristrutturare completamente il quadro interpretativo della biochimica, mettendo in relazione l’aspetto dinamico (cinetica del metabolismo), quello statico (caratterizzazione della struttura delle molecole) e l’aspetto energetico (scambi di materia ed energia). La sintesi e il rinnovamento del patrimonio sperimentale accumulato sino ad allora si deve a un allievo di Warburg, Hans Krebs (1900-1981), e alla sua teoria dei cicli metabolici. La natura ciclica di alcuni processi metabolici era stata osservata in precedenza (ad esempio, Otto Meyerhof, Otto Warburg e Gustav Embden avevano compiuto fra gli anni Venti e l’inizio dei Trenta importanti osservazioni sul percorso metabolico che nel muscolo porta alla produzione di acido lattico dal glucosio e alla successiva riconversione dell’acido nello zucchero), ma a Krebs va tributato il merito di aver fornito una descrizione completa e una spiegazione esaustiva del fenomeno, che mette in relazione due fenomeni centrali per l’analisi biochimica, la degradazione degli zuccheri (glicolisi) e il consumo di ossigeno (respirazione cellulare). Nel 1932, Krebs descrive il processo ciclico di sintesi dell’aminoacido ornitina. L’ornitina non è presente nelle proteine, ma ha una funzione catalitica nella produzione di urea, cui partecipa con il suo secondo gruppo azotato. Krebs, in collaborazione con il suo allievo Kurt Henseleit, descrive l’intero ciclo che porta dall’aminoacido arginina alla produzione di urea e ornitina e, poi, da quest’ultima, tramite ulteriori reazioni metaboliche che comprendono l’espulsione di acqua e l’assimilazione di anidride carbonica e ammoniaca, di nuovo alla sintesi di arginina. Il medesimo andamento ciclico è osservato nel processo di degradazione del glucosio, che passa per la sintesi di acido ossoloacetico e acido piruvico, i quali a loro volta reagiscono a formare acido citrico. Attraverso successivi passaggi che portano all’eliminazione di acqua e anidride carbonica e alla produzione di energia, l’acido citrico si converte di nuovo in acido ossoloacetico. Il ciclo dell’acido citrico (noto come ciclo di Krebs) è divenuto un’icona della biochimica classica, soprattutto perché costituisce un modello esplicativo coerente di una serie di processi (prima considerati separatamente) che connettono dal punto di vista funzionale la degradazione delle sostanze nutritive e la produzione di energia. Sulla scorta di questi risultati, nei primi anni Quaranta Fritz Lipmann ed Hermann Kalckar propongono una interpretazione delle ossidazioni biologiche come accumulazione di energia sotto forma di molecole di ATP (adenosintrifosfato) caratterizzate da un legame fosforico molto forte. Secondo questa interpretazione, i processi ossidativi contribuiscono alla formazione di ATP a partire da una molecola di adenosindifosfato (ADP). L’ATP funge da riserva di energia, da impiegare nelle reazioni di sintesi anaerobica, per essere poi di nuovo sintetizzato con processi aerobici (che implicano trasporto di ossigeno). Nel 1950 Albert Leningher dimostrerà che la sintesi di ATP ha luogo esclusivamente nei mitocondri.
I risultati di Krebs, Lipmann e altri rappresentano un momento di sintesi delle ricerche biochimiche dei precedenti decenni, connettendo in modo armonioso la spiegazione dei fenomeni di respirazione, sintesi e degradazione cellulari e, soprattutto, chiarificando in maniera esemplare l’economia energetica del metabolismo. Nel 1941 gli americani George Bearle ed Edward Tatum operano un ampliamento dell’interpretazione dei fenomeni biochimici, con la celebre ipotesi “un gene - un enzima”, basata sui loro esperimenti di matrice genetica sul lievito Neurospora crassa. I due studiosi, sfruttando le speciali caratteristiche di questo organismo (è dotato di un solo cromosoma; si riproduce per mitosi, ma presenta fenomeni di ricombinazione, per cui è passibile di un’analisi genetica standard, che comprende i diversi fenomeni di mutazione, dominanza, segregazione, esattamente come gli organismi più complessi), elaborano la teoria secondo cui l’attività di ciascun enzima (cioè ogni reazione metabolica specifica) è controllata direttamente da un singolo gene. Questa teoria pone per la prima volta in maniera chiara la questione del controllo genetico dei processi metabolici, inaugurando in un certo senso una nuova fase della biochimica, che sarà coronata dall’avvento della biologia molecolare a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta.
Al principio del decennio Cinquanta, il completamento, pressoché contemporaneo, delle ricerche di Frederick Sanger sulla struttura delle proteine e di Erwin Chargaff su quella degli acidi nucleici portano a conclusioni inattese e fertili. Chargaff, infatti, falsifica il modello del tetranucleotide di Levene, dimostrando come anche gli acidi nucleici siano caratterizzati da una notevole varietà di struttura, in relazione alla sequenza di basi che li compone, mentre il certosino lavoro di Sanger porta alla conclusione che la struttura primaria delle proteine è determinata dalla sequenza degli aminoacidi. Il rapporto fra la sequenza primaria e la funzione delle proteine rende possibile distinguere diverse “famiglie” o “specie” di queste molecole, all’interno delle quali si presentano minime variazioni di conformazione. Questa interpretazione ha contribuito a precisare in misura sostanziale il concetto di specificità chimica delle proteine: se per un chimico biologico classico la differenza di un solo aminoacido nella catena portava semplicemente all’identificazione di due specie molecolari (due sosttanze chimiche) distinte, per un biochimico degli anni Cinquanta è possibile affermare il legame di “parentela” fra due molecole dotate di uguale funzione e di struttura prevalentemente identica, e questo sia all’interno dello stesso organismo (uni- o pluricellulare), sia nell’arco della scala evolutiva (quello che un tempo si chiamava “biochimica comparata” e oggi “evoluzione molecolare”).
I risultati di Chargaff e Sanger hanno aperto la strada ai rapidi e significativi sviluppi della prima metà degli anni Cinquanta, che hanno portato prima alla delucidazione della struttura α-elica delle proteine (Pauling, 1950, confermata dagli studi strutturali di Perutz e Kendrew su emoglobina e mioglobina, pubblicati nel 1960), poi alla struttura della doppia elica di Watson e Crick, e successivamente al concetto di colinearità fra sequenza di basi nel DNA e sequenza di aminoacidi nelle proteine e alla decifrazione del codice genetico.
La crisi della biochimica
Proprio l’imposizione, dalla fine degli anni Cinquanta, delle due teorie di Francis Crick, l’“ipotesi della sequenza” e il “dogma centrale”, riconosciuti come i due fondamenti della biologia molecolare, sembra segnare la crisi irreversibile della biochimica. Nei due decenni successivi, infatti, il modello sperimentale ed esplicativo tipico della biochimica (basato sulla misurazione cinetica delle reazioni e sullo studio strutturale delle molecole biologiche) sembra soppiantato e superato dall’interpretazione cosiddetta informazionista, basata sul postulato che il significato biologico dei processi metabolici, la loro specificità e quella delle molecole che vi sono coinvolte sia interamente determinato dal messaggio rappresentato nella sequenza di basi del DNA e riprodotto nella sequenza di aminoacidi che costituiscono la struttura primaria delle proteine. Questo punto di vista è espresso in maniera sintetica, oltre che nel modello delle transizioni allosteriche di Jacques Monod e Jeffries Wyman, nella celebre distinzione operata da John Kendrew nel 1968, fra le due tradizioni conformazionista (biochimica) e informazionista (genetica), la cui confluenza avrebbe dato origine alla biologia molecolare. Secondo l’interpretazione del genetista americano Gunther Stent, la vera rivoluzione della biologia molecolare sarebbe derivata dall’approccio informazionista, il quale avrebbe permesso la corretta interpretazione e sistemazione della massa di dati forniti dalle analisi di struttura, legati a una impostazione più tradizionale. Questa distinzione fra psiche (l’informazione) e soma (le strutture molecolari) nella spiegazione biologica ha avuto una certa fortuna per qualche tempo, ma non è in grado di giustificare i successivi sviluppi della biologia molecolare. Lungi dal dissolversi completamente nella nuova disciplina, la tradizione biochimica ha continuato a fornire contributi importanti e specifici allo studio del macchinario cellulare. Di particolare rilievo è la linea di ricerca sulla struttura e il metabolismo della cromatina (la sostanza nucleoproteica che costituisce i cromosomi), da un punto di vista chimico e termodinamico, iniziata proprio da Francis Crick alla fine degli anni Sessanta e tutt’oggi in corso. Questa branca della biologia molecolare procede parallelamente allo sviluppo di tradizioni più marcatamente informazioniste (come la genomica e la proteomica) in un rapporto di complementarità e progressiva integrazione. Anche dal punto di vista della pratica sperimentale, gli strumenti legati alla tradizione biochimica (in particolare l’ultracentrifuga) rappresentano ancora oggi una parte importante dell’armamentario dei biologi molecolari.