Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La biologia molecolare è una disciplina cosidetta “di confine”, che si sviluppa a partire dalla fine degli anni Trenta dalla confluenza progressiva di due ambiti disciplinari diversi, la genetica (scienza che si occupa della trasmissione ereditaria) e la biochimica (studio delle basi chimiche dei sistemi viventi e dei processi metabolici), grazie al contributo determinante di un gran numero di fisici e chimici che, a cavallo della seconda guerra mondiale, si interessano di fenomeni biologici e che applicano allo studio del vivente concetti e tecniche delle scienze cosiddette “esatte”. Nel corso dei successivi vent’anni la biologia molecolare raggiunge una definizione autonoma e compiuta, come scienza che studia la struttura e la funzione delle macromolecole biologiche, le loro trasformazioni e relazioni nel metabolismo.
La strada di una definizione disciplinare
La biologia molecolare è nata intorno alla metà del Novecento dalla confluenza progressiva di diverse branche della biologia all’epoca in rapido sviluppo, in particolare la biochimica e la genetica.
Il nome stesso della nuova scienza, coniato nel 1938 da Warren Weaver, in origine indica “quelle aree di confine in cui la fisica e la chimica si fondono con la biologia”. Una definizione generica, che sarà riempita di significato solo nei due decenni successivi, in cui l’oggetto della biologia molecolare sarà definito con maggiore precisione come il rapporto tra struttura e funzione delle macromolecole biologiche (proteine e acidi nucleici) e il flusso di informazione che si verifica tra queste classi di molecole è alla base delle due caratteristiche principali degli organismi viventi: l’eredità e il metabolismo.
Questi due problemi, la riproduzione invariante della specie e la costruzione del macchinario cellulare nel corso dello sviluppo, sono stati considerati separatamente dalla ricerca biologica dei primi decenni del secolo, come dimostrato dallo sviluppo indipendente della genetica cosiddetta “formale” e della biochimica.
La genetica, secondo le indicazioni di Thomas H. Morgan, era tradizionalmente imperniata sul concetto di azione del gene, cioè sul rapporto diretto tra i geni, considerati entità fisiche localizzate sui cromosomi, e i caratteri, cioè le caratteristiche fenotipiche visibili (come il colore degli occhi o le malattie ereditarie). Il vasto campo intermedio, il meccanismo tramite il quale il gene esercita le proprie funzioni, era volutamente tralasciato, in quanto troppo complicato e non essenziale alla spiegazione genetica.
La biochimica si definisce proprio a cavallo del Novecento come la disciplina che studia le diverse specie molecolari presenti nella cellula, ne determina la natura chimica e ne studia la trasformazione nel corso del metabolismo.
Entrambe le discipline sono caratterizzate da un forte orientamento sperimentale e quantitativo, un apparato matematico semplice e un quadro interpretativo coerente. La biologia molecolare fiorisce, per così dire, nella terra di nessuno al confine tra le due discipline, mutuando concetti e tecniche da entrambe, oltre che da diverse altre discipline biologiche come l’immunologia, la chimica-fisica, la microbiologia.
Il nucleo della nuova disciplina è però organizzato proprio intorno agli interrogativi che la tradizione genetica e quella biochimica avevano generalmente tralasciato: da un lato il problema della natura chimica del gene (di cosa fosse fatto), dall’altro la questione del significato biologico dei processi metabolici.
Tali problemi emergono già progressivamente nei primi decenni del secolo, ma la conoscenza delle strutture cellulari è ancora approssimativa e la tecnologia disponibile non consente un’analisi fine dei fenomeni del metabolismo. Un contributo decisivo in questa direzione verrà dallo sviluppo di procedimenti che consentono di individuare con precisione i costituenti cellulari e dall’introduzione nella ricerca biologica di tecniche e strumenti derivati dalla chimica e dalla fisica.
Il problema della natura chimica del gene
Alla fine degli anni Venti il genetista Hermann Muller (1890-1967) propone di orientare la ricerca in questo settore verso la determinazione chimica della sostanza portatrice dell’eredità. Il compito si presenta tutt’altro che semplice, alla luce delle teorie all’epoca prevalenti sulla natura chimica dei costituenti cellulari. Solo negli anni Trenta, grazie al fondamentale contributo della scuola cristallografica inglese, si giunge a una più chiara comprensione della natura chimica dei costituenti cellulari, con il superamento della teoria dei colloidi (secondo cui le strutture cellulari sono costituite da aggregati vasti e poco specifici di piccole molecole), identificando gli acidi nucleici e le proteine come macromolecole, vale a dire molecole molto grandi e pesanti organizzate in lunghe catene. La successiva introduzione dell’ultracentrifuga, inventata nel 1923 dal chimico svedese Theodor Svedberg, consente di separare le diverse specie molecolari secondo la loro massa, mentre nel 1936 Arne Tiselius mette a punto una tecnica, chiamata elettroforesi, per frazionare i costituenti della cellula usando un campo magnetico. Le tecniche fisiche si aggiungono a quelle già in uso, come la cristallografia ai raggi X, e a nuove procedure, come l’applicazione di procedimenti di analisi immunochimica alle molecole biologiche, introdotta da Karl Landsteiner negli anni Trenta. Il procedimento consiste nell’iniezione di macromolecole biologiche (ad esempio proteine) all’interno di un organismo e nella loro distinzione in base agli anticorpi specifici prodotti per reazione. Queste nuove tecniche consentono un’analisi più profonda e dettagliata del mondo cellulare e cementano le relazioni della biologia con le altre scienze di base, la chimica e la fisica. Il legame si stringe ulteriormente grazie ai risultati ottenuti nella seconda metà degli anni Trenta dal chimico Linus Pauling, il quale descrive la relazione fra antigene e anticorpo come formazione di legami di idrogeno deboli e applica lo stesso schema alla descrizione delle proteine. In particolare, Pauling distingue i legami covalenti (forti), responsabili della struttura primaria delle macromolecole, da quelli deboli, cui si deve la loro conformazione spaziale, e interpreta la denaturazione (inattivazione) delle proteine come rottura dei legami deboli e quindi come dispiegamento della molecola. Questo comporta che la specificità d’azione delle proteine sia direttamente dipendente dalla loro struttura (stereospecificità).
Una volta acquisita la specificità chimica dei costituenti cellulari, resta l’incertezza relativa a quale delle due specie di macromolecole biologiche, le proteine o gli acidi nucleici, sia il vettore dell’eredità. In principio l’attenzione si concentra sulle proteine, poiché esse sono di dimensioni maggiori, sono presenti in una grande varietà di specie e, cosa più importante, sono attive. Il DNA, al contrario, appare inerte (incapace di produrre reazioni) ma soprattutto troppo monotono di struttura. Il modello di DNA generalmente accettato, elaborato nel 1934 da Phoebus Levéne, prevede una distribuzione uniforme e casuale delle quattro basi azotate (adenina, timina, citosina, guanina) che costituiscono l’acido desossiribonucleico. L’interpretazione prevalente negli anni Trenta affida quindi alle proteine il ruolo di materiale ereditario, mentre si pensa che il DNA serva a stabilizzare la struttura dei cromosomi e a fornire energia per il metabolismo. Negli anni Quaranta e Cinquanta una serie di indizi emersi dagli studi microbiologici, biochimici e genetici mise la questione sotto una luce diversa.
Nel 1944, il microbiologo Oswald T. Avery e i suoi collaboratori dimostrano che i batteri possono scambiarsi del materiale biologico e che questo scambio provoca un cambiamento nella natura del microbo. Avery giunge anche a caratterizzare con diversi metodi la sostanza chimica scambiata, che egli chiama fattore trasformante e che dimostra essere DNA. I suoi risultati vengono però sottovalutati dalla comunità scientifica, principalmente a causa dei pregiudizi dei biochimici sulla monotonia strutturale della molecola. Anche molti genetisti sottovalutano il valore del lavoro di Avery, poiché i batteri sono considerati un materiale troppo semplice e poco adatto allo studio genetico, dal momento che si riproducono in maniera asessuata.
È merito del Gruppo del fago, una comunità di ricercatori riuniti intorno al fisico Max Delbrück, se i batteri diventano l’oggetto sperimentale principale della biologia molecolare. Allievo di Niels Bohr, Delbrück si converte alla biologia a metà degli anni Trenta, con un’idea semplice e rivoluzionaria: aggredire il problema del funzionamento dei geni analizzando il sistema biologico più elementare possibile e concentrandosi su un solo problema fondamentale, l’autoriproduzione o autocatalisi specifica.
Il sistema scelto da Delbrück è il batteriofago, un virus che infetta i batteri e ne utilizza l’apparato cellulare per riprodursi. I batteri infettati cominciano a produrre grandi quantità di virus e poi li rilasciano nell’ambiente, disgregandosi (il fenomeno è noto come lisi batterica). In collaborazione con il medico italiano Salvatore Luria, Delbrück riesce a dimostrare che alcuni ceppi di batteri acquisiscono l’immunità all’infezione virale e che tale acquisizione è dovuta alla selezione naturale. Questo significa che i batteri evolvono allo stesso modo degli organismi superiori. Un altro contributo alla genetica dei batteri arriva nel 1946, con la scoperta, a opera di Joshua Lederberg, che alcune specie batteriche presentano fenomeni di ricombinazione, cioè mettono in comune il proprio materiale genetico in un modo simile agli organismi superiori. Gli studi sulla sessualità batterica portano in breve tempo a importanti acquisizioni: si scopre che nell’accoppiamento i batteri si distinguono in donatore o “maschio” e ricevente o “femmina” e che la ricombinazione è dovuta al trasferimento completo e ordinato del cromosoma del donatore nel ricevente, il quale si trova per un breve periodo in stato diploide, cioè con due cromosomi omologhi. Questa acquisizione apriva definitivamente le porte allo studio genetico dei microrganismi, cioè all’analisi della dominanza dei caratteri e del fenomeno del crossing over, rendendo possibile la costruzione di mappe cromosomiche come era avvenuto per Drosophila.
La struttura del DNA: il modello a doppia elica
In quello stesso periodo una serie di studi sulla biochimica degli acidi nucleici contribuisce a modificare in profondità le acquisizioni correnti. Nella seconda metà degli anni Quaranta i biochimici francesi André Boivin (1895-1945) e Roger e Colette Vanderly dimostrano che la quantità di DNA presente nel nucleo cellulare varia secondo le specie (mentre la quantità di proteine è più stabile) e che essa è dimezzata nelle cellule sessuali, mentre nel 1950 lo svizzero Erwin Chargaff smentisce l’ipotesi di Lévene sulla composizione monotona del DNA, dimostrando che il rapporto fra le basi non è uniforme, ma è tale per cui il numero di basi di adenina (A) e timina (T) è sempre uguale a quella di guanina (G) e citosina (C). La costituzione del DNA risulta così meno monotona di quanto si sospetti. Chargaff inoltre osserva che i rapporti fra le basi sono sostanzialmente costanti all’interno della stessa specie, mentre variano in modo apprezzabile tra specie diverse. L’insieme di queste osservazioni suggerisce che il DNA abbia un ruolo più importante di quanto si sospettava nella definizione dell’identità genetica di una specie. Sarà proprio l’accettazione generale di questi risultati a spianare la via alla definitiva dimostrazione che i geni sono fatti di DNA. A fornirla saranno due scienziati del Gruppo del fago, Alfred Hershey e Martha Chase, in una serie di esperimenti tra il 1950 e il 1952. Utilizzando una tecnica di recente introduzione, gli isotopi radioattivi (molecole che, introdotte nel terreno di coltura, s’incorporavano nelle diverse macromolecole, evidenziandole), Hershey e Chase evidenziano il tragitto del DNA (marcato con fosforo radioattivo) e delle proteine (marcate con zolfo) nel corso dell’infezione fagica del batterio e osservano che solo il fosforo (e quindi il DNA) raggiunge il nucleo.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta si assiste a un notevole sviluppo degli studi sulla struttura delle proteine e degli acidi nucleici, con tecniche fisiche e chimiche. Il principale protagonista di questa fioritura è il chimico americano Linus Pauling, che negli anni Trenta aveva rivoluzionato l’interpretazione della struttura delle molecole biologiche. In competizione con la scuola cristallografica inglese, in particolare con gli allievi di William Astbury (John Bernal, 1901-1971; Maurice Wilkins, 1916-2004 e Max Perutz 1914-2002), Pauling si impegnò dalla metà degli anni Quaranta allo studio della struttura delle proteine. Insieme con Robert Corey (1897-1971), elabora nel 1950 un modello di struttura dell’emoglobina, dimostrandone la natura elicoidale (α-elica). Negli anni successivi, il gruppo inglese riscontrerà la medesima conformazione in altre proteine.
In collaborazione con Rosalind Franklin (1920-1958), Maurice Wilkins applica la tecnica della diffrazione dei raggi X anche a cristalli di DNA, ottenendo risultati che confermano la struttura cristallina altamente ordinata della molecola. Fu proprio una di queste immagini, esibita nel corso di un convegno presso la Stazione Zoologica di Napoli nel 1950, a ispirare il giovane James Watson, un adepto del Gruppo del fago il quale intuisce che la struttura del DNA doveva essere la chiave per comprenderne il funzionamento. Nei successivi tre anni Watson collaborò a Cambridge con il fisico Francis Crick (1916-2004) all’elaborazione di modelli della molecola, cercando una conformazione che rispettasse i limiti imposti dai dati fisico-chimici e biochimici e che al contempo rendesse ragione della proprietà fondamentale del materiale ereditario, l’autoreplicazione.
La celebre descrizione della struttura a doppia elica del DNA, prodotta da Watson e Crick nel 1953, è stata considerata la sintesi delle due anime della biologia molecolare: lo studio della struttura tridimensionale delle macromolecole biologiche, condotto con strumenti fisici e la tradizione di pensiero della genetica batterica.
Secondo l’ipotesi di Watson e Crick le molecole di DNA sono organizzate in due lunghi filamenti avvolti a spirale e costituiti da nucleotidi, unità elementari composte di una base azotata (adenina, guanina, timida, citosina), un gruppo fosforico e una molecola di zucchero. I gruppi fosforici e gli zuccheri, tenuti assieme da legami chimici covalenti, molto forti, costituiscono lo scheletro esterno della molecola, mentre le basi, rivolte verso l’interno, sono organizzate in due lunghe file complementari (a una guanina su un filamento corrisponde sempre una citosina sull’altro e a un’adenina una timina). La complementarità dei due filamenti suggerisce intuitivamente una soluzione al problema della replicazione: ciascuno di loro può funzionare come stampo per la sintesi di un nuovo filamento, che a sua volta determina la sequenza del suo corrispettivo. È quindi evidente che il patrimonio ereditario sia in ultima analisi contenuto nella sequenza di basi di ogni singolo filamento.
Questo modello, nella sua insospettata semplicità, rappresenta la sintesi di tutte le scoperte che nei decenni precedenti sono state compiute sulla natura delle macromolecole biologiche, poiché spiega i rapporti tra le basi osservati da Chargaff, i risultati cristallografici, i dati di struttura ottenuti calcolando le inclinazioni dei legami chimici.
Ma il lavoro di Watson e Crick è stato riconosciuto come il vero inizio della biologia molecolare anche e soprattutto per lo stile di ricerca che lo ha contraddistinto, e che è diventato un modello per la nuova biologia. Limitando al massimo il lavoro sperimentale, i due scienziati si sono concentrati nell’elaborazione di modelli della struttura, cercando di interpretare i dati disponibili alla luce delle necessità e dei vincoli imposti dalla funzione biologica che il DNA deve svolgere: l’autoreplicazione, cioè la trasmissione dell’eredità, e la direzione dello sviluppo della cellula. La struttura a doppia elica ha fornito a entrambe le questioni una risposta estremamente semplice: la replicazione del DNA avviene grazie a un processo di copiatura dei singoli filamenti, mentre l’azione del gene si esplicherebbe tramite un meccanismo di trascrizione in cui il DNA funge da stampo o da modello per la costituzione delle catene di amminoacidi che formano le proteine.
L’idea che la molecola di DNA potesse essere definita in base al suo “significato”, cioè considerata non come una specie chimica ma come accumulatore e trasmettitore di informazioni, ha aperto la strada allo studio del meccanismo cellulare come un sistema di segni, un codice all’interno del quale la sequenza di nucleotidi rappresenta il messaggio cifrato, interpretato e tradotto sulla base di una precisa grammatica molecolare. L’analogia non sfugge a Crick, il quale nel 1954 ipotizza l’esistenza di un sistema di traduzione delle sequenze di basi in sequenze di amminoacidi. Questa ipotesi viene avallata dai contemporanei lavori sulla struttura primaria delle proteine, che dimostravano la costanza dei rapporti fra gli amminoacidi nelle diverse specie. La soluzione del codice venne nel 1961 dal lavoro di Marshall Nirenberg (1927-2010) ed Heinrich Matthaei, i quali ottennero la sintesi in vitro di una proteina (la fenillalanina) a partire da frammenti di RNA, amminoacidi, ribosomi e ATP, la molecola che fornisce energia ai processi metabolici nelle cellule. Nel 1964, Nirenberg dimostrò che un amminoacido è determinato da un gruppo di tre basi (tripletta).
Sebbene la decifrazione del codice sia derivata da un lavoro biochimico tradizionale e non dall’approccio antisperimentale di Watson e Crick, la prevalenza dell’aspetto teorico è una caratteristica della prima fase di sviluppo della biologia molecolare che ha prodotto risultati sorprendenti. Nel 1957, Crick sintetizza il corpus dottrinale della nuova disciplina in due principi cardine: l’ipotesi della sequenza e il cosiddetto “dogma centrale” della biologia molecolare. Questi due principi hanno orientato in una direzione precisa la comprensione delle relazioni tra acidi nucleici e proteine. Secondo l’ipotesi della sequenza, la specificità dell’acido nucleico è interamente determinata dalla sequenza delle basi, e questa sequenza è un codice per la sequenza di amminoacidi di una determinata proteina. Il “dogma”, invece, stabilisce che l’informazione genetica viaggia in una sola direzione, dagli acidi nucleici alle proteine e mai viceversa. Le implicazioni di questi due principi sono importanti: essi stabiliscono una precisa gerarchia fra le strutture cellulari, alla cui sommità è il messaggio rappresentato dalla sequenza di basi del DNA. La sequenza di basi determina quella degli amminoacidi che costituiscono la struttura primaria della proteina. Le proprietà delle molecole proteiche, quindi, sono considerate interamente dipendenti dalla catena di amminoacidi, la quale a sua volta è una “traduzione” della sequenza di basi del DNA. L’ipotesi della sequenza e il dogma centrale definiscono i confini dell’interpretazione biomolecolare dei fenomeni viventi: contrariamente alla tradizione biochimica e biofisica, il trasferimento di materia ed energia implicato nel metabolismo è considerato poco importante ai fini della comprensione del meccanismo. Il fenomeno realmente importante, secondo Crick, è il trasferimento di informazione.
L’affermarsi delle discipline biologiche “molecolari”
Questa base teorica ha svolto una funzione catalitica, fungendo da principio di interpretazione di una gran quantità di fenomeni studiati in embriologia (attivazione dell’uovo), immunologia (interazione antigene-anticorpo), fisiologia e genetica batterica, e ha fatto sì che dalla fine degli anni Cinquanta molti biologi si siano resi conto di praticare da tempo la biologia molecolare senza saperlo e che diverse discipline biologiche si siano fregiate del titolo di “molecolare”.
Il modello della doppia elica ha pilotato anche la convergenza di linee di ricerca prima nettamente separate (come la biochimica e la genetica batteriche), offrendo una soluzione semplice e universale a un gran numero di questioni. Il caso più eclatante e produttivo di questo tipo di convergenza è dato dalla definizione dei meccanismi di regolazione dell’espressione genica, derivata dalla collaborazione fra tre scienziati dell’Istituto Pasteur di Parigi, François Jacob, André Lwoff e Jacques Monod (1910-1976) negli anni tra il 1957 e il 1961.
Monod si occupa da tempo del fenomeno chiamato induzione enzimatica: in risposta a uno stimolo esterno, come l’introduzione di uno zucchero, i batteri producono enzimi specifici che lo attaccano e lo degradano. Questi enzimi sono detti inducibili, in opposizione ai costitutivi, prodotti in continuazione. La spiegazione tradizionalmente addotta per questo fenomeno prevede che la sostanza introdotta nella cellula (induttore) agisca da stampo specifico per l’aggregazione degli enzimi. Monod e collaboratori, tuttavia, osservano che la sintesi di enzimi viene provocata anche da sostanze che non hanno con essi alcun rapporto specifico e ipotizzano così che l’induttore debba funzionare da segnale chimico in grado di attivare un processo di sintesi enzimatica da zero.
Lwoff e Jacob studiano invece il meccanismo della lisogenia, cioè la distruzione del batterio indotta dall’infezione del batteriofago. In particolare s’interessano della cosiddetta induzione zigotica. Essi osservano che i batteri infettati dal fago (detti lisogeni, perché l’infezione provoca la lisi, o disgregazione della cellula) trasmettono alla discendenza la capacità di produrre i virus, e ipotizzano quindi che il DNA virale (detto profago) si integri in quello batterico, divenendo così parte del materiale ereditario degli ospiti. Tramite ricombinazione, gli studiosi riescono a identificare la posizione del profago sul cromosoma batterico, e osservano un altro fenomeno interessante: nel corso dell’accoppiamento, i batteri non lisogeni cominciano la sintesi di virus non appena il profago li penetra (di qui il nome induzione zigotica). Quelli contenenti il profago, invece, risultano immuni da ulteriori infezioni, ma possono essere attivati da sostanze chimiche mutagene o dai raggi ultravioletti.
La collaborazione tra i tre porta alla dimostrazione che i due fenomeni di induzione sono dovuti al medesimo meccanismo e che detto meccanismo non è in realtà un’induzione, ma l’eliminazione di una repressione. Normalmente i geni degli enzimi inducibili e il DNA del batteriofago inserito nel batterio sono resi inattivi da una sostanza (detta repressore) prodotta da un altro gene (detto gene regolatore). L’introduzione nella cellula di sostanze chimiche particolari (caso degli enzimi inducibili) o il trattamento con raggi ultravioletti (caso del profago), elimina il repressore, consentendo l’espressione dei geni.
La distinzione fra geni di struttura (geni che codificano per proteine) e geni regolatori (che controllano altri geni) è il grande contributo della scuola francese allo svelamento del meccanismo metabolico della cellula. Questo filone di ricerche porterà, nel 1961, alla definizione del meccanismo di regolazione cellulare detta operone, secondo cui più geni di struttura sono controllati da un solo gene regolatore (chiamato operatore). L’inattivazione dell’operatore corrisponde all’attivazione dei geni strutturali: due negazioni corrispondono a un’affermazione.
Monod e Jacob dimostreranno in seguito che il repressore è una proteina e, in base a un’analisi della velocità delle reazioni dopo l’induzione, che la sintesi proteica avviene (nel citoplasma) tramite un intermediario, chiamato messaggero. Nel 1966 Walter Gilbert e Benno Müller Hill dimostreranno che il messaggero è un RNA.
Il punto d’incontro fra le ipotesi di Crick e i risultati dei francesi è la teoria dell’allosteria, elaborata principalmente da Monod negli anni Sessanta e da lui definita “il secondo segreto della vita” (il primo sarebbe la struttura a doppia elica). Secondo questa teoria la regolazione cellulare dipende quasi esclusivamente dalla struttura delle proteine regolatrici. A loro volta, le proteine sono interamente codificate dai geni, in modo che anche la regolazione dell’attività genica è un derivato dell’informazione contenuta nei geni stessi, secondo il dogma di Crick.
Le sintesi teoriche di Crick e Monod costituiscono il fondamento di una disciplina scientifica che negli anni Sessanta può dirsi chiaramente definita, ma anche qualcosa di più. Secondo Jacques Monod, l’interpretazione biomolecolare deve costituire un “sistema generale dei sistemi viventi”, il che significa che tutti i più importanti fenomeni della vita possono essere spiegati in termini di interazione fra molecole e trasferimento di informazione. Questa visione riduzionista dei fenomeni biologici ha rappresentato la base della espansione della biologia molecolare dallo studio di organismi molto semplici (i batteri) all’attacco di questioni assai più complesse come il funzionamento del sistema nervoso, i tumori, lo sviluppo embrionale, secondo il celebre adagio che recita: “ciò che è vero per il batterio è vero per l’elefante”.
La biologia molecolare, in particolare gli studi condotti negli anni Cinquanta e Sessanta sugli enzimi che controllano la duplicazione e trascrizione del DNA (in particolare le DNA-polimerasi, scoperte da Arthur Kornberg nel 1955, che sovrintendono alla copiatura di un filamento di DNA e gli enzimi di restrizione, scoperti da Werner Arber alla fine degli anni Sessanta, che tagliano il DNA in siti specifici), ha poi gettato le basi per lo sviluppo, nei primi anni Settanta, della tecnologia cosiddetta del DNA ricombinante, che consente di inserire frammenti noti di DNA di qualsiasi specie nei cromosomi di un’altra specie. Dallo sviluppo di questa tecnica è sorta, tra gli anni Settanta e Ottanta, l’ingegneria genetica.