Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Un episodio sicuramente tra i più tragici della storia del Novecento è quello del bombardamento su Hiroshima, che ha profilato per la prima volta davanti agli occhi dell’umanità intera l’ipotesi della distruzione totale e ha determinato riflessioni profonde che hanno stravolto il modo di vedere il mondo, le regole della politica, le strategie di guerra.
Un’arma assoluta
Hiroshima, 6 agosto 1945, ore 8,15 di una mattina tersa, in cui nulla pare diverso dal solito. Alto nel cielo vola un bombardiere americano, ma le sirene dell’allarme antiaereo neanche suonano. Proprio in quel momento il B-29 Enola Gay lancia sulla città un ordigno di tipo nuovo che sviluppa la potenza di 20 mila tonnellate di tritolo. La bomba esplode a circa 600 metri di altezza, quota ideale per esaltare il suo potere distruttivo. Si sviluppa una enorme palla di fuoco con una temperatura di centinaia di migliaia di gradi. Un turbine indescrivibile che viaggia a oltre mille chilometri orari si abbatte sull’abitato. Contemporaneamente si liberano raggi gamma e neutroni a causa della reazione atomica. Decine di migliaia di persone muoiono all’istante, altrettante nei giorni seguenti a causa delle ustioni e delle radiazioni, un nemico invisibile che i medici giapponesi non sanno come combattere. Hiroshima ha conosciuto il primo bombardamento atomico della storia. Tre giorni dopo subisce la stessa sorte la città di Nagasaki. La seconda guerra mondiale, il più grande conflitto mai combattuto, si conclude con l’uso di uno strumento che sembra avverare l’antico sogno dell’arma assoluta.
La bomba è il culmine dei progressi vertiginosi della fisica avvenuti nei decenni precedenti. Il fenomeno della radioattività era stato scoperto alla fine dell’Ottocento. Nel 1903 i coniugi Curie avevano ricevuto il premio Nobel per la dimostrazione che le sostanze radioattive potevano liberare grandi quantità di energia. A quali fini sarebbe stato impiegato questo potere? In quello stesso anno un altro studioso che avrebbe vinto il Nobel, Frederick Soddy, parla pubblicamente della possibilità di realizzare una nuova arma rivoluzionaria sfruttando le recenti scoperte dei suoi colleghi di mezza Europa. Raggi della morte e altre diaboliche invenzioni basate sulla radioattività cominciano a popolare le storie di fantascienza dell’epoca. Nel romanzo Il mondo liberato (1913) Herbert George Wells immagina la scoperta della radioattività artificiale nel 1933 e lo scoppio nel 1956 di una guerra mondiale combattuta con ordigni atomici. Il carattere catastrofico delle distruzioni induce infine i belligeranti a costituire un governo mondiale per mettere al bando le nuove armi e impedire così l’estinzione del genere umano. La distruzione di Hiroshima anticipa di 11 anni la guerra fantastica di Wells.
Dopo la Grande Guerra i timori collettivi si appuntano intorno al possibile uso dei gas contro le città. Si ipotizzano bombardamenti chimici sui principali centri europei con milioni di morti tra Londra, Berlino e Parigi. Sembra quella la nuova frontiera della guerra totale e l’opinione pubblica non sapeva nulla di reazioni atomiche. Ma nei laboratori la ricerca continua incessante, finché nel 1939 il fisico tedesco Otto Hahn riesce a scindere un atomo di uranio determinando l’emissione di una energia di potenza straordinaria. Si apre la via allo scatenarsi di una reazione a catena. La comunità degli studiosi si interroga sull’opportunità di proseguire gli esperimenti dal momento che il mondo intero rischia di precipitare in una nuova catastrofe.
Particolare apprensione desta l’ipotesi che la Germania nazista possa dotarsi di armi atomiche, specie tra quegli studiosi che avevano sperimentato sulla propria pelle le leggi razziali hitleriane e che trovano accoglienza soprattutto negli Stati Uniti. Uno di questi, l’ungherese Leo Szilard, alla notizia che i tedeschi hanno impedito l’esportazione dell’uranio estratto nelle miniere ceche, induce Albert Einstein a mettere in guardia il governo americano con una lettera indirizzata al presidente Roosevelt. La missiva, datata 2 agosto 1939, ipotizza la costruzione di ordigni atomici molto potenti: una sola bomba di questo tipo, “trasportata da una nave e fatta esplodere in un porto, potrebbe facilmente distruggere l’intero porto insieme a una parte del territorio circostante. Tuttavia, tali bombe potrebbero forse dimostrarsi troppo pesanti per essere trasportate in aereo”. All’epoca, infatti, si pensava che la bomba potesse consistere in una specie di reattore nel quale a un certo punto la reazione a catena sarebbe andata fuori controllo. Un’idea di questo tipo è sostenuta dagli scienziati tedeschi che durante la guerra, rispetto ai colleghi americani, finiscono su un binario morto.
Roosevelt decide di tener conto dell’avvertimento, a quanto pare ricordando il precedente di Napoleone che aveva ignorato la proposta di Robert Fulton di costruire una flotta rivoluzionaria basata sull’energia del vapore per invadere l’Inghilterra. In seguito, come è noto, il condottiero era finito nella polvere, mentre Fulton aveva dimostrato che le sue idee erano destinate a un grande futuro. La lezione era chiara: perdere l’appuntamento storico con l’innovazione tecnologica poteva costare molto caro. Roosevelt, forte delle enormi risorse del suo Paese, dà via libera ai progetti atomici, che tuttavia procedono inizialmente con molta lentezza. Solo il 9 ottobre 1941, alla vigilia di Pearl Harbor, viene emessa la direttiva di intensificare gli sforzi. Nel frattempo gli studiosi sono all’opera in Germania e Inghilterra. Nella corsa alla bomba nessun Paese era particolarmente in vantaggio.
Una svolta decisiva avviene tra il 1942 e il 1943. Il 2 dicembre 1942, nei sotterranei di uno stadio di Chicago, viene sperimentata con successo la prima pila atomica. Il suo massimo artefice, Enrico Fermi, dimostra in tal modo di poter determinare e controllare una reazione a catena. Il passo successivo è l’allestimento di una cittadella di scienziati nel deserto del Nuovo Messico, a Los Alamos, dove a partire dalla primavera del 1943 migliaia di persone sotto la direzione di Robert Oppenheimer lavorano a un unico obiettivo: preparare una bomba funzionante di dimensioni accettabili per essere trasportata da un aereo. Una simile concentrazione di cervelli per una impresa bellica non si era mai vista nella storia.
Con i missili progettati da Wernher von Braun e i nuovi caccia a reazione, i tedeschi mostrano, intanto, una vitalità tecnologica niente affatto rassicurante. Tuttavia, già alla fine del 1944 la missione segreta Alsos, al seguito della avanzata degli alleati in Francia, raccoglie dati sufficienti per concludere che la Germania è rimasta fatalmente indietro nella corsa alla nuova arma. Nei giorni finali della capitolazione tedesca sarebbe venuta alla luce una pila atomica rudimentale allestita in un paesino della Foresta Nera: questo era il massimo frutto delle ricerche che avevano fatto tremare gli scienziati del mondo libero. In seguito Otto Hahn e altri suoi colleghi avrebbero dichiarato la propria soddisfazione per il fatto che non era stato il loro Paese a introdurre un’arma così barbara. Molti cervelli tedeschi sarebbero stati divisi tra sovietici e americani e arruolati al servizio delle rispettive macchine militari-industriali: l’età dell’atomo appariva come l’età della definitiva militarizzazione della scienza.
Riflessioni etiche senza conseguenze reali
Nell’aprile 1945, con la Germania in rovina e il Giappone sull’orlo del baratro, diversi studiosi del Progetto Manhattan (il programma atomico americano) mettono in discussione l’opportunità di impiegare le nuove bombe contro il nemico. Anche in questo caso è Szilard a farsi promotore di un passo in tal senso verso Roosevelt, attraverso una nota che il presidente, morendo il 12 aprile, non riesce a leggere in tempo. Nulla tuttavia autorizza a pensare che egli avrebbe accolto le preoccupazioni degli scienziati: la nuova bomba era stata considerata alla Casa Bianca una parte essenziale dello sforzo bellico, da usare in battaglia. Del resto, come giustificare il mancato impiego di un’arma che era costata tante risorse, aveva assorbito tanti uomini e poteva ora far concludere la guerra senza prolungati spargimenti di sangue? Inoltre Roosevelt, insieme a Churchill, si era anche opposto ai piani per un controllo internazionale dell’energia atomica nel mondo del dopoguerra, pensando di trarre consistenti vantaggi diplomatici dal monopolio nucleare.
Di avviso diverso sono quegli scienziati che nel giugno del 1945 firmano il rapporto Franck sulle conseguenze dell’impiego dell’arma atomica e più in generale sui futuri scenari del settore nucleare. In questo documento si avverte che non sarebbe stato possibile mantenere a lungo il segreto sulla costruzione della bomba, i cui principi erano teoricamente noti ai fisici di tutti i Paesi. L’unica salvezza contro una terrificante corsa agli armamenti atomici consiste nel porre sotto controllo internazionale lo sfruttamento della nuova forma di energia. Per mantenere una autorità morale tale da promuovere una simile opzione, gli Stati Uniti dovevano astenersi dall’usare la bomba contro il Giappone e al limite organizzare una esplosione sperimentale su un’isola deserta per far comprendere a Tokyo e al mondo intero quale fosse la posta in gioco.
Come è noto, le cose non andranno così. Il 16 luglio 1945 il test nucleare di Alamogordo va a buon fine: la bomba diventa una realtà. Segue un ultimatum al Giappone senza cenni specifici alla nuova arma e poi l’apocalisse del 6 agosto. Negli anni seguenti i timori espressi nel rapporto Franck si avvereranno: nel 1946 sarebbe fallito il tentativo di realizzare una gestione in sede ONU della questione nucleare e tre anni dopo anche l’Urss farà deflagrare la sua prima atomica. Inizia una sfida tecnologica fra le superpotenze che ben presto renderà obsoleto l’ordigno di Hiroshima.
Da 60 anni il fungo atomico di Hiroshima rappresenta un monito per l’intera umanità: anche per questo il 1945 è uno spartiacque che taglia in due il XX secolo. Se è vero, come afferma il fisico Patrick Maynaard Stuard Blackett, che le prime bombe atomiche non avevano prodotto distruzioni maggiori dei più gravi bombardamenti convenzionali, è vero anche che il fatto si imprime da subito nelle coscienze come il superamento di una soglia critica, varcata la quale il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Il sentimento della crescente interdipendenza e del comune destino dell’umanità si è formato e fortificato seguendo il filo rosso della paura atomica. Forse è questo il vero lascito positivo della bomba: l’hegeliana astuzia della ragione attraverso Hiroshima ha messo in guardia il genere umano dai rischi della autodistruzione ovvero dal regresso della civiltà a opera della scienza.
La bomba ha mutato il modo di vedere il mondo, le regole della politica e della strategia. È stato posto in discussione radicalmente il motto di Karl von Clausewitz secondo il quale “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”. Quale razionalità strumentale può infatti avere il completo annientamento reciproco dei belligeranti? Quello atomico, man mano che crescevano gli arsenali, si è rivelato sempre più un conflitto impossibile. Su tale impossibilità – osservano i nostalgici della guerra fredda – si è retta la pace ed è stata evitata la terza guerra mondiale.