La brevettabilità del vivente
La messa a punto e il perfezionamento delle tecniche per la manipolazione della materia vivente lasciano intravedere molteplici applicazioni utili per l'uomo, e nello stesso tempo alimentano gravi preoccupazioni di natura etica. La possibilità di brevettare le invenzioni biotecnologiche si rivela, comunque, un formidabile fattore di stimolo per la ricerca scientifica e tecnologica, attirando nel settore ingenti risorse umane ed economiche. In linea di principio, non si dubita della brevettabilità delle innovazioni riguardanti il vivente, ma il nodo che rimane da sciogliere è quello dei limiti entro cui tale brevettabilità debba essere ammessa. Mentre gli Stati Uniti e il Giappone conoscono una normativa di gran lunga più permissiva, che consente alle proprie imprese di dominare un mercato in continua espansione, i paesi europei sono rimasti indietro, frenati essenzialmente da istanze di carattere etico. Anche le direttive comunitarie, pur ampliando gli spazi per il rilascio del brevetto biotecnologico, risentono in una certa misura dei condizionamenti dell'etica - o meglio di coloro, persone o gruppi, che si ispirano a determinati valori, dogmi e principi metagiuridici - sulle scelte compiute in sede politica.
La tutela delle invenzioni concernenti la materia vivente
Il brevetto e l'incentivazione della ricerca
Sotto l'influsso di suggestive speculazioni di matrice filosofica e letteraria, il progresso tecnologico può in prima approssimazione identificarsi con l'ampliamento delle capacità umane di modificare la natura, prescindendo da ogni valutazione circa la sussistenza o meno di un effettivo suo miglioramento in termini qualitativi. Non è questa la sede per addentrarsi nei meandri di un'impervia discussione sulla nozione di progresso; è indubbio, peraltro, che quest'ultimo secolo, caratterizzato da un vero e proprio boom in campo scientifico e tecnologico, ha visto crescere a dismisura le potenzialità manipolatorie dell 'uomo in tutte le direzioni possibili. Le manipolazioni a livello macroscopico sono indubbiamente le più difficili da sviluppare, richiedendo ingenti risorse energetiche. Sviluppando la classificazione proposta negli anni Sessanta dall'astrofisico russo Kardeshev e immaginando una scala alla cui sommità si colloca la capacità di manipolare l'intero Universo, J.D. Barrow (1997) ha osservato che la nostra civiltà rimane tuttora ai primi gradini, dal momento che riesce ad alterare in maniera significativa l'ambiente terrestre - per lo più con effetti negativi come l'assottigliamento dello strato di ozono, riscaldamento globale - e possiede la tecnologia necessaria per incidere sull'evoluzione di altri pianeti interni al sistema solare, ma è costretta ad arrestarsi di fronte a ipotetiche, e solo fantascientifiche, ristrutturazioni di galassie e ancor più vaste porzioni dell'Universo. Differente è la situazione a livello microscopico, dove si sono compiuti significativi passi in avanti su un cammino che ha quale meta ultima il controllo della struttura stessa dello spazio e del tempo. Sulla base delle attuali capacità tecniche, può dirsi superata la fase in cui l'uomo si accontentava di utilizzare e di modificare, per far fronte alle proprie necessità, soltanto oggetti del suo medesimo ordine di grandezza; si è ormai realizzato l'approdo alle manipolazioni di geni e di molecole e persino di legami molecolari, mentre si è alle soglie dell'intervento sui singoli atomi, nonché sulle particelle più elementari della materia.
Tale sviluppo delle conoscenze e delle capacità operative a livello dell'infinitamente piccolo comporta l'insorgenza di un'aspra conflittualità tra posizioni rappresentative di molteplici interessi collettivi e individuali. È qui che entra, o dovrebbe entrare, in gioco il diritto, con il suo apparato di regole rivolte a comporre i conflitti e a incanalarli verso le soluzioni più soddisfacenti per la collettività.
La complessità dei problemi da risolvere è immediatamente percepibile, allorquando si passi a considerare che le acquisizioni conseguite da discipline scientifiche relativamente giovani, quali la biochimica e la biologia molecolare, hanno consentito la messa a punto di tecniche per la manipolazione della materia vivente.
Tutto ciò, se apre prospettive dense di speranze per un miglioramento delle condizioni di vita sull'intero pianeta (basti pensare alla scoperta di terapie per gravi malattie e all'incremento delle risorse alimentari disponibili), nel contempo instilla e alimenta gravi preoccupazioni di natura etica, lasciando intravedere scenari inquietanti, nei quali l'uomo stesso corre il rischio di divenire oggetto di possibili manipolazioni: eventualità che diventa sempre meno remota a mano a mano che avanza l'ambizioso piano di ricerca internazionale denominato Progetto Genoma Umano (PGU), volto a tracciare una mappa dell'intero alfabeto del DNA nei cromosomi della specie umana (vedi nello stesso volume il saggio di A. Piazza).
Queste tensioni, destinate ad acuirsi insieme all'affinamento delle conoscenze scientifiche, si riverberano sul piano giuridico soprattutto nell'ambito del sistema brevettuale. Il brevetto, attribuendo all'inventore e ai suoi aventi causa il diritto di sfruttamento in esclusiva dell'invenzione per un certo periodo di tempo (almeno venti anni, secondo quanto prescrivono i più recenti accordi a livello internazionale), rappresenta lo strumento privilegiato, anche se non l'unico concettualmente possibile, per l'incentivazione della ricerca scientifica e tecnologica, attività cui gli ordinamenti statuali e degli organismi sovranazionali attribuiscono un ruolo di primo piano (si vedano, per esempio, l'art. 9 della Costituzione italiana e il titolo XV del Trattato CE).
Verso un ampliamento dei diritti di esclusiva: l'accordo TRIP
Le istanze favorevoli a un impiego sempre più diffuso del brevetto in relazione alla materia vivente si inseriscono a pieno titolo nella tendenza che caratterizza la più recente fase evolutiva della disciplina dei diritti sui cosiddetti beni immateriali. Si procede, infatti, con speditezza nel senso dell'ampliamento della protezione, sia sotto il profilo dell' estensione della durata temporale dei diritti esclusivi, sia sotto il profilo, ancor più dirompente, dell'ingresso nell'area della brevettabilità di categorie di invenzioni che il modello classico non prendeva nemmeno in considerazione (Ghidini, 1995). Tali orientamenti hanno trovato un puntuale riscontro nelle sedi internazionali competenti; di particolare importanza, per quel che concerne i paesi aderenti al GATT (Generai Agreement on Tariffs and Trade, Accordo generale sulle tariffe e il commercio), è stata l'adozione, avvenuta il15 aprile 1994 a Marrakesh, a conclusione dei negoziati dell'Uruguay Round, del Final act embodying the results of the Uruguay Round of multi/ateral trade negotiations (Atto finale che incorpora i risultati dei negoziati commerciali multilaterali dell 'Uruguay Round), che include l'accordo TRlP (Agreement on Trade Related aspects of lntellectual Property rights, including trade in counterJeit goods, Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale, ivi compreso il commercio di merci contraffatte), che fissa standard minimi di tutela piuttosto elevati.
Le spinte a procedere nella direzione indicata provengono essenzialmente dai settori di punta dell'industria contemporanea, vale a dire quelli dell'informatica e delle biotecnologie, nei quali, a fronte dei massicci investimenti profusi, i risultati arrivano con gradualità, normalmente in forma di innovazioni cosiddette incrementali e, più di rado, di innovazioni rivoluzionarie rispetto alla tecnologia esistente.
Si inserisce in questo processo la frequente ricerca di forme ibride di tutela (si pensi al diritto sui generis previsto in materia di banche dati), in modo da sfruttare i vantaggi connessi al brevetto unitamente a quelli propri del diritto d'autore, oppure lo scivolamento tout court verso il diritto d'autore, come avviene per il software. Persino per le innovazioni biotecnologiche si è auspicato, specie da parte americana, l'avvento della più intensa protezione del copyright: prospettiva peraltro avversata sulla base di diverse argomentazioni, non ultima quella per cui la rappresentazione, per mezzo della scrittura o di un modello tridimensionale, del DNA o di una proteina non è assimilabile a una composizione letteraria originale o a un'opera di design (Stanley e lnce, 1997).
In questo contesto, spetta proprio alla disciplina brevettuale l'arduo compito di definire l'ambito di tutela delle invenzioni concernenti la materia vivente, precisando l'entità della protezione e i relativi limiti. Proprio quello dei limiti sembra costituire il punto nodale dell'intera problematica, posto che ormai generalmente è caduto il pregiudizio di fondo secondo cui le invenzioni biotecnologiche, per via della loro peculiarità, non possiedono i requisiti necessari per ottenere la tutela brevettuale.
La tutela delle invenzioni biotecnologiche: differenti scenari normativi
Esaminando il panorama legislativo internazionale, si può osservare che, almeno nelle nazioni economicamente più sviluppate, non si rinviene una preclusione assoluta al riconoscimento della brevettabilità di talune invenzioni correlate alla materia vivente. Vi è tuttavia una netta divaricazione tra i diversi ordinamenti. Alcuni paesi, come gli Stati Uniti e il Giappone, conoscono una normativa permissiva, che consente alle industrie locali di effettuare elevati investimenti e di raccogliere ingenti profitti, dominando il mercato mondiale. È sufficiente scorrere l'elenco delle classi brevettuali contenute nel Manual of Classification dell'U.S. Patent and Trademark Office (PTO), per imbattersi, all'interno del gruppo chimico e del sotto gruppo biochimica, in alcune categorie di brevetti, la cui denominazione è più che eloquente riguardo all'estensione della tutela brevettuale nel campo biotecnologico. Solo per fare alcuni esempi, si ritrovano la classe 800, intitolata Multicellular living organisms and unmodified parts thereoJ (Organismi viventi multicellulari e parti di essi non modificate), la classe 930, intitolata Peptide or protein sequence (Sequenze peptidiche o proteiche), e ancora la classe 935, intitolata Genetic engineering: recombinant DNA technology, hybrid or Jused cell technology, and manipulations of nucleic acids (Ingegneria genetica: tecnologia del DNA ricombinante, tecnologia delle cellule ibride o fuse e manipolazioni degli acidi nucleici). Anche i dati di natura quantitativa confermano il grande successo del brevetto biotecnologico; nel quinquennio 1990-1995, a fronte di un incremento del numero totale delle domande di brevetto valutabile intorno al 2%, nel campo della biotecnologia l'andamento è stato nettamente migliore, registrandosi un aumento del 10%.
Dal canto proprio, i paesi europei firmatari della Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE) adottata a Monaco nel 1973 (che, peraltro, ricalcava una precedente convenzione siglata a Strasburgo nel 1963) sono soggetti a una norma del testo pattizio, l'art. 53, che configura la già limitata possibilità di brevettare le biotecnologie come una sorta di eccezione all'eccezione. Se, infatti, sono escluse dalla brevettabilità "le varietà vegetali o le razze animali come pure i procedimenti essenzialmente biologici per la costituzione di vegetali o di animali", il principio generale, sancito dall'art. 52 della convenzione della brevettabilità delle invenzioni nuove che implichino un'attività inventiva e siano atte ad avere un'applicazione industriale, viene ristabilito per quel che concerne "i procedimenti microbiologici" e "i prodotti ottenuti mediante questi procedimenti". Nonostante i tentativi di sopperire in via interpretativa alle restrizioni previste da tale disposizione, non era certo possibile stravolgerne il senso, con conseguenze penalizzanti per la ricerca e per l'industria. Secondo stime effettuate dall'Unione Europea, una seria politica di investimenti nel settore consentirebbe uno sviluppo industriale tale da garantire un giro di affari di 100 miliardi di euro, con la creazione di almeno 200.000 nuovi posti di lavoro.
La rincorsa dell'Europa
L'Europa, rimasta attardata per una serie di resistenze, giuridiche ed extragiuridiche, sta cercando a fatica di colmare il pesante gap, in modo da ripresentarsi competitiva al cospetto dei colossi nordamericani e asiatici. Certamente esiste, ed è fondato, il timore che i maggiori beneficiari di una più intensa protezione delle invenzioni biotecnologiche sarebbero proprio i concorrenti extraeuropei: il rischio di 'colonizzazione' è immanente in tutta l'area della proprietà industriale, se si pensa che proviene dagli Stati Uniti la parte più cospicua delle domande di registrazione per il marchio comunitario, istituito in attuazione del regolamento CE n. 94/40. Tuttavia c'è da credere che il vecchio continente possa affrontare la sfida, se e quando saprà dimostrare sufficiente compattezza. La creazione di mercati frnanziari di dimensioni europee può indubbiamente favorire il sovvenzionamento delle industrie biotecnologiche; a parere degli esperti del settore, una volta instaurato il circolo virtuoso in cui gli investitori traggono utili dalle imprese e li reinvestono nelle stesse, nulla può impedire all'industria europea di beneficiare dello stesso flusso di capitali in entrata di cui gode la controparte americana. In ogni caso, i paesi europei, nel compiere i passi che sono ormai improcrastinabili sulla via della regolamentazione giuridica del brevetto biotecnologico, potranno tener conto dello specifico humus culturale e del diverso grado di sensibilità etica che li caratterizza, a patto però di non soffocare gli incentivi alla ricerca scientifica e tecnologica (Ricolfi, 1995).
Emblematica delle difficoltà incontrate in Europa è senza dubbio la vicenda riguardante il tormentato iter della direttiva comunitaria sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. La proposta, presentata dalla commissione il 20 ottobre 1988, dopo i pareri del Comitato economico e sociale e del Parlamento europei, venne modificata nel 1992, per tener conto di alcune indicazioni, concernenti soprattutto la dimensione etica, emerse dal dibattito in sede parlamentare. Avviata la procedura prevista dall'art. 189 B del trattato CE, la posizione comune elaborata dal Comitato di conciliazione è stata clamorosamente bocciata dal Parlamento nel marzo del 1995. È seguita, quindi, una nuova proposta di direttiva, adottata dalla commissione il 13 dicembre 1995, sulla quale il Comitato economico e sociale si è pronunciato in senso favorevole nel luglio del 1996. Le competenti commissioni del Parlamento hanno proceduto all'esame della proposta, che ha suscitato reazioni di diverso segno: positiva è stata l'opinione della commissione affari legali; qualche perplessità è stata manifestata, per quanto riguarda la brevettabilità dei geni umani, dalla Commissione ambiente, sanità e protezione dei consumatori, che però ha suggerito di non ignorare del tutto le voci di coloro i quali sono interessati allo sviluppo di nuove terapie; estremamente negativo, infine, è stato il giudizio della Commissione agricoltura, che si è voluta rendere interprete di un'opinione diffusa secondo cui la brevettabilità della materia vivente comporta l'inaccettabile superamento di una barriera etica. Nel frattempo, si è espresso anche il gruppo di consulenti della commissione in materia di etica delle biotecnologie, pronunciandosi a favore della brevettabilità delle sequenze di geni per cui sia stata determinata una specifica utilizzazione, ma sottolineando l'esigenza di conformarsi a norme morali. Finalmente, il 18 giugno 1997 è stata approvata la relazione dalla Commissione affari legali con una serie di emendamenti al testo originario, e nella seduta del 16 luglio 1997 il Parlamento, a larga maggioranza, ha dato il suo assenso alla proposta di direttiva. La parola è tornata, quindi, alla Commissione, che il 29 agosto 1997 ha adottato la proposta modificata di direttiva (pubblicata in GUCE 11 ottobre 1997, C 311/12), accogliendo quasi in blocco gli emendamenti votati dal Parlamento. Il lungo cammino si è concluso con l'adozione definitiva della direttiva CE n. 98/44 del 6 luglio 1998 (pubblicata in GUCE 30 luglio 1998 L 213).
Le invenzioni biotecnologiche nel sistema brevettuale
Le capacità di adattamento del sistema brevettuale
Un primo, consistente gruppo di difficoltà incontrate sulla strada della brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche discende dalla necessità di inquadrare questa particolare categoria di invenzioni nell' alveo delle regole consolidate che governano (da circa un secolo) il sistema dei brevetti (Floridia, 1997).
È sin troppo ovvia la constatazione che il sistema brevettuale era nato in funzione delle invenzioni meccaniche, in un'epoca in cui queste rappresentavano l'archetipo del trovato innovativo: sintomatica, a questo proposito, l'elencazione, peraltro puramente esemplificativa, contenuta nell'art. 2585 del codice civile del 1942, nella quale si descriveva l'oggetto del brevetto mediante il riferimento a 'una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo meccanico'. Tuttavia, come è stato acutamente osservato in dottrina, l'impianto del sistema si è rivelato assai duttile, riuscendo ad adattarsi alle sollecitazioni poste via via da diverse tipologie di invenzioni, dapprima quelle elettriche ed elettroniche e, quindi, quelle chimiche e farmaceutiche (Di Cataldo, 1985).
Per la verità, non si è trattato sempre e dovunque di un processo indolore, come dimostra la prolungata ostilità che molti ordinamenti nazionali hanno mostrato nei confronti della brevettabilità dei farmaci. Basti ricordare il caso italiano, dove l'impossibilità di ottenere un brevetto per i 'medicamenti', risalente alla legislazione ottocentesca preunitaria, era stata sancita dall'art. 14 del r.d. 29 giugno 1939 n. 1129 e aveva opposto una tenace resistenza ai numerosi attacchi mossi da dottrina e giurisprudenza, prima di capitolare a opera dell'importante sentenza della Corte costituzionale del 20 marzo 1978 n. 20, salvo perpetuare i suoi effetti negativi a causa di questioni di diritto intertemporale, delle quali è stata in seguito chiamata a occuparsi la Corte di cassazione e ancora una volta la Consulta.
I requisiti della brevettabilità: novità, attività inventiva e industrialità
Non sembra costituire un ostacolo temibile al riconoscimento della brevettazione di invenzioni attinenti alla genetica e alla bioingegneria la necessità di verificare la presenza dei requisiti ai quali viene subordinata la brevettabilità di un'invenzione, vale a dire quelli riassunti nella triade novità-attività inventiva-industrialità di cui nel già ricordato art. 52 CBE e nell'art. 27.1 dell'Accordo TRlP (alla quale, fatta salva qualche sfumatura, corrisponde negli Stati Uniti l'altra triade novelty-nonobviousness-utility prevista dalla section 35 United States Code 102). Naturalmente, si impongono determinati aggiustamenti e - come viene sottolineato anche dai più avvertiti osservatori nordamericani - la notevole rapidità dei mutamenti in campo biotecnologico fa sì che risulti sempre più arduo discernere con limpidezza gli elementi ritenuti essenziali, specialmente la sfuggente nonobviousness (non ovvietà; Cubert, 1995).
Non occorre dilungarsi sui singoli risvolti problematici che interessano le nozioni appena richiamate. Tuttavia, rimanendo sul terreno puramente definitorio, si può convenire su alcuni punti. Per prima cosa, la novità sta a indicare il fatto che l'invenzione, per essere brevettabile, non deve essere compresa nell'insieme di conoscenze rese accessibili al pubblico prima della data di deposito della domanda di brevetto (il cosiddetto stato della tecnica). In secondo luogo, la verifica dell'attività inventiva serve ad assicurare che l'invenzione da brevettare non sia neppure implicitamente compresa nel patrimonio tecnologico comune; a tal fine si utilizza il cosiddetto criterio del tecnico medio, per il quale occorre stabilire se un soggetto mediamente esperto del settore, facendo ricorso alle sue ordinarie capacità e nell' esercizio della sua normale attività, sarebbe stato in grado di ricavare quel risultato dall'insieme delle nozioni di dominio pubblico. lnfine si deve valutare la cosiddetta industrialità, intorno alla quale tanto si discute, che rappresenta la potenziale applicazione industriale dell'invenzione da brevettare; secondo una tesi minoritaria, peraltro, tale requisito imporrebbe anche che il trovato brevettabile abbia un carattere di utilità.
Ormai quasi nessuno mette in dubbio che i trovati biotecnologici, al pari delle invenzioni inanimate, possono soddisfare questi requisiti. Sotto il profilo dell'industrialità, è stato comunque notato che le invenzioni biotecnologiche, avendo a che fare con materiale vivente, non assicurano la ripetibilità e riproducibilità del risultato con effetti costanti. Peraltro, anche questo aspetto è stato ritenuto non preclusivo ai fmi della brevettabilità, indicando quale valida soluzione interpretativa quella di legare il requisito dell'industrialità alla sufficiente omogeneità e stabilità degli elementi essenziali del trovato (Caforio, 1995).
Le difficoltà concettuali relative all'industrialità si riverberano anche sull'ulteriore aspetto concernente la sufficiente descrizione del trovato. Costituisce, infatti, altro principio fondamentale del sistema brevettuale quello secondo cui alla domanda di concessione del brevetto deve essere allegata la descrizione sufficientemente chiara e completa dell'invenzione, in modo tale che un esperto del ramo sia in grado di attuarla. Alla base di questa previsione vi è la duplice esigenza di consentire l'utilizzazione 'a compasso' allargato dell'invenzione, una volta cessata l'esclusiva, e di identificare con esattezza il trovato, individuando allo stesso tempo lo stato della tecnica raggiunto dall'inventore. Nel settore della microbiologia, tuttavia, si danno invenzioni che implicano l'utilizzazione di un microrganismo non accessibile al pubblico e che non si prestano a essere descritte con la chiarezza e la precisione richieste in via generale. Nondimeno, si è trovato il modo di ovviare all'impedimento mediante il deposito di una coltura del microrganismo presso un centro di raccolta abilitato (si vedano i punti 28 e 28bis del regolamento di esecuzione della CBE). Nel 1977 è stato sottoscritto a Budapest un trattato sul riconoscimento internazionale del deposito di microrganismi, con cui si è perseguito l'obiettivo di evitare la ripetizione, in ciascuno stato in cui fosse richiesta la tutela brevettuale, delle complesse e costose operazioni legate al deposito. Per questo motivo si ammette la possibilità del deposito presso un istituto scientifico attrezzato, che funge da autorità di deposito internazionale. Rivolgendo lo sguardo alla prassi americana, dalle decisioni del PTO e delle corti di giustizia emerge una valutazione della utility nelle invenzioni biotecnologiche essenzialmente ancorata alle caratteristiche del caso concreto. l casi più frequenti di rifiuto di concessione del brevetto per carenza di utility si hanno quando l'invenzione biotecnologica riguarda un trattamento terapeutico ovvero include numerose utilizzazioni non dimostrate nella domanda. Per quanto attiene al dibattito sulla nonobviousness, che negli Stati Uniti ha raggiunto toni particolarmente accesi, se ne darà rapido conto trattando la problematica della brevettabilità dei geni, dove il modo di intendere tale requisito assume un'importanza decisiva.
Il difficile rapporto tra invenzioni e scoperte
Un ulteriore momento di frizione con la tradizionale disciplina brevettuale può riscontrarsi in relazione a un'altra regola cardine, accolta in tutti gli ordinamenti, vale a dire quella che esclude la brevettabilità delle scoperte, al pari delle teorie scientifiche e dei metodi matematici. Quest'impostazione presuppone una chiara e ben definita linea di demarcazione tra scoperta e invenzione, sia dal punto di vista ontologico - rappresentando la prima l'individuazione o la rivelazione di qualcosa già esistente, anche se ignoto, implicando la seconda la creazione o l'elaborazione di un quid novi - sia da quello cronologico, ponendosi la scoperta in un momento temporale antecedente all'invenzione.
La presunta nitidezza di tale distinzione è andata negli ultimi tempi opacizzandosi per una serie complessa di considerazioni. Infatti, è stata posta in evidenza la contraddittorietà tra la scelta di ammettere in via generale la brevettabilità delle invenzioni di prodotto e quella di escludere, invece, la brevettabilità di determinati risultati conseguiti da un ricercatore che disveli un quid prima ignoto, dal momento che si tratta di risultati concettualmente non dissimili da quelli ottenuti da chi costruisca ex novo un prodotto o una sostanza. Nell'intento di superare il problema alla radice, si è sottolineata la convenzionalità della distinzione tra immaterialità della scoperta e materialità dell'invenzione, auspicandosi una ricomposizione unitaria delle due nozioni, nel segno dell 'unità concettuale tra scienza e tecnica. Sotto altro profilo va notato che, qualora scoperta e invenzione siano realizzate dallo stesso ricercatore, la fattispecie non può che essere riguardata in modo unitario, con la conseguenza che la verifica dei requisiti necessari per la brevettabilità deve essere riferita proprio al momento della scoperta.
Tuttavia, il delineato rapporto tra scoperta e invenzione entra definitivamente in crisi proprio nel campo chimico, e ancor più in quello biotecnologico (Sena, 1990; Floridia, 1997). È stato al riguardo autorevolmente affermato che la ricerca chimica si configura sempre come ricerca inventiva. Taluno propone, quindi, di interpretare la disciplina vigente nel senso che le scoperte sarebbero tutelabili ogniqualvolta vengano prese in considerazione in vista della loro successiva applicazione tecnica, ossia sub specie di scoperte industrialmente applicate. Senza cimentarsi con intricate ricostruzioni ermeneutiche, è sufficiente osservare che anche in questo caso il sistema sembra improntato alla considerazione della dinamica del rapporto scoperta-invenzione caratteristico del settore meccanico. Pare, dunque, inevitabile una rivisitazione di questo rapporto, anche se non è al momento ben chiaro se si dovrà trattare di un'operazione limitata esclusivamente all'ambito delle biotecnolo gie (con il rischio di compromettere l'unità del sistema brevettuale), ovvero di una vera e propria rivoluzione di portata molto più ampia. Probabilmente, sotto la spinta di questi fermenti si va verso una restrizione dello spazio riservato alle scoperte non brevettabili, confinate ai soli casi in cui, come peraltro è stato già affermato in sede di interpretazione giudiziale, l'idea di soluzione sia meramente teorica e si limiti all'astratta intuizione di principi scientifici o a ipotizzare effetti potenziali o latenti.
La protezione delle invenzioni biotecnologiche: i limiti della teoria dell'equivalenza
Qualche cenno merita anche la questione relativa alla definizione dell' ambito di protezione del brevetto per le invenzioni biotecnologiche. Qualora infatti - al fine di valutare se costituisca contraffazione, anche solo parziale, la riproduzione con qualche variazione del brevetto altrui - si applicasse acriticamente il concetto dell'equivalenza, si perverrebbe a esiti inaccettabili. La teoria dell' equivalenza, elaborata anch'essa con riferimento alle invenzioni meccaniche, enuncia la seguente regola: non è necessaria, perché si abbia contraffazione di un'invenzione industriale, una precisa riproduzione e applicazione dell'idea inventiva in tutti i suoi elementi anche accessori o secondari, ma è sufficiente che si attuino gli elementi essenziali e caratteristici dell'idea, senza i quali non si otterrebbe quel nuovo risultato industriale in cui si concreta la inventio.
Occorre tener presente che nella biotecnologia, ancor più che nella chimica, non esiste un rapporto univoco tra la struttura e la funzione di un composto, cosicché a modificazioni strutturali di modesta entità possono corrispondere enormi differenze funzionali. L'utilizzazione del parametro dell 'identità strutturale condurrebbe a una dilatazione eccessiva della tutela garantita al titolare del brevetto. Il problema, del resto, si è già presentato in campo chimico, per quanto riguarda i cosiddetti brevetti di formula generale, rilasciati cioè per composti a formula generale, modificabile in modo da ottenere ulteriori composti derivati, dei quali non sono ancora note le proprietà; un'indiscriminata protezione dei brevetti di formula generale frustrerebbe l'attività di ricerca volta all'individuazione di nuovi composti ricavabili dalla formula base ovvero di nuove proprietà del composto.
Nella ricerca di una soluzione appagante, può essere utile guardare all'esperienza d'oltreoceano, per richiamare la teoria denominata reverse doctrine of equivalents, teoria inversa dell'equivalenza (Lemley, 1997). In base a essa, viene fornita protezione a quanti apportano miglioramenti radicali rispetto a un prodotto brevettato che svolga la medesima funzione, o una similare, in un modo sostanzialmente diverso, nonostante che il nuovo prodotto sia suscettibile di essere ricompreso nella formulazione del brevetto originario. Così argomentando, i miglioramenti radicali vengono favoriti, a spese del titolare del brevetto, e incentivati molto più di quanto lo sarebbero con l'applicazione della cosiddetta blocking patents rule (regola dei brevetti che comportano blocco reciproco), la quale viene in pratica a determinare una situazione di stallo (da monopolio bilaterale), attribuendo al titolare del brevetto originario il potere di inibire a chi abbia sviluppato l'invenzione l'utilizzazione della tecnologia brevettata e, per converso, a quest'ultimo il potere di inibire al primo lo sfruttamento dei miglioramenti apportati.
Uno degli esempi, per la verità non numerosi, in cui è stata seguita la reverse doctrine of equivalents è offerto nel campo delle biotecnologie dal caso Scripps Clinic & Research Foundation versus Genentech Inc., discusso dalla Corte di appello del Federal Circuit nel 1991. In tale circostanza, che vedeva opposti, da un lato, il titolare di un brevetto concernente un coagulante del sangue, il fattore VllI C, purificato dal sangue umano e, dall'altro, il produttore dell'identico fattore ottenuto da batteri mediante la tecnica del DNA ricombinante, è stata ribaltata la decisione della corte distrettuale che aveva ravvisato gli estremi di una contraffazione. Si è ipotizzata un'altra possibilità di applicazione di tali regole, proponendosi che i brevetti eventualmente ottenuti per le sequenze di segmenti dei geni umani (expressed sequence tags) non precludano il successivo uso delle stesse sequenze per la produzione di proteine ricombinanti; in questo caso, il ricorso alla reverse doctrine si giustificherebbe in quanto il valore dei miglioramenti apportati supererebbe di gran lunga quello dell'invenzione ongmana.
L'oggetto del brevetto biotecnologico
La concezione unitaria del vivente
Generalmente, gli studi dedicati alla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche presentano una suddivisione interna della materia in tre fondamentali capitoli: uno dedicato ai vegetali, un altro ai microrganismi e un altro ancora agli animali multicellulari. In senso contrario a questa impostazione, dalla quale in ultima analisi vengono fatte discendere tutte le ingiustificate disparità di trattamento nell'ambito del vivente brevettabile, si tenta di affermare una visione unitaria del vivente, sulla base dell'acquisita consapevolezza che il DNA costituisce il substrato comune a tutte le forme di vita conosciute (Menesini, 1996). Considerando, comunque, che i settori indicati hanno seguito percorsi evolutivi nettamente differenziati, sia a livello di regolamentazione normativa, sia a livello di applicazione pratica, sembra opportuno dare un rapido sguardo alle problematiche peculiari a ciascuno dei tre gruppi di invenzioni, per occuparsi poi in modo particolare dello scottante problema della brevettabilità del DNA.
Le diverse forme di tutela delle innovazioni vegetali
Storicamente, il settore agricolo è stato quello in cui per primo gli istituti tipici della proprietà industriale sono venuti a contatto con la materia vivente. L'esclusione dei prodotti vegetali dal novero degli oggetti suscettibili di brevettazione veniva inizialmente spiegata non tanto per la mancanza del carattere dell'industrialità risultando chiaro che quest 'ultima nozione va intesa in modo da non escludere le applicazioni in campo agricolo o commerciale - quanto piuttosto per la ritenuta impossibilità di fornire una descrizione dettagliata dell'invenzione. Sin dal 1930, peraltro, il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato il Plant Patent Act, che garantiva una limitata protezione per le innovazioni vegetali, offrendo la possibilità di ottenere una speciale forma di brevetto (plant patent) per la quasi totalità delle piante caratterizzate da una riproduzione asessuata.
La risposta degli altri paesi, specialmente di quelli europei, arrivò nel 1961 a Parigi, con la stipulazione di una convenzione internazionale, che dettava una normativa uniforme per la tutela delle nuove varietà vegetali e prevedeva la costituzione di una nuova unione sovranazionale, l'Union pour la Protection des Obtentions Vegetales (UPOV), cui erano attribuiti compiti di coordinamento e di stimolo. Obiettivo della convenzione era quello di assicurare protezione ai costitutori di varietà vegetali che avessero caratteristiche idonee a distinguerle nettamente dalle altre e fossero sufficientemente omogenee e stabili nelle loro caratteristiche essenziali.
Il diritto del costitutore si estendeva al materiale di riproduzione o propagazione della varietà protetta. Si cercava, inoltre, di salvaguardare una serie di interessi ulteriori, come quelli dell'utilizzatore non speculativo e dell'inventore successivo. La protezione da accordare alle nuove varietà vegetali, a scelta degli stati dell'Unione, poteva rivestire alternativamente la forma del brevetto ovvero di una particolare privativa. Quasi tutti i paesi hanno optato per quest'ultimo iter, utilizzando i cosiddetti certificati d'ottenimento. Isolata nel panorama internazionale è la scelta del legislatore italiano, che ha preferito rinviare alla disciplina generale del brevetto, ove non derogata da specifiche disposizioni. Qualche anno dopo, gli Stati Uniti adottavano il Plant Variety Protection Act, il quale peraltro non andava a interferire con la legislazione previgente, in quanto finalizzato esclusivamente alla protezione delle varietà vegetali che si riproducono per via sessuata.
Successivamente, si sono avute diverse revisioni della convenzione parigina del 1961, le quali hanno profondamente modificato l'originaria sistemazione della materia. Particolarmente significativa la svolta avvenuta con la revisione di Ginevra del 1991, con cui si è tenuto conto del progressivo abbandono delle tradizionali tecniche di selezione a beneficio dei procedimenti di manipolazione genetica. Il risultato è stato quello di rafforzare la posizione del costitutore, sia ampliando il materiale vegetale oggetto di protezione, sia dando la possibilità al costitutore di far valere i propri diritti in momenti ulteriori rispetto a quelli originariamente previsti; è stato inoltre fatto cadere il divieto della doppia protezione.
A seguito dell'ultima revisione e della decisione dell'Unione Europea di aderire all'UPOV, è stato emanato il regolamento CE n. 94/2100 concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali. La disciplina di tale privativa, definita come l'unica forma di proprietà industriale comunitaria in materia, ricalca nelle linee essenziali quella della Convenzione.
Tornando all'esperienza americana, va notato che per lungo tempo il PTO ha negato la concessione di brevetti 'ordinari' per le piante, sul presupposto che queste fossero tutelabili con gli strumenti specifici dei plant patents e dei plant variety certificates. Tale orientamento è mutato soltanto nel 1985 con il caso Ex parte Hibberd, a seguito del quale si è aperta la strada al rilascio di utility patents anche per le piante geneticamente modificate (Kjeldgard e Marsh, 1997).
Dai procedimenti microbiologici ai microrganismi
Come si è visto, l'art. 53, lett. b), della convenzione di Monaco ammette la concessione di brevetti europei per i procedimenti microbiologici e per i prodotti ottenuti mediante tali procedimenti. Alla luce di questa esplicita apertura, non vi è mai stato dubbio circa la brevettabilità dei procedimenti industriali che prevedessero l'impiego di microrganismi. Più problematico era far rientrare nell'alveo della citata disposizione i procedimenti rivolti alla produzione di nuovi microrganismi, e soprattutto i microrganismi in quanto tali, quali prodotti ottenuti tramite procedimenti microbiologici.
Non dissimile era il tenore del dibattito negli Stati Uniti, fino a quando nel 1980 intervenne con autorevolezza la Corte suprema, la quale nella celebre decisione resa nel caso Diamond versus Chakrabarty, giudicando in senso favorevole alla brevettabilità di un batterio geneticamente alterato, sancì l'importante principio secondo cui la materia vivente può essere oggetto di brevetto allorché per la sua produzione si sia verificato un intervento umano.
Negli anni seguenti anche l'Ufficio Europeo Brevetti (UEB) si è allineato a questo orientamento, foriero di conseguenze rivoluzionarie per tutta la problematica della brevettabilità del vivente. Pertanto, nelle Guidelines dell'UEB attualmente si legge che sono brevettabili il procedimento attraverso cui il microrganismo viene isolato dalla coltura, il microrganismo come tale, in quanto ottenuto con un processo microbiologico, nonché il prodotto realizzato attraverso il metabolismo di un microrganismo. Anche i tribunali nazionali si sono trovati a dover decidere su controversie in materia di proprietà industriale concernenti microrganismi. La britannica House of Lords, nel caso Biogen inc. versus Medeva plc, ha ultimamente affrontato in maniera diretta il problema della validità di un brevetto avente a oggetto un microrganismo geneticamente modificato, mentre in Italia il Tribunale di Milano, con una recente ordinanza - emessa in un procedimento in cui si controverteva sulla validità di un brevetto concernente kit e metodi immunodiagnostici e vaccini anti-HCV (il virus dell'epatite C) - ha avuto occasione di affermare che "non sembra [ ... ] possano identificarsi reali ostacoli logico-giuridici alla brevettazione del [procedimento e del] prodotto virale".
Le possibilità di ottenere un brevetto per microrganismi sono, dunque, in espansione. Fermo restando che la distinzione tra biologia e microbiologia è puramente convenzionale e i relativi confini appaiono suscettibili di ulteriori assestamenti, va osservato come, ai fini della brevettabilità, sia lo stesso concetto di microrganismo a essere interpretato in maniera estensiva; in tal modo, finiscono per rientrarvi, accanto a batteri, virus, plasmidi e sequenze di DNA, persino cellule e colture cellulari.
La brevettabilità degli animali multicellulari
Problemi ancora maggiori suscita la tematica della brevettabilità degli animali cosiddetti superiori (Di Cerbo, 1992). Si addensano qui i dubbi più consistenti, sia dal punto di vista interno alla disciplina brevettuale, sia da quello della compatibilità etica. Basti pensare allo scalpore suscitato presso l'opinione pubblica internazionale dalla divulgazione delle notIzIe e delle immagini relative a due mammiferi donati, la pecora scozzese Dolly - in relazione alla quale sono state presentate domande per l'ottenimento del brevetto e per la registrazione del marchio e il vitello americano Eugene. Tali notizie, sicuramente non del tutto inaspettate per i ricercatori del settore, hanno colto quasi di sorpresa talune autorità di governo (a tale proposito, il ministro italiano della sanità si è preoccupato di emanare un'ordinanza, più volte reiterata, per vietare temporaneamente "ogni forma di sperimentazione e di intervento, comunque praticata, finalizzata, anche indirettamente, alla donazione umana o animale"), e hanno suscitato per lo più reazioni negative nell'ambito dei mass media e degli opinionisti.
A differenza di quanto accade per i microrganismi, l'art. 53, lett. b), della CBE lascia pochi margini alla brevettabilità degli animali multicellulari. È, infatti, espressamente esdusa la concessione di brevetti per le razze animali, così come per i procedimenti essenzialmente biologici per la costituzione di animali.
Passare attraverso le maglie di questa disposizione, nonostante le proposte di interpretazione estensiva e di adeguamento della stessa, appariva arduo. Eppure, l'impresa è riuscita alla commissione di ricorso dell'Ufficio Europeo Brevetti. Con la decisione del 3 ottobre 1990 è stata riconosciuta la brevettabilità dell' oneo-mouse, detto anche topo di Harvard, ossia di un roditore nelle cui cellule era stata inserita una sequenza oncogena; e questo, dopo che lo stesso trovato era stato brevettato negli Stati Uniti, in Giappone e in Australia, mentre la divisione di esame dell'UEB aveva rifiutato la concessione del brevetto sulla base dell 'art. 53 della CBE. Nella circostanza la commissione di ricorso ha avuto modo di affermare, da un lato, che, ai sensi del citato art. 53, si considerano esclusi dalla tutela brevettuale non già gli animali in quanto tali, bensì solo alcune categorie di animali e, dall'altro, che il divieto di brevetto per contrarietà all'ordine pubblico o al buon costume non è destinato a operare nel caso di domanda concernente un animale nel quale siano state operate mutazioni genetiche, qualora i vantaggi per il genere umano che possano derivare dall 'invenzione abbiano carattere prevalente rispetto alle sofferenze che ne scaturiscano e rispetto ai possibili rischi ambientali.
Si è comunque tentato di aggirare il divieto in via interpretativa, facendo leva sull'ammissibilità dei brevetti per prodotti ottenuti con procedimenti microbiologici. Il termine "prodotto" in questa prospettiva potrebbe riferirsi anche a un animale che sia ottenuto operando sul DNA, ossia con un procedimento da considerarsi tipicamente microbiologico.
Ben diversa si presenta la situazione negli Stati Uniti, dove ha prevalso un orientamento favorevole alla brevettabilità di animali multicellulari. Se si considerano i brevetti inclusi nella sottoclasse denominata 'animali non umani', possono trovarsi, tra gli altri, titoli significativi come Transgenic mice displaying the amyloid-forming pathology of Alzheimer's disease (Topi transgenici manifestanti la patologia della malattia di Alzheimer con formazione di sostanza amiloide), Method for producing an animai model for inflammatory bowel disease including ulcerative colitis (Metodo per produrre un modello animale per le malattie infiammatorie dell'intestino, inclusa la colite ulcerosa), Virus-resistant transgenic mice (Topi transgenici virus-resistenti). Tale orientamento è stato ulteriormente rafforzato alla luce dell'approvazione da parte del Congresso del Biotechnology Process Patent Act nel 1995. Il legislatore americano ha inteso rendere più agevole l'ottenimento della tutela brevettuale per quello che viene definito biotechnological process, giungendo ad accomunare gli organismi unicellulari e pluricellulari. Nell'ambito della defrnizione normativa ricadono, infatti: i procedimenti rivolti a modificare geneticamente un organismo unicellulare o multicellulare oppure a indurlo in altro modo a esprimere una sequenza nucleotidica esogena, a inibire, eliminare, accrescere o alterare l'espressione di una sequenza nucleotidica endogena, ovvero a esprimere una caratteristica fisiologica specifica non associata naturalmente a quell'organismo; le procedure di fusione cellulare generanti una linea cellulare che esprima una specifica proteina; i metodi di utilizzazione di un prodotto ottenuto con uno dei procedimenti sopra descritti o con una combinazione di essi.
Da notare, inoltre, che l'art. 27.3 dell'Accordo TRlP attribuisce solo la facoltà, ma non sancisce l'obbligo, di escludere dalla brevettabilità piante e animali, mentre impedisce addirittura che possa essere vietata dagli stati contraenti la concessione di brevetti relativi ai microrganismi e ai processi non biologici o microbiologici per la produzione di piante e animali.
La direttiva del 1998 si propone anch'essa di ampliare la tutela brevettuale per gli animali, anche se rispetto al progetto originario probabilmente si è compiuto qualche passo indietro. Nell'ultima versione del testo normativo si esclude, come di consueto, la brevettabilità delle varietà di animali e dei procedimenti essenzialmente biologici per la produzione di animali, definendo questi ultimi come procedure basate sull'incrocio o sulla selezione. D'altro canto, mentre nella proposta di direttiva elaborata nel 1988 e nella proposta modificata del 1992 si puntava ad ammettere in via di principio la brevettabilità del materiale biologico, ivi compresi gli animali, si è pervenuti a una formulazione secondo cui le invenzioni che concernono gli animali sono brevettabili se la loro praticabilità non è tecnicamente limitata a una particolare varietà di animali.
La brevettabilità del DNA
L'ultima frontiera: la competizione per brevettare i geni
L'ultima frontiera della brevettabilità, specialmente nei più avanzati paesi extraeuropei, riguarda il DNA, 'la spirale della vita', che contiene le informazioni per la produzione delle proteine. Si tenta, cioè, di ottenere la protezione brevettuale per i geni, ossia specifiche sequenze di basi nel DNA che sono responsabili della codificazione di determinate proteine. Notevole scalpore, al riguardo, destò l'iniziativa del National Institutes of Health (NlH), organismo governativo americano, che, pochi anni dopo l'avvio del PGU, aveva presentato domanda di brevetto relativamente a migliaia di sequenze parziali di DNA che erano state identificate in laboratorio, ma la cui funzione specifica era ignota (Eisenberg, 1994). Contro tale iniziativa si levarono le voci critiche sia di alcuni prestigiosi scienziati (tra i quali, in primis, J. Watson, uno degli scopritori della struttura del DNA, il quale per protesta rassegnò le dimissioni dalla carica di direttore del Progetto Genoma Umano), sia delle industrie biotecnologiche, preoccupate della possibile instaurazione di un monopolio pubblico e dalla creazione di ostacoli alla brevettabilità delle invenzioni costituenti lo sviluppo delle sequenze divulgate. La vicenda, tuttavia, si concluse con un nulla di fatto, dopo che il PTO si era pronunciato negativamente su alcune domande di brevetto e i nuovi dirigenti del NIH decisero di non proporre appello e di ritirare le rimanenti domande.
Il dibattito sulla nonobviousness
Su un piano più generale, la brevettabilità del DNA si è trovata a dover fare i conti con la barriera della nonobviousness. La verifica dell'esistenza di questo requisito si è rivelata il momento chiave per la concessione dei brevetti in tutta l'area delle invenzioni biotecnologiche (Cubert, 1995). Lo sviluppo frenetico che ha interessato le biotecnologie ha comportato inevitabilmente un corrispondente aumento delle probabilità che un trovato, anche se nuovo, fosse considerato ovvio. Del resto, passa in buona parte attraverso la nonobviousness il difficile bilanciamento tra la massimizzazione del beneficio sociale che deriva dalla divulgazione di un'invenzione e la minimizzazione dei diritti di esclusiva attribuiti all'inventore. Le regole stabilite nel 1966 dalla Corte Suprema nel leading case (caso emblematico) Graham versus John Deere eo., al fine di accertare l'ovvietà di un invenzione, si sono rivelate ben presto insoddisfacenti nel campo della biotecnologia, soprattutto con riferimento ai brevetti di procedimento, dato che i procedimenti impiegati dipendono spesso da metodologie standard applicate a nuovi problemi. Ne è scaturito un vivace dibattito, contrappuntato da diverse decisioni negative del PTO, ispirate a una serie di precedenti giurisprudenziali, tra i quali spicca la decisione della Corte di appello del Federal Circuit nel caso Durden (Zhe Zang, 1997). Vi si stabiliva che, nonostante il materiale di partenza e il prodotto fmale fossero nuovi e non ovvi, non era comunque brevettabile un procedimento altrimenti ovvio. Queste decisioni hanno avuto un impatto decisamente negativo sull'industria biotecnologica, che temeva l'affermazione di una per se obvious rule. A tali preoccupazioni si è cercato di ovviare per via legislativa con l'approvazione, al termine di un dibattito parlamentare durato cinque anni, del Biotechnology Process Patent Act, che contiene la previsione di una per se nonobvious rule, purché il procedimento da brevettare utilizzi o produca un composto nuovo e non ovvio e siano rispettate talune ulteriori condizioni.
Benché molti non ritengano adeguata una per se rule, denunciando il rischio dell' attribuzione di un eccessivo potere di mercato al titolare del brevetto, la sua adozione nel campo delle biotecnologie viene giustificata in funzione di tutela delle industrie americane nei confronti degli agguerriti concorrenti nipponici. Pur se al di fuori del campo della biotecnologia, vanno inoltre segnalate due recenti decisioni del Federal Circuit, nei casi Ochiai e Brouwer, che hanno ripudiato ogni genere di per se rule, propendendo per un approccio del tipo 'caso per caso' (Zhe Zang, 1997).
Tornando alla brevettabilità del DNA, il problema è ulteriormente complicato dal fatto che le sue caratteristiche lo differenziano notevolmente dalla maggior parte degli altri composti chimici. In genere, se due polimeri presentano una struttura simile, c'è da aspettarsi che essi si comporteranno in maniera simile, se utilizzati in maniera analoga; pertanto, la somiglianza di struttura del nuovo composto, di cui si chiede la brevettazione, fa sì che si determini un caso obviousness prima facie, il che comporta l'onere per il richiedente di provare la nonobviousness dell'invenzione. Del tutto diversa è la situazione del DNA, per il quale anche una lieve modifica nella sequenza può determinare significative modifiche funzionali. Di conseguenza, come ha riconosciuto anche il Federal Circuit nei casi Bell e Dillon, la dottrina della somiglianza strutturale risultava non appropriata con riferimento alla peculiare relazione DNA-proteina codificata, relazione in cui risiede il reale valore del brevetto. Queste conclusioni sono avversate da chi ritiene che in tal modo la bilancia penda troppo a favore delle industrie biotecnologiche, non essendo stato elaborato un test che rimpiazzi quello della somiglianza strutturale per defmire i casi di prima facie obviousness (Varma e Abraham, 1996).
I brevetti sui geni alla luce della rent dissipation theory
I criteri con i quali vengono concessi i brevetti sui geni sono contestati anche sulla base della rent dissipation theory (teoria della dispersione della rendita), che, in contrasto con la tradizionale reward theory (teoria remuneratoria), giustifica il sistema brevettuale in termini di minimizzazione dei costi sociali complessivi (Erramouspe, 1996). Secondo questa teoria, un'invenzione merita la tutela garantita dal brevetto allorquando la competizione per ottenerlo provochi una dispersione di risorse minore di quella prevedibile per il miglioramento dell'invenzione, ovvero, in altri termini, allorquando l'invenzione lancia un forte segnale tecnologico, suggerendo ulteriori miglioramenti. Orbene, i brevetti sui geni rilasciati dal PTO, estremamente remunerativi per i loro titolari, hanno scatenato una vera e propria caccia al gene, con uno spreco immenso di risorse derivante dalla sovrapposizione di numerose iniziative di ricerca convergenti sul medesimo obiettivo, pur sapendo che una sola di esse è destinata a essere premiata con il brevetto. Alla luce della rent dissipation theory, questi sprechi si eviterebbero con l'imposizione di limiti più severi alla concessione dei brevetti sui geni, richiedendo una dimostrazione sia della novità e non ovvietà dei metodi per ottenerli, sia della non funzionalità dei metodi convenzionali, in modo da evitare la dispersione di risorse dovuta alla omogeneità degli inventori. Una soluzione alternativa, anche se meno efficace, potrebbe essere quella di accordare la protezione brevettuale soltanto ai procedimenti per l' ottenimento dei geni, escludendola per i geni in sé considerati; dal momento che il brevetto di procedimento offre una tutela meno estesa rispetto a un brevetto di prodotto, vi sarebbe una minore competizione nella fase pionieristica, ma si determinerebbe comunque una competizione per la scoperta di procedimenti alternativi per identificare e sequenziare i geni.
Le preoccupazioni di carattere etico
Il buon costume e l'ordine pubblico
L'indicazione dei concetti di ordine pubblico e buon costume, quali limiti alla brevettabilità delle invenzioni, è contenuta nell'art. 53, lett. a), della CBE ed è stata recepita negli ordinamenti interni dei paesi firmatari della convenzione, i quali peraltro già in precedenza non ignoravano tali nozioni. La citata disposizione vieta, infatti, la concessione di brevetti per le invenzioni la cui pubblicazione o la cui attuazione sarebbero contrarie all'ordine pubblico o al buon costume. Essa precisa, tuttavia, che per ritenere l'attuazione di un'invenzione contraria all'ordine pubblico o al buon costume non basta la sola circostanza che essa sia vietata in tutti gli stati contraenti o in parte di essi da una disposizione legale o amministrativa.
Il riferimento a tali concetti è presente, sia pure in termini diversi, anche nell'Accordo TRlP; l'art. 27.2 dell'Accordo è frutto di un evidente compromesso tra la posizione (sostenuta da Stati Uniti, Giappone, Svizzera e paesi dell 'Europa settentrionale) di chi premeva affinché non fossero sancite eccezioni alla brevettabilità, o comunque se ne contemplasse un numero ridotto, e quella (sostenuta dall'Unione Europea e da un gruppo di paesi in via di sviluppo) di chi intendeva riaffermare il tradizionale limite dell'ordine pubblico. Ancora una volta, infatti, per gli stati membri dell'Organizzazione mondiale del commercio non si prevede un obbligo, bensì soltanto la facoltà di escludere dalle invenzioni brevettabili quelle per le quali il divieto di sfruttamento commerciale nel loro territorio sia necessario per tutelare l'ordine pubblico e il buon costume, e in particolare, per proteggere la vita o la salute dell'uomo, degli animali o delle piante, ovvero per evitare il verificarsi di un grave pregiudizio per l'ambiente.
Si riconosce, dunque, che determinate invenzioni, pur possedendo in linea di principio tutti i requisiti tecnici necessari per la concessione del brevetto, possono nondimeno essere escluse da ogni forma di protezione, in nome di valori che prescindono da una logica strettamente brevettuale. l richiamati concetti di ordine pubblico e buon costume, anche se utilizzati per una funzione diversa da quella che normalmente assolvono in materia civilistica, mantengono sempre una connotazione di vaghezza e di indeterminatezza, per cui hanno bisogno di essere riempiti di contenuto concreto in sede di interpretazione e di applicazione. A tale proposito, le Guidelines dell'UEB cercano di fornire ulteriori parametri esplicativi, trattando di concessione dei brevetti che risulterebbero inconcepibili o aberranti per il pubblico; peraltro, anche tali nozioni lasciano all'interprete ampi margini di discrezionalità. Sempre nelle Guidelines si segnala l'eventualità che alcune invenzioni possano avere più attuazioni, alcune lecite e altre no. Il limite dell'ordine pubblico è venuto in rilievo nel caso Plant Genetic Systems/Glutamine synthetase inhibitors, esaminato dalla Commissione ricorsi dell'UEB nel 1995, laddove, a seguito di un' opposizione proposta dall' associazione ecologista Greenpeace, è stato affermato che non possono essere brevettate, ai sensi dell'art. 53, letto a), della C E, le invenzioni il cui sfruttamento è suscettibile di avere seri effetti negativi sull'ambiente, sempre che la minaccia ambientale appaia sostanziale e attuale.
Clausole generali e divieti
L'attenzione posta sulle nozioni di ordine pubblico e buon costume conduce fatalmente ad affrontare le problematiche di carattere etico, che, come si è già avuto modo di accennare, occupano in questa materia un posto di assoluto rilievo. Il fatto stesso che gli istituti giuridici considerati vengano a incidere in via diretta e immediata non su oggetti inanimati, ma su organismi viventi, solleva interrogativi di non poco conto, la risposta ai quali è condizionata dai principi filosofici, morali e religiosi diffusi nelle varie società. Cerca di districarsi tra questi ardui quesiti una particolare forma di etica applicata, detta comunemente bioetica, la quale sta conoscendo un momento di particolare vitalità, sulla scia del massiccio uso delle tecnologie in campo biologico. Vengono così attratte nel fuoco della bioetica numerose tematiche che impongono di effettuare altrettante scelte 'tragiche': dalla fecondazione in vitro al trapianto di organi, dall'eutanasia all'ingegneria genetica. È chiaro che la bioetica può suggerire soluzioni agli operatori del diritto, e in particolare agli organi legislativi o di governo, che spesso si avvalgono della consulenza di esperti della materia.
Nel campo biotecnologico, a parte le posizioni più estremistiche (e in odore di oscurantismo) di chiusura a priori nei riguardi della brevettabilità del vivente in ogni sua forma e manifestazione, le questioni etiche più delicate si pongono con riferimento agli animali e, in particolare, all'essere umano. Un discorso a parte meritano le innovazioni vegetali, rispetto alle quali i maggiori problemi si appuntano, più che sulla modificazione genetica delle piante o sulla loro brevettazione, su aspetti di etica ambientale. È stato avvertito, infatti, il rischio che una incontrollata diffusione delle tecniche di manipolazione genetica in agricoltura potrebbe condurre ad aggravare lo squilibrio fra gli stati ricchi, detentori di tecnologie, e quelli in via di sviluppo, la cui principale risorsa consiste nel possedere una gran quantità di varietà vegetali spontanee. La materia è ora regolata a livello internazionale dalla Convenzione sulla biodiversità, approvata dalla Conferenza sull' ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Gli stati contraenti si sono impegnati a favorire l'accesso alle risorse genetiche per usi razionali da un punto di vista ecologico e ad agevolare l'accesso alle tecnologie necessarie per la conservazione e l'uso durevole della diversità biologica.
Le istanze etiche si traducono per lo più nel richiamo a principi di ampia portata, caratterizzati ovviamente da un intrinseco e non trascurabile margine di indeterminatezza. Di volta in volta, vengono evocati l'autoresponsabilità, la tolleranza, il rispetto della dignità umana. Con particolare riferimento a quest'ultimo fondamentale principio, si sostiene che da esso derivano non solo obblighi morali, ma anche obblighi giuridici veri e propri (Ford, 1997). Questi riguardano quantomeno i paesi aderenti alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo se non tutta la comunità internazionale, dato che la maggior parte delle disposizioni della Convenzione possono considerarsi alla stregua di norme del diritto internazionale generalmente accettate, come tali rilevanti nell'interpretazione di ciascun Trattato successivo, ai sensi della Convenzione di Vienna del 1969. Parallelamente all'enunciazione di clausole generali, si assiste all'imposizione di specifici divieti, volti a definire con maggiore precisione i limiti alla liceità dei brevetti concernenti le biotecnologie e gli organismi viventi.
Quanto alla direttiva comunitaria sulla protezione delle biotecnologie, va detto che la parte più cospicua degli ostacoli incontrati sul suo tortuoso cammino è legata proprio all'esigenza di sancire esclusioni relative a determinati procedimenti e prodotti ottenibili con le biotecnologie. L'elenco delle esclusioni si è così arricchito, arrivando a comprendere i procedimenti per la clonazione umana, i metodi che prevedono l'utilizzazione di embrioni umani, i procedimenti per la modificazione dell'identità genetica degli animali che infliggono a questi ultimi sofferenze senza alcun beneficio medico sostanziale, nonché gli animali ottenuti con tali procedimenti. Si afferma, poi, il divieto della brevettabilità del corpo umano e della semplice scoperta di uno dei suoi elementi, incluse le sequenze dei geni, lasciando spazio soltanto alla brevettazione di elementi isolati dal corpo umano o altrimenti prodotti con un processo tecnico.
Etica dell'invenzione o etica del brevetto?
Una parte non trascurabile delle preclusioni evidenziate sarebbe destinata a cadere, qualora si distinguesse tra etica del brevetto ed etica dell'innovazione tecnologica (Spada, 1996). In questa prospettiva, le questioni bioetiche relative all'intervento umano in funzione modificatrice dei procedimenti naturali sarebbero proponibili soltanto in momenti differenti da quello propriamente brevettuale. I processi di innovazione tecnologica, infatti, constano di diverse fasi la ricerca, l'applicazione tecnica dei risultati che essa consegue, la produzione imprenditoriale dei beni e servizi che sono il frutto di tali risultati, il regime della produzione - e ognuna di esse si presta a essere autonomamente vagliata dal punto di vista etico. I dubbi e gli interrogativi circa l'ammissibilità della modificazione, da parte dell'uomo, delle dinamiche biologiche non costituirebbero, dunque, questioni specifiche del brevetto biotecnologico.
Discutendo di brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche, il vero interrogativo da porsi sarebbe, allora, quello della compatibilità etica dell' attuazione dell' invenzione in regime di privativa. Una volta accettato questo regime anche in relazione alle biotecnologie, a chi è animato da preoccupazioni di carattere etico non resterebbe che appuntare l'attenzione o sulla fase a monte (attività di ricerca) ovvero, e forse prevalentemente, su quella a valle (commercializzazione e utilizzazione dell'invenzione) rispetto al brevetto. Un esempio di questo modus operandi è offerto da due direttive CEE, la n. 90/219, concernente l'impiego confmato, cioè in laboratori di ricerca e impianti industriali, di microrganismi geneticamente modificati, e la n. 90/220, concernente l'emissione deliberata nell'ambiente, sia a scopi sperimentali che commerciali, di organismi geneticamente modificati. Per quanto riguarda, in particolare, la commercializzazione di prodotti geneticamente modificati, è stata prevista una procedura piuttosto complessa per addivenire alla concessione della necessaria autorizzazione; dalla data di entrata in vigore della direttiva fino alla fine del 1996 sono state presentate sedici domande di immissione sul mercato e sette prodotti sono stati autorizzati. Si sono registrati in proposito numerosi e aspri conflitti, tra gli stati membri e tra questi e la Commissione (si pensi alla vera e propria battaglia sul mais transgenico), e altre disfunzioni, tanto che si pensa a una proposta di modifica della direttiva CEE n. 90/220. In tal senso si è mosso il Parlamento europeo con una risoluzione adottata il 15 luglio 1997, nella quale immancabilmente si invita la Commissione a introdurre paradigmi etici (oltre che economICI e sociali) nelle procedure decisionali concernenti la direttiva.
Lo scontro tra etica e mercato
Sullo scenario della brevettabilità del vivente si fronteggiano, dunque, varie concezioni che, semplificando, possono aggregarsi intorno a due poli contrapposti. Da una parte si coagulano le posizioni che, in nome di principi di ordine superiore, mirano a bloccare o almeno a limitare lo sviluppo scientifico e tecnologico nel campo delle biotecnologie e intendono, pertanto, imporre limiti stringenti, se non addirittura soffocanti, all'utilizzazione dello strumento brevettuale, scorgendovi un formidabile moltiplicatore di capitali affluenti verso la ricerca, con quanto ne discende per il miglioramento delle tecniche di ingegneria genetica in un minor tempo e con maggiore accuratezza. Sul fronte opposto si schiera il mercato, col supporto di un manipolo tutto sommato esiguo di scienziati cosiddetti puri e di qualche rappresentante delle organizzazioni che lottano contro determinate patologie. Ma il mercato, da solo o quasi, esercita una pressione fortissima. La consapevolezza di aver trovato un filone aurifero senza pari fomenta le spinte per l'abbattimento di tutte le barriere che si frappongono al pieno sfruttamento commerciale delle innovazioni biotecnologiche. D'altronde, gli scienziati puri, impegnati nei loro laboratori ad accrescere il patrimonio delle conoscenze sui meccanismi che regolano i processi biologici, hanno bisogno anch'essi del mercato per attingere i fondi occorrenti per le loro costose ricerche, specie laddove l'intervento statale è carente.
Il ruolo del giurista e i condizionamenti dell'etica
L'operatore del diritto ambirebbe a incunearsi nel mezzo di questo conflitto epocale, per tentare un'impervia opera di mediazione tra posizioni che, per le forti motivazioni che le sorreggono, rischiano di prendere con estrema facilità la china dell'estremizzazione (Alpa, 1993). Peraltro, una volta constatato che la disciplina giuridica del brevetto in effetti non pone preclusioni assolute (dovendo semmai risolvere al suo interno taluni non insormontabili problemi di coordinamento) e sempre che non si voglia contestare il fondamento stesso di tale disciplina (il che appare francamente in controtendenza rispetto all'estensione, anche geografica, operata dall'Accordo TRIP), ci si rende conto che il ruolo del giuri sta, specialmente nel contesto europeo, tende a essere marginalizzato. Non si tratta, infatti, di un conflitto tra posizioni rappresentative di interessi che necessitano di essere contemperati, in base a parametri desumibili dall'ordinamento giuridico; coloro i quali si richiamano all'etica si ispirano dichiaratamente a principi e criteri metagiuridici, che difficilmente si traducono in regole di diritto, se non in divieti. Pertanto, con la rilevante eccezione degli Stati Uniti, in cui si assiste non di rado al fenomeno della 'giuridicizzazione' delle questioni etiche, dibattute con ricchezza di argomentazioni nelle corti di ogni ordine e grado, il confronto si svolge prevalentemente sul piano della elaborazione del quadro normativo di riferimento. Proprio in questa fase fa sentire tutto il suo peso, anche attraverso i comitati istituzionalizzati, la bioetica, con il risultato che nelle legislazioni vigenti in Europa continuano a prevalere le chiusure sulle aperture. E quando il legislatore apre spiragli, più o meno consistenti, nella direzione della concessione del brevetto, la posizione dell'etica riemerge con la creazione di appositi comitati, ai quali vengono specificamente attribuite funzioni consultive del Parlamento europeo, ma che verosimilmente sembrano destinate a svolgere un ruolo di sorveglianza, per evitare che le maglie della brevettabilità si allarghino a dismisura.
Le scelte che devono effettuarsi in sede politica non si presentano affatto semplici: come può istituirsi una corretta comparazione tra proposizioni presentate come dogmi e valutazioni improntate all'analisi costi-benefici? Se, da un lato, si sostiene che l'uomo non può ergersi a creatore della materia vivente, dall'altro si ribatte interrogando si sul perché non si debbano incentivare attività che danno una concreta speranza di sconfiggere patologie incurabili con i mezzi terapeutici attualmente disponibili; basti pensare che tra i geni sequenziati nell'ambito del Progetto Genoma Umano vi sono quelli che, ove alterati, si ritengono all'origine del morbo di Alzheimer e del diabete.
Indubbiamente, possono suscitare un senso di sgomento alcune immagini evocate per descrivere i risultati della ricerca bioingegneristica (dai corpi senza testa alle schiere di individui tutti uguali) così come sembrano riaffacciarsi i fantasmi dell'eugenetica, eventualmente nella versione aggiornata dell'eugenetica di consumo (si arriverà a poter scegliere il colore degli occhi o il sesso di un nascituro?). La questione, però, si presta a essere riguardata sotto un'ottica diversa; se si pensa che gli incentivi alla manipolazione dei geni possono condurre alla messa a punto di un metodo per la produzione di un organo utilizzabile dai chirurghi in operazioni di trapianto altrimenti impossibili, il giudizio, anche dell'osservatore medio, sarebbe incline piuttosto all'approvazione che alla condanna; anzi, una simile prospettiva contribuirebbe in modo determinante a risolvere il problema etico, altrettanto drammatico, connesso alla scarsità degli organi umani trapiantabili. Eppure, ci si avvale sempre di tecniche di manipolazione del DNA, sì che stabilire quale sia il discrimine tra ciò che è assolutamente proibito e ciò che è consentito a certe condizioni rischia di essere un'operazione arbitraria ovvero il frutto di imposizioni recepite in maniera acritica.
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