La buona televisione del Duemila
Da tempo la televisione generalista ha abbassato i suoi standard linguistici e instaurato il regno dell’eccezionale. Questo principio regolatore – va in onda solo ciò che può colpire l’audience – ha ormai contaminato la nostra vita sociale, persino la politica. Si comincia a constatare come sia in atto una planetaria trasformazione dell’ideologia. Lo scrittore Milan Kundera ha chiamato questa metamorfosi imagologia: «Le ideologie facevano parte della storia, mentre il dominio dell’imagologia inizia là dove la storia finisce» (Nesmrtelnost, 1990; trad. it. L’immortalità, 1990, p. 132 ). Ogni programma, ormai, si pone al di là del bene e del male, dell’utile e dell’inutile, nel senso che non c’è più lavoro produttivo, ma soltanto lavoro riproduttivo. Non ci sono più consumi produttivi e consumi improduttivi: il tempo libero è altrettanto produttivo del lavoro, quindi riproduttivo. Ormai viviamo non più nella contemplazione estetica della riproducibilità bensì nel dominio assoluto della medesima. E allora, tanto vale abbandonarsi a un genere che è ancora in grado, nella convenzione dei generi, di farci partecipi della meraviglia che si prova nel momento in cui si incontrano le cose per la prima volta.
Adesso che alcune serie come Sex and the City, Desperate housewives, Lost, The Sopranos (I Soprano) hanno ottenuto un grande successo ‘di pubblico e di critica’, diventa più facile sostenere che la buona televisione, la tanto ricercata televisione di qualità, esiste da tempo. Anzi, non c’è mai stata una televisione tanto vitale, intelligente e ricca di risonanze metaforiche e letterarie come l’attuale. Sembra quasi un paradosso ma spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm.
Destino vuole che la cattiva televisione, la nostra quotidiana cattiva TV, generi un’orda sterminata di altrettanti cattivi discorsi su di essa: come sempre accade, la moneta falsa scaccia quella vera per convincerci della inevitabilità del trash. «La televisione è un’idra a tre teste. Una delle sue bocche riversa sullo spettatore un fiume di parole e di discorsi rozzi, assertivi, manipolatori: dalla televendita alla discussione ideologica passando per i giochi di massa, i dibattiti di società e le risse da salotto. La seconda cerca o finge di spiegare il mondo attraverso programmi d’informazione, documentari, testimonianze. La terza sussurra fiction [...] Ispirate al mondo umano, come lo sono quelle della letteratura e del cinema, (le fiction) lottano senza posa per diventare migliori, con humour e dignità. E per rendere, di rimando, il mondo migliore» (Winckler 2002, p.63).
Da quando in Italia le reti digitali hanno permesso di seguire con regolarità le serie televisive (considerate prima come un riempitivo, suscettibile di ogni alterazione in palinsesto), ci si è finalmente accorti che il telefilm è il genere che meglio d’altri rappresenta le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni. Naturalmente, la straordinarietà di molti telefilm sta nella scrittura con cui queste vicende si legano e si dipanano, si sostengono e si rilanciano nell’obbligatorietà degli appuntamenti settimanali. Sorrette, in genere, da un’ottima sceneggiatura e da un ritmo calibrato, le storie presentano quasi sempre più risvolti: uno ‘esterno’ e uno ‘interno’; uno pubblico, riguardante un tema che coinvolge la comunità, e uno più intimo. Gli americani non amano fare prediche sull’educazione civile, preferiscono mettere in scena i molti tormenti da cui sono afflitti, scelgono di renderli in questo modo casi esemplari, ricordi incancellabili, apologhi notturni.
Da alcuni anni, dalla serie cult Star Trek a X-Files, da Dawson’s creek a Six feet under, da C.S.I.: Crime Scene Investigation (C.S.I. – Scena del crimine) a NYPD – New York Police Department, da Buffy the vampire slayer (Buffy l’ammazzavampiri) a Ally McBeal, da Dr. House medical division a 24, i telefilm raccontano storie affascinanti per parlare anche d’altro: le immagini non vogliono soltanto dire quello che mostrano ma vibrano in continuazione, rimandano a un mondo dissimulato, ad alcuni significati inesauribili, a un altrove che non conosciamo. La sensazione è che nei telefilm americani si lavori per una nicchia di pubblico che sta diventando sempre più decisiva nella spartizione dell’audience, che ci si impegni per un linguaggio sciolto da ogni vincolo di obbedienza ideologica o sociale.
Il dato più significativo è questo: i telefilm sono ricolmi non solo di citazioni attinte a piene mani dalla grande letteratura, dal grande cinema, dal grande teatro, ma trasudano strutture narrative, tecniche figurative, procedimenti ‘rubati’ a modelli alti. Ripetizione, standardizzazione, ripresa, serialità: ossia tutti fenomeni che non sono tipici della televisione ma che attraversano da sempre la produzione letteraria mondiale e, se mai, rivelano ora nuove dinamiche della creatività, nuovi ritmi imposti dalla produzione industriale. È difficile che un ragazzo si accosti ancora alla grande narrativa ottocentesca, che affidi le sue pene d’amore a un libro di Stendhal, di Jane Austen, persino di Cesare Pavese, oppure che cerchi di placare le sue angosce esistenziali con Henry James o Joseph Conrad o Franz Kafka. Ma è molto probabile che lo stesso ragazzo sappia tutto di The O.C., di Beverly Hills 90210, di Dawson’s creek ed è altrettanto probabile che in queste serie trovi orme di soluzioni linguistiche tratte dagli autori appena citati (conosciuti molto bene dagli sceneggiatori). La stessa cosa accade per il cinema, per gli evergreens, per la moda. Succede insomma che l’educazione sentimentale degli adolescenti di tutto il mondo si faccia ora sui teen dramas, sui telefilm di ‘formazione’.
Un’interessante base di partenza per l’osservazione del rapporto fra giovani e televisione è costituito, appunto, dal cosiddetto teen drama, un particolare genere di fiction che è insieme messinscena del mondo dei giovani e prodotto a loro espressamente destinato. Ognuno di questi teen dramas mette in scena una generazione di adolescenti nella quale il pubblico giovane si può identificare, grazie anche al particolare meccanismo seriale della fiction americana che prevede circa 24 puntate l’anno a scansione settimanale. In questo modo, le serie coprono l’arco di quasi tutta la stagione televisiva, modellandosi sul tempo di vita del proprio pubblico: di puntata in puntata i protagonisti dei teen dramas ‘crescono’ insieme ai propri spettatori, vivono i grandi appuntamenti annuali (il Natale, i test scolastici, il ballo di fine anno), rafforzando notevolmente il senso di rispecchiamento. Il teen drama è, appunto, un drama, caratterizzato dalla scelta di un soggetto ‘serio’ che si sviluppa con puntate della durata di un’ora (comprese le interruzioni pubblicitarie) di palinsesto. Il teen drama legge con molta attenzione la dimensione giovanile, non tanto e non solo nella sfera del ‘reale’ (i sociologi che frequentano la televisione le chiamano ‘problematiche’) quanto piuttosto in quella dell’eterno confronto fra il ‘desiderabile’ e l’‘indesiderabile’. Tutta la dimensione più malferma dell’adolescenza, l’inquietudine e l’insicurezza, ma anche la frantumazione della famiglia e le difficoltà che colpiscono i protagonisti di queste storie rimbalzano continuamente dalla sponda dei desideri a quella della negazione dei medesimi, in un gioco che non obbedisce alle sole leggi della razionalità.
Oltre ad accrescere il loro livello di autoriflessività, le serie televisive degli ultimi anni si sono affermate molte volte come modelli di ‘testualità di culto’ destinati a generare ‘fandom’ (sostantivo derivato dall’unione del nome fan e del suffisso -dom, in analogia con le parole king-dom o duke-dom, a indicare una collettività di persone – i fan, appunto – uniti dal comune interesse e dalla comune passione per un qualche oggetto o fenomeno, che si tratti di un prodotto culturale, di un particolare genere, di un autore, di uno sport ecc.). A produrre cioè forme di fruizione intensa, dedicata, appassionata sino all’estremo limite dell’immedesimazione, colorate da toni affettivamente caldi, diffuse particolarmente fra i giovani spettatori delle ultime generazioni. Come già succede per altri oggetti di consumo culturale (il cinema dei cult movie, certe forme di letteratura, alcune icone della musica pop e via dicendo), anche la televisione, nella forma soprattutto del teen drama, è stata in grado di creare fenomeni ‘di culto’, una complessa forma di telefilia.
A differenza dei cult movie, che normalmente si rivolgono a gusti minoritari e a definiti gruppi d’interesse, le serie cult sono spesso programmi mainstream, frutto di consistenti investimenti produttivi, e si rivolgono sia a un tradizionale pubblico di massa sia a una base di fan consacrati al prodotto (così consacrati da dar vita a interessanti forme di feedback). Per questo alcuni telefilm di successo rappresentano anche la ‘buona letteratura’ dei nostri giorni.
Serie e serial
I telefilm organizzano la loro struttura narrativa intorno a logiche seriali, di cui Umberto Eco ha proposto due modelli fondativi: la saga e la serie. La serie (per es., C.S.I.) mette sempre in scena dei personaggi fissi e, con minime variazioni, ripete gli stessi eventi; proprio come la maggior parte dei fumetti, da Superman a Tex Willer, o come la serie delle avventure gialle di Hercule Poirot o di Miss Marple. La saga, invece, prende dei personaggi e li mette al centro di una lunga storia, poi i personaggi muoiono o scompaiono (come in Beautiful, o come nelle telenovelas brasiliane) e la storia continua con i loro figli e nipoti, cugini e cognati e così via: «in essa, a differenza della serie, i personaggi cambiano (cambiano in quanto si sostituiscono gli uni agli altri e in quanto invecchiano): ma in realtà essa ripete, in forma storicizzata, celebrando in apparenza il consumo del tempo, la stessa storia, e rivela all’analisi una fondamentale astoricità e atemporalità. Ai personaggi di Dallas accadono più o meno gli stessi eventi: lotta per la ricchezza e per il potere, vita, morte, sconfitta, vittoria, adulterio, amore, odio, invidia, illusione e delusione. Ma accadeva diversamente ai cavalieri della Tavola Rotonda, vaganti per le foreste bretoni?» (U. Eco, L’innovazione nel seriale, in U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, 1985, pp. 130-31). Ripetizione, standardizzazione, ripresa, serialità: fenomeni, tuttavia, che non sono tipici dell’epoca contemporanea dei media, ma che attraversano da sempre la produzione letteraria mondiale e, se mai, rivelano ora nuove dinamiche della creatività, nuovi ritmi imposti dalla produzione industriale. Nei telefilm-saga i personaggi nascono, si sposano, muoiono, spesso per mere ragioni contrattuali; i loro nipoti avranno gli stessi guai dei loro nonni, ma caratteri e situazioni che sembrano diversi; soprattutto c’è una crescita dei personaggi a ritmo televisivo. Nei telefilm-serie i personaggi non nascono, non muoiono, rimangono immobilizzati in un’età ideale; la loro ‘staticità’ è comunque una staticità televisiva, sono congelati eppur si muovono a venticinque fotogrammi al secondo.
Oggi si preferisce classificare i telefilm diversamente, soprattutto in base al formato, alla morfologia (episodio ‘chiuso’ o puntata ‘aperta’), alla narrativa (evoluzione cronologica o meno delle vicende e dei personaggi). È possibile perciò distinguere tra alcune grandi famiglie:
Serie. Suddivisa in episodi, cioè segmenti narrativi conchiusi senza sviluppo cronologico delle vicende, prevede un ritorno ciclico del tempo.
Serial. Suddiviso in puntate, cioè segmenti narrativi aperti con sviluppo cronologico delle vicende, prevede uno sviluppo lineare del tempo.
Miniserie (o miniserial). Suddivisa in puntate, da due a sei, prevede uno sviluppo cronologico delle vicende attraverso un percorso narrativo molto breve rispetto ad altre forme seriali e per tale ragione è definita una forma seriale debole.
Film per la TV. Storia compiuta che non presenta caratteri di serialità, la cui durata è di circa 90 minuti (al netto dei break pubblicitari), è la forma più affine al lungometraggio cinematografico.
In realtà, ognuno di questi formati seriali risulta a sua volta composto da sottoformati, che spesso compaiono in un preciso momento storico, legati come sono a esigenze produttive, al tipo di pubblico cui si rivolge il telefilm, alla complessità della narrazione che si vuole costruire. Seguendo la distinzione proposta da Milly Buonanno (2002), è possibile suddividere la serie e il serial in diverse sottofamiglie.
Lost, Desperate housewives, 24 sono tutti serial. Storicamente però il serial si è identificato con il suo sottoformato più diffuso e popolare, il continuous serial, contraddistinto dal numero elevato di puntate e dalla lunghissima durata del percorso narrativo. Il continu-ous serial è a sua volta suddiviso in due famiglie, spesso tra loro confuse, ma che si presentano distinte per la diversa temporalità della struttura narrativa o per l’area geografica produttiva. Il continuous serial chiuso, che prevede una conclusione delle vicende narrate, prende il nome di telenovela, forma seriale televisiva nata nei Paesi dell’America Latina (Messico, Cuba, Brasile, Puerto Rico). Il continuous serial aperto, che non prevede una chiusura narrativa del racconto, viene invece definito soap opera. È caratteristico degli Stati Uniti, dell’Europa (ma in Gran Bretagna viene normalmente definito real drama) e dell’Australia.
A partire dagli anni Ottanta però le differenze tra serie e serial sono diventate meno nette, ed è nata la formula che caratterizza la maggior parte dei telefilm del nuovo secolo, la serie serializzata, nella quale ogni episodio mantiene una sua autonomia con una storia conclusa (anthology plot), ma contemporaneamente presenta una continuità narrativa interepisodica e un’evoluzione cronologica attraverso alcune vicende, di solito legate alla vita personale dei personaggi, che si prolungano per più episodi (running plots). Successivamente, molte serie serializzate hanno utilizzato running plots protratti da una stagione all’altra (come in Lost) e non legati solamente alle vicende personali dei protagonisti. Il confine tra serie serializzata e serial si è fatto perciò sempre più labile, e il telefilm è stato reso più complesso proprio per il moltiplicarsi delle linee narrative e temporali (per un’analisi della serialità degli ultimi anni v. Creeber 2004 e Ndalianis 2005).
Le grandi serie
La serialità televisiva americana del nuovo secolo ha portato alle estreme conseguenze le innovazioni stilistiche e tematiche inaugurate nel corso dell’ultimo decennio del 20° secolo. Le produzioni del canale via cavo americano HBO (Home Box Office) hanno dato vita a telefilm di successo (The Sopranos, 1999-2007, di David Chase; The wire, 2002-2008, di David Simon; Six feet under, 2001-2005, di Alan Ball), caratterizzati da un’estrema complessità formale, influenzando in questo modo anche le produzioni di altri network, come dimostrano serie quali Lost (trasmesso dal 2004 e giunto nel 2009 alla quinta stagione, ABC, American Broadcasting Company) di Damon Lindelof, Jeffrey Lieber e J.J. Abrams, e Desperate housewives (trasmesso dal 2004 e giunto nel 2008 alla quinta stagione, ABC) di Marc Cherry.
Lost mette in scena uno dei topoi più esplorati dalla grande letteratura (Omero, Boccaccio, Campanella, Shakespeare, Swift) e anche dal cinema: il naufragio. In seguito a un tremendo disastro aereo, quarantotto superstiti vengono scaraventati su un’isola deserta. Ogni superstite è portatore di una storia (recuperata in flashback) che va a intrecciarsi con altre storie, generando incroci, tensioni, scontri, allegorie. E che, soprattutto, va a inserirsi in un ambiente sconosciuto, ostile, inquietante. Per riflettere su di sé, la nostra società ha bisogno di inventarsi un luogo estremo (l’isola sperduta), una metafora esistenziale (il naufragio), una condizione inusuale (la sopravvivenza). Nel racconto non c’è un attimo di tregua e ogni inquadratura è un’occasione per esaltare la sceneggiatura e la regia. Lost è anche la serie che ha ridato dignità espressiva al flashback, il più sfruttato ed esausto degli artifici retorici della fiction, e che ha osato sperimentare il racconto in flashforward, sviluppando una narrazione multitemporale estremamente complessa.
Con il suicidio di Mary Alice Young ha invece inizio Desperate housewives, vivido e ironico racconto della vita nei sobborghi residenziali, nelle linde città ‘satellite’ dove l’apparenza gioca un ruolo non solo scenografico. La morte di Mary Alice porta a galla i segreti mai confessati degli abitanti del quartiere, e quelli delle sue quattro amiche (Susan, Lynette, Gabrielle e Bree), altrettante casalinghe disperate. Ed è la stessa voce della morta a fare da guida allo spettatore, con una serie di meditati, e talvolta ironici, aforismi. L’espediente della voice over femminile, utilizzato per legare la narrazione seriale e approfondire tematiche e situazioni che si sviluppano sullo schermo, sembra d’altronde caratterizzare molti telefilm americani degli ultimi anni, da Sex and the City alla medical soap Grey’s Anatomy. Dal punto di vista registico, le scene di Desperate housewives sono solo apparentemente semplici, a favore del dialogo. In realtà vi è una cura maniacale del dettaglio, ogni gesto è misurato, ogni movimento sorvegliato. Di puntata in puntata, il telefilm raggiunge una perfezione narrativa non facilmente riscontrabile al cinema o in letteratura: i destini incrociati delle protagoniste sono tenuti insieme da una cura esasperata dei particolari, da un montaggio analogico di rara efficacia (gli stacchi sono sempre legati fra loro da un oggetto, da un gesto, da una combinazione), da citazioni colte, da una scrittura apparentemente popolare, piana, quasi da soap opera, ma riscattata continuamente dal talento del suo ideatore Marc Cherry. Il telefilm è anche un riuscito mix di genere, spazia dal melodramma alla soap, dal mistery alla commedia. Mettendo in scena storie al femminile che si evolvono di puntata in puntata, Cherry pesca a piene mani nel melodramma e nella sua versione moderna, la soap opera. Il trucco sta nel legare progressivamente i segreti delle quattro protagoniste all’altro mistero con cui si apre la serie, cioè il suicidio di Mary Alice. E in questa continua alternanza, lo spettatore vuole conoscere inizialmente il segreto della defunta, ma poi è irrimediabilmente attratto dagli altri segreti, dalle altre sottotrame che, partite in sordina, prendono poi il sopravvento.
I telefilm degli ultimi anni hanno inaugurato nuovi esperimenti di continuità narrativa, che hanno reso sempre più labile il confine tra serie e serial. Alias (2001-2006, ABC) di J.J. Abrams fa uso di una continuità interepisodica che recupera la regola del cliff-hanger (la convenzione in base alla quale l’episodio s’interrompe nel momento di massima suspense), legandola al suo significato originario, quello cioè nato nei serial movies degli anni Venti, quando ogni film finiva con l’immagine dell’eroina (nella serie l’agente Sydney Bristow) in pericolo. 24 (trasmesso dal 2001 e giunto nel 2009 alla settima stagione, Fox), di Robert Cochran e Joel Surnow, è forse il punto più avanzato della sperimentazione poiché ogni puntata/episodio rappresenta un’ora di un’unica giornata dell’agente speciale Jack Bauer, incaricato di sventare un attentato. Il telefilm è perciò composto da ventiquattro episodi per stagione, che raccontano in tempo reale (in realtà ogni episodio contrae in quarantacinque minuti l’ora canonica) le ventiquattr’ore di Bauer. Per accrescere la tensione, ogni puntata presenta una seconda storia, di carattere personale, che si insinua nelle pieghe della principale e coinvolge la vita privata dei protagonisti. L’innovazione stilistica principale della serie è proprio quella del tempo reale, come nel famoso Rope (1948; Nodo alla gola) di Alfred Hitchcock. Bauer conduce una strenua lotta contro lo scorrere dei secondi, e più procede la narrazione meno tempo gli rimane per portare a termine la propria missione. 24 è così un serial, perché non c’è chiusura dopo ogni puntata, che anzi termina sempre con un cliff-hanger. Le ventiquattro puntate sono concepite come una struttura narrativa unica e compatta, con i titoli a rappresentare le unità di tempo (per es.,᾿ 1.00 p.m.-2.00p.m., nella versione italiana Dalle 13.00 alle 14.00). 24 fonda la sua intensità su tre dinamiche linguistiche ravvivate da altrettante tecniche atte a destare l’attenzione dello spettatore: il tempo reale, la suspense e l’‘effetto multi’, che consiste nell’uso dello split screen, ossia della partizione dello schermo in più sezioni per dinamizzare la scena e istituire una sorta di montaggio parallelo. L’estrema cura stilistica che caratterizza il panorama dei telefilm del nuovo secolo ha portato alla creazione di ‘serie evento’, telefilm che tentano di stupire il pubblico, e che per via della particolarità e complessità della loro narrazione non riescono a durare più di alcune stagioni. In questo panorama, molti sono i temi controversi affrontati: la morte in Six feet under, la chirurgia plastica in Nip/Tuck (trasmesso dal 2003 e giunto nel 2008 alla quinta stagione, F/X) di Ryan Murphy, la corruzione della polizia in The shield (trasmesso dal 2002 e giunto nel 2008 alla settima stagione, F/X) di Shawn Ryan, lo spaccio d’erba tra gente per bene in Weeds (trasmesso dal 2005 e giunto nel 2008 alla quarta stagione, Showtime) di Jenji Kohan.
A questa tendenza si affianca però un ritorno alla serialità episodica classica (cfr. Buonanno 2002), legata a un consumo televisivo, soprattutto giovanile, più saltuario, non compatibile con una forte continuità narrativa: ne sono esempio il successo di Law & order (trasmesso dal 1990 e giunto nel 2008 alla diciannovesima stagione, NBC, National Broadcasting Company), di Dick Wolf, e di C.S.I.: Crime Scene Investigation (trasmesso dal 2000 e giunto nel 2008 alla nona stagione, CBS, Columbia Broadcasting System) di Ann Donahue e Anthony E. Zuiker. C.S.I. racconta le indagini dei poliziotti della scientifica di Las Vegas: ogni episodio comincia con il ritrovamento di un cadavere e, successivamente, diventa un viaggio a ritroso tra prove, supposizioni, deduzioni e ricostruzioni della scena del crimine. Dotati delle più sofisticate apparecchiature elettroniche, gli agenti della scientifica accorrono sulla scena del delitto e cominciano a scrutare ogni più piccolo dettaglio, tutto ciò che sfugge all’occhio umano. Questi detective post mortem trasformano l’indagine in una storia e il laboratorio d’analisi in un laboratorio linguistico, grazie anche a una forte idea stilistica di base. Oltre all’uso frequente di un flashback polarizzato, che si completa con il procedere delle indagini, c’è infatti un uso particolare della fotografia, che muta in continuazione, dalla luce del laboratorio, fredda e quasi inespressiva, sino a tutte le sfumature artificiali della città di Las Vegas, dove persino il sole sembra falso. Nel 2002 e nel 2004 sono stati ricavati da C.S.I. due spin-off, C.S.I Miami e C.S.I. NY (C.S.I. New York): una delle grandi novità stilistiche dei tre telefilm è quella di individuare in ogni delitto una sorta di stato d’animo ambientale. Le tre città in cui è ambientato il telefilm sono contraddistinte da una specifica fotografia e da uno stile visivo ben preciso: Las Vegas è la notte, Miami è il giorno e la sua luminosità, New York è la vivida essenza della convulsione metropolitana, con il trionfo della scala dei grigi, in una luce forte e tagliente.
I telefilm americani degli ultimi anni si sono dimostrati sempre più ansiosi di raccontare il presente, quasi spaventati di non essere anche loro in diretta, come le notizie, convinti che dare una forma all’informe dell’emergenza, specie se drammatica, sia la loro missione principale. E spesso ci sono riusciti, con intelligenza e delicatezza. Gli eventi dell’11 settembre 2001 e del terrorismo, per es., hanno fatto capolino in molte serie. Tra gli esempi più interessanti vanno ricordati l’episodio speciale di Third watch (1999-2005, CBS; Camelot – Squadra emergenza) di John Wells ed Edward Allen Bernero, che narra le vicende di pompieri, paramedici e poliziotti di New York, e Over there (2005, F/X) di Chris Gerolmo e Steven Bochco, serie dedicata alla guerra in ῾Irāq. Una riprova della capacità della fiction americana di misurarsi con l’incalzare degli avvenimenti.
Telefilm e reality
Sono in molti ormai a riconoscere ai telefilm tutta la dignità che meritano. In fondo, anche il telefilm seriale si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell’immaginario. Probabilmente, poi, è proprio la molteplicità dei generi – in un format tipicamente postmoderno com’è il telefilm (caratterizzato dal pastiche e dalla contaminazione) – a saper metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni (cfr. Del Pozzo 2002; Winckler 2002).
È il caso appunto di alcuni telefilm come The Sopranos o Six feet under (il titolo rimanda alla misura dell’interramento della cassa da morto). Di tutti gli scopi offerti all’esistenza, nessuno sfugge alla farsa (anche del potere) o all’obitorio. E tutti ci rivelano quanto siamo futili o sinistri.
I motivi per cui i telefilm meritano maggiore attenzione critica sono almeno tre. Il primo è che il telefilm cerca di mettere un po’ di ordine nel disordine del flusso televisivo. Che strumenti ha la fiction per operare un simile assetto? Ha il potere della forma, quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia, montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia. E, infatti, la fiction è una delle ultime riserve televisive dove è possibile incontrare il regista, una specie in via di estinzione. Il secondo è che il telefilm mette comunque in scena un sistema di valori cui fare riferimento. Qualcuno può storcere il naso sulla levatura artistica di alcune di queste opere. Poco importa, la fiction è sempre un punto di riferimento rispetto, per es., ai talk show o ai reality dove non c’è mai gerarchia di valori, dove una chiacchiera vale l’altra, dove si può dire tutto e il contrario di tutto. Il telefilm suscita nostalgia per un mondo nel quale, generalmente, i cattivi finiscono in prigione, l’amore trionfa, un malato guarisce anche in ospedale. In questo senso, la fiction supplisce a un bisogno di affetti. Il terzo motivo, infine, riguarda quelle strategie discorsive e comunicative che accendono le passioni non solo dei protagonisti ma anche degli spettatori di fiction. Il telefilm traccia infatti dei percorsi passionali, delle vie obbligate al sentimento, e lo spettatore viene inconsciamente preso per mano e trasferito d’incanto nella dimensione emotiva che lo risarcisce dell’aridità della vita quotidiana.
Ma perché è così difficile riconoscere al telefilm uno statuto di ‘artisticità’? Proviamo per ipotesi a supporre, anche solo per un momento, che le più deprecate forme dell’intrattenimento di massa – videogiochi, televisione spazzatura, cinema di consumo – non rappresentino la deriva morale della nostra società ma si rivelino invece utili per una crescita intellettuale: ebbene in quell’esatto momento noi ci troviamo all’interno della ‘Curva del dormiglione’, un espediente interpretativo per cercare di capire, di analizzare il mare della comunicazione dentro il quale più o meno felicemente nuotiamo.
La Curva del dormiglione è stata messa a punto da Steven Johnson in un suo libro (Everything bad is good for you, 2005; trad. it. 2006) che in tempi recenti tanto scalpore ha suscitato in America. Johnson è un ricercatore molto serio e stimato: da anni analizza il funzionamento del cervello, l’interazione uomo-macchina, le modalità di appropriazione e delle influenze sociali dello spazio digitale. Studiando il funzionamento dei videogiochi, dei programmi televisivi, di Internet, dello sviluppo delle metropoli, intreccia diverse discipline per tracciare le linee guida di una nuova scienza della complessità e dei sistemi emergenti.
Johnson, dunque, sostiene che la cattiva maestra TV, cavallo di battaglia di tutti i moralizzatori del mondo, la TV Moloch, la TV Golem, la TV Odradek, «un antro di tentazioni del non tentante», che turba così tanto i nostri sogni, è in realtà un’ottima maestra e contribuisce addirittura ad accrescere le nostre capacità intellettive.
Bisogna però subito spiegare cos’è la Curva del dormiglione. Nel film Sleeper (1973; Il dormiglione) di Woody Allen c’è una sequenza che prende di mira la scienza e la fantascienza. Risvegliatosi dopo molti anni, nel 2173, il protagonista si accorge che gli scienziati irridono la nostra società per non aver capito i benefici nutrizionali di torte di creme e merendine. Nell’ottica di una sana e corretta alimentazione, noi crediamo che le merendine siano dannose quanto la TV: fanno male. Però bastano un lungo sonno, una distanza temporale ed ermeneutica, per capovolgere tutte le convinzioni. Per decenni abbiamo agito con l’idea che la cultura di massa seguisse un percorso in costante declino verso uno standard che rappresenta un minimo comune denominatore e invece dobbiamo oggi constatare che da un punto di vista intellettuale la cultura di massa ha stimolato la nostra mente in modo nuovo e convincente e ha notevolmente accresciuto le nostre capacità intellettive.
La Curva del dormiglione è un paradosso che ci aiuta a spogliarci di molti luoghi comuni, a non addossare solo ai media le colpe di questa società. È vero, la sensazione è quella di aver consumato in questi anni una TV assolutamente priva di sfumature, capace solo di attanagliare lo spettatore con stupefazioni baracconesche, con l’esibizione di mostri, con strabilianti genericità. Ma la televisione, i telefilm e con essi i videogiochi (da Tetris a The Sims) e le mille offerte del web, offrono a un numero impressionante di persone una grande quantità di stimoli che hanno accresciuto la media del quoziente d’intelligenza. Una volta i percorsi del sapere erano una prerogativa per pochi, adesso gli stessi complessi cammini logici sono racchiusi nel più diffuso gioco elettronico.
Gli spettatori di O.C., X-Files, Dawson’s creek, Sex and the City, C.S.I., NYPD, Six feet under, The Sopranos, Buffy, Ally McBeal, Lost, Desperate housewives, The Simpsons si trovano nella fase discendente della Curva del dormiglione, non hanno più bisogno di una preparazione alla trama multipla (uno sforzo cognitivo che le generazioni precedenti non hanno mai affrontato) perché venti, trent’anni di televisione sempre più complessa hanno notevolmente affinato le capacità cognitive: «Come in quei videogame che obbligano a imparare le regole durante il gioco, parte del piacere offerto da queste narrazioni televisive moderne deriva dallo sforzo cognitivo richiesto per completare i dettagli» (S. Johnson, Everything bad is good for you, 2005; trad. it. 2006, p. 70).
Si può tranquillamente sostenere che la TV americana del nuovo secolo (e di conseguenza tutte le televisioni di area occidentale) è come spaccata in due: manifesta due anime, due specifici, giusto per usare un termine che mette ancora i brividi. Da una parte la televisione generalista, free, ha eletto il talk show e il reality suoi generi privilegiati per ‘far vedere’ la realtà. Anzi per far entrare la realtà in corto circuito con la TV (si chiede ai protagonisti, gente comune in carne e ossa, di essere come tutti ma contemporaneamente di fare audience, cioè di incarnare l’eccezione, la diversità), come se la televisione stessa fosse uno specchio ‘deformante’ del reale. Dall’altra, la pay-TV ha invece eletto il telefilm oggetto di consumo culturale (la serialità diventa lo specifico di questa altra parte del mezzo), per la sua capacità di cogliere e rappresentare l’aspetto contraddittorio della realtà, come se la televisione fosse ancora uno specchio ma ‘magico’, ‘letterario’, ‘notturno’.
In molti sostengono che il reality sia falso, che sia irreality. Forse è la cosa più sincera della televisione. È un hard discount della psicoanalisi. È una confessione in pubblico, dopo che la fatica, il clima della competizione, le ‘dinamiche di gruppo’ (come amano dire le conduttrici e i conduttori colti) hanno fatto il resto. Hanno cioè dissolto ogni remora, bruciato i freni inibitori, offuscato l’immagine dei singoli. Il gioco segreto del reality non è il diktat della trasparenza assoluta o il diritto di lasciare sentimenti, desideri, emozioni nell’ombra (questo diritto, se mai, è stato da tempo violato dai conduttori dei talk show, soprattutto da quelli che fingono comprensione), come vorrebbe certa letteratura popperiana. Il reality è la più pirandelliana delle rappresentazioni televisive: una schiera di ombre, tutte percorse dall’ansia di divenire personaggi. Il personaggio, pur del tutto diseroicizzato e ridicolizzato, viene sorpreso nel momento della sua torbida esasperata coscienza, quando realizza l’orrore del proprio apparire. Ma nel reality anche la televisione trova una seconda vita, il suo comeback. I reality rientrano così nel novero di quei rituali pubblici con cui la nostra società finge di parlarsi e mettersi in discussione ben sapendo che ormai nel ‘grande acquario della vita’ (di cui trasmissioni come Il Grande Fratello o L’isola dei famosi sono perfette metafore) anche le distinzioni risultano fluide, liquide e, dunque, tutto appare esattamente uguale al suo opposto, «autenticamente inautentico».
Il telefilm non è mai cosa di un soggetto singolo e ciononostante si nutre ancora di uno scambio simbolico, si sforza ancora di «andare all’anima delle cose», per ripetere una celebre esortazione di Gustave Flaubert. Il telefilm è sogno: sogno come luogo di premonizioni, profezie, rivelazioni fino alla più banale interpretazione freudiana di esso come strumento di scoperta dell’interiorità; sogno come tensione progettuale, sfida, utopia realizzabile. Il mestiere stesso della scrittura è sogno: è quella cosa che impone di misurarsi con la grandezza (della grandezza bisogna, infatti, conoscere l’ambizione, il respiro, l’ossessione morale) e con la capacità mitica di aprire in sé un vasto spazio dove ospitare le figure più contrastanti (aprirsi a tutte le contraddizioni e nello stesso tempo mantenere una caparbia unità). È quella cosa che fa credere che tutti i telefilm siano sogno, i pochi di qualità e i molti senza qualità, non importa se addestrati solo alle consuetudini del consumo.
Il telefilm non mira necessariamente a diventare l’undicesima musa (ammesso che il cinema sia la decima). Nella serialità esiste qualcosa di analogo alla chick-lit, alla letteratura per pollastrelle (secondo l’ironica definizione del genere, nato a metà degli anni Novanta con la pubblicazione e il successo di Bridget Jones’s diary di Helen Fielding). Ci sono magistrali esempi di chick-TV, storie da vivere senza troppi perché tecnici (la recitazione, le riprese, le comparse) ma con molte ragioni dettate dal cuore (il vecchio caro feuilleton). Senza saperlo, la chick-TV diventa un gioco, una parola d’ordine, un manuale d’istruzioni per l’uso contro la televisione che si prende troppo sul serio. Dentro quella perfetta macchina narrativa che è Beautiful si intrecciano, come tutti ben sanno, il destino dei Forrester, ricchi creatori di moda, con quello dei Logan, piccoli borghesi. Intrecciarsi, in questo caso, vuol dire più semplicemente andare a letto (e questa pulsione pare sia una delle molle che più spingono alla fedeltà lo spettatore: la fedeltà di guardare l’infedeltà degli altri) ma con un accorgimento furbescamente rigido: a letto ci si va da sposati, e dunque il divorzio e magari il secondo o terzo matrimonio con la stessa persona diventano semplici optional, espedienti narrativi. Tuttavia, ciò che Beautiful offre «ai suoi spettatori – l’offerta davvero speciale con cui procura loro i terapeutici trenta minuti quotidiani di sospensione dell’incredulità – non è […] identificabile in alcun tema dichiarato, o problematica sociale, o generazionale, quanto piuttosto in un linguaggio, in un particolare ritmo visivo-verbale. È proprio questa sua esibita vacuità di contenuti a marcare definitivamente il distacco di Beautiful dalle soap storiche, tradizionalmente più impegnate» (P. Colaiacomo, Tutto questo è Beautiful. Forme narrative della fine millennio, 1999, p. 162). È per questo che anche il sesso diventa vuoto, indifferenziato e i molti ardori che scuotono le coppie diventano oggetto di lunghi, interminabili, ossessivi dialoghi e la parola la forma principale del loro manifestarsi. Come il talk show.
Il talk e il reality acquistano senso nel continuo confronto con la grande fiction dei telefilm, danno un senso alla televisione mainstream. Come giustamente sostiene il protagonista di Troppi paradisi (2006), uno dei più bei romanzi sulla televisione italiana scritto da Walter Siti, «il vantaggio della televisione è che, non presentandosi come un’opera ma come un mezzo, se ne può sempre estrapolare un particolare anche minimo e fare perno su quello, separandolo dal resto» (p. 8).
Presenze d’autore e opere aperte
La serialità televisiva può essere forse considerata la vera espressione del nostro tempo, al centro di infiniti raggi di vincolante degnità, la via di transito dei molteplici significati che ci circondano e che spesso ci appaiono illeggibili. Il telefilm è un misto fra autorialità pura e design, fra idea e fabbrica, una miscela meravigliosa e impossibile di creatività e ripetizione, di ricalco e riscrittura. Mentre gli oggetti seriali del design raccontano di un mondo pressoché perfetto e felice dove il bello e l’utile si trovano a portata di mano, molti telefilm ci ricordano invece con delicatezza che è necessaria una buona dose d’incoscienza per dedicarsi senza riserva alcuna a chicchessia.
Se dunque la serialità è la condizione principale con cui deve fare i conti la nostra immaginazione, il telefilm è il meccanismo di racconto che meglio interpreta questo vincolo. Ci sono storie meravigliose nate per esigenze industriali, ci sono attori che entrano ed escono da una serie per motivi del tutto estranei a esigenze ‘artistiche’, ci sono trame che cambiano perché nel frattempo qualcuno (autore, attore o altro) è morto, scomparso, fuggito altrove. Nelle serie c’è il profumo dei giorni che si susseguono, tutti più o meno uguali, tutti più o meno programmati. E poi c’è questo di bello: se non si è fanatici, si può anche perdere una puntata (tanto poi la si recupera sempre), lasciare un vuoto da colmare, sottrarsi per un attimo al flusso continuo e obbligato delle storie. Si può anche decidere di non seguire più un telefilm perché delusi dal suo svolgimento, intorbidare la limpidezza della sorte prescritta, tradire la nostra felicità di spettatori seriali.
La serialità ha fatto giustizia della nozione di autore, che tanti equivoci continua invece a creare nel mondo del cinema, specialmente italiano. Fra i registi che si sono alternati dietro alla macchina da presa di una delle serie di maggior successo del nuovo secolo, C.S.I., c’è stato anche Quentin Tarantino, nella puntata doppia intitolata Grave ranger (Sepolto vivo). Il fatto che un regista cult come Tarantino sia intervenuto nella realizzazione di un prodotto televisivo ha destato interesse e l’episodio di C.S.I. ha suscitato vari tipi di riflessioni: «Si vede la mano di Tarantino; si vede poco; Tarantino è inflazionato; Tarantino si è risparmiato». A parte il fatto che la puntata è ‘bella’ come le altre, la verifica della presenza dell’autore nel grande serial americano è in realtà l’esercizio critico meno soddisfacente che si possa compiere. Una serie è grande quando è, prima di ogni altra cosa, serie; cioè macchina, intreccio, perfetta calibratura di tipi, temi e motivi. È già successo con Bonanza (1959-1973; vi lavorava Altman) e con Twin Peaks (1990-91, creato da David Lynch), il più autoriale fra i telefilm. Limitarsi a ricercare solo il Tarantino’s touch (l’impronta del regista) è credere che fra produzione narrativa in serie e produzione d’autore esista la stessa distanza che corre fra standard e originalità. Che è un assunto ovvio, ma non indiscutibile. Nell’ambito della comunicazione di massa, la serialità fornisce, da una parte, i moduli stilistici, l’ordine delle sequenze, gli schemi narrativi, lo stampo con cui un testo si offre al pubblico; ma, dall’altra, configura anche i contenuti, i valori, i modelli sociali, i percorsi passionali che un discorso assume. E l’impatto televisivo avviene preferibilmente su questo secondo versante. Tanto è vero che Tarantino ha capito benissimo, smentendo i catastrofisti, che in televisione l’orrore, i drammi, gli eccessi funzionano quando vengono piegati al Bene.
Viviamo in un’epoca nella quale il gesto creativo più eversivo, come peraltro avevano già teorizzato a suo tempo i surrealisti, consiste essenzialmente nel mettere le virgolette a un frammento strappato da chissà dove. Il telefilm esprime uno stato d’animo: manifesta la voglia di frammentare, di sconnettere, di ritagliare; rivela il desiderio iconoclasta di abbattere i miti delle sequenze compiute, dell’opera chiusa. È di sicuro il più riuscito (e forse per molti versi l’unico) esempio di opera aperta.
Bibliografia
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