La burocrazia
1. È stato il sociologo K.A. Wittfogel a suggerire (1957) l’ipotesi che l’origine remota delle burocrazie vada collocata nel mondo antico, quando si pose, in particolare nelle civiltà mesopotamiche, la necessità di un’autorità capace di organizzare la costruzione dei canali e dei sistemi di irrigazione (burocrazie «agro-manageriali» o «idriche»). In termini più generali tuttavia si può connettere la nascita della moderna burocrazia con l’affermarsi dello Stato moderno, cioè con la definitiva crisi del feudalesimo, con il superamento dell’articolazione sociale per ceti e con il consolidarsi, peraltro ancora contraddittorio, di un potere centrale, dotato di propri collaboratori amministrativi al centro e di una rete di propri emissari in periferia. Esemplare fu sotto questo profilo il caso della Francia, Paese nel quale, specialmente a partire dal 17° sec., per effetto delle politiche assolutistiche, si affermò un vasto ceto burocratico (4000 funzionari pubblici nel 1515, 25.000 nel 1610, 46.000 nel 1645), i cui esponenti più in vista dettero luogo a una «nobiltà dignitaria» che progressivamente avrebbe emarginato la tradizionale aristocrazia gentilizia. Questo nuovo ceto emergente, più radicato nelle città, tendenzialmente borghese (bourgeoisie de robe o robins) produsse anche una nuova cultura giuridica, mettendo a frutto la solida formazione umanistica ricevuta nei collegi gesuitici diffusi in tutto il territorio dalla riforma cattolica. Dal 1604 in poi questi funzionari divennero proprietari della carica, abilitati a venderla o a trasmetterla liberamente (possesso patrimoniale e vente degli uffici), ciò che ne accrebbe oggettivamente l’autonomia rispetto allo stesso sovrano. Durante i regni di Luigi XIII e soprattutto di Luigi XIV i funzionari con sicurezza d’impiego raggiunsero il ragguardevole numero di 50.000. A partire dalla seconda metà del Settecento, oltre agli apparati, nacque e si affermò il diritto amministrativo come specifico diritto dell’amministrazione. Quest’ultima, a sua volta, prima in pratica ingiudicabile alla stregua degli altri soggetti, venne adesso sottoposta a un giudice speciale diverso da quello ordinario. Con il sec. 19° il diritto amministrativo avrebbe fatto il suo ingresso come materia di studio anche nelle università. Lo Stato amministrativo di antico regime tuttavia (almeno nelle principali varianti che ne configurarono l’esperienza in Europa) non fu propriamente uno «Stato burocratico», quanto piuttosto uno «Stato giurisdizionale». Il nucleo centrale degli apparati restò, pur con diversità anche rilevanti tra i vari casi nazionali, piuttosto formato da giudici; e ai magistrati propriamente detti fu delegato di svolgere, nell’ambito del processo, funzioni oggi definibili come di amministrazione attiva, anche con emanazione di norme a contenuto regolamentare di sensibile rilevanza per i rispettivi ambiti di competenza. Il primato della jurisdictio sull’administratio fu il tratto caratteristico degli ordinamenti precostituzionali.
2. Fu piuttosto la Rivoluzione francese il grande spartiacque nella storia della burocrazia moderna. Il cambiamento coincise con la crisi definitiva dello Stato corporativo, con la nascita di un nuovo concetto di cittadinanza, con la fine delle asimmetrie istituzionali che avevano caratterizzato l’ancien régime e con la centralizzazione politico-amministrativa. In coincidenza con l’affermarsi del primato assoluto della legge, l’amministrazione, che della legge dovette da allora in poi curare la scrupolosa esecuzione, assunse un ruolo centrale. Nel continente europeo si affermò il modello organizzativo napoleonico, a sua volta tributario dei precedenti schemi gerarchici, quello militare e (per certi versi) quello ecclesiastico. Tale modello coincide con la figura della piramide, nella quale il vertice è occupato dal potere politico, che esprime il comando, e i vari gradini successivi da una sequenza di livelli organizzativi, ognuno dei quali posto in relazione di tassativa dipendenza dal livello immediatamente superiore. Nessuna autonomia è lasciata ai singoli livelli, restando tutta intera l’iniziativa amministrativa sotto la responsabilità del vertice politico. Lo schema che veniva così delineandosi corrispondeva prima di tutto, nei sistemi burocratici continentali, a un presupposto d’ordine costituzionale (parzialmente diversa fu l’evoluzione di quello inglese, ove la centralizzazione politica non si risolse nella centralizzazione amministrativa). Avendo le costituzioni liberali borghesi dell’Ottocento affermato solennemente la primazia del controllo politico sull’esecutivo, e avendo posto a baluardo di tale controllo il principio-cardine della responsabilità ministeriale, fu giocoforza che gli apparati amministrativi dipendenti dai ministri si vedessero privati di ogni, sia pur labile e residuale, capacità di produrre decisioni autonome. I «rotismi amministrativi» (così Cavour, nel 1852) avrebbero garantito, come in una macchina, il funzionamento stesso dello Stato. Derivavano da tutto ciò alcune conseguenze quasi obbligate. La prima era l’assenza, o quasi, di diritti degli impiegati, e la presenza – invece – di articolati e stringenti cataloghi di doveri. Assunti inizialmente senza regolari concorsi (solo in un secondo momento si affermò pressoché dovunque il principio concorsuale), i dipendenti delle amministrazioni ottocentesche dovevano «servire lo Stato» con assoluta dedizione, identificandosi senza soluzione di continuità con la funzione d’ufficio. Dovevano osservare, insieme alla più stretta obbedienza gerarchica, il più assoluto segreto sulle pratiche e gli affari trattati, vestire con misurato «decoro», osservare anche fuori dell’ufficio una condotta irreprensibile che in niente potesse porre in imbarazzo l’amministrazione. Il linguaggio (scritto e parlato) doveva essere modellato secondo gli stilemi (e gli stereotipi) imposti dai vademecum e dalla prassi burocratica. Un penetrante sistema di controlli (culminante nelle temutissime note segrete, redatte dai superiori all’insaputa degli impiegati) doveva assicurare la costante osservanza delle regole disciplinari ed etiche cui la burocrazia era complessivamente sottoposta. 3. Le cose cambiarono, almeno in parte, con la fine del sec. 19°. Il primo Novecento segnò quasi ovunque una crescita imponente del personale burocratico, spesso in relazione alle nuove funzioni che lo Stato veniva assumendo sul nuovo terreno dei servizi pubblici sociali. In Francia il personale della fonction publique, attestato sui 250.000 elementi intorno alla fine del secolo, oltrepassò i 500.000 nel 1914. Ma fu la Grande guerra il volano acceleratore del processo di sviluppo, specie con l’espansione delle funzioni economiche pubbliche connesse alle mobilitazioni belliche. In Gran Bretagna, dopo l’incremento delle funzioni di governo tra fine Ottocento e primi del Novecento (in particolare con la poor law), il civil service passò dai 107.782 dipendenti del 1902 ai 135.721 del 1911, ai 368.910 effettivi nel 1920. Tuttavia il modello inglese, pur non essendo affatto privo di burocrazia centrale, mantenne a lungo sue peculiari caratteristiche, in relazione al regime ivi vigente di common law. L’evoluzione costituzionale inglese pose in primo piano il ruolo del Parlamento, ben prima che si sviluppassero gli apparati amministrativi moderni; ciò diede luogo alla rigida separazione tra politica e amministrazione e alla partisan neutralità del civil service inglese. In quello stesso anno (1920), in Germania il solo personale delle ferrovie superò il milione e 100.000 unità (700.000 prima della guerra): circa 120.000 nuovi impiegati furono assunti nella sola amministrazione postale. In Italia, Paese per il quale il «decollo amministrativo» può propriamente essere collocato nel corso del primo quindicennio del Novecento, i circa 98.000 dipendenti del 1882-83 passarono a 286.670 nel 1914, anche in questo caso con un incremento in prevalenza concentrato nei grandi servizi pubblici. Dopo la guerra mondiale avrebbero raggiunto e superato i 500.000.
Un particolare rilievo ebbe, in tutti i principali Paesi europei, l’ingresso delle donne nelle pubbliche amministrazioni. Introdotte durante il conflitto mondiale, spesso in posizione precaria, come supplenti degli impiegati richiamati sotto le armi, le donne rappresentarono ovunque una importante rivoluzione di costume. In Francia questa «mutation capitale» aveva avuto luogo già nella prima decade del Novecento, specie con la diffusione della stenodattilografia, radicandosi poi nelle poste e naturalmente nell’insegnamento. Ma in Italia prima della guerra mondiale la presenza femminile si riduceva a una quota del personale delle poste (specialmente telegrafiste), dei telefoni e al ruolo separato «femminile» istituito nel 1913 nel nuovo ministero delle Colonie (mansioni tuttavia esecutive). Fu la guerra mondiale a segnare l’inversione di tendenza, sviluppando per la prima volta un impiego «al femminile» che – molto contenuto durante il fascismo (che legiferò anche per confinare le donne in determinate funzioni e impieghi marginali) – sarebbe poi cresciuto rapidamente a partire dagli anni Sessanta per imporsi in modo straripante alla fine del sec. 20°. Accanto alla femminilizzazione, la sindacalizzazione del personale rappresentò l’altro fattore di mutamento sociologico. L’associazionismo degli impiegati nacque in Francia (poi in Italia e in altri Paesi) a partire dalla fine dell’Ottocento, per svilupparsi impetuosamente nel corso del sec. 20°. Contestò l’impianto autoritario e la supremazia gerarchica, rivendicò insieme miglioramenti di stipendio e di status. Nei Paesi continentali corrispose all’istanza sindacale l’emanazione di apposite leggi di Stato giuridico, che fissarono diritti e doveri degli impiegati pubblici, mentre il nascente sistema della giustizia amministrativa garantiva i dipendenti rispetto agli abusi del potere gerarchico (spesso il giudice amministrativo dettò, giudicando in corpore vili, regole e comportamenti che il legislatore amministrativo poi avrebbe ripreso e tradotto in norma). Un ulteriore dato fu la capacità o meno delle burocrazie di configurarsi come propriamente «nazionali», cioè rappresentative dell’intera geografia politica, sociale ed economica dei rispettivi Paesi. In Italia – caso unico in Europa – si registrò per es. sin dal primo Novecento un accentuato processo di «meridionalizzazione» (provenienza degli impiegati dalle regioni meridionali e insulari), con effetti alla lunga decisivi sulla cultura della burocrazia e sul suo rapporto con lo sviluppo del Paese (un sistema amministrativo di matrice sociologica meridionale avrebbe dialogato a fatica con un sistema economico-industriale a prevalente trazione settentrionale).
Lo sviluppo degli Stati più avanzati dall’originario modello ottocentesco dello «Stato minimo» a quello novecentesco dello Stato gestore di servizi pubblici (o addirittura, come accadde in Italia, «stampella» del primo decollo industriale) generò inoltre un’ulteriore mutazione, sviluppando quasi dovunque corpi tecnici sia nei settori della finanza sia in quelli più prettamente economici, statistici, o – come si usava dire all’epoca – «industriali». Ciò accadde in modo vistoso in Francia, dove la cosiddetta administration de gestion assunse un ruolo guida; e per certi versi si verificò anche in Italia, dove tuttavia il fenomeno fu contrastato a partire dal debutto del nuovo secolo dalla concomitante «giuridificazione» della cultura burocratica, segnalata dal prevalere nei concorsi pubblici dei laureati in giurisprudenza e dalla molecolare trasformazione dell’attività degli uffici, da compiti di gestione a funzioni (prevalentemente) di controllo, e segnatamente di controllo amministrativo. Un corpo di «legisti», scrupoloso quanto spesso astratto dagli obiettivi pratici dell’azione amministrativa, conquistò nell’apparato pubblico italiano una decisiva posizione di vertice e la mantenne poi sino a tempi molto recenti.
4. L’allargamento delle competenze degli Stati favorì ovunque una trasformazione delle attività e dello stesso modo d’essere delle burocrazie. Ciò accadde nell’Europa continentale, ove accanto alla struttura burocratica tradizionale dei ministeri sorse una composita sequenza di altre organizzazioni, in prevalenza acefale, dotate di margini più meno ampi di autonomia gestionale, finanziate da risorse del bilancio pubblico e/o da risorse tratte dal mercato privato, dedite a compiti (vecchi e nuovi) di varia natura, per lo più però nell’ambito delle attività di intervento economico-finanziario-industriale. Decisivo fu, in questa vasta trasformazione, l’esempio del New Deal rooseveltiano negli Stati Uniti, con la nascita in quel Paese di istituzioni dirette a controllare l’economia. In quegli stessi anni Trenta i fascismi nell’Europa continentale, le democrazie occidentali, la stessa Gran Bretagna (a lungo caratterizzatasi per l’assenza di una regolazione autoritaria tra centro e periferia e per la centralità dei giudici nel rapporto Stato-cittadino) svilupparono fortemente nuovi apparati legati all’intervento pubblico. Nella seconda metà del Novecento, e particolarmente dopo la Seconda guerra mondiale, le burocrazie occuparono un posto di rilievo nell’ambito delle forze lavoro di tutti i Paesi economicamente avanzati, ivi compresi quelli anglosassoni (molta parte ebbero, in questa crescita, le politiche di welfare, via via adottate dai principali Paesi capitalistici al di qua e al di là dell’Atlantico). Attualmente in Francia (61 milioni di abitanti) i dipendenti pubblici sono 5,1 milioni; in Germania (81 milioni) 4 milioni e 564.000; in Spagna (46 milioni) 2 milioni e 436.000; in Gran Bretagna (61 milioni) circa 6 milioni; in Italia (60 milioni) 3 milioni e 632.000. Molto diversa è, a seconda dei casi nazionali, la distribuzione percentuale tra dipendenti dello Stato centrale, impiegati dell’amministrazione autonoma locale, dipendenti degli enti o delle agenzie. Ovunque considerevole (sebbene anche qui con significative differenze) l’incidenza della spesa per i dipendenti sul PIL.
Le politiche di controllo del deficit, e più recentemente quelle poste in essere in rapporto alla crisi finanziaria del 2009, hanno imposto in tutti i Paesi il problema della riduzione della spesa pubblica, e quindi in primo luogo quella della limitazione degli apparati burocratici. Quasi ovunque si è accompagnato a questo primo vincolo un orientamento culturale in favore di quello che è stato definito come «il paradigma manageriale» (negli Stati Uniti i principi alla base del new public management), cioè l’introduzione nei sistemi amministrativi pubblici di regole e stili di lavoro mutuati dal settore privato. Fanno parte integrante di questa linea comune almeno quattro elementi: la semplificazione delle strutture burocratiche con adozione di moduli più sciolti e autodiretti; la contrattualizzazione (detta anche «privatizzazione») del personale pubblico, cui si connette spesso una flessibilizzazione del rapporto di lavoro con le amministrazioni; l’avvento di forme neo-tayloristiche di organizzazione delle attività; una più accentuata presenza di culture e di formazioni culturali diverse da quella prettamente giuridica sin qui spesso dominante.
Basato su tali linee portanti, il processo di trasformazione è in corso, secondo dinamiche che in ogni Paese dipendono dalla storia precedente e dalle resistenze che il vecchio sistema oppone al nuovo. Gli esiti finali dipenderanno dunque da molte variabili. Tra le quali, non ultima, l’avvento di forme più intense di integrazione sovranazionale tra gli apparati dei singoli Paesi: nell’Europa unita, pur con molti ritardi, l’effetto virtuoso di questo «contagio» tra modelli spesso storicamente opposti comincia a farsi sentire.
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