Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La data del 9 novembre 1989 non indica solo il fallimento della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) nel quadro dei rapporti di forza globali, ma anche la fine della separazione della Germania in due Stati, impostale nel 1945. La caduta del muro di Berlino ha luogo alla fine della guerra fredda e apre la via a un riavvicinamento di due tipi di società che si sono progressivamente allontanate l’una dall’altra. A causa delle differenze maturate la riunificazione è un processo lungo e non manca di provocare ancora oggi problemi economici e conflitti politici e sociali.
Il muro di Berlino nel contesto della guerra fredda
I telespettatori del 9 novembre 1989 assistono a uno spettacolo insolito. Il muro di Berlino – simbolo dell’isolamento della DDR (Deutsche Demokratishe Republik) e barriera quasi insuperabile tra est e ovest – è aperto. I guardiani della Germania orientale, conosciuti per gli spari assassini su coloro che fuggono tentando di scavalcare il muro, lasciano passare una folla crescente senza grandi formalità. La folla si riversa nelle strade di Berlino Ovest, in un primo momento incredula della libertà di manovra accordatale, poi sempre più felice ed esuberante. La separazione della città – ex capitale della Germania imperiale e nazista – iniziata nel 1945 dopo la capitolazione incondizionata della Germania di Hitler e rafforzata il 13 agosto 1961 con la costruzione di un muro lungo la frontiera fra la Germania occidentale (Bundesrepublik Deutschland, BRD) e quella orientale, è finita.
Questa data storica, che somiglia a quella della presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, o alla presa del palazzo d’Inverno durante la rivoluzione bolscevica (26 ottobre 1917), deve essere interpretata su tre diversi piani: da un lato essa si colloca alla fine della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica; indica il fallimento di un modello socialista di organizzazione sociale e politica sul territorio tedesco; apre infine la via alla riunificazione della Germania.
La guerra fredda, il cui inizio risale agli anni 1946-1947, è caratterizzata da una rivalità crescente fra le due grandi potenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, che rappresentano modelli di società profondamente differenti: la prima si dà come obiettivo primario la soddisfazione dei bisogni elementari della popolazione e la sua protezione sociale, i secondi mettono la libertà di azione e di parola, di acquisto e di vendita a base di un modello sociale liberale e democratico. I due modelli fanno parte di un progetto imperialistico che oppone due volontà di grandeur e di espansione e utilizzano a seconda delle congiunture la seduzione o la forza per mantenere le loro sfere di influenza. Le due potenze imperiali dispongono ciascuna di una organizzazione militare – il Patto di Varsavia e la NATO – e di una organizzazione economica – il Comecon sovietico e l’American Market Empire. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono caratterizzati da conflitti di interesse tra le due potenze che, dopo la guerra di Corea all’inizio degli anni Cinquanta, non danno luogo a confronti militari diretti, poiché l’equilibrio della paura è mantenuto da un massiccio arsenale di dissuasione fatto di armi atomiche. Durante gli anni Settanta e Ottanta il confronto è sostituito da una politica di negoziazioni e da tentativi di trasformazione del blocco sovietico per mezzo sia del riavvicinamento diplomatico sia della penetrazione economica. Le crepe che si sono evidenziate in Cecoslovacchia nel 1968 si allargano con la liberalizzazione del regime in Ungheria e la nascita di Solidarnosc, a Danzica, un movimento operaio di opposizione nazionale e cattolico. Di fronte ai molti problemi economici e alla pressione dei diversi elementi che formano il blocco orientale, Michael Gorbacev, al potere dal 1985, inizia allora una politica di riforme chiamata glasnost e perestrojka. Nell’ambito di questa politica egli incoraggia anche alcuni cambiamenti nella DDR, politica che però non è possibile con i vecchi militanti comunisti al potere.
“Una rivoluzione pacifica”
Il 9 novembre 1989 segna anche il fallimento di uno Stato socialista in Germania. I dirigenti in carica non possono più contare sull’appoggio dell’Unione Sovietica che, ancora nel 1953, è intervenuta militarmente per proteggere la DDR in occasione di una rivolta operaia. Malgrado alcuni cambiamenti dell’ultima ora nella squadra di governo, questa non può soddisfare una popolazione sempre più scontenta delle condizioni di vita e delle restrizioni delle libertà elementari di espressione e di opinione. Migliaia di cittadini protestano in manifestazioni di piazza – Montagsdemonstrationen –, soprattutto a Lipsia, contro un regime che non autorizza la libertà di espressione e di movimento. Più queste manifestazioni si ingrossano, più si fanno frequenti, e più i partecipanti acquistano coscienza della loro forza. La parola d’ordine “noi siamo il popolo” oppone un’altra legittimità a quella del governo in carica e il 4 novembre una folla enorme si riunisce a Berlino Est nella Alexanderplatz. Allo stesso tempo cittadini della DDR si rifugiano a migliaia nelle ambasciate della Germania occidentale a Varsavia, a Budapest, a Praga e l’11 settembre l’Ungheria apre a ovest le frontiere attraverso le quali i rifugiati raggiungono la Germania occidentale. L’impotenza del governo di fronte a questi moti risulta evidente e la paura di certi osservatori che quest’ultimo – come avevano fatto i dirigenti cinesi – potesse ricorrere alle armi per reprimere la protesta si dimostra esagerata. La polizia segreta – la Stasi –, la cui capacità di spionaggio e di repressione è fortemente temuta nella DDR, diventa il bersaglio della furia popolare e i suoi uffici di Berlino vengono saccheggiati nel gennaio del 1990. Ma tutti questi avvenimenti avvengono senza uso della violenza e perciò i cambiamenti avvenuti in Germania sono considerati “una rivoluzione pacifica”. Nella storia tedesca, non molto ricca di rivoluzioni riuscite, questa esperienza è unica.
La situazione creatasi il 9 novembre 1989 avrebbe potuto svilupparsi secondo diverse direttive. Avrebbe potuto dare inizio a un processo di liberalizzazione della DDR, dove si sarebbe sperimentata una “terza via” tra comunismo e capitalismo. Questa soluzione, preconizzata da certi intellettuali, non si è realizzata poiché i moti di strada del gennaio 1990 si pronunciano per “un solo popolo” tedesco e le elezioni libere nella DDR, il 18 marzo 1990, danno la vittoria a una coalizione dominata dal Partito Democratico Cristiano che vuole la riunificazione delle due Germanie. Altre considerazioni hanno contribuito a rendere desiderabile questa soluzione. L’economia e le finanze della Germania orientale sono in totale fallimento, mentre il modello consumistico della Germania occidentale costituisce un contraltare molto attraente. Nei primi mesi dopo l’apertura del muro mezzo milione di abitanti della DDR passa a occidente e manifesta così la propria scelta. Inoltre il cancelliere della Germania Ovest, Helmut Kohl (1930-) promette alla popolazione dell’est “paesaggi fioriti” in poco tempo. Comincia così rapidamente il processo di riunificazione. È decisa l’unità monetaria, con un tasso di cambio di 1,5 marchi dell’est contro 1 marco dell’ovest, per favorire il potere d’acquisto nella Germania Est. Le condizioni della riunificazione sono state fissate in negoziati bilaterali che non mettono in discussione le leggi fondamentali della BRD – il Grundgesetz – ma le estendono semplicemente al territorio della DDR. È così che il modello occidentale di diritto pubblico e quello legislativo sono stati imposti alla popolazione dell’est, che ha visto cambiare in qualche mese non soltanto il codice della strada, ma anche quello del lavoro, l’organizzazione della burocrazia, ma anche il sistema scolastico e universitario. È richiesto un enorme sforzo di acculturazione che provoca anche moti di rigetto e sentimenti di amarezza. I politici non colgono l’occasione di rivedere, in occasione della riunificazione, anche le strutture della BRD, alcune delle quali sono giudicate antiquate già negli anni Ottanta.
Ma la riunificazione deve fare i conti anche con la politica estera. Non può aver luogo senza l’accordo delle quattro potenze firmatarie del trattato di Potsdam che prevedeva la divisione della Germania: URSS, Stati Uniti, Inghilterra e Francia. Così cominciano i negoziati cosiddetti “a due e a quattro”. Come il presidente degli Stati Uniti, anche Gorbacev ha dato molto presto il suo assenso dichiarando che la riunificazione della Germania è una questione tedesca. Per i governi inglese e francese la fiducia in un allineamento della Germania al modello occidentale è maggiore della paura che essa possa ancora sviluppare un progetto imperialistico ed egemonico in Europa. Dopo questi accordi, il 3 ottobre 1990, la riunificazione è fatta.
Una difficile riunificazione
La realizzazione del progetto di riunificazione dell’ex cancelliere Willy Brandt (1913-1992) si è comunque dimostrata più complicata del previsto. Dal punto di vista politico, le regioni dell’est, chiamate da allora in poi Neue Länders, avrebbero avuto un ventaglio di partiti politici simile a quello della Germania occidentale. Ma più il processo politico si dimostra difficile, più si formano gruppi di protesta. È così che il Partito Socialdemocratico (PDS), formato da ex comunisti, formula la sua protesta contro una politica di cambiamenti economici e sociali nella DDR e continua ancora oggi a essere largamente sostenuto dalle regioni orientali, tanto da essere rappresentato in diversi gruppi regionali. A causa dei rapidi cambiamenti strutturali, sia alcuni movimenti xenofobi, come gli skinheads, sia i neonazisti risultano attraenti per una piccola parte della popolazione, senza rappresentare in ogni caso un pericolo per il nuovo Stato. Dal punto di vista economico, le nuove regioni vivono di sovvenzioni dell’occidente, il cui ammontare si eleva ancora a cifre astronomiche. Le stime variano tra 250 miliardi e 1,5 bilioni di euro. Le sovvenzioni erano e sono ancora attualmente destinate a rimpinguare le casse pubbliche per pagare investimenti in infrastrutture, rendite e salari, ma anche per creare nuove strutture economiche. Poiché il grande problema dell’economia della Germania orientale era ed è la veloce deindustrializzazione del Paese, concentrato sull’industria pesante e sull’industria chimica, e la perdita degli sbocchi tradizionali, la disoccupazione è endemica e più elevata che nella ex BRD e la popolazione rifluisce verso ovest. Le città importanti della ex DDR – eccetto Dresda – perdevano e perdono ogni anno una parte della popolazione. È il segno più evidente di uno squilibrio all’interno della Germania riunificata, tanto più che i movimenti in senso inverso erano e sono sempre molto meno frequenti.
Tra i campi nei quali le differenze fra le due Germanie restano tangibili si possono citare non solo la secolarizzazione, ma anche il giudizio sul passato. La DDR aveva iniziato una politica sistematica di secolarizzazione facendo pressione sulle chiese – la Chiesa protestante era predominante – e offrendo riti sostitutivi, il più accettato e popolare dei quali era la comunione secolare, chiamata Jugendweihe. A causa di questa politica la distanza fra la popolazione e le confessioni cristiane era maggiore rispetto alla Germania occidentale. Le chiese – soprattutto la Chiesa protestante – ha potuto così diventare uno dei bastioni dell’opposizione al regime comunista sostenendo, soprattutto, il movimento pacifista. Ma è nel dibattito sul recente passato della DDR che le diverse sensibilità sono entrate in conflitto. Nella BRD alcuni intellettuali e politici hanno la tendenza a qualificare la DDR come una “dittatura”, a sottolineare che lo Stato interveniva nella vita quotidiana più che nella BRD. Si è parlato di una società statalizzata (la cosiddetta verstaatlichte Gesellschaft) e di una dittatura protettiva (Fürsorgediktatur). Questi dibattiti hanno provocato vive reazioni in alcuni ambienti della Germania dell’Est, a maggior ragione per il fatto che quanto più l’esperienza della DDR si allontana nel tempo, tanto più si manifesta una certa nostalgia di certi prodotti e di certi abiti. Il film del regista Wolfgang Becker Good bye, Lenin! (2003) ha espresso bene questa tendenza. Ma soprattutto, per opporsi alla sua condanna totale, è stata messa in luce l’ambivalenza dell’esperienza nella DDR. Accanto agli aspetti repressivi e negativi, si sono sottolineate le esperienze e le strutture emancipatrici: il fatto che lo Stato si prendesse cura delle famiglie offrendo giardini d’infanzia anche per i neonati, una rete di dispensari gratuiti per le cure mediche, un sistema di musei, di teatri, di orchestre e di rappresentazioni a basso prezzo a disposizione delle classi operaie, una società, insomma, più egalitaria, una certa autonomia delle donne lavoratrici e un sistema di aiuti efficace in una economia della penuria. Questo dibattito sul recente passato non è ancora chiuso e dovrebbe continuare negli anni futuri. In effetti, poiché in Germania si è discusso di molti conflitti sociali sulla base di dibattiti sul passato, ci si può aspettare nei prossimi anni una discussione vivace dalla quale non sia escluso neppure il passato della BRD.