Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Quando Maometto II, munito di un esercito sterminato e della più avanzata tecnologia dell’epoca, cinge d’assedio Costantinopoli, solo poche migliaia di difensori (stretti intorno all’imperatore Costantino XI e all’enigmatico condottiero genovese Giovanni Giustiniani Longo), male armati e trincerati dietro a mura gloriose ma vetuste, lo separano dalla vittoria. La resistenza tuttavia dura oltre un mese, e l’esito dell’assedio, per quanto a occhi moderni possa sembrare scontato, rimane incerto fino all’ultimo.
Le premesse e gli schieramenti
Quando è chiaro che il giovane e bellicoso sultano Maometto II, salito al trono da due anni, si prepara a sferrare l’attacco (dopo la fulminea edificazione di una grande fortezza sul litorale europeo, Rumeli Hissar, è fra l’altro riuscito a chiudere definitivamente il Bosforo), Costantino XI gioca anzitutto, per l’ennesima e ultima volta, l’unica carta che possa richiamare l’interesse e dunque l’aiuto militare dell’Occidente per la sopravvivenza dello Stato bizantino: nel 1452 fa annunciare a Costantinopoli l’unione delle Chiese, e il cardinale Isidoro di Kiev, giunto con 200 balestrieri e archibugieri, celebra la messa secondo il rito romano a Santa Sofia.
Nell’aprile 1453 Maometto II avanza con circa 160 mila uomini, che trovano ad attenderli, dentro le mura della città – che Giovanni VIII e Costantino XI hanno cercato per quanto possibile di restaurare –, non più di 7 mila difensori, inclusi Veneziani, Catalani e Genovesi, tra i quali spiccano il forte contingente di Giovanni Giustiniani Longo, complesso personaggio su cui la moderna storiografia deve ancora emettere la propria sentenza, in ogni caso certamente e realisticamente motivato alla difesa a oltranza della città, e un drappello di Turchi alleati dei Bizantini, sotto il comando dell’esule principe Orchan. Non facile da decrittare per gli storici neppure l’ambiguo comportamento delle autorità genovesi di Galata, il munito insediamento genovese al di là del Corno d’Oro, che per tutta la durata dell’assedio mantengono una formale neutralità ma di fatto sostengono uno spericolato doppio gioco in cui le intese coi Turchi e coi Bizantini si combinano inestricabilmente. Al di là della superiorità numerica, e lasciando da parte la virtuosistica realpolitik dei Genovesi, la vera forza di Maometto II sta nella schiacciante superiorità tecnologica. Sfruttando i servigi di ingegneri occidentali, tra cui l’ungherese (o scandinavo) Urban, si è dotato anzitutto di un notevole numero di bocche da fuoco, fra cui tre cannoni di dimensioni gigantesche (il più grande ha un diametro di oltre 80 cm).
I difensori sono invece provvisti solo di armi da fuoco leggere, poiché l’artiglieria pesante non può essere collocata sulle antiche mura teodosiane, che verrebbero danneggiate dalle vibrazioni.
L’assedio
Dal 12 al 18 aprile i Turchi bombardano senza tregua il settore centrale delle mura di terra, e la notte del 18 sferrano il primo attacco vero e proprio. Il morale di tutti i difensori è alto (si dà per certo l’intervento di una flotta di soccorso veneziana) e le loro speranze sono confortate dall’arrivo, il 20 aprile, di quattro navi cariche di armati e vettovaglie, che dopo una battaglia di tre ore riescono a non essere catturate dalla flotta turca e a riparare nel Corno d’oro, sbarrato da un’immensa catena che fino ad allora ne ha tenuti fuori i Turchi.
Non durerà tuttavia per molto: il 22 aprile una settantina di imbarcazioni ottomane, trainate per tre miglia su rulli ingrassati, sarà calata nel Corno d’oro dalla parte delle colline di Galata. Né le mura marittime né le Blacherne sono più sicure, e questo costringe i difensori a dividere ulteriormente le proprie forze. Per liberare il Corno d’oro un capitano veneziano, Jacopo Coco, concepisce l’audace piano di spingere nottetempo alcune imbarcazioni incendiarie (brulotti) nel mezzo della flotta turca. Ma a causa delle frizioni tra Veneziani e Genovesi dal momento del concepimento del piano a quello della sua esecuzione passa troppo tempo: la notte del 28 aprile i Turchi, probabilmente avvisati da spie di Galata, si fanno trovare pronti e il tentativo finisce tragicamente.
Ai primi di maggio i viveri nella città cominciano a scarseggiare. Secondo alcune fonti Maometto II avanza una proposta pro forma agli assediati (si sarebbe ritirato in cambio di 100 mila iperperi d’oro), che prevedibilmente viene respinta. Cominciando a incrinarsi la fiducia dei difensori nell’arrivo della flotta veneziana – che suscita forte inquietudine nello stato maggiore turco, specie nella sua componente più moderata capeggiata da Halil Pasha – viene inviato segretamente un gruppo veneziano “cammuffato alla turchesca” oltre i Dardanelli per avere notizie certe. Non verrà trovata traccia della flotta capitanata da Jacopo Loredan, che in quel momento non è ancora partita e che in seguito resterà ferma a Negroponte, bloccata ufficialmente da una bonaccia, in realtà dagli ordini del Senato veneziano.
Frattanto, alle quattro di mattina del 7 maggio ha inizio il secondo grande attacco alle mura, che, nonostante la disparità di forze, viene brillantemente respinto. Nei giorni successivi prosegue un intenso bombardamento (la menzione del frastuono continuo e allucinante ricorre spesso nei resoconti dei testimoni dell’assedio), ma anche l’attacco sferrato alla mezzanotte del 12 maggio finisce per fallire. Visti gli scarsi risultati ottenuti dai cannoneggiamenti e dagli assalti di massa, Maometto decide di ricorrere alla nuova tattica concepita dai suoi consulenti. A partire dal 15 maggio i minatori serbi aggregati all’esercito del sultano sono impiegati per scavare “mine” (sarebbero state sette in tutto), gallerie che corrono sotto le mura. I difensori, sotto la guida dello specialista tedesco (o anglosassone), Giovanni Grant, portato con sé da Giustiniani Longo (forse informato fin dall’inizio dall’intelligence genovese sui piani del sultano), rispondono con successo scavando contromine e distruggendo sistematicamente quelle nemiche.
Sempre in questa fase i Turchi ricorrono ad altre innovazioni tattiche. Viene per esempio utilizzata un’altissima torre d’assedio semovente, che una sortita notturna bizantina fa però esplodere, e le due rive del Corno d’oro sono congiunte con un ponte galleggiante per facilitare gli spostamenti delle truppe e fornire nuove postazioni all’artiglieria. Gli assediati, provati ma fino ad allora motivatissimi, devono fare i conti anche con una serie di omina negativi. Il 22 maggio un’eclissi parziale di luna viene vista dagli attaccanti come un presagio favorevole. Inoltre, un’antica profezia diceva che la città sarebbe caduta nella fase di luna calante – e tale la luna sarebbe stata a partire dal 24. Il 25 si decide, come già molte volte in passato in occasioni analoghe, di celebrare un grande rito per la Madre di Dio, e viene organizzata una solenne processione della veneratissima icona dell’Odighitria, conservata a San Salvatore in Chora, non lontano dalle mura. Ma nel mezzo della processione l’icona cade dalle mani dei suoi portatori, scivola nel fango da cui sono invase le strade in quel maggio insolitamente piovoso e si riesce a risollevarla solo con estremo sforzo. Lo scoppio di un violentissimo temporale provoca la completa dispersione dei partecipanti all’evento. Il giorno dopo la città si sveglia avvolta da una fittissima nebbia, e la sera alcune strane luci fluttuano sulla cupola di Santa Sofia. Non si tratta di semplice suggestione: nella primavera del 1453, come è stato recentemente dimostrato, l’atmosfera terrestre è satura delle polveri vulcaniche provenienti dall’esplosione dell’isola di Kuwae, nel Pacifico, ed è questo a causare non solo un brusco calo della temperatura a livello mondiale, ma anche gli effetti di luce, simili per certi versi ai fuochi di Sant’Elmo, visti sopra Santa Sofia. La notte stessa si verificano alcune defezioni tra gli assediati, specie tra i Veneziani.
L’attacco finale
Il 28 maggio, alla vigilia dell’attacco finale, Maometto II e Costantino XIarringano i propri uomini. Il basileus, fisicamente stremato ma deciso a capitanare la difesa delle mura nonostante la concreta e già preliminarmente contemplata possibilità di organizzare la resistenza antiturca dalla seconda capitale imperiale, Mistrà, nel Peloponneso, e le pressioni dei suoi consiglieri a lasciare la città, partecipa anche alla messa che cattolici e ortodossi celebrano insieme a Santa Sofia.
L’assalto finale inizia alle tre del mattino del 29 maggio. Due ondate di assalitori, la prima di irregolari (bashi-bazuk) muniti però di un numero impressionante di scale d’assedio, la seconda di ben disciplinati regolari anatolici, sono respinte, e anche la terza e ultima, di giannizzeri, le truppe d’élite del sultano, incontra gravissime difficoltà. A cambiare in extremis le sorti della battaglia è l’inesplicata defezione di Giovanni Giustiniani Longo, che, con ogni probabilità ferito anche se non è chiaro quanto gravemente, lascia il proprio posto per raggiungere le navi e farsi medicare. Cosa ancora più inaudita, il suo stato maggiore lo segue. L’apertura, per consentirgli il passaggio, di una delle porte che i difensori hanno chiuso a chiave dietro di sé fa spargere la voce che le mura di terra siano state violate (cosa che in realtà non è mai avvenuta). Anche in altri settori cruciali si creano così una confusione e un panico che consentono ad alcuni gruppi di giannizzeri di forzare lo sbarramento difensivo.
Costantino XI, dopo essersi strappato di dosso, secondo alcune fonti, gli emblemi del proprio rango per non farsi riconoscere, cade eroicamente nella mischia, probabilmente vicino alla porta di San Romano. Degli altri difensori, alcuni riescono a fuggire su poche navi genovesi e veneziane, altri sono fatti prigionieri, pochi (tra cui, si dice, il principe Orchan) preferiscono suicidarsi. A mezzogiorno, in mezzo al saccheggio e alla desolazione, Maometto II fa il suo ingresso in città, entra a Santa Sofia e invita i credenti alla preghiera pomeridiana.
Le reazioni e le conseguenze
La notizia della caduta di Costantinopoli, diffusasi rapidamente in Occidente, suscita un vero e proprio trauma nell’élite intellettuale ma anche politica, e si comincia a riparlare di una crociata. Nel 1456 un esercito capeggiato da Giovanni Hunyadi e dall’ispirato Giovanni da Capestrano riesce, contro ogni aspettativa, a liberare Belgrado dall’assedio turco.
Ma i due muoiono poco dopo, e la situazione torna a farsi cupa soprattutto per la Morea bizantina, spartita tra i due principi ultimogeniti sopravvissuti ma rivali Demetrio e Tommaso Paleologo. Il primo, fondamentalmente turcofilo, finirà per cedere il proprio dominio a Maometto II, ottenendone in cambio rendite e una residenza a Adrianopoli. Il secondo conta fino all’ultimo sull’aiuto occidentale, confortato anche dall’attiva volontà del nuovo papa Pio II (Enea Silvio Piccolomiri), spinto dal “cardinale orientale” Giovanni Bessarione, di radunare una nuova, grande spedizione militare nel Peloponneso. Tommaso ottiene anche qualche limitato successo contro le guarnigioni turche, ma quando, nel 1460, si muove il sultano in persona, l’ultimo despota di Morea, su consiglio di Bessarione, si imbarca nel porto veneziano di Navarino e da lì passa a Corfù e poi a Ragusa, diretto in Italia. Pio II gli assegna una pensione e un alloggio nell’Ospedale di Santo Spirito, dove muore nel 1465.