Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con il nome di Camerata fiorentina, o Camerata de’Bardi, si indica un gruppo di letterati e di musicisti che, tra il 1573 e il 1587, usano riunirsi a Firenze in casa del conte Giovanni Bardi. Per consuetudine, tale denominazione viene estesa a un altro gruppo che, dopo la partenza di Bardi per Roma nel 1592, ha come riferimento la casa di Jacopo Corsi. In questo ambito si hanno i primi esperimenti di opera in musica, e tale circostanza ha fatto sì che si parli genericamente di un’unica Camerata fiorentina e le si attribuisca l’invenzione del melodramma, che ha invece un’origine ben più complessa.
Le prime attestazioni dell’esistenza della Camerata fiorentina si trovano nella lettera che Pietro Bardi, figlio di Giovanni, scrive nel 1634 al teorico Giovanni Battista Doni e nella premessa apposta da Giulio Caccini alla partitura della sua Euridice (Firenze, 1600-1601). Nessuna di queste due testimonianze si dilunga troppo in dettagli, né sui partecipanti né sull’andamento delle riunioni; non si sa dunque quale sia il posto effettivamente assegnato alla musica nelle discussioni. La Camerata nasce comunque nel quadro più vasto delle accademie letterarie fiorentine, come quella degli Alterati e quella della Crusca, la più celebre, che ha tra i suoi aderenti anche Giovanni de’Bardi con il soprannome dell’“Incruscato”.
L’accademia fiorentina è dunque un salotto letterario, e i suoi membri sono più letterati, teorici e musici dilettanti che musicisti professionisti. La musica è d’altra parte una componente fondamentale nell’educazione del gentiluomo rinascimentale, come testimonia il Libro del Cortegiano di Baldassare Castiglione.
Principalmente teorici e letterati sono sia Vincenzo Galilei, il padre di Galileo Galilei, sia lo stesso Bardi, mentre sono musicisti Pietro Strozzi, e soprattutto Giulio Caccini, l’unico musicista di rilievo a essere presente agli incontri.
Giovanni de’ Bardi, mecenate del sodalizio, appartiene a una potente famiglia di banchieri.
Grande erudito, studioso di filologia e matematica, egli esercita un’influenza profonda sulla vita musicale fiorentina, organizzando per alcuni anni gli spettacoli di corte. Tra questi, una rilevanza particolare hanno i cosiddetti Intermedi della pellegrina, rappresentati a Firenze nel maggio 1589 in occasione delle nozze di Ferdinando I de’ Medici con Cristina di Lorena.
Gli intermezzi sono il genere centrale dello spettacolo rinascimentale: dapprima semplici inserti musicali fra gli atti di una commedia o di una tragedia, assumono via via un’importanza sempre crescente, mentre le loro dimensioni e la loro spettacolarità aumentano di pari passo.
Bardi collabora a più di uno di questi eventi: nel 1585 scrive un madrigale da eseguirsi in occasione dei festeggiamenti per Vincenzo Gonzaga ed Eleonora de’Medici; nel 1586, per le nozze di Cesare d’Este con Virginia de’Medici, viene rappresentata una sua commedia, L’amico fido, con intermedi, di uno dei quali è autore lo stesso Bardi.
Gli intermezzi del 1589 costituiscono comunque la sua apoteosi come ideatore e organizzatore.
Per La pellegrina, commedia di Giacomo Bargagli, egli progetta una complessa rappresentazione, organizzata in sei intermezzi ispirati alla filosofia platonica, e composta da venti brani polifonici, cinque sinfonie, e quattro brani monodici. Tre intermedi trattano dell’armonia del cosmo, tre invece del potere dell’armonia umana, un soggetto al centro delle discussione teorica rinascimentale. Bardi scrive personalmente il testo del brano d’apertura, “Dalle più alte sfere”, intonato da un personaggio che rappresenta l’Armonia, e la musica di un madrigale dell’intermezzo quarto “Miseri habitator”, su parole di Giovanbattista Strozzi. Il resto delle musiche sono di CristofanoMalvezzi, Luca Marenzio e Giulio Caccini. La direzione della musica e dei balli è affidata a Emilio de’Cavalieri, mentre Bernardo Buontalenti disegna le scene e i costumi.
L’allestimanto dello spettacolo è assai laborioso. Secondo la testimonianza dell’ambasciatore di Ferrara presso i Medici, Ercole Cortile, i preparativi iniziano nel febbraio 1588, quando Bardi stesso si reca a Ferrara per studiare le macchine teatrali in uso presso quella corte, e la musica è pronta nel novembre di quell’anno.
È il trionfo di Bardi, ma anche la fine della sua influenza a corte: già nel settembre 1588, il nuovo granduca Ferdinando ha nominato Emilio de’ Cavalieri soprintendente delle attività artistiche e musicali della corte, presso la quale introduce uno spiccato gusto pastorale, come testimonia la rappresentazione a Palazzo Pitti dell’Aminta di Tasso nel 1590. Cavalieri rimane estraneo al cenacolo fiorentino, anzi si configura più come rivale, e rivendica per sé l’idea di cantare tutta un’azione teatrale da cima a fondo. Anche Giovanni Battista Doni nel suo Trattato della musica scenica (1635) indica in lui l’iniziatore dell’usanza di “cantare tutte le azioni intere”, ma sottolinea che lo stile praticato da Cavalieri non ha nulla a che fare con la “buona e vera musica teatrale”, che Doni identifica con lo stile recitativo.
Il potere della musica è uno degli argomenti al centro delle discussioni della Camerata. Il principale ideologo del gruppo è Vincenzo Galilei. Compositore, studioso della musica e della teoria musicale greca (dà alle stampe due inni del musico cretese Mesomede), Galilei è anche un abile suonatore di viola e di liuto. A questo strumento dedica un importante trattato, il Fronimo (Venezia, 1568; 1584), e diverse composizioni, a scopo prevalentemente didattico. Altre sue opere sono andate perdute, e tra queste si ricordano due composizioni, il Canto del conte Ugolino e le Lamentazioni di Geremia, scritte in osservanza alle tendenze monodiche della Camerata.
Galilei è allievo di due dei più importanti teorici del Rinascimento, Gioseffo Zarlino a Venezia, e Girolamo Mei a Roma.
Quest’ultimo, con il quale intrattiene una lunga corrispondenza (1571-81), è sicuramente la personalità che influisce di più sugli orientamenti della Camerata fiorentina, pur senza farne parte direttamente. Ciò è evidente nei due testi teorici che meglio rappresentano le posizioni interne al sodalizio: il Discorso mandato... a G. Caccini sopra la musica antica e ’l cantar bene, scritto da Bardi nel 1578 ma pubblicato solo nel 1763, e il Dialogo della musica antica e della moderna di Galilei, pubblicato a Firenze nel 1581, ma scritto a partire dal 1576, il quale ha per protagonisti lo stesso Bardi e Piero Strozzi.
Alla base di entrambi i testi si trova lo stesso atteggiamento polemico nei confronti della polifonia che era già diffuso negli ambienti ecclesiastici.
In particolare si discute se la musica moderna (polifonica) sia capace di muovere l’animo umano al pari dell’antica musica greca (monodica). Bardi, e con lui Galilei, sulla scorta di quanto affermato da Mei, sostengono la sostanziale inferiorità della musica moderna, dovuta soprattutto all’impossibilità della polifonia di farsi interprete di sentimenti determinati. L’intrecciarsi di molte voci rende incomprensibili le parole e dunque fa che si perda la caratteristica peculiare della musica greca, la stretta unione tra le parole e la musica, che riveste un ruolo subordinato. Da qui la preferenza accordata alla musica monodica.
Giulio Caccini
Prefazione
Le nuove musiche
Io veramente, nei tempi che fioriva in Firenze la virtuosissima Camerata dell’Illustrissimo Signor Giovanni Barbi de’ Conti di Vernio, ove concorreva non solo gran parte della nobiltà, ma anche i primi musici et ingegnosi uomini, e poeti e filosofi della città, avendola frequentata anch’io, posso dire d’avere appreso più dai loro dotti ragionari, che in più di trent’anni non ho fatto nel contrappunto. Imperò che questi intendentissimi gentiluomini m’hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni convinto, a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando ben intendersi le parole, guasta il concetto et il verso, ora allungando et ora scorciando le sillabe per accomodarsi al contrappunto, laceramento della poesia, ma ad attenermi a quella maniera cotanto lodata da Platone et altri filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella e il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, a volere che ella possa penetrare nell’altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche. E particolarmente cantando un solo sopra qualunque strumento di corde, che non se ne intendeva parola per la moltitudine di passaggi, tanto nelle sillabe brevi quanto lunghe, et in ogni qualità di musiche, pur che per mezzo di essi fussero dalla plebe esaltati e gridati per solenni cantori.
G. Caccini, Le nuove musiche, Firenze, Marescotti, 1602
Per consuetudine la denominazione di “Camerata fiorentina” viene estesa a un altro gruppo d’intellettuali che, dopo la partenza di Bardi per Roma nel 1592, s’incontra in casa di Jacopo Corsi, e nell’ambito del quale si hanno i primi esperimenti di opera in musica.
Del gruppo di intellettuali attivi nella prima Camerata solo Giulio Caccini è attivo anche nella seconda, della quale fanno parte Cavalieri (che dalla prima si era tenuto distante), il poeta Ottavio Rinuccini, il musicista Jacopo Peri, che presto vi assume un ruolo superiore a quello di Caccini.
Dalla collaborazione di Rinuccini, Peri e Corsi nasce la prima opera in musica, la favola pastorale Dafne, rappresentata più volte tra il 1598 e il 1600 con grande successo. Di essa rimangono però solo pochi frammenti che non consentono di capire fino a che punto essa rappresentasse una reale novità.
In questi anni, l’opera in musica nasce da un complesso di fattori tra i quali ricordiamo la preferenza per il canto monodico, la tendenza a differenziare melodia e accompagnamento. Questa è evidente nella pratica di cantare i madrigali affidando a una sola voce la linea superiore, mentre le altre vengono raggruppate in forma d’accordo su un unico strumento a corde, come il liuto.
A queste tendenze generali, Jacopo Peri aggiunge il “recitar cantando”, che è una concezione della musica nata dalla volontà di ricreare la stessa mitica perfezione del rapporto tra parola e musica che c’era nella Grecia antica. La sua Euridice, la prima opera in musica che ci sia integralmente pervenuta, ancora su testo di Rinuccini, nel prologo viene definita “tragedia”. Il riferimento alla tragedia greca, dunque, è presente; ma ritenerla l’unico modello del neonato genere teatrale è un errore. E ancora più errato è attribuire a un numero ristretto di intellettuali, con personalità ben distinte, fermenti ben più diffusi e radicati nella prassi musicale del tempo.