La cancelleria ducale fra culto della "legalitas" e nuova cultura umanistica
Il 4 settembre 1362 il maggior consiglio approvò la convenzione con la quale Francesco Petrarca si impegnava a lasciare, morendo, alla chiesa di S. Marco (cioè, "per sineddoche alla repubblica veneta in generale") (1) i libri, di cui era in possesso, e sarebbe venuto in possesso in seguito, a condizione che non fossero né venduti, né dispersi, ma conservati in un luogo al sicuro dagli incendi e dalle piogge e messi a disposizione dei migliori ingegni e dei nobili di Venezia. Per l'intanto, il Petrarca avrebbe avuto assegnata "una casa non grande ma decorosa", per allogarvi i suoi libri e venirvi ad abitare egli stesso, non appena gli fosse stato possibile.
La convenzione avrebbe prodotto effetti pratici solo per l'avvio della fase transitoria. Fino al 1368 i libri e, benché non stabilmente, il Petrarca medesimo, avrebbero infatti dimorato a Venezia, nel palazzo Molin dalle due torri sulla riva degli Schiavoni. Ma, alla sua morte, la biblioteca - trasferita da Venezia non si sa bene né come né quando, né se ciò sia avvenuto previa rescissione formale dell'accordo intervenuto sei anni prima, durante i quali la Repubblica aveva onorato l'impegno preso - sarebbe finita, per testamento, "come una masserizia qualsiasi non privilegiata dinanzi alla storia più di ogni altra suppellettile", nelle mani dell'erede universale, il genero Francescuolo da Brossano. Questo non volle o non seppe impedire la dispersione di quell'autentico tesoro, sia che essa fosse "anonima e lucrativa", o che andasse parzialmente a beneficio dei da Carrara e dei Visconti, le cui "rivendicazioni [...> avevano una giustificazione nella lunga fedeltà mantenuta dal Petrarca ai loro interessi", mentre la Repubblica veneta non sembra si sia fatta avanti a reclamare la contropartita per quei sei anni di generosa ospitalità (2).
"Ciò che segue alla favorevole deliberazione del 4 settembre è [...> nient'altro che la cronaca di un'occasione mancata, che per quanto riguarda il Petrarca consente la verifica di un ritorno involutivo al concetto originario della sua condizione sociale sotto l'ala del mecenatismo signorile, mentre per quanto riguarda i veneziani permette forse di inferire una loro imperfetta risposta alla proposta di una possibile Leadership umanistica, e per quanto infine riguarda i libri destinati alla libreria pubblica ne preannuncia la prossima dispersione" (3). L'"imperfetta risposta" dei Veneziani, per riprendere la litote, era culminata nell'episodio dei quattro frequentatori della sua casa e, quindi, della sua biblioteca, che "avevano reagito con sprezzante durezza, in nome del rigore scientifico d'ispirazione aristotelico-averroistica che professavano, alla dottrina petrarchesca della centralità della problematica esistenziale nell'esperienza umanistica" (4). La ripulsa dei quattro toccò il Petrarca nel profondo, inducendolo a replicare duramente con l'invettiva De sui ipsius et multorum ignorantia (5). Ma lo spiacevolissimo episodio ebbe luogo due anni prima che si risolvesse di abbandonare la sua dimora veneziana sulla riva degli Schiavoni e, dunque, non costituì probabilmente l'occasione immediata della partenza. Gli dovette però apparire come un segnale fin troppo eloquente del fatto che la sua decisione di andare a piantare le tende in laguna non era destinata a produrre i frutti di adesione al vangelo di cui si sentiva il portatore, che si era ripromesso. Ma come era potuto accadere che avesse nutrito delle illusioni al riguardo?
A portare in porto l'operazione del trasferimento a Venezia del Petrarca e della sua biblioteca fino all'approdo finale della delibera del settembre 1362, "con un'opera di persuasione discreta e ferma esercitata presso gli organismi cui sarebbe spettata la decisione attraverso il voto", e ispirando, da ultimo, le argomentazioni, se non, addirittura, dettando la formula del "considerando" che precede la delibera stessa (6), non era stato un veneziano purosangue (ciò che va messo nel conto), bensì un chioggiotto immigrato di recente, assurto però da un decennio ai vertici dell'apparato amministrativo della Repubblica (7): Benintendi Ravignani, nato nel 1318 circa, al servizio della cancelleria ducale dal 1337, notaio veneto dal 1342, vicecancelliere dal '49 e cancellier grande dal '52. Stretto collaboratore del doge Andrea Dandolo (1343-1354), lui sì discendente da venezianissima stirpe dogale, il Ravignani si era prima associato ed era poi subentrato nel rapporto di amicizia col Petrarca che il Dandolo aveva stabilito fino da una data non precisata, ma comunque anteriore al 1349, se, scrivendo in tale anno da Parma a Luca Cristiani delle ragioni che consigliavano un suo trasferimento a Padova, il Petrarca citava anche la prossimità della miraculosa Venezia, nonché del suo doge, "insigne non meno per la virtù e per l'impegno dispiegato nelle migliori discipline che per il fatto di essere titolare di una così alta magistratura, e che non arrossì di essere anche lui del numero di coloro che, ingannati da non so quale falsa rinomanza, presero a volermi bene ancora prima di avermi visto" (8).
Ma se il Ravignani, dopo la morte del Dandolo, gli subentrò nel rapporto di corrispondenza e di amicizia che il doge defunto aveva intrattenuto col Petrarca, provvedendo altresì a dissipare retrospettivamente le nubi che aveva addensato su di esso il riaccendersi del conflitto veneto-genovese (si noti che nel maggio del 1355, già nove mesi dopo la scomparsa del doge, il Ravignani aveva firmato a Milano il trattato che poneva fine alle ostilità), va aggiunto che quest'ultimo non praticò tale subentro in termini egoisticamente personali, bensì accettò di coinvolgere in esso l'istituzione di cui era a capo. Cosicché la proposizione secondo cui il Ravignani entrò, al posto del Dandolo, nella clientela del Petrarca, va completata nel senso che, insieme con lui, vi entrarono altri esponenti della cancelleria ducale, al punto che si è potuto arrivare a dire, con una ricercata iperbole, che "a Venezia la cancelleria è per decenni quasi un feudo del Petrarca" (9). Un ridotto, anche, presidiato da notai di norma forestieri, il cui perimetro il Petrarca, intenzionato a farsi veneziano nel '62, non sarebbe riuscito, come s'è accennato, a superare, espandendosi verso l'esterno - la società civile, il patriziato -, come aveva certo auspicato venendo.
In una lettera scritta al Ravignani da Padova nove giorni prima che la votazione del maggior consiglio sancisse l'accordo intervenuto per la cessione a Venezia della sua biblioteca, il Petrarca dava per certo che, dal cielo dove si trovava, l'anima del doge amico si rallegrasse di quello che si stava preparando fra lui e il Ravignani, non nutrendo dubbi sull'esito dell'iniziativa, anzi dando la cosa per già fatta; addirittura lieto, nella sua generosità, che l'onore di dare vita a una pubblica biblioteca in Venezia fosse stato riservato al suo quarto successore (Lorenzo Celsi), "benché mi sembri che non manchi di destare meraviglia che una cosa del genere non sia potuta accadere in un'età anteriore a quella del Dandolo medesimo" (10). Il dogado di Andrea Dandolo si presentava, dunque, ai suoi occhi come lo spartiacque, a partire dal quale la nuova cultura umanistica, di cui egli era l'iniziatore, sembrava avere ottenuto pieno diritto di cittadinanza a Venezia. Ma né il Petrarca avrebbe sottoscritto tale giudizio solo sei anni più tardi; né si poteva dire che, prima del Dandolo, Venezia o, per essere più precisi, la cancelleria ducale fosse rimasta insensibile alle novità che maturavano nell'entroterra, soprattutto a Padova; né era vero che, imperante il Dandolo, il nuovo verbo petrarchesco non avesse trovato resistenza anche da parte di chi, come il doge, professava profonda amicizia e ammirazione sconfinata per il suo banditore.
"Nei primi decenni del secolo XIV, accanto al fiorire della lirica in volgare, si andò diffondendo anche a Venezia una nuova letteratura in latino, coltivata in prevalenza da giuristi, grammatici ed ecclesiastici che facevano capo alla cancelleria ducale ed erano in stretta relazione con l'ambiente umanistico padovano. I generi trattati sono ancora di tipo medievale: dal carme laudativo, alle indagini sulle origini della città, alla storia di una guerra; ma la forma diventa più elegante e si modella sempre più di frequente sui classici latini" (11). A riprova di ciò vengono comunemente addotti gli echi letterari di un fatto che suscitò grande meraviglia nei contemporanei: la nascita di tre leoncini nel porticato di palazzo Ducale da una coppia di leoni ch'era stata donata al doge Giovanni Soranzo da Federico II (o III) d'Aragona, re di Sicilia. L'avvenimento fu registrato nei Pacta, deposito ufficiale della memoria collettiva (il leone, anche se alato, era il simbolo della Repubblica), e fornì lo spunto a uno scambio poetico, vertente sull'alternativa: evento naturale o prodigio?, che vide impegnato fra gli altri in prima persona anche il cancellier grande Tanto. Per incarico del doge, egli scrisse due volte ad Albertino Mussato per indurlo a trarre un oroscopo sull'accaduto. Il padovano replicò con cinquanta distici in forma di dialogo, rifiutando di prendere in considerazione l'ipotesi che gli astri avessero potuto influire sull'insolito parto leonino. Data la levità del motivo del contendere, non sorprende che, nel corrispondere, i due trovassero anche modo di rinfacciarsi degli errori (aveva cominciato Tanto, accusando il Mussato di avere indebitamente abbreviato una vocale). Non ancora pago, alla replica di quest'ultimo il cancellier grande replicò a sua volta con due componimenti poetici, uno in giambi, l'altro in distici (12). A capo della cancelleria dal 1281, Tanto sarebbe rimasto in carica fino al 1324. Gli successe Nicolò detto Pistorino, cancellier grande fino al 1352, alla cui morte subentrò Benintendi Ravignani, vicecancelliere dal 1349, che resse la cancelleria fino al 1365, per lasciare il posto, morendo, a Raffaino de Caresini, cancellier grande fino al 1390. Dal 1281 al 1390 si succedettero, dunque, solo quattro cancellieri capo. Anche la durata dei loro mandati conferì senza dubbio a rafforzare il prestigio della carica, ch'era stata istituita nel 1261 (13). Sotto di loro, lungo l'arco dell'intero secolo XIV, la cancelleria venne a costituire, al di là dell'ambito stesso delle sue delicatissime prerogative istituzionali, un essenziale punto di riferimento della vita non solo politico-amministrativa, ma anche intellettuale, veneziana, anche se gli addetti ad essa erano in buona parte notai forestieri.
"Io, Bonincontro, benché mantovano di origine, e anche bolognese di nascita, tuttavia per parola ed opera tutto veneto e rivoaltese, notaio e officiale del signor doge e del comune di Venezia": è così che si presenta e si firma, nell'explicit, Bonincontro dei Bovi, autore della Hystoria de discordia et persecutione quam habuit Ecclesia cum imperatore Federico Barbarossa tempore Alexandri tercii summi pontificis et demum de pace facta Veneciis et habita inter eos (14). Notaio del doge in prova dal 1313, notaio effettivo della cancelleria ducale dal 1316, solo nel dicembre del 1342, nella stessa infornata del molto più giovane e brillante Benintendi Ravignani, fu proclamato notarius Veneciarum (fino allora era stato semplicemente notaio imperiale), quasi alla vigilia della conclusione di una carriera tutt'altro che rapida e fortunata. Documentato fino al 1346; era già morto nel 1348. La sua Hystoria, scritta in un latino corretto, ma pedestre e senza pretese, infarcito di citazioni bibliche, e scandita da titoletti didascalici ("Quomodo dominus papa induitur a domino duce pontificalibus vestimentis", ecc.), ricama con un evidente intento encomiastico sull'incontro effettivamente avvenuto a Venezia nell'estate del 1177 fra Alessandro III e Federico Barbarossa, che mise fine allo scisma dell'antipapa imperiale Callisto III, dopo che l'imperatore si era adattato a stipulare una tregua con il re di Sicilia e con i comuni lombardi. Da semplice sede e spettatrice sostanzialmente passiva di quello storico incontro, Venezia e il suo doge Sebastiano Ziani, nel racconto di Bonincontro, assurgevano al ruolo di mediatori, protagonisti dell'intesa intervenuta fra i due. Il romanzesco arrivo di Alessandro III sotto mentite spoglie e il suo riconoscimento da parte di uno sconosciuto venuto in pellegrinaggio alla chiesa di S. Maria della Carità, che aveva avuto occasione di vederlo più volte a Roma, nonché la pretesa vittoria navale che i Veneziani avrebbero conseguito a Punta Salvore sul figlio del Barbarossa arricchiscono la cornice narrativa di un testo, il cui fine precipuo è quello di dare conto delle concessioni di insegne, indulgenze, privilegi, con cui il papa avrebbe gratificato la città ospite: cero bianco "acceso in segno di pace e di vero amore"; spada; anello per lo sposalizio del mare; indulgenza dell'Ascensione; ombrella; trombe d'argento; otto stendardi multicolori, ecc. Un episodio che era passato, per così dire, sulla testa di Venezia, diventava in tal modo un elemento costitutivo del mito che si andava addensando intorno al volto di questa città (15). Non a caso, una versione in volgare della Hystoria verrà trascritta verso la fine del secolo nel libro primo dei Pacta (tutto ciò che atteneva ai diritti e privilegi di Venezia richiedeva di essere documentato ufficialmente) e, per chi aveva occhi solo per vedere non anche per leggere, già nel dicembre del 1319, in un'ipotizzabile connessione cronologica con la redazione della Hystoria di Bonincontro, il maggior consiglio ordinò di eseguire per conto della Repubblica alcune pitture nella chiesa di S. Nicolò di Palazzo raffiguranti la venuta di Alessandro III a Venezia per incontrarsi con Federico Barbarossa. Divisa com'era in capitoletti distinti, concernenti ciascuno il resoconto di una scena particolare e preceduti da una breve didascalia, la Hystoria di Bonincontro pare fatta apposta, ma non è detto che lo sia stata per davvero, per servire da canovaccio a chi fu incaricato di realizzare il ciclo di pitture in S. Nicolò.
Nel 1331, Castellano da Bassano, un notaio e maestro di grammatica rifugiato politico a Venezia, che aveva già datò prova di sé redigendo in collaborazione con Guizzardo da Bologna il commento all'Ecerinis di Albertino Mussato (16), riversò nel poema in esametri Venetianae pacis inter ecclesiam et imperatorem libri II (17) il contenuto della Hystoria di Bonincontro dei Bovi. Il poema, che è dedicato al doge Francesco Dandolo, non è la sola opera veneziana di Castellano, al quale viene attribuita anche una Cronica ad honorem domini ducis et comunis Veneciarum attualmente irreperibile. L'ipotesi che Castellano abbia composto il suo poema "al servizio ῾ufficioso', se non proprio ufficiale, della Repubblica" parrebbe trovare conferma nella grazia del maggior consiglio, con cui, "in aliquali remuneratione dicti sui laboris", gli si dà licenza di "fare trarre dalla Puglia mille salme di frumento da trasportare in terre di amici così come gli fosse piaciuto di fare". Un segno, se non altro, del gradimento con cui fu accolta a Venezia la nuova, meno cronachistica e più colta ed essenziale versione, riconducibile "ad un preciso ambito mussatiano", di quella che era ormai una vera e propria "leggenda di Stato" (18).
Mutatis mutandis Iacopo da Piacenza (dov'era nato nell'ultimo decennio del secolo XIII), o Piacentino, notaio della cancelleria ducale dal 1319, compì da solo nel 1339 la duplice operazione che avevano compiuto a distanza di circa un decennio Bonincontro dei Bovi e Castellano da Bassano, redigendo rispettivamente, come s'è visto, una cronaca in versi e un poema in esametri sull'episodio del 1177. Dedicatario della cronaca e del poema di Iacopo è lo stesso doge Francesco Dandolo, cui Castellano aveva dedicato il suo poema nel 1331; e, anzi, la morte del doge (31 ottobre 1339) fu probabilmente la causa per cui il poema del Piacentino rimase interrotto. Il soggetto non era, in questo caso, un episodio che si perdeva nella notte dei tempi, dando agio alla fantasia del narratore di spaziare liberamente. Era bensì un evento di bruciante attualità: la guerra veneto-scaligera, scoppiata nel 1336 e conclusasi con la stipulazione della pace il 24 gennaio di quello stesso 1339, cui Iacopo aveva preso parte come notaio ducale (19).
Gli obiettivi che questo notaio-cronista si propose di conseguire scrivendo, furono, da un lato, la riaffermazione del carattere pacifico della politica di Venezia nei confronti dell'entroterra nel momento in cui veniva annessa Treviso e, dall'altro, la difesa della linearità del comportamento veneziano contro le accuse di inadempienza che venivano rivolte all'alleata da Firenze, per non avere ottenuto il riacquisto di Lucca, come pattuito (20).
La delicatezza del soggetto e il rischio di travisamenti erano tali che Iacopo, il quale, "per quanto compete al notaio e servitore", era stato presente di persona a molti atti rilevanti compiuti a lato della guerra, sente il bisogno di dichiarare di avere scritto "sempre sotto la correzione del signor cancelliere", che era allora Nicolò Pistorino. Rispetto alla cronaca in prosa, un documento, si direbbe, più "ufficiale" che "ufficioso", il poema in esametri offrì il destro all'autore per una più libera manifestazione delle sue inclinazioni letterarie e retoriche, del suo gusto per i quadri vivaci, anche se alcuni particolari che vi si riscontrano in più della cronaca non sono affatto inventati. L'imitazione virgiliana è per altro evidente, benché non manchino italianismi e barbarismi, che rendono il testo poco chiaro. Di qui la necessità di note esplicative, che l'autore stesso non mancò di predisporre (21).
Solo per completezza di esposizione conviene aggiungere che nel 1340 Iacopo fu processato. Il cronista fededegno che fa mostra di essere, durante la guerra, e subito dopo nel corso delle trattative di pace, aveva preso soldi da tutti (300 ducati d'oro dal solo Mastino della Scala, più una cintura del valore di 20 ducati), in particolare da quanti esigevano la liquidazione di crediti che vantavano nei confronti della Repubblica. Se la cavò con un'ammenda di 200 ducati più la perdita dell'ufficio. Continuò però a fare il notaio e, salvo che non si tratti di un'omonimia, si diede all'insegnamento. Se era la stessa persona del "rector scolarum S. Tome in contrata S. Pantaleonis", il nostro Iacopo finì i suoi giorni accoltellato durante una rissa scoppiata per futili motivi (22).
Nato nel 1306, nel 1328, a soli ventidue anni, Andrea Dandolo fu eletto procuratore di S. Marco. Quando, quindici anni dopo, ai primi di gennaio del 1343 (Bartolomeo Gradenigo era morto il 28 dicembre), il Dandolo, sempre precoce, sarà eletto inaspettatamente doge, il cronista padovano Guglielmo Cortusi, dopo avere annotato che gli elettori non riuscirono a mettersi d'accordo su un candidato annosus, di età, sembrerebbe voler dire, confacente alla carica, quasi a giustificazione della scelta così insolita ch'era stata compiuta, aggiungeva che il prescelto era legali scientia decoratus (23). La preparazione giuridica del Dandolo e il suo vivo interesse per la sfera del diritto positivo - o "justixia legal, [...> la qual se conten en leçe et en statuti" scritti (24) - anche in mancanza di questo riscontro esterno, sarebbero sufficientemente documentati dalle opere che portano il suo nome. Incerti rimangono però il luogo, se la stessa Venezia o la vicina Padova, dove il futuro doge ha potuto coltivare questa sua vocazione, e il modo in cui l'interesse per il diritto ha potuto coesistere, nei brevi anni che preludono alla sua nomina a procuratore, con gli interessi di diversa natura - la poesia, la filosofia, i viaggi - che un altro osservatore esterno, in questo caso addirittura Francesco Petrarca, gli attribuirà o, meglio, gli rinfaccerà, accusandolo di averli in seguito colpevolmente trascurati e traditi. Con l'aggravante che questa seconda vocazione umanistica del Dandolo, in via di principio accordabilissima con la prima - la formula "formazione giuridica più cultura letteraria" è la cifra che caratterizza il cenacolo dei preumanisti padovani - non ha lasciato dietro di sé tracce scritte di sorta, che so io: un'epistola metrica, che consentano di valutarne la portata, di là del giudizio tutt'altro che spassionato del Petrarca.
Da procuratore, il Dandolo ebbe affidata la sorveglianza delle tutele e dell'esecuzione dei testamenti. Inoltre, in collaborazione col collega Marco Loredan, il primo novembre 1336 diede avvio alla compilazione di un inventario dei redditi della chiesa di S. Marco (25) -un'opera che, ispirata all'ovvio intendimento di evitare la dispersione di quei beni, prelude ad altre sue consimili iniziative di respiro molto maggiore. E, sempre da procuratore, redasse la prima delle opere veramente sue, assumendone la paternità nel proemio ("[...> proposui ego Andreas Dandulo, procurator ecclesie Santi Marci [...>"): la Summula statutorum floridorum Veneciarum, tuttora inedita (26). In essa il Dandolo, come si legge nel breve proemio, raccolse da più volumi, nei quali giacevano separate le une dalle altre, distribuendole - sotto convenienti titoli e capitoli, in tre libri concernenti l'ordinamento giudiziario, i contratti e i testamenti (27) - diverse deliberazioni prese in tempi diversi nel maggior consiglio, che, mancando gli statuti corrispettivi, si sapeva che li sostituivano, poiché la loro autorità era tale che si presentavano come aggiunte e interpretazioni degli statuti e toglievano valore ad ogni consuetudine approvata, e nessuno avrebbe potuto esimersi dall'osservarle con la scusa di non conoscerle.
L'illustrazione del contenuto, del carattere e del valore delle statuizioni contenute nella Summula è preceduta da un esordio in cui si dice che leggi e statuti servono a ricondurre le "inclinazioni nocive" sotto la norma del diritto, da cui il genere umano è educato a vivere virtuosamente, a non danneggiare il prossimo e ad accordare a ciascuno il proprio diritto. L'ultima frase è una citazione testuale dal Digesto (1.1.10.1), ma non di prima mano; appare bensì ripresa con la frase che la precede immediatamente, dalla "Rex pacificus", con cui il 5 settembre 1234 Gregorio IX aveva trasmesso a dottori e scolari bolognesi le sue Decretales (28). È questo un primo segnale - altri, ancora più evidenti, seguiranno - della coloritura prevalentemente canonistica della formazione giuridica del Dandolo.
Sulla Summula, sul suo "avvio, progresso e compimento", è, infine, invocato l'aiuto di Dio, in mancanza del quale non si può fare niente di buono e di conveniente. Questa invocazione, insieme con la rivendicazione della paternità letteraria ("oh hoc ego Andreas Dandulo proposui"), si ritrovano con qualche piccola differenza nelle poche righe di proemio alla Chronica brevis, che è l'altra opera cui il Dandolo attese negli anni in cui era procuratore di S. Marco. In essa, sub brevi compendio (e summatim), è narrato "l'inizio della provincia di Venezia, e il suo accrescimento, e come sotto i dogi, una volta istituiti, furono fatte cose memorabili". La prima parte del proemio della Brevis ("Cum Deus omnipotens, a quo omnia subsistencia sumpserunt inicium") e l'indicazione delle fonti, di cui l'autore si è servito (tradizione orale e annali), ricalcano invece, salvo qualche lieve modifica, i passi corrispondenti del proemio della Historia ducum. A meno che quest'opera, come è stato sostenuto, non sia stata redatta nel secolo XIII, ma sia addirittura posteriore alla Chronica brevis del Dandolo, dalla quale in parte dipenderebbe (29).
Le riscontrate coincidenze testuali fra i proemi della Summula e della Chronica brevis (30) fanno presumere che le due opere, pur appartenendo a generi diversi, siano uscite dalla medesima officina, che non è ovviamente lo scrittoio privato del Dandolo, ma l'ufficio in cui prestava servizio, o gli uffici, in genere, della Repubblica, a cominciare dalla cancelleria ducale. Anche se, sempre nel proemio della Chronica brevis, si accenna al beneficio che i Veneziani contemporanei e quelli che sarebbero venuti in futuro avrebbero potuto trarre dalla conoscenza delle cose passate, è infatti evidente che questa operina (ventidue pagine della ristampa muratoriana!) si presenta come un raccourci di storia veneziana, che poteva riuscire utile proprio alla gestione degli affari correnti, consentendo di accedere a dati non reperibili con facilità e indispensabili per ricostruire i precedenti di una pratica.
Un mese e pochi giorni dopo essere stato eletto doge, il Dandolo - che, alla morte del Gradenigo, altra prova della fama di esperto del diritto che lo circondava, era stato nominato fra i cinque correttori della Promissione ducale, che il caso volle sarebbe stato poi egli stesso a fare propria (31) - nominò una commissione di cinque savi perché provvedessero alla riforma degli statuti che il doge Iacopo Tiepolo aveva pubblicati nel 1242 (32). Il lavoro fu portato a termine nel novembre del 1345. Ai cinque libri degli statuti del Tiepolo ne veniva aggiunto uno nuovo, che, non senza una buona ragione, ma certo non inavvertitamente, fu intitolato Liber sextus, come quello che Bonifacio VIII aveva aggiunto alle Decretali, anch'esse in cinque libri, di Gregorio IX. Evidentemente non pago della casuale coincidenza del titolo, il Dandolo premise alla compilazione da lui promossa una prefazione che, costellata in apparenza di notazioni personali, ripete in realtà pedissequamente concetti e intere frasi della bolla "Sacrosanctae", con cui, il 3 marzo 1298, Bonifacio VIII aveva inviato il suo Liber sextus ai dottori e agli scolari di Bologna e di altri Studi universitari (33).
Le "costanti cure" da cui si sentiva incalzato il doge dal momento in cui era stato innalzato a tale ufficio incalzavano a suo tempo anche Bonifacio VIII, il quale, al pari del Dandolo, non cessava dal riflettere sui modi più acconci con cui provvedere agli interessi dei sudditi, nella prosperità dei quali risiedeva specialmente la sua prosperità, in conformità al servizio di amministrazione che gli era stato affidato. Comuni ad entrambi sono anche le "fatiche volontarie" affrontate per la tranquillità dei sudditi, le "notti insonni" trascorse, al fine di rimuovere gli scandali e di reprimere, "vuoi con la chiarificazione di antiche leggi, vuoi con l'emanazione di nuove", le inedite forme di liti che la natura umana escogitava quotidianamente.
Dopo l'opera, "tanto provvida quanto utile", prodotta dal predecessore di ciascuno dei due (il volumen decretalium di Gregorio IX, per Bonifacio VIII, e i vera statutorum nostrorum volumina di Iacopo Tiepolo, per il Dandolo), altri più prossimi predecessori di entrambi avevano emanato nuove norme, sulla cui validità insorgevano però di continuo dubbi in sede giudiziaria (e, secondo il solo Bonifacio, anche scolastica). Proprio per eliminare queste "ambiguità", fonti di grave danno, prima Bonifacio e ora, nel suo solco, il Dandolo, avendo presente la "pubblica utilità", avevano incaricato, rispettivamente, un arcivescovo, un vescovo e il vicecancelliere della Chiesa romana, e cinque viri nobiles, tutti procuratori di S. Marco, di prendere in esame quelle nuove norme, per scartare le superflue ed eliminare le incertezze che gravavano sulle rimanenti, apportandovi le necessarie correzioni, in modo che venissero a costituire un insieme coerente di statuizioni, disposte sotto i titoli e nelle rubriche confacenti - un volumen, che avrebbe avuto piena validità in iudiciis et extra (34).
Le somiglianze fra i due testi sono davvero sorprendenti (ci troviamo di fronte a un caso singolare di "riuso", visto che parlare di "plagio" sarebbe fuori di luogo). Ci arrestiamo qui nel rilevarle, adducendo da ultimo una dissomiglianza e un'ulteriore coincidenza. Laddove Bonifacio, manifestando la volontà che il nuovo libro di decretali fosse chiamato "sesto", sottolinea il fatto che il sei è un "numero perfetto", il Dandolo, che pure manifesta con parole pressoché identiche la stessa volontà, lascia cadere la notazione numerologica; egli riprende invece pari pari, da buon veneziano, la motivazione di carattere economico che Bonifacio prospetta a giustificazione della scelta di essersi limitato ad aggiungere un nuovo libro ai cinque già esistenti, che non per questo diventavano obsoleti: si trattava di evitare che le copie di questi ultimi che erano in circolazione venissero distrutte e sostituite dispendiosamente con volumi nuovi.
Di suo, rispetto alla bolla bonifaciana, il doge veneziano aggiunge qualche considerazione sulla caducità di ogni normativa, in conseguenza dell'usura esercitata su di essa dal tempo, per la "variabilità della natura umana". "Dio stesso", chiosava, "non poche delle cose che aveva stabilito nel Vecchio Testamento, le mutò nel Nuovo". Salvo l'esemplificazione, la sostanza di queste considerazioni sull'inevitabilità di un adeguamento del diritto alle "novae causarum emergentium quaestiones" la ritroviamo però ancora una volta in un testo canonistico: la bolla, che comincia appunto con le parole appena citate, con cui il 21 gennaio 1226 Onorio III aveva inviato al magister Tancredi, arcidiacono della Chiesa di Bologna, la Quinta compilatio (35). Ne esce così pienamente confermata la già ipotizzata accentuazione canonistica della formazione giuridica del Dandolo.
Treviso era veneziana dal 1339, ma cinque anni dopo, nel 1344, non era stato ancora messo nero su bianco: "fino allora i Veneziani non avevano avuto altro diritto sopra Trivigi, se non quello di conquista, e un buon padrone desiderava di aver anche quello di una volontaria dedizione" (36). Il ritardo era stato dovuto non tanto a trascuratezza veneziana quanto allo "stato comatoso" in cui versavano le istituzioni comunali di Treviso (37). Il Dandolo, che aveva la religione dello scritto, si adoperò con successo perché la grave carenza venisse sanata. Una pergamena in più veniva così ad arricchire il già cospicuo patrimonio della Repubblica di cui egli era il vigile custode.
Nell'agosto del 1345, l'ennesima rivolta di Zara costituì per il Dandolo la prima prova veramente seria che abbia dovuto affrontare da doge. Il 15 dicembre dell'anno dopo gli ambasciatori di Zara si presentavano a Venezia per negoziare la resa. La prova felicemente superata ebbe significativi echi letterari nella cerchia della cancelleria ducale.
La declamazione in prosa De laude Venetorum, composta in occasione del riacquisto di Zara nel 1346, apre la raccolta delle Epistulae LVII eiusdem poete et aliorum, contenuta nella seconda edizione delle opere del Petrarca (il poeta è ovviamente lui), che sembrerebbe derivare da un "libro di cancelleria" ricavato a Venezia, per fornire una serie di modelli al personale di questa, dalle antologie di lettere del Petrarca medesimo possedute dal Ravignani (in primo luogo) e da Paolo de Bernardo, due dei principali esponenti, come abbiamo visto e come vedremo, della clientela veneziana del poeta. Autore della declamazione fu probabilmente Benintendi Ravignani, che già da nove anni prestava servizio nella cancelleria (38).
Inoltre, un manoscritto Marciano ci ha tramandato un racconto in prosa della guerra per Zara, la Cronica Jadretina seu historia obsidionis Jaderae anno MCCCXLVI, introdotta da un'invocazione in versi alla Madonna e seguita da una exclamatio, breve compendio in trentacinque esametri della cronaca; dal testo della Submissio civitatis Iadre et districtus domino Duci et Comuni Venetiarum, atto che fu rogato dal Ravignani, il cui nome però qui non compare; e da altri dodici versi sempre in lode della Madonna (39). Cronaca in prosa e compendio in versi: ci troviamo in presenza, ancora una volta, della duplice memorizzazione dello stesso fausto evento, come era stato per la venuta del papa a Venezia nel 1177 e per la vittoria nella guerra antiscaligera nel 1339. Mentre la trascrizione, di seguito al resoconto in prosa e alla celebrazione in versi della riconquista di Zara, del testo della Submissio anticipa o, più probabilmente, accompagna l'associazione di racconto dei fatti e di documentazione specifica in cui consiste, come vedremo, la novità della formula adottata da Andrea Dandolo nella Chronica per extensum descripta.
La somiglianza fra alcuni passi della Cronica Jadretina, tuttora inedita, e brani paralleli del De laude Venetorum, nonché la mancanza, nel codice Marciano, del nome del rogatario in calce all'atto di resa, interpretata come ostacolo volutamente frapposto all'identificazione dell'autore, hanno indotto ad attribuire la cronaca allo stesso Ravignani (40). Ma un confronto fra la Cronica Jadretina e il racconto, di taglio analogo, della guerra di Chioggia (1378-1381), che costituisce il nucleo originario, nettamente separato dal resto anche dopo essere stato rifuso in un'opera di maggior respiro, della Chronica di Raffaino de Caresini (41), spinge piuttosto ad attribuire il racconto della guerra di Zara a quest'altro esponente della cancelleria ducale (era nato nel 1314; vi lavorava almeno dal 1344; sarà chiamato a succedere al Ravignani nel 1365), che aveva rogato l'atto di istituzione procuratoria dell'incaricato di ricevere la resa degli Zaratini in nome del doge. Accomuna i due testi il gusto delle citazioni, prevalentemente bibliche, ma tratte anche da autori antichi e della tarda antichità, come Vegezio e Cassiodoro, e, benché il concetto della necessaria rispondenza del successo delle armi alla bontà della causa per cui ci si batteva fosse tutt'altro che originale nella cerchia della cancelleria ducale, colpisce lo stesso il preciso riscontro che il "brevi ostendam quis iustius induit arma" della Chronica del Caresini ha nell'"hodie probabitur quis iustius sumpserit arma" della Cronica Jadretina (42). Questo che sarà infatti il motivo dominante delle dichiarazioni di principio prodotte dalla cancelleria veneziana dopo la ripresa, nel 1350, della guerra con Genova, è già largamente presente nella Jadretina: "Il dominio ducale, che in ogni caso non combatte per altre ragioni se non per conseguire il bene della pace, considerando che, benché l'esito di una guerra sia per definizione incerto, tuttavia quella che sia intrapresa per una giusta causa, se condotta come si deve, raramente va a finire male, ha disposto, il giorno 4 del mese di agosto del suddetto anno 1345, di procedere con la forza contro gli stessi Zaratini come richiedeva la loro malvagità" (43). La consapevolezza dell'esistenza oggettiva e, se possibile, documentabile e documentata, del buon diritto di Venezia nella controversia legata al possesso di Zara andava, insomma, accompagnata alla certezza di un esito favorevole della prova di forza affrontata per fare valere tale diritto, salvo la riserva prudenziale concernente la condotta delle operazioni ("si sua ratione geratur"). Nel caso di Zara, per l'intanto, il buon diritto di Venezia, che il re di Ungheria, alleato degli Zaratini ribelli, si era ostinato a contestare, mentre "chi si vale del suo diritto non arreca ingiuria a chicchessia" e finisce con l'avere la meglio (44), aveva, prima, prevalso sul campo, sotto le mura di Zara, il primo luglio 1346, quando si era visto "chi aveva più giustamente preso le armi", e poi ottenuto una consacrazione definitiva, documentata, nel testo della Submissio (45).
In un anno imprecisato, successivo ma non troppo al 1345, Andrea Dandolo scrisse la prefazione al Liber albus e al Liber blancus (46), due libri iurium (o copiari, o cartulari), nei quali, valendosi certamente della collaborazione degli addetti alla cancelleria ducale (47), aveva raccolto "i privilegi, le giurisdizioni e i patti della nostra santissima città procurati onorevolmente in diversi tempi passati dai nostri predecessori e da noi stessi", concernenti, rispettivamente, i rapporti politici e commerciali con gli stati d'Oriente (Impero, Siria, Armenia e Cipro), a partire dal secolo XI, e con gli stati italiani (Lombardia, Toscana, Romagna, Marca Anconitana e Sicilia). Il tempo che aveva dedicato a questa nuova compilazione, che - ricordava - faceva seguito al Liber sextus, opera "non meno utile che lodevole", era quel poco che la cura degli affari dello stato gli lasciava disponibile per "la quiete e l'ozio": anche questo poco intendeva infatti spenderlo in "pubbliche utilità". Datosi alla ricerca di quei documenti aveva trovato che essi "vagavano [il verbo ricorre anche nella "Rex pacificus" di Gregorio IX> in sedi incerte o, per meglio dire, improprie", dispersi in molti volumi (prova che il lavoro di ricerca non era stato esteso agli originali, ma si era limitato ai copiari già esistenti), senza alcun riguardo per il loro contenuto, la loro localizzazione geografica, la loro cronologia. Ciò ne rendeva difficilissima e quasi impossibile la consultazione. A quel disordine si era posto riparo, introducendo un opportuno ordinamento per materia, per luoghi, e cronologico, così che l'accesso ai documenti, la quesitorum inventio, la cercabilità, erano oltremodo facilitati. Seguivano una serie di considerazioni finali, che, dopo l'invito rivolto ai sudditi ad accogliere questo nuovo frutto della fatica del loro signore, culminavano nell'affermazione che suo intento era quello di "riuscire a giovare alle genti che ci sono state affidate per volontà divina e per le quali principalmente siamo nati, piuttosto che a comandarle" ("ut [...> prodesse [...> quam preesse pocius valeamus").
Queste due parti, per così dire, dispositiva e finale della prefazione erano precedute da un lungo cappello nel quale era sintetizzato il programma di governo del Dandolo: "deformata reformare, corrigenda corrigere et indirecta dirigere", e soprattutto enunciato l'ideale che lo ispirava, consistente nell'"ordine nella gestione degli affari" ("ordinem in agilibus"), venerato costantemente come un "oracolo divino". È l'"Ordine", che, "risplendendo sulla terra come lampada fulgidissima", mette armonia fra tutte le cose, facendo in modo che ognuna sia al posto che le compete. (A riprova, il Dandolo cita il verso 92 dell'Ars poetica di Orazio: "singula quaeque locum teneant sortita decentem", detto in riferimento alla necessaria distinzione fra i generi letterari). "A che infatti gioverebbe avere trovato una nobile materia, se non fosse rivestita in una nobile forma? che diletto offrirebbe la solennità delle invenzioni, se si annerisse per la deformità di un ordine sconvolto? Niente, in verità, vediamo avere accresciuto Cicerone e gli altri - che le supreme virtù che varranno in eterno, ricordano - più dello scrupolosissimo rispetto dell'ordine delle cose da fare e della retta distribuzione di quelle da dire".
Se non manca di sorprendere che un ideale di governo sia dedotto dai precetti della retorica scolastica tradizionale, sorprende ancora di più che l'autorità dell'Ars poetica e di Cicerone siano invocate per introdurre due libri iurium, due raccolte di bene ordinati documenti. "Ordo in agilibus", "recta distributio dicendorum" e la corretta classificazione di documenti d'archivio prima dispersi, diventano aspetti particolari, ma correlati fra loro, di un Ordine universale che rispecchia un oracolo divino. È poco probabile che il Petrarca abbia mai posto gli occhi su questa pagina del Dandolo. Se lo avesse fatto, le illusioni che nutriva su di lui sarebbero state messe fino da quel momento a dura prova, ancora prima che sopravvenissero altri motivi di sconcerto. Quanto all'attività della cancelleria, dove il Liber albus e il Liber blancus erano stati prodotti, le parole del doge la collocavano implicitamente, senza bisogno di menzionarla, al centro della vita della Repubblica.
La seconda parte del dogado del Dandolo (1350-1354) coincise con il riacutizzarsi del conflitto con Genova, sopito in seguito all'accordo del 1342 e non riaccesosi prima del 1350 anche per gli effetti disastrosi della peste del '48, tanto più funesti per Venezia, dove la tradizionale sequenza carestia-epidemia fu intramezzata da un terremoto (48). Nell'estate del '50 prevalse in laguna il partito della guerra e il primo scontro navale si ebbe nel settembre di tale anno (battaglia di Castro). Tra l'inverno e la primavera del '51, quando le ostilità non erano ancora riprese, da Padova, dove si trovava, Francesco Petrarca indirizzò una lunga lettera (49) al Dandolo, del quale - come s'è visto - tre anni prima aveva affermato di sapere che gli si era affezionato anche prima di averlo incontrato (50). Dicendo di scrivere a titolo personale e affermando di rivolgersi al doge di Venezia solo perché era con lui in un rapporto di familiarità e la di lui humanitas gli suggeriva di farlo - ma il suo messaggio intendeva valere anche per il doge di Genova -, il Petrarca, ricorrendo a frequenti citazioni dei classici e argomentando nei termini della sua filosofia morale cristiana, invitava i contendenti, "due luci d'Italia", a deporre le armi, perché non c'era niente al mondo di migliore della pace e di peggiore della guerra, soprattutto di quella combattuta sul mare, e tra fratelli. Poiché i duellanti erano entrambi di grandissimo valore, sarebbe stata una follia "sperare in una vittoria incruenta su un nemico così agguerrito", e un delitto ricercare alleanze esterne, consentendo ai "barbari" di rimettere piede in casa nostra (nel gennaio i Veneziani avevano stipulato un patto con gli Aragonesi).
Fra le righe della lettera, destinata alla pubblicità, il Petrarca ne insinuava una seconda, questa sì indirizzata al Dandolo in persona, con la quale si proponeva di esercitare una pressione psicologica sul suo interlocutore, richiamando i suoi trascorsi, la sua originaria vocazione poetica e filosofica, del tutto difforme e contrastante rispetto al suo impegno attuale di uomo di stato, coinvolto in una guerra sciagurata: "Non posso non avere compassione per la tua indole; avverto infatti la differenza che intercorre fra il frastuono delle armi e la quiete pieria [la Pieria e il monte Piero erano le sedi delle Muse> e quanto fievolmente risuoni fra le trombe di Marte la cetra di Apollo". Al punto in cui si era, sarebbe stato impossibile - il Petrarca non aveva difficoltà ad ammetterlo - che il Dandolo tornasse ad abitare sull'Elicona. Ma, armato com'era, doveva pensare alla pace, amare la pace e persuadersi che non poteva procurare alla sua patria trionfi più luminosi, bottini più pingui di quanto non lo fosse la pace medesima. Egli, che aveva frequentato i filosofi (altro richiamo ai trascorsi giovanili), sapeva bene che cosa dobbiamo alla virtù, che cosa alla gloria: ma la sola gloria, cui poteva aspirare, era quella, non smagliante ma dapprincipio addirittura oscura e impopolare, del "temporeggiatore".
Nella risposta del 22 maggio (51) - che è una delle Epistulae LVII eiusdem poete et aliorum, presentata, nel codice della Biblioteca dei Domenicani di Vienna e in altri testimoni, come "redatta dal cancelliere Benintendi per conto del doge" (in realtà, nel '51 il Ravignani era ancora vicecancelliere) - il Dandolo si limita a replicare sul punto della guerra e della pace, sorvolando sugli apprezzamenti di carattere personale che gli erano stati rivolti. All'inizio e alla fine della lettera, un caldo riconoscimento per la missiva "promessa e a lungo desiderata" e l'auspicio che altri invii seguissero il più di frequente possibile, esprimevano l'interesse vivissimo, di carattere professionale, che, indipendentemente dal contenuto delle lettere, che poteva essere anche spiacevole, si nutriva in cancelleria per quei modelli di stile epistolare: a corrispondere col Petrarca c'era solo da imparare! Questo per la forma. Quanto alla sostanza, ci troviamo di fronte a una cortese, ma netta, fin de non-recevoir. Stando alla legge divina e ai filosofi, che erano le autorità cui si richiamava anche il Petrarca, il proseguimento della guerra da parte veneziana avrebbe dovuto essere approvato e non condannato, e auspicato un suo esito favorevole, se c'era una razionalità nelle cose ed esisteva una provvidenza. Altrimenti, si sarebbe continuato ad assistere allo spettacolo scandaloso del giusto che, non solo non è premiato, ma è addirittura calpestato dall'ingiusto. Contro la tesi della pace a tutti i costi, veniva così riaffermata quella secondo cui Venezia non poteva fare a meno di battersi per affermare il proprio buon diritto. Com'era stato nel caso della rivolta di Zara, una volta ammessa l'esistenza di esso, attestata dalle pergamene conservate negli archivi della Repubblica, la guerra che si sarebbe combattuta per farlo valere era una guerra giusta, che, di necessità, sarebbe stata anche una guerra vittoriosa.
In un'altra lettera al Petrarca, che purtroppo non si è conservata, alla quale questo rispose da Vaucluse il 26 febbraio 1352 (52) - riferendone in parte le argomentazioni,
per confutarle - il Dandolo sembrerebbe avere completato la replica del 22 maggio '51 per quanto atteneva al punto che lo concerneva personalmente. Lo aveva fatto, contrattaccando su un punto al quale il suo interlocutore era, a sua volta, molto sensibile: quello della abitudine di spostarsi di continuo da un luogo all'altro, "girovagando per di qua e per di là", senza mettere mai radici da nessuna parte. Era un modo di vivere che evidentemente destava la meraviglia di chi aveva fatto voto di stabilità, pronunciando la promissione ducale - una circostanza, questa, che allontana ogni sospetto di esercitazione retorica da uno scambio epistolare intorno a un tema che avrà grande fortuna nella corrispondenza fra umanisti. Ma il Petrarca, da parte sua, nell'imbastire la "discolpa del continuo muoversi" (è l'intestazione della lettera), ebbe buon gioco nel ricordare che il Dandolo, prima di accettare di rinchiudersi volontariamente, quando era diventato doge anzitempo ("ante annos") nelle "magnifiche, ma eterne, carceri", in cui ora era costretto, un giorno era stato un "girovago" anche lui, curioso di "molti luoghi e cose".
Si completa così il ritratto del Dandolo prima che diventasse doge e, si direbbe, prima che diventasse procuratore di S. Marco, consegnato esclusivamente - come s'è già avuto occasione di notare - a questi brevi cenni di due lettere del Petrarca. È un ritratto che, benché deformato ad arte per ovvi motivi polemici, contrasta comunque fortemente con quello ricavabile dalle testimonianze che abbiamo esaminato fin qui e, in genere, con quanto sappiamo per altra via che non sia quella del Petrarca medesimo, mentre rende ragione della familiarità che in passato si era stabilita fra il doge e il poeta e, ad un tempo, della delusione che quest'ultimo provava nel trovarsi di fronte un uomo così diverso da quello che aveva immaginato che fosse.
Il 5 dicembre 1352 Benintendi Ravignani, dal primo luglio precedente cancellier grande, con una lettera indirizzata ai "Consiliarii civitatis Venetiarurn, nec non Universitati civitatis eiusdem" (53), annunciò che il doge Andrea Dandolo stava attendendo alla stesura di una cronaca (54). Non che l'opera fosse terminata e, quindi, pronta per essere resa di pubblico dominio, cioè "pubblicata". Il Ravignani voleva solo fare sapere a tutti che era in gestazione una cronaca finalmente degna del passato, e del presente, della città, e che ad essa attendeva il doge in persona. "Mi sono spesso domandato [scriveva il Ravignani> quale fosse la causa di una così grande penuria di scrittori, che aveva fatto sì che finora il ricordo di quanti avevano creato e governato la Repubblica giacesse sepolto, trovando insopportabile che si sia tollerato tanto facilmente che coloro, grazie ai quali viviamo, fossero rimossi da noi". Il fatto di vedere caduti nell'oblio i loro predecessori rischiava oltretutto di provocare un effetto di dissuasione dal bene operare per la patria nei reggitori veneziani di oggi e di domani. Al grave inconveniente che costoro non avessero su di che fondare la legittima aspettativa di essere, un giorno, degnamente ricordati anche loro, stava appunto ponendo riparo il Dandolo, che naturalmente non aveva pensato a sé, ma al bene comune, senza trascurare per questo la cura degli affari correnti dello stato, mangiando e bevendo lo strettamente necessario e rubando ore al sonno (un motivo trito, come s'è visto).
All'elogio del doge, ricalcato nella parte finale sul ritratto liviano di Annibale (XXI, 4) (55), faceva riscontro una descrizione del contenuto della cronaca, ripresa almeno in parte alla lettera dalla praefatio dello stesso Livio: oltre che alle guerre esterne e ai conflitti domestici, il Dandolo, rifacendosi alle origini della città, narrava in essa "qui [...> mores fuerint et quae vita, per quos viros quibusque artibus civitatis imperium auctum sit". Se la lettera di presentazione, con tutto il suo corredo di loci communes sulla storia, non necessariamente classici, si fermasse qui, e non avessimo il testo della cronaca, saremmo autorizzati a pensare che l'opera cui stava attendendo il Dandolo non doveva essere molto dissimile dal maggior prodotto storiografico del preumanesimo padovano, la Historia Augusta di Albertino Mussato. Ma il testo della cronaca lo abbiamo, ed è tutt'altra cosa dal suo presunto prototipo; per di più, la lettera stessa compie, a un certo punto, una svolta, che ci porta inaspettatamente in una direzione diversa da quella seguita fino a questo momento. Dopo avere suggerito ai Veneziani, a mo' di conclusione, che avevano tutto da guadagnare, per se stessi e per la Repubblica, se il Dandolo fosse sopravvissuto a tutti loro (uno strano auspicio il suo, forse spiegabile col fatto che il Ravignani voleva semplicemente augurare una lunga vita al doge, già sofferente della malattia che, meno di due anni dopo, lo avrebbe ucciso), il cancellier grande, come se riaprisse il discorso, rendeva noto che il Dandolo, impegnato, oltre che in tutto il resto, anche nel conservare ed estendere gli iura et honores patriae, essendosi dato ad indagare sulle origini dell'investitura che i prelati ricevevano dal doge, sulla base della consultazione di antichi documenti era arrivato alla conclusione che questa prerogativa, insieme ad altre concernenti l'elezione e la conferma dei prelati medesimi e il giuramento di fedeltà che erano tenuti a prestare nelle sue mani, risaliva a un'antica consuetudine. Era stato solo al tempo del doge Pietro Polani (1130-1148) che il patriarca di Grado, Enrico Dandolo, in occasione dell'elezione della badessa di S. Zaccaria, si era opposto alla pretesa del Polani di valersi di quella tradizionale prerogativa, volendo così rivendicare la libertas ecclesiae. Ne era nato un aspro conflitto, combattuto senza risparmio di colpi da una parte e dall'altra, durante il pontificato di ben quattro papi. Solo quando al Polani era subentrato Domenico Morosini, era stato possibile raggiungere, nel 1149, un compromesso fra doge e patriarca. Orbene, il testo di questo compromesso, di cui, insieme a molte altre cose, era stato generosamente informato dal Dandolo, il Ravignani, "per fare in modo che non rimanga nascosto né a voi né ai vostri posteri, tutti egualmente interessati alla cosa", aveva deciso che venisse portato a conoscenza dei destinatari della lettera e reso così di pubblica ragione, "affinché, annusando fino da adesso la fragranza del profumo che si sprigiona dalle fatiche del vostro doge, possiate giudicare con esattezza quanto ricchi siano i frutti che avete ricevuto da lui fin qui e riceverete, a Dio piacendo, in futuro". E alla data della lettera faceva infatti seguito il testo del documento: "Forma rescripti talis est".
La Chronica per extensum descripta è infarcita di documenti, riportati integralmente o in regesto, che non stonano con lo stile cancelleresco-notarile, per nulla liviano, in cui risulta redatta. Che però il Ravignani, dovendo presentarne uno specimen, non abbia scelto un passo particolarmente significativo della cronaca stessa, ma abbia preferito riportare nel suo tenore originale uno dei documenti destinati a confluire in essa (56), sta a provare che la convinzione, espressa nella prima parte della lettera, circa la funzione di educazione civile in genere, che andava riconosciuta alla grande cronaca in gestazione nello scrittoio dogale (57), si fondava soprattutto sull'assunto che la storia della città si era svolta nel segno della legalitas e che la costante presenza di questa si era sedimentata nella produzione di documenti scritti, che la solerzia di un doge, ad un tempo archivista e cronista, procurava di scovare fuori e di contestualizzare.
Il diploma che Ottone III concesse a Venezia il 19 luglio 992 è uno dei documenti, concernenti i rapporti della città con i governi della penisola, trascritti nel Liber blancus. Nell'arenga del diploma, Ottone dava atto della "fedeltà" che dimostravano nei suoi confronti il doge di Venezia e la sua gente ("considerata fidelitate predicti ducis sueque gentis"). L'attestazione imperiale dovette certamente tornare sgradita al trascrittore, ultrasensibile, com'erano i Veneziani in genere, sul punto della non dipendenza di Venezia da chicchessia. Ma egli si astenne dall'intervenire sul testo con una censura (58).
A operarla non esitò invece chi, con ogni probabilità sempre nell'ambito della cancelleria, non importa se un poco prima o un poco dopo, trascrisse, sotto la supervisione del Dandolo, lo stesso diploma per incorporarlo nel tessuto narrativo della Chronica per extensum descritta. In questa nuova sede la parola sgradita non compare più: al posto di fidelitate si legge legalitate (59). Ciò su cui mette conto di soffermarsi non è tanto la censura esercitata nei confronti di un termine che lasciava trasparire la inammissibile pretesa di dare per scontata la dipendenza di Venezia nei confronti dell'Impero. A meritare attenzione è piuttosto il termine scelto per sostituirlo. Al posto di uno che configurava un certo modo di porsi del destinatario del diploma verso chi lo emanava, e che questo dichiarava naturalmente di apprezzare, veniva infatti introdotto un altro termine che enunciava un connotato oggettivo del destinatario, un suo connaturato modo di essere, tale da incidere solo indirettamente sulla natura dei rapporti intercorrenti fra le due parti e, quindi, non altrettanto adatto a giustificare l'emanazione del diploma medesimo, ma ultraindicato per esprimere l'autocoscienza del buon diritto di Venezia, allora e sempre. Se infondata era la pretesa, avanzata da Ottone III, di annoverare i Veneziani fra i suoi "fedeli", singolare era anche la pretesa di cui si faceva portavoce, più di trecentocinquanta anni dopo, l'anonimo addetto della cancelleria veneziana, che, evidentemente avallato dal Dandolo, mostrava di ritenere pacifico che Venezia avesse per sé la legalitas, anzi che addirittura l'incarnasse.
Il mosaico della Crocefissione nell'abside del battistero di S. Marco - che, come tutta la decorazione musiva del battistero stesso, sarebbe stata promossa da Andrea Dandolo (60) - rappresenta, oltre ai quattro protagonisti ultraterreni, ritti in piedi (s. Marco e la Madonna, a sinistra del Cristo, e, a destra, s. Giovanni Evangelista e s. Giovanni Battista), tre figure inginocchiate: il doge a ridosso del crocefisso, a sinistra; una figura maschile (anche questa col "camauro", la cuffia di lino bianco, in seguito "appannaggio esclusivo del doge") (61), all'estrema sinistra, ai piedi di s. Marco, che accenna a lui con la mano destra, mentre con la sinistra regge il Vangelo aperto; e, all'estrema destra, la dogaressa. Lo schema tradizionale di raffigurazioni consimili del secolo XIV (62) risulta qui modificato. Il doge è infatti spostato al centro della composizione, per fare posto, all'estrema sinistra, in posizione simmetrica a quella occupata dalla dogaressa, alla terza figura. Secondo i più, il doge raffigurato nel mosaico è lo stesso Andrea Dandolo, mentre l'altra figura maschile sarebbe il cancellier grande Benintendi Ravignani.
Benché rimessa in discussione anche di recente per ragioni stilistiche (la lunetta in questione andrebbe datata al 1330 circa e, quindi, il doge sarebbe Francesco Dandolo e l'altra figura maschile rappresenterebbe il cancellier grande Nicolò Pistorino) (63), la lettura, che può dirsi tradizionale, è sempre da preferirsi, sia perché Andrea Dandolo è sepolto nello stesso ambiente, sia perché, indipendentemente dai meriti professionali del Pistorino, che non sono in causa (64), non si hanno prove che egli sia stato legato a Francesco Dandolo da un rapporto come quello che - lo si è visto dalla lettera di presentazione dell'Extensa - ha legato il Ravignani a Andrea Dandolo. L'unica vera difficoltà è rappresentata semmai dal breve lasso di tempo (1o luglio 1352, avvento del Ravignani al cancellierato-7 settembre 1354, morte del Dandolo), durante il quale il Ravignani gli è stato accanto nel pieno esercizio delle sue funzioni. È comunque degno di nota che anche chi non identifica nella terza figura inginocchiata il Ravignani non pensi ad altri che a un diverso cancellier grande (è stato fatto per questo anche il nome del Caresini).
Nella lunetta del Battistero, accanto al doge - per noi, senz'altro, Andrea Dandolo - il cancellier grande - molto probabilmente il Ravignani - sta a rappresentare la certezza del buon diritto, della legalitas, figura e impresa di Venezia, incarnata nei documenti prodotti dalla cancelleria o in essa conservati. Se s. Marco era l'"Italie scriba, qui primus in latino conscripsit inicium evangelii Jesu Christi", come l'aveva definito nel De laude Venetorum lo stesso Ravignani (65), quest'ultimo era lo scriba di Venezia, e appunto in tale veste meritava di essere raffigurato nel mosaico ai piedi di s. Marco, che lo indicava con la destra, e a fianco del doge suo amico.
La vantata sicurezza di essere dalla parte del giusto è al centro dei testi prodotti dal Dandolo e/o dal Ravignani in risposta alle accuse che il Petrarca - ormai passato al servizio dell'arcivescovo di Milano Giovanni Visconti, nelle cui mani si era messa Genova, sconfitta dai Veneto-Aragonesi nell'agosto del 1353 - insisteva nel lanciare contro la condotta oltranzista tenuta da Venezia nel conflitto in corso. La tendenza a ridurre i campi di battaglia ad aule di tribunali, dove un Dio-giudice pronunciava le sue sentenze solo dopo avere valutata la consistenza delle prove documentarie esibite dalle parti convenute in giudizio, in cui si risolveva - a guardare bene - la posizione veneziana, non era certo fatta per andare incontro ai gusti dell'interlocutore. Questo, da parte sua, non si peritava dallo stravolgere polemicamente tale tesi, mostrando di interpretarla nel senso che essa mirasse ad affermare che le cause vittoriose dovevano essere ritenute, in quanto tali, anche cause giuste. Era invece vero (l'abbiamo visto in occasione della rivolta di Zara) che i Veneziani solevano ostentare fiducia in una specie di garanzia provvidenziale che faceva sì che le cause oggettivamente giuste, quelle cioè a favore delle quali parlavano i documenti, finivano di necessità col riuscire anche vittoriose.
Vittoria veneto-aragonese lungo la costa occidentale della Sardegna, a Lojera-Alghero, il 29 agosto 1353; missione di un mese del Petrarca a Venezia all'inizio del 1354, lettera dello stesso al Dandolo, da Milano ove aveva fatto ritorno, del 28 maggio (66), nella quale sono ricapitolati gli argomenti esposti a voce a Venezia qualche tempo prima, sia "in consilio", sia confidenzialmente a lui, nel suo gabinetto privato ("solus in thalamo"), senza dimenticare - era un suo chiodo fisso! - i buoni studi, che il doge, luminosa eccezione rispetto a tutti i duces del tempo, aveva coltivati, e che ora sembravano non servirgli a niente; infine, il 7 settembre, sempre del '54, morte del Dandolo, nella confusione che tenne dietro a un'incursione contro Parenzo di una flottiglia genovese...
Ha risposto il Dandolo alla lettera del Petrarca del 28 maggio? Secondo quest'ultimo, anche se taluni - ammetteva - insistevano nel dire che la risposta era partita (ma sta di fatto che non l'aveva ricevuta), egli non aveva trovato la forza per farlo, benché fosse un "letterato fra i primi e uomo eloquente" (67). Ma una lettera attribuita al Dandolo comunque esiste. Datata 13 giugno 1354 (68), fu però inoltrata al destinatario solo il 26 gennaio 1356, acclusa a una lettera di Benintendi Ravignani: "Ti invio qui acclusa la risposta che [...> ti mandò dux ille Danduleus di onorata memoria [...>, affinché tu sappia che non gli sono mancati né le parole, né gli argomenti" (69). In questo caso, l'interrogativo d'obbligo: la lettera è stata dettata personalmente dal Dandolo, o dal cancellier grande per conto di lui?, lascia il posto a un interrogativo diverso. La lettera è stata scritta prima che il Dandolo morisse, oppure dopo la sua morte, e quindi è da escludere che egli sia intervenuto in qualche modo nella sua stesura? Quanto al tenore della lettera stessa, esso non riserva sorprese, ricalcando sbrigativamente tesi già note, con la giustificazione che era ormai tempo di fatti piuttosto che di parole. Tanto più colpisce, perciò, la puntigliosa rettifica di un lapsus in cui il Petrarca era incorso nella sua lettera, confondendo l'Ellesponto (Dardanelli) con la Propontide (mar di Marmara). Proprio questo rilievo può essere citato a prova della possibilità che almeno una prima stesura della lettera risalisse al tempo in cui il Dandolo era ancora vivo. Riesce infatti difficile pensare che a muovere l'appunto sia stato il Ravignani, quando il doge era morto da quasi un anno e mezzo.
Nella lettera che accompagnava la lettera "postuma" del Dandolo, il Ravignani, che ormai, scomparso l'amico, gli subentra ufficialmente nella corrispondenza con il Petrarca, si preoccupava di allontanare dal ricordo di lui quanto potesse essere giudicato riprovevole: "tieni per certo che in ogni tempo egli fu cupidissimo di pace", anche se - aggiungeva a spiegazione di certi suoi atteggiamenti che parevano essere andati in senso contrario - i dogi di Venezia, per una gloriosa tradizione, sono tenuti "piuttosto a seguire che a guidare" (70) - che era un concetto analogo a quello espresso nella conclusione delle prefazioni ai libri Albus e Blancus ("ut [...> prodesse potius quam preesse pocius valeamus"). Ciò per quanto riguardava il Dandolo, che era ormai il passato - un passato sinceramente rimpianto, tanto più dopo la congiura e la tragica fine del doge Marino Falier (17 aprile 1355), ma che sempre tale restava.
Nel resto della lettera, abbandonata la tematica etico-politica che aveva caratterizzato la corrispondenza fra il Dandolo e il Petrarca, il Ravignani, dopo un lunghissimo preambolo, nel quale è menzionato Neri Morando, anch'egli funzionario della cancelleria ducale - lui sì era riuscito a farsi degno dell'amicizia del Petrarca ed era da invidiare per questo (71) - e che consiste in un inno all'incommensurabile valore di tale amicizia (72), e prima della parte concernente il Dandolo, di cui si è già detto, richiamava rispettosamente il destinatario della lettera al mantenimento della promessa di fargli avere una copia del suo epistolario (le Familiari), per il cui allestimento il veneto-milanese Marco Resta da Rho aveva già ricevuto le istruzioni necessarie (73).
Tale promessa risaliva evidentemente al maggio dell'anno precedente, quando il Ravignani, alla scadenza della tregua fra Venezia e Milano, si era recato con un'ambasceria in questa città, per negoziare un trattato di pace, che fu firmato il primo giugno. A Milano si trovava allora anche il Petrarca, che il Ravignani andò qualche volta a visitare, anche se - precisava - non con la frequenza che avrebbe desiderato, perché temeva di arrecargli disturbo. Nella lettera di congedo, scritta otto giorni prima di fare ritorno a Venezia, e dunque verso la fine del maggio 1355, si scusava comunque per la sua inopportuna insistenza, ma a spingerlo a farsi avanti erano la rinomanza universale del valore del Petrarca e il suo animo "famelicus sitibundusque simul". Lo ringraziava per avergli consentito di copiare le due lettere a Cicerone, gli chiedeva quella a Seneca e, poiché gli restavano ancora da trascorrere quegli otto giorni a Milano, lo pregava di fargli avere quanto aveva fra le mani, perché potesse copiarlo. Per tutto il resto della sua vita, lo avrebbe tenuto come "unico padre e signore" (74). Non erano, insomma, ancora trascorsi dieci mesi dalla morte del Dandolo che, cessate le incomprensioni collegate al conflitto fra Venezia e Genova, il seme dell'amicizia personale fra il doge di recente scomparso e il Petrarca, gettato intorno al 1349 (75), dava i suoi frutti ritardati, venendo a costituire la premessa di un rapporto, anche questo personale, e non esaurentesi in uno scambio di lettere di circostanza, fra il poeta e il capo della cancelleria ducale e, con lui, altri addetti alla cancelleria medesima. Paradossalmente, la prematura morte del Dandolo, che era stato il primo artefice del rapporto fra il Petrarca e Venezia, aveva contribuito a facilitare il suo ulteriore sviluppo, che, auspice il Ravignani, ebbe la sua localizzazione naturale nella cancelleria.
Da una lettera del Ravignani ai notai della cancelleria ducale del 9 settembre 1355 (76) apprendiamo che la cancelleria era allora fatta oggetto di una campagna denigratoria, in rapporto probabilmente con l'atteggiamento che alcuni dei suoi addetti avevano tenuto al tempo della congiura del Falier. Il Ravignani, seguendo il modello ciceroniano, immagina che il Dandolo - "dux ille Danduleus recolendae memoriae", come lo chiama, anticipando la formula che userà nella lettera al Petrarca dell'anno successivo - gli fosse apparso fra il sonno e la veglia nelle vesti di un abitante del cielo, che segue con costante attenzione ciò che accade quaggiù, per reagire a quella campagna e prendere le difese del "venerabile illud et pene sacrum collegium", finora sempre benemerito della patria e tenuto per questo nel debito onore. Certo, non tutti i suoi membri erano commendevoli. Non mancavano le pecore nere, che andavano cacciate - non tutte però, bensì solo quelle che non avessero dato segno di aspirare a riscattarsi. Comunque, la maggior parte dei notai della cancelleria erano notoriamente sani e non dovevano perciò badare alle accuse che venivano rivolte alla cancelleria nel suo complesso, ma dovevano restare bravamente al loro posto.
"Confabulare con te [proseguiva il Dandolo, rivolgendosi ora in particolare al Ravignani> è stato per me e uno speciale desiderio e il massimo dei piaceri". "In te confidano, in te ripongono le loro speranze i proceres veneziani; non puoi, finché vivrai, ricusarti alle fatiche per la patria, benché siano pesanti e moleste". "Non siamo infatti nati per noi: la patria rivendica per sé la prima parte di noi, una parte la rivendicano i familiari, una parte gli amici"... E gli affidava, da ultimo, la propria moglie e i propri figli. Così, il messaggio che, per il tramite del Ravignani, il Dandolo inviava dal cielo, dove si trovava, agli addetti della contestata cancelleria, culminava in una sorta di istituzione di erede morale a favore del cancellier grande, che non esitava a notificarla senza falsi pudori ai suoi colleghi di lavoro.
A fare parlare il Dandolo dal suo sepolcro, o ad interpretare il suo forzato silenzio, il Ravignani non era solo. Ricevuta la lettera di risposta del Dandolo, che a suo tempo, come che fosse stato, non gli era pervenuta, il 19 maggio 1356, da Milano, prima di partire alla volta di Praga, il Petrarca scrisse al Ravignani (77), concedendogli la richiesta amicizia e, soprattutto, la sospirata autorizzazione a fare copiare i libri delle Familiari disponibili fino a quel momento. Quanto alla lettera del Dandolo scriveva che, essendogli pervenuta ora che il doge non c'era più, era come se gli fosse giunta dalla sua tomba, anzi dal cielo, ciò che aveva contribuito a rinnovare il dolore per la sua scomparsa, ma non fino al punto di impedirgli di pensare a quello che avrebbe potuto replicargli, se fosse stato ancora vivo, e che ora però il Dandolo era in grado di intendere lo stesso, anche se egli se ne restava muto - un modo di riservarsi, tacendo, l'ultima parola.
Negli anni successivi, i rapporti fra il Petrarca e la sua clientela veneziana, arroccata nella cancelleria, continuarono a svilupparsi, facilitati da frequenti soggiorni del poeta nella città lagunare, per culminare nella decisione del settembre 1362, da cui abbiamo preso le mosse, e di cui il massimo propugnatore fu, come s'è già detto, il Ravignani.
Una volta a Venezia, il Petrarca accettò di farsi utilizzare in negotia di interesse pubblico, assumendo i lineamenti di una illustrazione locale, al punto di essere invitato a sedere alla destra del doge Lorenzo Celsi, che presiedeva ai festeggiamenti (luglio-agosto 1364) per la vittoria sui Cretesi. Frattanto le copie delle sue lettere, procurate dal Ravignani, circolavano largamente nella cancelleria, riguardate come modelli insuperabili di stile epistolare.
Sempre all'interno della cancelleria, la cerchia dei fedelissimi del Petrarca si era arricchita di una nuova recluta, Paolo de Bernardo, che nel 1360 gli scrisse una prima lettera, ridondante di ammirazione e di entusiasmo per l'uomo e la sua opera (78). Ma è col Ravignani che il Petrarca, fattosi per il momento veneziano, mantenne e consolidò il rapporto più stretto. Più dell'apprezzamento espresso dal poeta in una delle Senili (III, 1) per le passeggiate serali in barca con l'amico, allietate dalla schiettezza e dalla salacità della sua conversazione, è però un episodio particolare, concernente un'incursione del Ravignani nell'officina letteraria del suo grande sodale, e - ciò che più conta - riuscita bene accetta all'interessato, a dare la piena misura del salto di qualità che avevano fatto in un pur breve giro di anni i rapporti fra i due, ponendosi come emblematico della presa che la nuova cultura umanistica aveva ormai sul Ravignani e su un settore, almeno, della cancelleria, prima che la morte del cancellier grande (1365) e, poi, l'abbandono da parte del Petrarca (1368) del progetto di stabilirsi, lui e i suoi libri, definitivamente a Venezia, mettessero fine alla stagione che aveva avuto inizio col travagliato dogado di Andrea Dandolo.
All'inizio della primavera del '64 il Petrarca scrisse una lettera al cancellier grande, riferendosi a un colloquio che avevano avuto qualche tempo prima, a palazzo Molin, sul Bucolicum carmen e, in particolare, sulla decima egloga, alla quale il Ravignani aveva consigliato di apportare delle aggiunte. Compiuto il pensum che gli era stato suggerito di predisporre, il Petrarca lo inviava ora a chi lo aveva consigliato in tal senso, invitandolo a giudicare se quelle aggiunte fossero da conservare o gli sembrassero invece supervacue, "superflue". "La ruota aveva compiuto tutto il suo giro. Benintendi, che nel 1355 aveva preso l'iniziativa di cercare la guida del Petrarca, nel 1364 è presentato a sua volta dal suo amico quasi una guida [...>.È in questa lettera più che in ogni altra testimonianza che noi possiamo misurare fino a che punto il rapporto col Petrarca abbia influito sullo sviluppo intellettuale del cancelliere e con che abilità il poeta abbia saputo persuadere alle delizie dell'otium i professionisti titolati del negotium" (79).
1. Manlio Pastore Stocchi, La biblioteca del Petrarca, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, p. 552 (pp. 536-565).
2. Ibid., pp. 560-563.
3. Ibid., pp. 553 s.
4. Ibid., p. 557.
5. Cf. Paul Oskar Kristeller, Il Petrarca, l'umanesimo e la scolastica a Venezia, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Autunno del medioevo e Rinascimento, Firenze 1975, pp. 79-92. V. anche Vittore Branca, L'umanesimo, in Storia di Venezia, IV, Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1996, p. 727 (pp. 723-755): "il Petrarca maturò il suo testamento umanistico più originale e risoluto nel De ignorantia [...>. È un testamento che sembra segnare anche le linee di forza dell'umanesimo veneziano". Ma tutto questo, evidentemente, non per l'immediato, bensì per il futuro.
6. M. Pastore Stocchi, La biblioteca, p. 550.
7. Cf. in questo stesso volume il contributo di Marco
Pozza.
8. Francesco Petrarca, Le familiari, a cura di Vittorio Rossi, II, Firenze 1934, p. 202 (VIII, 5 γ). In una redazione successiva della lettera (ibid., p. 172; testo α), l'accenno all'amicizia è lasciato cadere, probabilmente perché nel frattempo c'erano stati i dissapori di carattere politico connessi, come vedremo, con la condotta del Dandolo, giudicato bellicista dal Petrarca, durante il conflitto veneto-genovese, riesploso nel 1350 (le traduzioni sono mie).
9. Giuseppe Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 19962, p. 310.
10. Francisci Petrarcae Epistolae de rebus farniliaribus et variae, a cura di Giuseppe Fracassetti, III, Firenze 1863, pp. 413 s. (Variae 43; 27 agosto 1362).
11. Luciano Gargan, Il preumanesimo a Vicenza, Treviso e Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, p. 151 (pp. 142-170).
12. Cf. Lino Lazzarini, Paolo de Bernardo e i primordi dell'umanesimo veneziano, Genève 1930, pp. 4-5.
13. Ricavo queste notizie dal citato contributo di M. Pozza. Dopo il Caresini, gli altri capi della cancelleria ducale furono Pietro Rossi, detto dei Quaranta (1390-1395), che lasciò scarse tracce di sé, Desiderato Lucio, da Cremona, che occupò il posto per poco più di un anno (1395-1396), ma si rivelò una figura di alto profilo, e Giovanni Guido (1396-1402).
14. Edizione a cura di Giovanni Monticolo, in Appendice alla Vita di Sebastiano Ziani, in Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, p. 411 (pp. 370-411). Cf. ibid., pp. 413-416 e Girolamo Arnaldi, Bovi, Bonincontro dei, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 546 s.
15. Cf. Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 473 s. (pp. 445-479).
16. Cf. Lao Paoletti, Castellano da Bassano, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXI, Roma 1978, pp. 639-641.
17. Edizione a cura di Giovanni Monticolo - Arnaldo Segarizzi, in Appendice alla Vita di Sebastiano Ziani, pp. 485-519.
18. Cf. L. Paoletti, Castellano, pp. 640 s. Ecco, per esempio, il trattamento che Castellano riserva all'episodio dell'agnizione di Alessandro III venuto sotto mentite spoglie a Venezia. Bonincontro (pp. 379 s.) aveva scritto: "Verum dum dictus dominus papa sic ignotus moram ibidem aliquo tempore contraxisset, ecce vir quidam volens sua quedam vota perficere dictam ecclesiam [S. Maria della Carità> in honorem et devotionem virginis gloriose pluries visitavit; et quia fama erat quod propter timorem imperatoris papa fugerat et non reperiebatur nec aliquis sciebat ubi esset, quia dictus vir eum Roma pluries viderat ipsum veraciter recognovit. Qui plurimum gaudens illico ad dominum Sebastianum Çiani tunc inclitum ducem Veneciarum properanter accessit eique retulit faciens plenam fidem dictum dominum papam in ecclesia sancte Marie de caritate esse et vidisse". Castellano (p. 491) scrive, a sua volta, così: "Venerat interea Venetam peregrinus ad urbem / ex voto nutuque Dei, qui noverat ipsum / pontificem viditque patrem sua sacra gerentem / officia et viso quid agat deliberat ipso. / Moxque ducem peregrinus adit, narrat quoque summum / se vidisse patrem verum et se noscere papam. / Tunc Venete dux urbis erat Sebas-que-tianus / inclitus, egregia genitus de prole Ziani".
19. Cf. L. Lazzarini, Paolo de Bernardo, p. 17 e soprattutto Jacopo Piacentino, Cronaca della guerra veneto-scaligera, a cura di Luigi Simeoni, "Miscellanea di Storia Veneta edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria per le Venezie", 5, 1931, pp. 3-200.
20. Cf. in questo stesso volume il contributo di Gian Maria Varanini.
21. Cf. Jacopo Piacentino, Cronaca, p. 37 (costruzione da parte degli Scaligeri del castello delle Saline sul confine fra il territorio padovano e la laguna, il 4 maggio 1336, che costituì il casus belli): "Cum magistri et prothomagister ac ingeniosus Segatinus, fossores, laboratores et alii missi per dictos dominos dela Scala, simul cum gentibus armatis eorum, plaustrisque oneratis, quarum gentium ductor et caput fuit Federicus ab Equis multam in talibus habens industriam ad locum litoris pervenissent, locum metantes, opus facere inchoarunt, ac circa fossas et edificia lignaminìs laborare solicite", e p. 144 (lo stesso episodio nel poema in esametri): "Nec mora, iam pedites, doctique magistri / Fossoresque simul pergunt lucentibus astris / Et Segatinus adest, strident sub pondere plaustra, / Fustibus et gladiis vacuum deprendere litus / Festinant, castrique locum metantur, et instant / Surgat opus, rapideque subit iam quisque laborem". Avuta la notizia, i Veneziani, pur comprendendone la estrema gravità, "noluerunt esse precipites, sed mature et consulte decreverunt mittere, et miserunt, nuntium suum Paduam providum et fidelem, qui faceret ambaxatam domino Alberto de la Scala [...>" (ibid., pp. 37 s.); e nel poema: "Interea Venetum dux inclitus et venerandus, / Consilii splendore potens, virtute probatus, / Dandula quam patrie genuit clarissima proles, / Franciscus, proceres consultos convocat, et rem / Pandit eis, farique hortatur quid sit agendum. / Terruit ista nichil novitas audita Senatum / Quantumque gravis: nec fortia pectora movit / Ut ruerent subito, sancto sed more vetusto, / Sensibus eximiis omnes animisque quietis / Decrevere simul legatum mittere [...>" (ibid., pp. 144 s.).
22. Cf. Enrico Bertanza - Giuseppe Dalla Santa, Maestri, scuole e scolari in Venezia fino al 1500, Vicenza 1993, pp. 50-52.
23. Guillelmi de Cortusiis Chronica de novitatibus Padue et Lombardie, a cura di Beniamino Pagnin, in R.I.S.2, XII, 5, 1941-1975, p. 105, 33-36.
24. Trattato de regimine rectoris di fra Paolino Minorita, a cura di Adolfo Mussafia, Vienna-Firenze 1868, p. 9.
25. Ester Pastorello, Introduzione a Andreae Danduli Chronica per extensurn descripta a. 46 - 1280 d. C., a cura di Ead., in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. VI (pp. III - LXXVII).
26. La Summula è conservata nel ms. Montecassino 459, datato 2 luglio 1434. Ne sta curando l'edizione Victor Crescenzi, che mi ha cortesemente dato in visione il testo del proemio. Per un'esposizione abbastanza dettagliata di quest'opera, cf. Luigi Genuardi, La "Summula Statutorum Floridorum Veneciarum" di Andrea Dandolo, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 21, 1911, pp. 436-467. V. anche Giorgio Cracco, La cultura giuridico politica nella Venezia della "Serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 243 s. (pp. 238-271).
27. I) de judiciorum ordine; II) de contractibus et obligationibus; III) de testamentis et ultimis voluntatibus.
28. Cf. Decretalium D. Gregorii papae IX. compilatio, in Corpus iuris canonici, a cura di Aemilius Friedberg, II, Graz 1959, coll. 1-4.
29. Cf. Andreae Danduli Chronica brevis a. 46-1342 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 351 (pp. 351-373) e Historia ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 72 (pp. 72-89, 94-97). V. anche Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, "Monumenti Storici pubblicati dalla Deputazione veneta di Storia Patria", n. ser., 1964, pp. XXXV s. n. 21.
30. Sulla Chronica brevis cf. in questo stesso volume il contributo di Claudio Finzi.
31. Cf. E. Pastorello, Introduzione a A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. VII.
32. Ibid., p. VIII.
33. Cf. Volumen statutorum legum ac iurium tam civilium quam criminalium DD. Venetorum, a cura di Petrus Pinelli, Venetiis 1709, cc. 82v e 83v e Liber sextus Decretalium domini Bonifacii papae VIII., in Corpus iuris canonici, a cura di Aemilius Friedberg, II, Graz 1959, coll. 933-936.
34. Sulle "ambiguità" a cui il Liber sextus di Andrea Dandolo si proponeva di porre rimedio, cf. Vettor Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all'anno di N.S. 1700, II/1, Venezia 1755, pp. 228 s.: "Queste correzioni ed aggiunte però sino ad esso Andrea vagavano in volumi non certi, non autorizzati, e quindi rimaneva tanto più esposto allo scempio che poteasene fare nel foro, il diritto dominante Veneziano; poiché la accortezza de' litiganti, e de' pratici avea modo agevole di involger la ragion de' giudicj nelle prime forse in parte oscure leggi, occultando le posteriori, o imbarazzarla con la pretesa affaticata concordanza delle nuove con le antiche; usi e modi pur troppo frequenti nelle legali materie con luttuose conseguenze private".
35. Cf. Iohann Friedrich von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts, I, Stuttgart 1875 (riprod. anast. Graz 1956), p. 90 n. 22.
36. Giambattista Verci, Storia della Marca Trevigiana e Veronese, XII, Venezia 1789, p. 154.
37. G.M. Varanini, in questo volume.
38. Cf. Georg Voigt, Die Briefsammlungen Petrarca's und der venetianische Staatskanzler Benintendi, "Abhandlungen der Historischen Classe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften", 16, 1883, nr. 3, pp. 60 s. e 74-76 (per analisi e testo del De laude Venetorum), e G. Billanovich, Petrarca letterato, p. 311.
39. Cf. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. X. 300, del sec. XV.
40. Cf. G. Voigt, Die Briefsammlungen, pp. 61-63 e Vincenzo Bellemo, La vita e i tempi di Benintendi de Ravegnani, cancelliere grande della Veneta Repubblica, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 23, 1912, pp. 248-250 (pp. 237-284).
41. Edizione a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1922; cf. ibid., p. XI della Prefazione.
42. Cf. ibid., p. 31, 5-6 e Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. X. 300, c. 12v.
43. Ibid., c. 4.
44. Ibid., c. 6. Cf. anche c. 13 (dopo un elenco di apprestamenti offensivi del nemico): "omiserunt tamen instrumentum iustitie quod principalius erat", e c. 14: "universus enim orbis hoc audiens stupebat affirmans: vere Omnipotens partem que fovebat iustitiam conservavit".
45. Cf. E. Pastorello, Introduzione a A. Dannduli Chronica per extensum descripta, p. XII: "Vittoria dunque prima di tutto militare [...>, ma anche trionfo di quel diritto positivo, fatto di documenti firmati e bollati, a cui la storica contingenza non toglieva che si conferissero l'estensione e il valore, meno di un diritto storico, che di un preavvertito diritto naturale". V. anche Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo doge-cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, p. 152 (pp. 127-268). Cito qui, una volta per tutte, questo mio scritto, che ho tenuto costantemente presente.
46. Cf. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Der Doge Andreas Dandolo und die von demselben angelegten Urkundensammlungen zur Staats- und Handelsgeschichte Venedigs. Mit den Original- Registern des Liber Albus, des Liber Blancus und der Libri Pactorum aus dem Wiener Archiv, "Abhandlungen der Historischen Classe der Kgl. Bayerischen Akademie der Wissenschaften", 8, 1856, nr. 1, pp. 24-26 (pp. 1-167).
47. Sui rapporti fra le due raccolte del Dandolo e i Libri Pactorum I e II, che le precedettero nel tempo, nonché sulla natura e i limiti della sua iniziativa, cf. Antonio Carile, Partitio terrarum Imperii Romanie, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 179 s. (pp. 125-289).
48. Cf. in questo stesso volume il contributo di Alberto Tenenti.
49. Cf. F. Petrarca, Le familiari, II, pp. 340-348 (XI, 8). Sulla corrispondenza fra il Petrarca e il Dandolo, cf. Lino Lazzarini, "Dux ille Danduleus". Andrea Dandolo e la cultura veneziana a metà del Trecento, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di Giorgio Padoan, Firenze 1976, pp. 123-156, e Nicholas Mann, Petrarca e la cancelleria veneziana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 517-528 (pp. 517-535).
50. Cf. qui sopra il testo corrispondente alla n. 8.
51. Cf. l'edizione a cura di G. Arnaldi, Andrea Dandolo, Appendice I, pp. 253-256.
52. Cf. Francesco Petrarca, Le familiari, a cura di Vittorio Rossi, III, Firenze 1937, pp. 139-143 (XV, 4).
53. Cf. l'appendice alla Introduzione di E. Pastorello a A. Danduli Chronica per extensum descripta, pp. CIV-CVI.
54. Sulla Chronica per extensum descripta cl: il già citato contributo di C. Finzi in questo stesso volume.
55. Cf. L. Lazzarini, Paolo de Bernardo, p. 31.
56. Si dà il caso che il "rescritto" del 1149 non sia uno dei documenti riportati nell'Extensa. Ma l'editto sui cappellani di S. Marco del 1353 (cf. l'appendice alla Introduzione di E. Pastorello e A. Danduli Chronica per extensum descripta, pp. CII-CIV) è una dimostrazione dei servizi che, proprio nel campo dei rapporti fra stato e Chiesa cui si riferisce il "rescritto", l'Extensa poteva rendere. La parte narrativa dell'editto, che rivendicava il diritto di patronato esercitato tradizionalmente dal doge sui cappellani di S. Marco, è infatti una sequela di precedenti storici ricavati dall'Extensa.
57. "Ad id namque vos excitare debuerat, si non alia, saltem posterorum vestrorum utilitas, ut bene gestas res, velut in enigmate positas contemplantes, se tantae successionis haeredes, ac necessitatem sibi indictam probitatis agnoscerent".
58. Cf. Ottonis III Diplomata, a cura di Theodor von Sickel, in M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II/2, 1893, p. 511, 26 (nr. 100). Per le discussioni a cui ha dato luogo l'accenno alla fidelitas cf. Mathilde Uhlirz, Die Regesten des Kaiserreiches unter Otto III 980/(983)-1002, Graz-Köln 1956, p. 546.
59. A. Danduli Chronica per extensum descripta, p. 194, 8-9. Per altri due casi nei quali il Dandolo interviene nello stesso senso, o modificando o lasciando cadere qualche parola in diplomi imperiali, cf. Bernard Schmeidler, Venedig und das deutsche Reich von 983-1024, "Mitteilungen des Instituts für Österreichisches Geschichtsforschung", 25, 1904, pp. 552 s. (pp. 545-575).
60. Cf. R. de Caresinis Chronica aa. 1343-1388, p. 8, 24.
61. Agostino Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 86 s. (pp. 3-123).
62. Cf. la lunetta dipinta da Paolo Veneziano per il monumento funebre di Francesco Dandolo ai Frari, raffigurante la Madonna col Bambino tra s. Francesco e s. Elisabetta; e il mosaico - anch'esso una Crocefissione, con il Cristo fra quattro figure di santi, proprio come nel battistero di S. Marco - che sovrasta il monumento funebre di Michele Morosini († 1382) nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. È evidente che, trattandosi, entrambe le volte, di monumenti funebri, la lunetta del battistero di S. Marco va considerata come un caso a sé, perché è del tutto indipendente dal monumento funebre di Andrea Dandolo, che pure si trova nello stesso ambiente. Ciò non toglie che l'intrusione di quella terza figura inginocchiata interviene a modificare un collaudato schema compositivo.
63. Cf. Michelangelo Muraro, Petrarca, Paolo Veneziano e la cultura artistica alla corte del doge Andrea Dandolo, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di Giorgio Padoan, Firenze 1976, pp. 161 s. (pp. 157-168).
64. Da una comunicazione privata di Marco Pozza sull'attività di Nicolò Pistorino ho ricavato l'impressione di un personaggio scialbo, che comunque scomparve del tutto dalla scena dopo la nomina a vicecancelliere del Ravignani, nel settembre del 1349.
65. Cf. qui sopra la n. 38.
66. Cf. F. Petrarca, Le familiari, III, pp. 302-308 (XVIII, 16).
67. Cf. ibid., p. 329, 92-106 (pp. 326-331; XIX, 9; 24-4-1355); il destinatario è l'arcidiacono genovese Guido Sette.
68. Cf. G. Arnaldi, Andrea Dandolo, Appendice I, pp. 256-258.
69. Cf. ibid., p. 262 (pp. 258-262).
70. Cf. ibid.
71. Per i rapporti fra Neri Morando e il Petrarca, cf. N. Mann, Petrarca e la cancelleria veneziana, pp. 521 s. e 524. L'amicizia fra i due, "strettamente intrecciata" con quella fra il Ravignani e il Petrarca, "benché forse più pronta a mettere radici", ebbe inizio probabilmente durante la missione diplomatica di questo a Venezia all'inizio del 1354 e si consolidò in un incontro a Mantova nel dicembre dello stesso anno.
72. Questa parte della lettera ha tutta l'aria di essere l'artificioso "capolavoro" che l'epistolografo Ravignani, il quale per altro mostra proprio in questa lettera di avere fatto grandi progressi (cf. G. Billanovich, Petrarca letterato, p. 13 n. 1), sottopone all'attenzione della massima autorità della corporazione.
73. Cf. G. Arnaldi, Andrea Dandolo, Appendice I, p. 261.
74. Cf. Francisci Petrarchae Variarum liber, in Opera quae extant omnia, Basileae 1554, p. 1090.
75. Cf. N. Mann, Petrarca e la cancelleria veneziana, p. 518: con ogni probabilità, il "primo momento significativo nella conoscenza di Petrarca con Venezia [...> è da porsi [...> in una data imprecisata, durante il periodo di due anni cominciato nel marzo del 1349, durante il quale egli fu spesso a Padova". "Le parole finali [della lettera a Luca Cristiani del 19 maggio 1349: cf. qui sopra il testo corrispondente alla n. 8> ci consentono tranquillamente di concludere che nel momento in cui il Petrarca le scrisse, aveva fatto conoscenza del doge in persona".
76. Cf. F. Petrarchae Variarum liber, pp. 1081-1083. V. L. Lazzarini, "Dux ille Danduleus", pp. 123-125.
77. Cf. F. Petrarca, Le familiari, III, pp. 333-336 (XIX, 11).
78. Cf. L. Lazzarini, Paolo de Bernardo, p. 168.
79. N. Mann, Petrarca e la cancelleria veneziana, p. 533. V. anche, dello stesso autore, "O Deus, qualis epistola!". A New Petrarch Letter, "Italia Medioevale e Umanistica", 17, 1974, pp. 207-243 (testo della lettera del Petrarca al Ravignani alle pp. 242 s.).