Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Novecento, con l’imporsi nelle città italiane di forme di svago connesse all’industria del tempo libero (caffè concerto, tabarin, varietà, rivista) e, in seguito, con il diffondersi dei mass media (radio e cinema), prende forma un repertorio nazionale di canzoni destinato a metà del secolo a incarnare il modello di “canzone italiana” ideale. Nella formazione di tale repertorio, oltre alle tradizioni locali (quella lirico-operistica, la canzone da salotto e i filoni regionali, primo fra tutti quello della canzone napoletana) hanno inciso profondamente i modelli provenienti dagli Stati Uniti, specie quelli dello swing.
Romanze e canti regionali
Le radici della canzone italiana affondano nel repertorio lirico-operistico, nelle tradizioni regionali e nelle pratiche musicali che si svolgono nei salotti aristocratici. Al centro di questo movimento troviamo la città di Napoli e la sua ricca storia musicale. Il periodo fondante può essere collocato nella seconda parte dell’Ottocento, quando alcuni autorevoli compositori, come Francesco Paolo Tosti (1846-1916), si dedicano alla stilizzazione del repertorio napoletano componendo brani destinati a intrecciarsi nei salotti cittadini con le romanze di autori quali Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini e Ruggero Leoncavallo, e con arie tratte dai melodrammi più noti o dalle operette in voga.
È su queste premesse che, con l’imporsi nelle principali città italiane di forme di svago connesse all’industria del tempo libero, prende forma la canzone d’intrattenimento propriamente detta. In Italia questo passaggio avviene in ritardo rispetto ad altre nazioni europee quali Francia, Gran Bretagna e Germania, relegandola in una posizione periferica: se fin dalla fine dell’Ottocento le canzoni escono dai salotti aristocratici per entrare nelle pratiche d’intrattenimento urbano, è infatti solo all’inizio del Novecento che, con l’affermazione del caffè concerto e del teatro comico, viene sancito il passaggio del repertorio canzonettistico dalla sfera privata a quella pubblica e, soprattutto, si avvia la circolazione di un corpus di canzoni sia in italiano sia in dialetto su scala nazionale destinato a contribuire non poco alla formazione della lingua (e probabilmente anche dello spirito) nazionale in un’Italia unita da poco meno di mezzo secolo.
Caffè concerto, tabarin e “teatro delle varietà”
I caffè concerto, nati sul modello del café chantant francese, sono locali dove comici, ballerini, cantanti, illusionisti, acrobati e altre attrazioni si alternano per allietare un pubblico d’estrazione borghese. Accantonato il raffinato gusto francese, al caffè concerto italiano sono comuni toni popolareggianti e comicità dalle tinte “forti” che, complice la provocante avvenenza delle primedonne, gettano in questi affollati ritrovi un che di peccaminoso e proibito. Nel caffè concerto e nella sua evoluzione, il tabarin, altro ritrovo pubblico ispirato a modelli francesi, le canzoni giocano un ruolo fondamentale. Esse sono interpretate da ammalianti “sciantose” dai nomi francesizzanti o strani, come Nina de Charny e Alba Primavera, da “macchiettisti”, come Nicola Maldacea (1870-1945), da interpreti più o meno raffinati, come Gennaro Pasquariello (1869-1959) o il “cantautore” Armando Gill (1877-1945) e, per finire, da attori comici come Ettore Petrolini (1886-1936). Anche il teatro comico è importante per la diffusione delle canzoni, soprattutto il “teatro delle varietà” (o semplicemente “varietà” o, se centrato su temi legati all’attualità, “rivista”), dove l’alternanza della varie attrazioni non è libera, come nel caffè concerto, ma si basa su un filo conduttore. In questo stesso periodo, dagli Stati Uniti giunge la moda del ballo: cake-walk, foxtrot, charleston e danze “esotiche” come tango e rumba entrano prepotentemente nell’intrattenimento musicale italiano mutando profondamente le pratiche di ballo urbano.
È in questo contesto che, nel primo trentennio del Novecento, la canzone italiana giunge a un’importante sintesi che porterà alla nascita di un repertorio nazionale di canzoni in dialetto e in italiano fondato principalmente su elementi derivati dalle tradizioni melodrammatica e napoletana, nonché sui canti delle varie tradizioni regionali (prime tra tutte quelle romana e fiorentina) e sui ritmi di danza importati. Si tratta di un repertorio nient’affatto omogeneo, la cui varietà, dovuta soprattutto alla presenza delle tradizioni regionali, è destinata a rimanere tale fino a metà del secolo. Qualche generalizzazione può comunque essere tentata. I testi, quando sono in italiano, cominciano a far riferimento a un linguaggio più moderno e quotidiano. Tra gli argomenti trattati primeggia l’amore declinato in tutte le sue sfumature, ma anche i soggetti comici, l’attualità e perfino la critica sociale sono comuni. La musica è caratterizzata da melodie che si muovono tra lo struggimento melodrammatico delle romanze e la cantabilità dell’operetta e delle tradizioni regionali. I cantanti rimangono ancorati a un approccio belcantistico, ma già con aperture a vocalità “non impostate”, mentre l’accompagnamento orchestrale è perlopiù in stile cameristico. La forma delle canzoni, di carattere strofico, poggia sul dualismo tra parti di carattere recitativo e momenti d’intensificazione basati su slanci melodici, note tenute, melismi, nonché veri e propri ritornelli e refrain accattivanti.
La radio e il cinema
Negli anni Venti la fonografia è ormai consolidata, ma il motore dell’industria della canzone in tutta la prima parte del Novecento rimane l’editoria. Quest’ultima instaura un rapporto simbiotico con la radio e il cinema sonoro, mezzi che, introdotti rispettivamente nel 1925 e nel 1929, sono destinati negli anni Trenta a sostituirsi ai locali e ai teatri nell’opera di diffusione delle canzoni. Queste ricoprono infatti un ruolo di primo piano sia nei palinsesti radiofonici sia nelle produzioni cinematografiche, assicurando agli editori non solo un’efficace forma di promozione di canzoni e cantanti in grado di entrare all’interno delle mura domestiche, ma anche lauti guadagni dovuti ai diritti di trasmissione.
Radio e cinema, dunque, svolgono un ruolo cruciale nella diffusione nazionale delle canzoni, tant’è vero che, intorno al 1940, i cantanti sono spesso solo delle “voci radiofoniche” di persone che il pubblico non ha mai visto. Tale diffusione va però inserita nel contesto dello stretto controllo che il governo esercita sui media durante il ventennio fascista, apertosi nel 1922. Per la canzone questo significa rinunciare ai riferimenti all’attualità in favore dei buoni sentimenti e della retta moralità, tenersi alla larga dalle musiche provenienti dall’estero (soprattutto dalle musiche nere come il jazz) senza però rinunciare a un certo esotismo dagli echi colonialistici, nonché favorire il fiorire di un repertorio di canzoni di propaganda.
Swing all’italiana e “canzone melodica”
Strano a dirsi, ma la canzone italiana del Ventennio vive un momento di grande vitalità grazie proprio alla diffusione in Italia del jazz delle big band swing, destinata a esercitare un’influenza determinante nello sviluppo dei repertori d’intrattenimento. Così, a mano a mano che ci si avvicina alla metà del secolo, le canzoni cominciano a fare riferimento anche ai modelli compositivi di Tin Pan Alley mentre, in modo del tutto coerente, la voce assume elementi tratti dallo swing e dal canto crooner (anche detto “confidenziale”). Natalino Otto (1912-1969), Alberto Rabagliati (1908-1974), Ernesto Bonino (1922-2008) e il Trio Lescano sono alcuni dei cantanti protagonisti di questa svolta. L’elemento decisivo è però la nascita delle orchestre radiofoniche sul modello delle big band: in epoca prediscografica ma già radiofonica, infatti, l’orchestra e, dunque, il suo direttore, diventano l’elemento che più incide nella definizione delle caratteristiche sonore e interpretative di un brano.
Emerge uno scenario in cui spiccano due vie di modernizzazione, che possiamo tracciare prendendo in considerazione l’orchestra di Pippo Barzizza (1902-1996) e quella di Cinico Angelini (Cinico Angelo, 1901-1983): da un lato c’è lo “swing all’italiana” di Barzizza, che enfatizza il riferimento allo swing, dall’altro c’è l’orchestra di Angelini, dove la carica ritmico-cinetica dello swing è diluita in brani e arrangiamenti più in linea con i dettami della tradizione della canzone italiana, le cui radici, sempre più lontane, cominciano a essere chiamate in causa sempre più spesso.
Dopo la guerra, la ricostruzione del mondo dell’intrattenimento, guidata da artisti radicati nel ventennio precedente, vede l’Orchestra Angelini imporsi ed entrare da protagonsita nella seconda metà del Novecento. Lo “swing all’italiana” ha vissuto un momento di gran voga durante l’occupazione americana per essere poi presto accantonato, anche perché tra i musicisti italiani si diffonde una certa disaffezione per il jazz, che ha visto l’esaurirsi dello swing e l’affermarsi del be-bop. In generale, però, in questo periodo la canzone italiana preferisce ripensare alla propria storia e tornare ai modelli belcantistici e napoletani da cui è partita, salvo accorgersi che questi sono ormai stati definitivamente e inevitabilmente trasformati da mezzo secolo di innovazioni tecniche e musicali. Ne consegue un breve periodo di stagnazione, preludio di un passaggio storico cruciale, che porta la canzone italiana a ripiegarsi su se stessa, elaborando un ideale di “canzone melodica” basato sui modelli acquisiti nella prima parte del secolo, pronto a essere sbandierato contro ogni istanza di modernizzazione ma, allo stesso tempo, altettanto pronto ad assorbirla. È definitivamente nato il mainstream italiano, che sarà istituzionalizzato in quell’operazione d’equilibrismo tra restaurazione e modernità che sarà il Festival di Sanremo (1951), che non a caso nella sua prima fase, quella che va fino all’inizio degli anni Sessanta, avrà come protagonista Cinico Angelini.