Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Molte sono le differenze rinvenibili nel percorso della canzone napoletana dalla prima alla seconda metà del Novecento. Nell’analizzarle, si terrà conto del valore storico di questo repertorio che ricopre un ruolo storico importante all’interno dell’esperienza musicale nazionale, all’alba della sua fase popular, per poi giungere a una nuova rappresentazione della realtà partenopea in opposizione alla tradizionale immagine oleografica.
1900-1950
All’inizio del secolo la canzone napoletana si presenta come il prototipo della musica di consumo italiana, ovvero quel genere di prodotto sonoro della prima era industriale destinato a intrattenere gli appassionati dei raduni pubblici (fra tutti, la celebre festa di Piedigrotta, separata ormai dalla sua antichissima radice cultuale legata alla Madonna omonima) e degli appuntamenti privati (noti a Napoli come “periodiche”), promuovendo occasioni che invogliassero l’ascoltatore ad acquistare lo spartito o l’incisione fonografica. È una musica che rappresenta perfettamente il confine tra un’Italia contadina, del tutto esclusa dalla secolare questione della lingua nazionale, e un Paese fortemente proiettato verso un inurbamento moderno sulla scia delle metropoli europee e americane; un collante culturale, dunque, in grado di creare una produzione musicale compatta e di cancellare (pur conservandole gelosamente) le differenze spiccatamente locali che ancora costituiscono il bagaglio distintivo dei nuovi repertori musicali italiani di intrattenimento. L’importanza del patrimonio napoletano e la sua singolare, duplice, dimensione locale-globale, sono evidenziate già nel 1947 da Brian Rust, uno dei massimi studiosi di jazz, quando “deregionalizza” il genere mettendolo in relazione con la scena di New Orleans e chiamando in causa forme, temi e spiritualità comuni tra il popolo partenopeo e quello afroamericano.
Da un passato remoto la canzone del Novecento eredita la tradizione popolare collettiva ed errante della “pusteggia” (o cuncertino), il cui nome deriva dal termine dialettale che indica il posto occupato per l’esibizione. La generazione dei “posteggiatori” ha il gran merito di diffondere nel mondo il melos napoletano più autentico, costituito dalla combinazione e interazione di composizioni d’autore e stili popolari.
Già durante l’Ottocento la canzone napoletana, profondamente incardinata nelle forme della romanza da salotto, è diventata un fenomeno di massa ante litteram, diffusa in ogni strato della popolazione attraverso l’opera intelligente di alcuni editori musicali. Con l’inizio del nuovo secolo, la canzone conosce nuovi formidabili attributi formali che la separano dal rapporto preferenziale con la tradizione della romanza: subisce repentine trasformazioni, derivanti dal contatto con musiche provenienti dall’America e dal resto d’Europa, che le conferiscono un corredo inedito. Nonostante questo processo di modernizzazione sia ostacolato da editori, intellettuali e interpreti spaventati dal pericolo di uno snaturamento che l’esposizione ad altre tradizioni avrebbe inevitabilmente causato, le resistenze non valgono a evitare questi contatti: con slancio, la musica prodotta a Napoli attira habanere – ‘O sole mio composta nel 1898 ne è il primo celebre esempio – foxtrot, shimmy, maxixe, rag, inventa nuove forme di melodramma popolare, cinema e teatro musicale, riuscendo a darne una personale versione attraverso le modulazioni di una lingua con una spiccata natura transnazionale. Fondamentale per la comprensione di quest’ultimo aspetto è la diaspora della canzone napoletana negli Stati Uniti attraverso il canale dell’emigrazione, che ha provveduto non solo a creare una storia parallela, italo-americana, del genere, ma anche a tenere in vita e a moltiplicare, grazie ai nuovi strumenti di riproduzione offerti dalla tecnologia, i prodotti sonori provenienti dalla terra d’origine, sul filo della memoria e della conservazione.
L’importante avvenimento dell’inizio del Novecento è dunque il contatto con i repertori stranieri, primi fra tutti la canzone francese e i ballabili americani. Tra i maggiori e più radicali estimatori dei nuovi generi da ballo spicca Gaetano Lama (1886-1950), il primo rinnovatore della canzone, capace di investire La Canzonetta, la casa editrice alla quale collabora per circa 30 anni, del singolare ruolo di avanguardia rispetto alla tendenza più tradizionalista delle altre case editrici. Mentre i maestri di cuncertino diventano sempre più un’attrazione turistica defunzionalizzata, si fanno largo i “divi” – tra i primi Gennaro Pasquariello (1869-1958), che esegue le melodie con un “fil di voce”, cioè secondo uno stile narrativo, misuratissimo e inedito, le interpreti femminili Elvira Donnarumma (1883-1933), proveniente dal mondo della “pusteggia”, Gilda Mignonette (1890-1953), Ria Rosa (1899-1988), le prime cantanti-autrici come la tarantina Anna Fougez (1896-1966) e la russa Lydia Johnson (1896-1969). Le canzoni sono opera di poeti riconosciuti e versatili quali Salvatore Di Giacomo (1860-1934), Ferdinando Russo (1866-1927), Libero Bovio (1883-1942), E. A. Mario (1884-1961). Questo gruppo di versificatori, ai quali vanno aggiunte la figura irripetibile di Raffaele Viviani (1888-1950) e la popolare coppia costituita da Gigi Pisano (1889-1973) e Giuseppe Cioffi (1901-1976), assieme a un altrettanto straordinario numero di compositori, scrive la storia della canzone napoletana tradizionale che si consuma tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e i primi tre decenni del Novecento con alcune significative eccezioni negli anni del secondo dopoguerra. I luoghi di diffusione sono i già noti caffè-concerto e i numerosi teatri di varietà della città e della provincia.
Tutte le trasformazioni in atto in questo periodo storico sono testimoniate da un eccellente apparato editoriale e promozionale capace di sostenere la rapida crescita di un mercato musicale nazionale di consumo. Infatti molti autori di composizioni in dialetto facilmente trasfondono la loro pratica nella produzione in lingua. Tra i principali, ricordiamo il già citato E. A. Mario (pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta) che, nel suo ricchissimo canzoniere di oltre 2000 canzoni, annovera La leggenda del Piave (1918) accanto alle più frivole Vipera (1919) e Balocchi e profumi (1929).
1950-2000
A partire dagli anni Cinquanta, la canzone subisce un’ulteriore radicale trasformazione che le fa acquisire quei caratteri che la identificano come parte integrante del panorama nazionale avviato verso la sua conversione al pop moderno. Se Sergio Bruni e Roberto Murolo rappresentano, ognuno secondo percorsi indipendenti, le ultime significative propaggini della tradizione, l’arrivo prepotente della nuova musica americana, unito al desiderio di rompere con i canoni in uso, produce due frutti eterogenei e singolari: Renato Carosone (1920-2001) e Peppino di Capri (1939-). Il primo, fatta eccezione per l’utilizzo del dialetto, è estraneo alla maniera napoletana convenzionale, anche se nei suoi bozzetti ispirati ai ritmi americani sembra talvolta recuperare il gusto per il doppio senso delle antiche macchiette di Nicola Maldacea (1870-1945). Di Capri, con uno stile di grandi contaminazioni nelle vesti di un rock and roll da night club molto edulcorato, appare il più accreditato interprete della canzone napoletana degli anni Sessanta; anche nel suo caso, il ricorso alla canzone napoletana agisce come una delle tante possibilità espressive del momento.
Nel 1952, quasi in risposta alla prima edizione del Festival di Sanremo nato l’anno prima, si compie l’importante esperimento del Festival di Napoli, voluto dalla RAI, che durerà fino al 1970. Anche questo Festival è interpretato da una certa parte della comunità cittadina come uno snaturamento del vero canto napoletano, praticato con l’innaturale innesto dell’antica festa di Piedigrotta negli studi televisivi a diffusione nazionale.
Negli anni Settanta una parte del repertorio partenopeo si avvia verso una produzione di genere legata alla tradizione rinnovata dell’antica “canzone di giacca” e della canzone-sceneggiata, genere di dramma popolare con brani musicali nato negli anni Dieci. Con Pino Mauro (1944-) e Mario Merola (1934-2006) la musica d’occasione e i temi tradizionali, dell’amore, della natura, ma anche del disagio sociale, cedono il passo a storie di onore e famiglia. A questo segmento storico di grandissimo successo negli strati più popolari di tutto il sud Italia si riallacciano le esperienze iniziali di Nino D’Angelo (1957-), Gigi D’Alessio (1967-) e della fittissima schiera dei “neomelodici”, che si prestano a riflessioni antropologiche e sociologiche di grande suggestione.
Nel frattempo, tra le nuove generazioni si diffonde un esplicito rifiuto nei confronti di un’immagine oleografica di Napoli – e dunque della sua canzone – statica, perenne nel suo talvolta velleitario classicismo. Contro questa tipizzazione, alcuni musicisti sentono di dover prendere posizione, marcando una cesura con la tradizione in termini sia estetici sia produttivi. È una frattura che porta a parlare di “nuova canzone in napoletano”, che con quella originale condivide l’uso del dialetto, mentre strutture musicali, soggetti, stile vocale e organico strumentale sembrano tendere a un’integrazione nel contesto internazionale della musica di consumo. Tra i primi esponenti di questa metamorfosi c’è Pino Daniele (1955-). Con lui si apre un nuovo corso, che conduce agli strepitosi esiti dei collettivi indie contemporanei (Bisca, 99 Posse, Almamegretta, 24 Grana) che poco condividono con la canzone di tradizione; rari sono i recuperi, e quando avvengono lo sono in una prospettiva quasi straniante, a sottolineare la distanza con una storia rinnegata perché espressione di un’immagine irreale della città.
Più radicale e contraddittoria appare la posizione di Edoardo Bennato (1949-), che a lungo rifiuta l’utilizzo stesso del dialetto, in una sorta di antagonismo metalinguistico, saldando le sue radici direttamente al rock di protesta americano. Ancora negli anni Settanta la Nuova Compagnia di Canto Popolare porta alla ribalta il lavoro di Roberto De Simone (1933-), impegnato nella ricerca di una dimensione “vera” della musica napoletana, nata da un peculiare rapporto di osmosi tra cultura contadina e contesti urbani, e dunque dell’immagine di Napoli, attraverso un lavoro di recupero e di traslazione artistica in chiave moderna del ricchissimo patrimonio popolare.