La casa familiare
La casa familiare è il centro di affetti, interessi e relazioni interpersonali della famiglia. Il concetto di “casa familiare” «ricomprende quell’insieme di beni, mobili e immobili, finalizzati all’esistenza domestica della comunità familiare ed alla conservazione degli interessi in cui si esprime e si articola la vita familiare»1; oltre all’appartamento, rientrano in tale nozione anche tutti gli elementi che individuano lo standard di vita familiare oggettivato in quella organizzazione di beni e, quindi anche il garage, nonché i beni mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’ovvia eccezione dei beni strettamente personali o che soddisfino esigenze peculiari del singolo coniuge2.
Si tratta dell’abitazione in cui i coniugi-genitori stabiliscono la sede primaria della compagine familiare: l’habitat domestico prescinde dal titolo vantato dai partners sull’immobile, che può essere condotto in locazione, di proprietà dei coniugi o anche semplicemente concesso in comodato da terzi. Dove i coniugi siano anche genitori, la casa familiare diventa il principale strumento per soddisfare le esigenze dei figli, in quanto si inscrive nell’ambito dell’obbligo di mantenimento che grava su padre e madre. Come noto, infatti, il concetto di mantenimento comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente tra queste, in ordine all’effettivo adempimento del predetto obbligo, assumono profonda rilevanza «la predisposizione e la conservazione dell’ambiente domestico»3. Attraverso questo angolo prospettico, l’ambiente domestico va considerato quale centro di affetti, interessi e consuetudini di vita, che «contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità della prole»4. Posto che la casa familiare rappresenta uno dei principali strumenti attraverso cui si sviluppa la vita biologica della famiglia, il legislatore ne ha offerto una precipua regolamentazione, per il caso in cui intervenga la rottura del vincolo coniugale (separazione, scioglimento del matrimonio o cessazione dei suoi effetti civili) o, comunque, la fine della relazione affettiva (famiglia non fondata sul matrimonio); la tutela della filiazione, a mezzo della casa familiare, prescinde, infatti, dal vincolo giuridico che lega i genitori e, pertanto, la disciplina normativa è comune ai figli nati da o fuori da matrimonio (principio consolidatosi in giurisprudenza5, a partire dalla pronuncia C. cost, 13.5.1998, n. 1666 e oggi tradottosi in jus positum, per effetto della l. 10.12.2012 n. 2197). La dimensione genitoriale, dunque, conferisce alla casa familiare una impronta diversa in quanto l’habitat domestico viene funzionalizzato alle esigenze della prole: questo elemento discretivo (rispetto al caso in cui i coniugi o conviventi non siano anche genitori) giustifica un intervento giudiziale anche con riguardo all’abitazione domestica, nel caso in cui debba essere risolta giudizialmente la controversia genitoriale al momento dell’esaurirsi del vincolo affettivo che lega i partners. La base normativa da cui attinge il giudicante, investito della questione, prevede che «il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli» (art. 155 quater c.c., rubricato Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza). La norma conferisce, pertanto, al giudice, il potere di provvedere alla «assegnazione» della casa familiare, all’uno o all’altro genitore, con esclusione dal godimento, di quello dei partners che non sia assegnatario. Il referente normativo sopra indicato consente di pervenire ad una prima conclusione: il giudice può pronunciare disposizioni che regolino il godimento della casa familiare, esclusivamente nel caso in cui nella famiglia vi siano figli minori o maggiorenni non indipendenti economicamente (in forza dell’art. 155 quinquies, co. 1, c.c.). Se, al momento della disgregazione del vincolo affettivo tra i partners, i coniugi o conviventi non sono più investiti della responsabilità genitoriale, il giudice della famiglia “perde” la potestas decidendi con riguardo alla casa familiare che resta regolata dalle norme di diritto comune applicabili in ragione del titolo vantato dai famigliari su di essa. Il giudice, dunque, non potrà adottare alcun provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l’art. 156 c.c., che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell'assegno di mantenimento8. La conclusione qui rassegnata costituisce un costume giurisprudenziale ormai radicatosi negli orientamenti delle Alte Corti in cui è ricorrente l’affermazione per cui «l’assegnazione della casa familiare è finalizzata esclusivamente alla tutela della prole a rimanere nell'ambiente domestico in cui è cresciuta; pertanto, anche nell'ipotesi in cui l'immobile sia di proprietà comune dei coniugi, la concessione del beneficio in questione resta subordinata all'imprescindibile presupposto dell'affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni, ma economicamente non autosufficienti; diversamente»9, infatti, «sarebbe a rischio la legittimità costituzionale del provvedimento, il quale, non risultando modificabile a seguito del raggiungimento della maggiore età e dell'indipendenza economica da parte dei figli, si tradurrebbe in una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà, praticamente per tutta la vita del coniuge assegnatario, in danno del contitolare»10. In tempi recenti, la Suprema Corte ha, ulteriormente, specificato che l’assegnazione della casa coniugale «non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole». Le questioni relative al diritto di proprietà e a quello di abitazione «esulano, inoltre, dalla competenza funzionale del giudice della separazione o del divorzio, e possono essere esaminati in un ordinario giudizio di cognizione» (Cass., 1.8.2013, n. 18440). De jure condendo, l’acquis della giurisprudenza sopra richiamata trova ulteriore conferma nello «Schema di decreto legislativo recante revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione», ai sensi dell’art. 2 l. n. 219/2012, definitivamente approvato in data 12.7.2013 dal Consiglio dei ministri ed in attesa di terminare il suo iter legislativo. Il testo dell’art. 155 quater, co. 1, periodo primo, c.c. – infatti – viene trasposto nel suo contenuto, senza modifiche, nell’art. 337 sexies, co. 1, c.c.11 (grimaldello di nuova introduzione). In assenza di un provvedimento di assegnazione, la casa resta regolata dalle norme di diritto comune. Pertanto, il coniuge che occupi in via esclusiva l'intero appartamento di proprietà comune, deve considerarsi tenuto al pagamento di un'indennità ex art. 1102 c.c. (Cass., 276.2013, n. 1628512). Se la regola è nel senso che, in assenza di prole, la casa familiare non possa essere oggetto di assegnazione all’uno o all’altro genitore e che, in presenza di prole, la stessa debba essere attribuita al genitore convivente, è anche vero che la giurisprudenza ammette eccezioni. Una prima eccezione ammette che deroghe ai principi sopra esposti possano essere liberamente introdotte dai coniugi (Cass., 12.1.2000, n. 26613), in ossequio al potere dispositivo di cui godono, mediante accordo. È noto, infatti, che il contenuto degli accordi dei coniugi-genitori (ad esempio in sede di separazione) è composto da un aspetto essenziale – costituito dalle cd. convenzioni di diritto di famiglia, relative prevalentemente alla cessazione del dovere di convivenza, alla regolamentazione degli altri obblighi previsti dall’art 143 c.c. nonché all’esercizio della responsabilità genitoriale – e da un aspetto eventuale ed occasionale, attinente alle intese che esulano dagli elementi essenziali della disgregazione familiare e che si collocano nell’alveo dei contratti atipici. Entro questa orbita, i coniugi-partners ben possono introdurre regole intese a governare la casa familiare, in distonia rispetto a quello che sarebbe l’assetto, in caso di pronuncia giudiziale, per difetto di accordo degli interessati. Un’altra eccezione è stata ammessa da Cass., 9.5.1997, n. 40614 dove il Collegio ha ritenuto che, se avente diritto al mantenimento, al coniuge separato può essere assegnata la casa familiare, qualora la prole viva con l'altro coniuge in città diversa (eccezione su cui, oggi, alla luce dello jus superveniens, possono essere rivolte diverse censure e che non sembra ulteriormente condivisibile). Per effetto del provvedimento di assegnazione, uno dei coniugi viene estromesso dal diritto di godimento e, dunque, dovrà tendenzialmente far fronte a costi nuovi per reperire una nuova abitazione. Ecco perché l’art. 155 quater c.c. prevede che, dell’assegnazione della casa coniugale, il giudice tenga conto al momento della regolamentazione dei rapporti patrimoniali. Ciò è tanto vero che è legittima la clausola con cui il giudice stabilisca che l’assegno spettante al coniuge debole assegnatario della casa coniugale, sia automaticamente aumentato non appena questi lasci l’abitazione, in applicazione dell’art. 155 quater c.c. (Cass., 18.1.2013, n. 1239). Il vincolo funzionale impresso all’abitazione cessa quando venga meno l’elemento strutturale che gli dà linfa: la coabitazione tra figlio e genitore assegnatario. La nozione di convivenza rilevante a tali effetti comporta la stabile dimora del figlio presso l'abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi, e con esclusione, quindi, della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura invece un rapporto di mera ospitalità (Cass., 22.3.2012, n. 4555). Deve, pertanto, sussistere un collegamento stabile con l'abitazione del genitore, benché la coabitazione possa non essere quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l'assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile; quest'ultimo criterio, tuttavia, deve coniugarsi con quello della prevalenza temporale dell'effettiva presenza, in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese: v. Cass., 25.7.2013, n. 18075). Il vincolo non viene invece meno per il solo fatto che il genitore abbia instaurato una nuova convivenza: è il giudice chiamato a una valutazione di rispondenza all'interesse della prole (C. cost. n. 30/2008 cit.)15. L’assegnazione della casa non è idonea a pregiudicare le situazioni giuridiche soggettive dei terzi che vantino diritti di credito verso il genitore che ne sia proprietario: in particolare, il provvedimento di assegnazione non impedisce al creditore di quest'ultimo di pignorarlo e di determinarne la vendita coattiva (Cass., 19.7.2012, n. 12466). Più complesso è il rapporto tra provvedimento di assegnazione e diritti dei terzi sull’immobile, in particolare, nel caso in cui l’abitazione sia stata concessa ai genitori in comodato da parenti (ad es. gli ascendenti). A partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite, 7.9.2004, n. 13603, la giurisprudenza ha costantemente affermato che quando un terzo (nella specie: il genitore di uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento – pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio – di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento sull'immobile, atteso che l'ordinamento non stabilisce una «funzionalizzazione assoluta» del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a «concentrare» il godimento del bene in favore della persona dell'assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale. Di conseguenza, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato (diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809, co. 2, c.c. Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione, si versa nell'ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. Infatti, in tal caso, per effetto della concorde volontà delle parti, si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all'uso – cui la cosa deve essere destinata – il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante. Salva la facoltà di quest'ultimo di chiedere la restituzione nell'ipotesi di sopravvenienza di un bisogno, ai sensi dell'art. 1809 c.c., co. 2, segnato dai requisiti della urgenza e della non previsione. Questo indirizzo, in tempi recenti, è stato messo in dubbio dalla Suprema Corte, con ordinanza del 17.6.2013, n. 1511316. La terza sezione della Corte di cassazione, chiamata a stabilire se sia corretta la decisione di merito, la quale neghi al proprietario di un immobile, concesso in comodato al proprio figlio e da questi adibito ad abitazione familiare, di esercitare il recesso ad nutum dal contratto dopo la separazione del figlio e l’assegnazione in godimento dell’abitazione familiare alla nuora, ha ritenuto non condivisibile la soluzione adottata al riguardo dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 13603/2004 – secondo cui il diritto del proprietario non può essere esercitato sino a che duri la “funzionalizzazione” dell’immobile al suo scopo di abitazione domestica – ed ha nuovamente sottoposto il problema alle Sezioni Unite. La sezione remittente ha richiesto al giudice della nomofilachia di rispondere, in particolare, ai seguenti quesiti: a) quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; b) quale sia il momento di relativa cessazione; c) quale sia il regime di relativa opponibilità. Un’ultima segnalazione merita la posizione giuridica del convivente che abiti, in ragione della relazione affettiva, con il proprio partner. Secondo il più recente orientamento dei giudici di legittimità, dal momento che «la famiglia di fatto è compresa tra le formazioni sociali che l'art. 2 della Costituzione considera la sede di svolgimento della personalità individuale, il convivente gode della casa familiare, di proprietà del compagno o della compagna, per soddisfare un interesse proprio, oltre che della coppia, sulla base di un titolo a contenuto e matrice personale la cui rilevanza sul piano della giuridicità è custodita dalla Costituzione, sì da assumere i connotati tipici della detenzione qualificata». «L’assenza di un giudice della dissoluzione del ménage non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione» (Cass., 21.3.2013, n. 7214).
1 Frezza, G., Casa familiare, in Tratt. dir. fam. Zatti, I, 2, II ed., Milano, 2011, 1753.
2 Cass., 9.12.1983, n. 7303; 26.9. 1994, n. 7865.
3 C. cost., 13.5.1998, n. 166.
4 C. cost., 30.7.2008, n. 30.
5 In tempi recenti, l’orientamento è stato ribadito da Cass., 15.9.2011, n. 18863: «in tema di assegnazione della casa familiare, l'art. 155 quater c.c., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, tutela l'interesse prioritario della prole a permanere nell’habitat domestico, postulando, oltre alla permanenza del legame ambientale, la ricorrenza del rapporto di filiazione legittima o naturale cui accede la responsabilità genitoriale».
6 C. cost. n. 166/1998.
7 Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali; legge pubblicata in G.U. del 17.12.2012 n. 293 ed entrata in vigore in data 1.1.2013. Per una prima autorevole analisi di alcune delle nuove disposizioni, v. Servetti, G., Le garanzie patrimoniali nella famiglia. Corresponsione diretta, sequestro, ipoteca, Milano, 2013.
8 Cass., 18.2.2008, n. 3934.
9 Cass., 5.9.2008, n. 22394.
10 Questo orientamento ha ottenuto l’avallo delle Sezioni Unite (Cass., S.U., 28.10.1995, n. 11297) e della giurisprudenza costituzionale (C. cost., 27.7.1989, n. 454).
11 «Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli».
12 Cass., 30.3.2012, n. 5156.
13 In Giust. civ., 2000, I, 317 ss.
14 In Dir. fam., 1997, 929 ss.
15 Sia consentito citare: Buffone, G., Casi, modi e limiti di assegnazione della casa familiare al coniuge non proprietario, tutela del partner estromesso dall’abitazione e dei terzi aventi diritti sull’immobile, in Il civilista, 2009, 3, 3 ss.
16 Cass., ord. 17.6.2013, n. 15113.