La Cassazione e il problema del bis in idem
Tutti erano in attesa di vedere quale strada i giudici comuni avrebbero deciso di percorrere per garantire l’adeguamento alla pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Grande Stevens1.
Come è noto l’Italia nel 2014 era stata condannata per violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7(ne bis in idem), in quanto era stato avviato un procedimento penale per il delitto di manipolazione del mercato (art. 185 TUF), basato su fatti identici a quelli che avevano motivato una precedente pronuncia definitiva per l’illecito amministrativo di manipolazione del mercato (art. 187 ter TUF), illecito – quest’ultimo – qualificato come sostanzialmente punitivo dalla Corte. Veniva così messo in crisi il sistema sanzionatorio previsto dal Testo unico della finanza (d.lgs. 24.2.1998, n. 58).
In particolare, i ricorrenti, dopo l’irrogazione della sanzione amministrativa da parte della CONSOB, avevano prima fatto opposizione alla Corte d’appello e, successivamente, ricorso di fronte alla Cassazione civile, la quale nel 2009 aveva confermato definitivamente le sanzioni. Nel frattempo (nel 2008) veniva aperto nei loro confronti anche un procedimento penale, e proprio durante il suo svolgimento, i ricorrenti si erano rivolti alla Corte europea per contestare l’iniquità del procedimento amministrativo e la violazione del ne bis in idem, in quanto a seguito dell’irrogazione della sanzione amministrativa in via definitiva era stato avviato un identico procedimento di fronte al giudice penale.
Il problema relativo all’attuazione della condanna contro l’Italia, non risiede tanto nel caso specifico, risolto di fatto con un proscioglimento per prescrizione2. Infatti, sebbene i giudici di Strasburgo avessero ordinato – come misura individuale di riparazione – che i nuovi procedimenti penali avviati contro i ricorrenti e ancora pendenti venissero chiusi nel più breve tempo possibile, la sopraggiunta prescrizione durante le more del giudizio di fronte alla Corte europea aveva già consentito di terminare i processi. Non era stato così necessario porsi il problema relativo al modo specifico con cui dare attuazione alle prescrizioni vincolanti contenute nella pronuncia della Corte sovranazionale.
La questione controversa, piuttosto, si focalizza sulla necessità di evitare che nel futuro si possano ricreare i medesimi inadempimenti convenzionali3. Dalla sentenza di condanna, infatti, emerge un problema in qualche modo sistematico, ovverosia l’ordinaria praticabilità nel diritto interno di una successione fra il procedimento amministrativo riguardante un illecito finanziario con natura sostanzialmente penale e quello penale (ovvero il contrario) aventi il medesimo oggetto: così che è la normalità la realizzazione del bis in idem.
In via generale è fin troppo noto che molti degli illeciti amministrativi previsti nel nostro ordinamento (dunque non solo quelli previsto nel TUF) potrebbero avere natura sostanziale penale, se letti secondo i criteri elaborati dalla Corte europea4. Per altro verso, pur al cospetto di una medesima fattispecie oggetto tanto dell’illecito penale che di quello amministrativo spesso si esclude, tramite una clausola iniziale, l’operatività del principio di specialità di cui all’art. 9 della legge sulla depenalizzazione; e si prevede che i relativi procedimenti possano essere aperti in successione l’uno dall’altro e al cospetto di autorità diverse.
Di fronte a questo stato di cose, gli interpreti si sono resi subito conto che sebbene nella pronuncia Grande Stevens non vi fosse l’ordine di adottare delle misure di riparazione generale, ciò nonostante fosse necessario un riassestamento del sistema al fine di evitare ulteriori condanne.
Ebbene a quasi un anno di distanza la Corte di cassazione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, volta a realizzare forzosamente l’adeguamento sistematico in relazione alla disciplina degli illeciti finanziari5. E l’occasione per operare l’allineamento fra i due sistemi viene colta rispetto a un processo penale avente ad oggetto un fatto di abuso di informazioni privilegiate (art. 184 TUF), fatto già giudicato irrevocabilmente in sede amministrativa per la corrispondente fattispecie non penale (art. 187 bis TUF). La Corte infatti ha riconosciuto che sebbene la sentenza Grande Stevens riguardasse le due fattispecie di manipolazione del mercato (artt. 185 e 187 ter TUF), i medesimi problemi di successione di procedimenti ad identico oggetto si pongono anche per le due fattispecie legali di abuso di informazioni privilegiate, in quanto risultano già sul piano astratto largamente sovrapponibili6.
Siamo tutti in attesa di conoscere cosa dirà la Corte costituzionale: se condividerà la scelta della Corte di cassazione; se invece riterrà che sia percorribile la strada correttiva dell’interpretazione convenzionalmente orientata; o se preferirà rimettere il problema al legislatore, perché l’adattamento non è possibile senza l’esercizio di scelte discrezionali non esercitabili dalla Corte costituzionale.
In via generale è possibile immaginare che nel procedere all’adeguamento del sistema alle pronunce della Corte europea dei diritti i giudici comuni debbano attenersi a un protocollo prestabilito, ovverosia seguire una serie di passaggi obbligati al fine di verificare se il sistema si possa adeguare spontaneamente attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata ovvero se si debba chiedere l’intervento della Corte costituzionale7.
a) In prima battura si deve procede alla “mappatura”, ovverosia all’individuazione del contenuto specifico della disposizione convenzionale. A tal fine – sul presupposto che spetta alla Corte europea dei diritti interpretare le disposizione della Convenzione – è necessaria una lettura sistematica di tutti i precedenti della Corte che riguardano la medesima questione.
Ebbene, dalla giurisprudenza consolidata di Strasburgo emerge come il principio del ne bis in idem vada inteso come divieto di aprire un nuovo procedimento volto ad applicare sanzioni “sostanzialmente” penali, quando lo stesso fatto concreto è già stato irrevocabilmente accertato in un precedente procedimento, anch’esso rivolto ad applicare sanzioni “sostanzialmente” penali. In pratica il ne bis in idem presuppone, in ambito convenzionale, la natura “sostanzialmente” penale delle sanzioni irrogabili nei due procedimenti e l’identità del “fatto concreto” che ne è oggetto.
Da questo punto di vista la Corte di cassazione nell’ordinanza di rimessione procede alla mappatura rilevando che «la garanzia sancita all’art. 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato e che, per altro verso, la questione da definire non è quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti dagli artt. 187 ter e 185 TUF siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla Consob e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta.» Nella pronuncia, poi, viene anche riconosciuto che si tratta di un orientamento ben consolidato nella giurisprudenza di Strasburgo sia dal punto di vista dei criteri utilizzati per qualificare la sanzione come “sostanzialmente” penale, sia dal punto di vista dell’accertamento “in concreto” della identità dei fatti ai fini del ne bis in idem.
b) Individuata la norma CEDU, si deve passare alla fase “pregiudiziale”, ovverosia verificare se la norma convenzionale, nel contenuto identificato nella mappatura, sia o meno conforme alle prescrizioni costituzionali.
Anche in tal caso la Cassazione risolve agevolmente il problema, riconoscendo che il recepimento della condanna «non può essere escluso sulla base del principio di stretta legalità formale sancito in materia penale dall’art. 25 Cost. e del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.» In particolare si sottolinea come la riconducibilità nel genus della sanzione penale di sanzioni formalmente non qualificate come tali nell’ordinamento interno non è impedito da tali norme, «in quanto la stessa giurisprudenza costituzionale ha riconosciuti che dall’art. 25 Cost., co. 2, si può dedurre che tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina [in tema di garanzie] della sanzione penale in senso stretto.»
c) Concluso positivamente il vaglio di compatibilità fra CEDU e Costituzione, va effettuata la “comparazione”, si deve cioè verificare la più o meno coincidenza dei due sistemi di tutela.
Da una parte è necessario verificare quale sia la regola processuale interna che regola la medesima fattispecie concreta prevista dalla norma della Convenzione come individuata dalle “pronunce mappate”; e dall’altra è opportuno cercare l’esistenza di una regola giuridica interna già codificata che, seppur applicata a fattispecie diverse, possa essere utilizzata per realizzare gli obiettivi indicati nella medesima norma convenzionale.
Ebbene, come anticipato, la Corte di cassazione rispetto al primo profilo rileva come in tema di illeciti finanziari per le fattispecie amministrative e penali è prevista una disciplina generale che prevede come ordinaria la successione fra il primo e il secondo procedimento (si pensi al cumulo sanzionatorio dell’art. 187 ter, al meccanismo “compensativo” dell’art. 187 terdecies e all’autonomia del procedimento amministrativo in pendenza di quello penale ex art. 187 duodecies). Si tratta dunque di una regola interna che va in senso contrario alle prescrizioni convenzionali.
Sotto il secondo profilo si osserva poi come la regola del ne bis in idem, sarebbe in via generale potenzialmente utilizzabile per l’adeguamento, sia rivolta a fattispecie non sovrapponibili, perché riguarda esplicitamente procedimenti formalmente penali e si inserisce in una regolamentazione più generale del processo penale di cui ne costituisce solo un frammento.
Si deve allora riconoscere che vi è divergenza fra i due sistemi, che richiederebbe un intervento correttivo, volto a vietare a monte la successione fra i due procedimenti, e a valle la sanzione dell’improcedibilità se il divieto è violato.
d) Individuata la disomogeneità fra il sistema convenzionale e il sistema interno, occorre passare alla “fase correttiva” ovverosia tentare la praticabilità di un’interpretazione convenzionalmente orientata, verificando se attraverso una correzione del significato normalmente attribuito alle disposizioni interne sia possibile raggiungere l’allineamento.
In tal caso, da una parte, sarebbe necessario far in modo che le due sanzioni possano essere applicate in un unico procedimento e non più in due che si succedono l’uno all’altro, sicché bisognerebbe “accorpare” il procedimento per gli illeciti amministrativi di fronte alla CONSOB a quello penale di fronte all’autorità giudiziaria. Dall’altra – e nel contempo – interpretare estensivamente l’art. 649 c.p.p. in modo che il divieto di un secondo giudizio possa essere applicato anche ai procedimenti diversi da quelli penali, nel caso in cui non si sia proceduto alla riunione procedimentale.
La Corte di cassazione, tuttavia, concentra l’attenzione sul cumulo sostanziale – più che sulla successione procedimentale – sottolineando che «l’inciso di apertura dell’art. 187-bis, co. 1, TUF non può essere interpretato in senso diverso dalla previsione del cumulo della sanzione penale e di quella amministrativa». Secondo la Corte dunque – e su questo punto ritorneremo – il cumulo di sanzioni rende impossibile l’adeguamento interpretativo.
Rispetto al ne bis in idem, poi, la Cassazione osserva che il divieto di un secondo giudizio e la disciplina dettata dall’art. 649, co. 2, c.p.p. si pongono all’interno di un sistema volto a prevenire lo svolgimento di più procedimenti penali per il medesimo fatto (come gli artt. 28 e 54 bis c.p.p.) o a porvi rimedio in sede esecutiva (ex art. 669 c.p.p.), sicché non è praticabile un’interpretazione estensiva o analogica. Tali meccanismi preventivi e riparatori presuppongono tutti la comune riferibilità a più procedimenti per il medesimo fatto celebrati di fronte all’autorità giudiziaria penale.
Esclusa la possibilità dell’interpretazione correttiva, è necessario passare alla fase della “rimozione costituzionale”, vale a dire seguire la via della dichiarazione di incostituzionalità.
Ebbene la Corte di cassazione ha puntualmente sollevato la questione, domandando una pronuncia manipolativa volta a colpire l’art. 187 bis, co. 1, TUF nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato».
In pratica si è ritenuto che il problema fosse risolvibile sostituendo la clausola che prevede il cumulo sanzionatorio con quella che attribuirebbe carattere sussidiario alla fattispecie amministrativa. «Dall’assetto normativo che scaturirebbe dall’accoglimento della questione e, dunque, della previsione in via esclusiva della sanzione penale, si escluderebbero in radice le possibili interferenze con il principio del ne bis in idem».
La Cassazione ritiene anche di sollevare una seconda questione, subordinata al mancato accoglimento della prima. La scelta si può forse spiegare proprio nella consapevolezza dell’ampia discrezionalità sottesa alla prima richiesta: la Corte costituzionale dichiara inammissibili i ricorsi quando presuppongono scelte discrezionali che competono al legislatore. In via subordinata dunque si chiede che nell’art. 649 c.p.p. possa essere incluso anche il caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della CEDU e dei relativi Protocolli.
Secondo il giudice a quo si appresterebbe così «lo strumento normativo in grado di rimuovere nei singoli casi concreti – e non in via generale – l’incompatibilità con il divieto convenzionale di bis in idem del regime del doppio binario sanzionatorio ». Si tratterebbe di un meccanismo processuale “preventivo” che, autorizzando la pronuncia del non doversi procedere, eviterebbe di fatto la realizzazione del bis in idem, in attesa di un intervento normativo volto a riscrivere tutta la disciplina anche al fine di adeguarsi anche alla direttiva 2014/57/UE.
In attesa della pronuncia della Corte costituzionale – prevista per marzo 2016 – vale la pena di precisare alcune questioni.
Ebbene, la disciplina del ne bis in idem processuale8 ha come precipuo scopo quella di evitare che un soggetto sia processato due volte per il medesimo fatto, e non già che un soggetto possa subire due condanne, due sanzioni, per il medesimo fatto. Si tratta di due profili diversi. In pratica è ben possibile che uno stesso fatto concreto sia punibile a più titoli, ma è necessario che la pluralità di sanzioni venga applicata in un’unica sede.
Diverso è il principio del ne bis in idem sostanziale, il quale, invece, vieta di punire lo stesso fatto più volte, in un’ottica di proporzionalità dell’intervento punitivo. Sicché rispetto a tale situazione spetta all’interprete far in modo che sia applicata solo la sanzione che sia in grado di coprire l’intero disvalore del fatto attraverso l’impiego dei vari principi a ciò preposti (quello di specialità o dell’assorbimento o della sussidiarietà).
È vero, certo, che se si evita il cumulo sanzionatorio, automaticamente si evita il cumulo procedimentale. Ma è anche vero che il legislatore può discrezionalmente decidere di sanzionare lo stesso fatto più volte, come è avvenuto proprio in tema di illeciti finanziari.
Proprio l’identità delle due fattispecie astratte conferma la volontà del legislatore del cumulo sanzionatorio: non avrebbe senso un rapporto di sussidiarietà fra due fattispecie astratte identiche, perché allora una delle due sarebbe destinata a non essere mai applicata9. E a tale risultato “asistematico” porterebbe l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale: di fatto si configurerebbe una disapplicazione generale dell’illecito amministrativo.
Emerge allora come la scelta di fondo, ovverosia se colpire con più sanzioni uno stesso fatto, o se invece riservare ad esso una sola sanzione – come accadrebbe se fosse accolta la questione è scelta che non può percorrere la Corte costituzionale, non è una decisione a rime obbligate: il legislatore potrebbe seguire strade diverse. Vi sarebbe in tal modo una violazione della riserva di legge.
Senza contare che sarebbe una soluzione extra petita rispetto a quanto ci chiede la Corte europea: l’art 4 del Protocollo 7 impone soltanto il “cumulo procedimentale” nel caso in cui per uno stesso fatto concreto siano previste più sanzione “sostanzialmente” penali.
Il definitiva, il cumulo sanzionatorio non si pone in contrasto con nessuna norma paracostituzionale, perché la Convenzione ci impone soltanto la medesimezza dei procedimenti sostanzialmente penali aventi ad oggetto lo stesso fatto concreto, così che possano essere applicate tutte le garanzie dell’equo processo e non possa essere violato il divieto del ne bis in idem procedimentale.
1 C. eur. dir. uomo, 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia, su cui v. De Amicis, G., Diritto dell’UE e della CEDU e problema del ne bis in idem, in Il libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015, 657 ss.
2 Cass. pen., sez. I, 17.12.2013, n. 19915, Gabetti.
3 Flik, G.M.Napoleoni, V., Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?, in Riv. ass. it. cost., 2014, n. 3, 1 ss.
4 C. eur. dir. uomo, 8.6.1976, Engel c. Paesi Bassi.
5 Cass. pen., sez. V, ord. 10.10.2014, n. 1782, Chiaron Casoni.
6 Cfr. Sgubbi, F. Fondaroli, D. Tripodi, A.F., Diritto penale del mercato finanziario, Padova, 2013, passim; Consulich, F., La giustizia e il mercato, Milano, 2010, passim; Amati, E., Abusi di mercato e sistema penale, Torino, 2012, passim.
7 Cfr. Aprati, R., Il “protocollo” dell’interpretazione convenzionalmente orientata, in Cass. pen., 2015, 11, passim.
8 Cfr. Mancuso, E., Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012, passim.
9 Cfr. Cass. pen., sez. VI, 16.3.2006, n. 15199, Labella in CED rv. n. 234508, che ha tentato di diversificare le due fattispecie sul piano astratto.