La cavalleria
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La specializzazione del combattimento a cavallo, che si diffonde nel corso dell’XI secolo, si traduce nell’affermazione di una potente élite guerriera, eterogenea in quanto ad estrazione sociale ma profondamente omologata nelle aspirazioni e nello stile di vita. Nasce in tal modo la cavalleria, uno specifico ceto guerriero che elabora col tempo, attraverso precise forme rituali, un proprio universo etico ed esistenziale e che si pone come il riferimento ideale, dal punto di vista socio-culturale, dell’intera società feudale.
Elemento tra i più tipici della civiltà medievale, la cavalleria costituisce un fenomeno socio-culturale di estrema complessità. Concorrono infatti a porne i presupposti, e a marcarne i tratti distintivi, fattori diversi, di natura tecnico-militare, sociale, politico-istituzionale e religiosa, tra i quali, intorno al Mille, si attiva una particolare connessione. Questa è sollecitata dal diffuso stato di violenza in cui versano le regioni europee in quel periodo, a seguito delle incursioni vichinghe e saracene, ancora attive benché con minor virulenza rispetto al passato, e per le lotte che oppongono i molti centri di potere sorti dalla crisi dello Stato carolingio e dalla “reinterpretazione” delle sue strutture feudo-vassallatiche.
La necessità di portare al massimo grado di efficienza i nuclei armati che vanno coagulandosi nei grandi Stati feudali, nelle signorie territoriali e di castello, nelle città autonome e presso le nuove dinastie regnanti, determina la comparsa di un ceto guerriero specializzato che fa del combattimento a cavallo la sua occupazione esclusiva e la sua stessa ragione di vita. Si tratta di una vera e propria élite guerriera, che elabora, nel corso dell’XI secolo, quelle raffinate tecniche di combattimento che è possibile osservare in tanta parte dell’iconografia medievale e che distinguerà per secoli il costume bellico europeo. Si tratta, però, di un ceto “aperto”, in cui vanno a confluire non solo quelle figure riconoscibili (i titolari di feudi e signorie) che fondano da tempo il proprio potere sulla funzione militare, ma anche soggetti dai contorni più sfumati: i cadetti delle famiglie nobili più modeste che la polverizzazione dei patrimoni ha escluso dalla linea ereditaria; i bastardi di quelle stesse famiglie, o anche di stirpi più eminenti; i proprietari fondiarî (allodieri); i membri del patriziato urbano; i giovani tratti dall’ambito contadino che le urgenze della guerra inducono a istruire ed equipaggiare. Questa umanità varia costituisce anzi la maggioranza dei nuovi combattenti specializzati ed è significativo che, mentre l’appellativo che si afferma nelle fonti per definirli è quello classico di miles, con notevole restrizione semantica rispetto all’originario significato del termine (soldato), le parole che in Germania e in Inghilterra vengono a indicarli, rispettivamente Ritter e Knight, siano le stesse che nei secoli passati identificavano i servi armati dei grandi.
Un mondo eterogeneo, dunque, e che tuttavia presenta al suo interno caratteri assai pianificanti. Al di là delle disparità sociali, infatti, tutti i soggetti ad esso afferenti combattono allo stesso modo, e tutti, grazie a tale abilità, godono, a diversi livelli e gradi, di benefici e libertà che concorrono a connotarli come categoria privilegiata e a sé stante, con uno stile di vita, un atteggiamento mentale e persino una dieta alimentare specifica. Nulla di strano perciò se progressivamente, a partire dalla metà dell’XI secolo, come accennato, questo universo guerriero vada assumendo i tratti tipici di una “casta” ed elabori un sistema rituale che ne fortifichi l’identità: lo stile di vita condiviso dal ceto guerriero, stante la profonda differenziazione sociale dei suoi membri, esige modelli di legittimazione comuni e, con questi, anche una nuova etica.
Il rito solenne della consegna delle armi al giovane guerriero, simboleggiante il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, tipico della società barbarica, si conserva nei secoli alti del Medioevo, pur sedimentando in ambiti assai ristretti della società.
Dall’epoca carolingia, il conferimento della spada benedetta, segno di potere e di giustizia, è attestato presso le dinastie regnanti e le grandi famiglie dell’élite guerriera germanica, e si complica, in epoca ottoniana, con altri cerimoniali tesi a sacralizzare la funzione militare degli imperatori. Non è difficile intuire quindi da quale sostrato culturale e da quali esempi il ceto guerriero del secolo XI traesse spunto per l’elaborazione di una propria ritualità “iniziatica”, di un cerimoniale che segnasse l’ingresso del combattente a cavallo nel mondo di comuni interessi e di condivise pratiche di vita della cavalleria. La cerimonia presenta dapprincipio una struttura semplice nella sequenza degli atti previsti: “Al postulante, di solito appena uscito dall’adolescenza, un cavaliere più anziano consegna anzitutto le armi significative del suo futuro stato, in particolare la spada. Segue poi, quasi sempre, un gran colpo assestato dal padrino sulla gota o sulla nuca del giovine col palmo della mano: la paumée (palmata) o colée (collata) dei testi francesi […] una manifestazione sportiva terminava spesso la festa. Il nuovo cavaliere balzava a cavallo e correva a trafiggere o ad abbattere con un gran colpo di lancia una panoplia fissata a un palo: la quintana ”(Marc Bloch, La società feudale, Torino 1959).
Va notato, in questa sintetica ma densa descrizione, come proprio il colpo assestato dal padrino al neofita costituisca il coronamento del cerimoniale, il quale, non a caso, prende il nome di addobbamento, dalla parola francese adoubement, a sua volta tratta dal verbo germanico dubban, nel significato, appunto, di “colpire”. Il simbolismo legato a questo atto è profondo e svela più chiaramente il senso e le matrici culturali del rito. Gesto memorativo tipico del mondo medievale, volto a fissare traumaticamente nell’iniziato il ricordo della sua nuova condizione, la “collata” costituisce infatti l’unico colpo che nel corso della sua vita il cavaliere non restituirà e lo introduce, in tal modo, nel contesto etico e pratico del suo ruolo guerriero. Parallelamente, ispirandosi al repertorio simbolico del rituale cristiano, quel gesto attiva il “transito” della virtù marziale dalla mano del padrino al corpo del nuovo cavaliere, così come, nella consacrazione del sacerdote, lo schiaffo del vescovo trasmette a questo l’influsso spirituale.
Si tratta di un elemento nodale: nell’elaborare il proprio rito di legittimazione, la cavalleria non solo attinge, oltre che al sostrato barbarico, all’altro elemento costitutivo della civiltà occidentale, ossia alla cultura cristiana, ma attraverso l’imitazione dell’atto consacrativo dell’“ordine” sacerdotale connota anche i propri membri come afferenti a un ordine, cioè a una ben precisa e distinta categoria sociale, laica per il momento, ma predisposta, evidentemente, ad accogliere altri spunti etici, i quali, d’altra parte, non tardano ad annunciarsi. Da tempo impegnata, con l’organizzazione delle tregue e delle paci di Dio, a regolamentare l’attività bellica, la Chiesa, infatti, si infiltra potentemente, tra XI e XII secolo, nel rituale dell’addobbamento, imponendo alcuni atti integrativi come il “bagno purificatore” e la “veglia d’armi”, tesi a sacralizzare la funzione guerriera e a trasformare il cavaliere in un simbolo etico, un Athleta Christi.
È la prefigurazione del crociato, di quella sintesi di ideali guerrieri e cristiani che è tipica dei secoli centrali del Medioevo e che, con ulteriore sforzo di sincretismo culturale, annuncia a sua volta, da un lato, la nascita degli ordini monastico-cavallereschi e, dall’altro, l’affermazione di un preciso codice, in cui gli imperativi cristiani (difendere la Chiesa, le vedove, gli orfani ecc.) si mescolano indiscernibilmente agli obblighi della prassi guerriera e della vita civile (dar consiglio alle dame, risparmiare il guerriero indifeso, non compiere tradimento).
Proprio perché nato dalla sintesi dei valori più radicati della civiltà occidentale, il cavaliere viene a costruire un tipo sociale vincente, capace, durante il XII secolo di attrarre e sedurre l’intera società, spingendola ad aspirare alla condivisione di un ideale di vita che, intanto, la letteratura esalta e che il torneo, straordinario processo mimetico in cui il cavaliere spettacolarizza se stesso e la propria funzione come in un teatro della realtà, “rappresenta”.
Non a caso, se ai suoi esordi la cavalleria si mostra ancora come un ceto aperto, già nel Duecento risulta totalmente “metabolizzata” dalla nobiltà, che ne riserva l’accesso ai suoi membri: i ceti eminenti si approriano in tal modo dei modelli più esclusivi e trainanti elaborati dall’intera società feudale.