Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Cecoslovacchia consegue l’indipendenza nel 1918 ed è il Paese più avanzato dell’Est europeo, con un buon livello di industrializzazione. Tra la prima e la seconda guerra mondiale resta l’unica democrazia dell’area. Travolta dall’espansionismo nazista, perde l’indipendenza e successivamente alla seconda guerra mondiale conosce uno dei più duri regimi comunisti. Nel 1968 la Primavera di Praga, cerca di sperimentare un “comunismo dal volto umano”. L’esperimento viene stroncato con la violenza dall’invasione del Patto di Varsavia, che precipita il Paese in un letargo da cui si sveglia con la caduta del muro di Berlino.
La nascita della Repubblica cecoslovacca
La Cecoslovacchia rappresenta un’eccezione nel quadro dei Paesi dell’Europa orientale, caratterizzati, all’inizio del XX secolo, da un sottosviluppo determinato da un’agricoltura stagnante, a causa della lunga persistenza della servitù della gleba. Il Paese, invece, è stato influenzato, soprattutto in Boemia, sia dalla rivoluzione agraria che da quella industriale. Da una statistica del 1937, la Cecoslovacchia risulta lo Stato dell’Est più vicino ai livelli dell’Europa occidentale. Inoltre, dal punto di vista politico, resta, tra la prima e la seconda guerra mondiale, l’unica autentica democrazia dell’area, riuscendo ad allentare le tensioni nazionaliste grazie allo sviluppo economico. Solo a seguito della crisi economica del 1929, la conflittualità tra le nazionalità ceche, slovacche, tedesche, ungheresi e ucraine inizia ad acuirsi e la Repubblica cade nel 1939 per un intervento esterno.
Il Paese da secoli fa parte della corona asburgica, dalla quale viene trascinato malvolentieri nel primo conflitto mondiale. Numerosi sono, infatti, gli episodi di diserzione e di passaggio alle truppe nemiche di soldati cecoslovacchi nel corso della Grande Guerra. Negli anni del conflitto, alcune personalità rifugiate all’estero prendono contatti con le potenze della Triplice Intesa per realizzare l’indipendenza. Con la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, il 14 novembre 1918 viene proclamata l’indipendenza, e Tomás Garrigue Masaryk (1850-1937) è nominato presidente. Per i trattati di Saint-Germain del 10 settembre 1919 la neonata Repubblica cecoslovacca riceve la Boemia e la Moravia. L’Ungheria le deve cedere i territori slovacchi, la Rutenia e una parte del Banato di Temesvar. Nasce una nuova nazione che comprende quello che è stato fino ad allora il cuore industriale dell’Impero austro-ungarico, con la funzione di stabilizzare la situazione territoriale centro-europea contro ogni tentativo di revisione dei trattati. Riunisce, tuttavia, un insieme di territori che, come in altri casi nell’area, è privo di una logica e di precedenti storici.
Tra i primi atti del governo nazionale è l’attuazione di una riforma agraria, che qui è più fortunata che altrove. In Boemia, in Moravia e in Slovacchia i grandi proprietari agrari sono tedeschi e magiari che vengono espropriati con indennizzi notevolmente inferiori al valore delle loro terre, cedute prevalentemente a ex combattenti.
Il Paese, poi, è ricco di materie prime e di risorse, e può procedere a una più intensa industrializzazione nelle regioni della Boemia e della Moravia, mentre la Slovacchia resta prevalentemente agricola. Il Paese, proprio perché industrializzato, con una produzione di beni orientata per l’esportazione, è, però, duramente colpito dalla crisi economica del 1929, che provoca agli inizi del decennio successivo un crollo della produzione del 40 percento. Ma a minare le fondamenta del Paese è il crescente nazionalismo ed espansionismo tedesco.
Il crollo della Repubblica e la seconda guerra mondiale
Il destino del Paese è segnato tragicamente dai piani di espansione nazisti. Hitler rivendica la regione dei Sudeti per la alta presenza tedesca, ma in realtà mira all’annessione dell’intera Cecoslovacchia. In realtà, la Cecoslovacchia, per quanto etnicamente frammentata, non presenta una situazione di minoranze particolarmente vessate dall’elemento ceco. L’etnia tedesca vive nelle regioni più industrializzate e fino al 1933 le sue rivendicazioni si limitano a una più ampia autonomia e al rispetto dell’identità linguistica e culturale. È dopo il 1933 che nasce un partito dei tedeschi dei Sudeti dai caratteri spiccatamente nazisti e che costituisce la longa manus di Berlino. I nazionalisti tedeschi mettono in atto un’accorta politica di disordini, facendo richieste inaccettabili per il governo di Praga, fino a giungere alla rottura. Nel maggio del 1938 la tensione è così alta che si ritiene imminente l’invasione da parte della Germania, che effettivamente l’ha programmata per il 1°ottobre. La diplomazia franco-britannica si orienta, quindi, per una soluzione che accontenti soprattutto la Germania. Il primo ministro britannico Arthur Chamberlain esercita forti pressioni sul presidente cecoslovacco Edvard Benes (1884-1948) perché accetti la richiesta di annessione dei Sudeti. La stessa arrendevolezza dei Cecoslovacchi, in realtà, rende difficili i piani di Hitler che, invece, cerca un pretesto per l’annessione dell’intero Paese. Vengono, quindi, fomentati disordini nei Sudeti, a seguito dei quali la Cecoslovacchia mobilita l’esercito. Il 27 settembre l’Europa è sul baratro della guerra. Il leader britannico cerca, invece, di giungere per via pacifica all’annessione tedesca, sollecitando l’intervento mediatore di Mussolini. Così il 29 settembre si firmano gli accordi di Monaco, dove in poche ore si approva la soluzione proposta da Mussolini, il quale, in realtà, ripropone le posizioni tedesche. Dalla conferenza è esclusa la Cecoslovacchia che deve cedere un’area di 28345 km2 popolata da 2 milioni e 800mila Tedeschi e da 1 milione di Cechi. Anche la Polonia riceve la zona di Techen e l’Ungheria un’area della Slovacchia. Non ci sono plebisciti, né vengono rilasciate garanzie per quello che resta della Repubblica. Subito dopo l’accordo, Hitler organizza, infatti, la liquidazione dell’intera Cecoslovacchia. Nel marzo del 1939, approfittando dei contrasti insorti tra Cechi e Slovacchi, invade la Boemia e la Moravia, riducendole a protettorato tedesco, mentre la Slovacchia diventa uno Stato satellite della Germania; contemporaneamente l’Ungheria invade la Rutenia.
Nel corso della guerra, la Cecoslovacchia conosce un duro regime di occupazione, durante il quale si organizza un rilevante movimento di resistenza, che mette a segno, tra l’altro, il clamoroso colpo dell’attentato ad Heydrich nel 1942. A soffrire dell’occupazione nazista è, soprattutto, la comunità ebraica. Quella praghese, che conta 120 mila persone, viene completamente sterminata.
Il 5 maggio 1945, mentre l’Armata Rossa avanza, la popolazione di Praga insorge contro le forze tedesche, costringendole ad abbandonare la città l’8 maggio, un giorno prima dell’arrivo dei Sovietici, e riuscendo a salvare la capitale dalla distruzione pianificata dagli occupanti.
L’affermazione del comunismo
Nel caso della Cecoslovacchia, l’affermazione del comunismo non è dovuto, come in altri Paesi dell’Europa orientale, all’imposizione di un regime da parte dell’Armata Rossa, che, anzi, proprio per la forza del Partito Comunista locale, lascia il Paese molto rapidamente. La fase tra il 1945 e il 1947 si caratterizza, come in altri Paesi dove si sta affermando il potere comunista, per una politica moderata, che in realtà non prevede la nazionalizzazione dell’industria sostenuta, invece, dai socialdemocratici. Peraltro, si registra anche un’ampia collaborazione di forze politiche di diversa ispirazione dovuta, oltre alla tradizionale solidarietà slava all’URSS, al rancore per l’Europa occidentale, che nel 1938 ha abbandonato il Paese al suo destino. I comunisti ampliano il loro consenso sposando la causa delle maggioranze etniche, sostenendo l’espulsione di 2 milioni di Tedeschi e spingendo la minoranza magiara verso l’Ungheria. Il Partito Comunista, il cui leader in questa fase è Klement Gottwald (1896-1953), nelle elezioni del maggio del 1946 ottiene nei territori cechi il 40 percento dei voti. Le cose vanno male, però, nella Slovacchia, dove raccoglie solo il 30 percento contro il 62 percento delle forze democratiche. Il controllo del ministero degli Interni permette, tuttavia, ai comunisti di dominare i gangli vitali del Paese.
Il rifiuto del governo di partecipare al piano Marshall, provoca il tentativo da parte di alcuni partiti di ribaltare l’egemonia dei comunisti che, a loro volta, approfittano della confusione per realizzare il colpo di Stato del 1948. Il 20 febbraio, i ministri dei socialisti nazionali si dimettono dal governo in segno di protesta nei confronti del ministro degli Interni, sperando di innescare una crisi governativa. I socialdemocratici, tuttavia, sabotano l’iniziativa non seguendone l’esempio, mentre i comunisti, organizzando uno sciopero generale il 24 febbraio, fanno pressioni perché il presidente Benes sostituisca i ministri dimissionari con esponenti comunisti. Anche in questo caso, come altrove, il colpo di Stato viene mascherato attraverso l’utilizzazione strumentale di ben orchestrate manifestazioni di piazza. I socialisti nazionali restano, quindi, isolati e vengono accusati di essere reazionari e ostili alla democrazia popolare. Le purghe successive allontanano dal potere e dalla vita pubblica anche gli esponenti socialdemocratici e il potere dei comunisti fedeli a Mosca si consolida.
Tra i primi passi effettuati dal governo vi è la nazionalizzazione delle proprietà dei Tedeschi e dei collaborazionisti, seguite da altre confische che portano sotto il controllo dello Stato l’80 percento dell’industria. I consigli di fabbrica, nati spontaneamente nell’immediato dopoguerra, vengono boicottati dal Partito Comunista, in quanto visti come pericolose cellule di sindacalismo.
Negli anni successivi al 1948, vistose trasformazioni sociali investono il Paese: mentre la borghesia si proletarizza, alcuni elementi della classe operaia fanno la loro scalata sociale grazie alle possibilità offerte dall’espansione della burocrazia del partito. I processi di sviluppo industriale imposti dall’economia di piano riducono la popolazione contadina, che passa dal 52 percento degli anni Trenta, al 43 percento degli anni Sessanta. Negli anni dello stalinismo, il sistema scolastico vede la crescita della partecipazione di studenti di origine operaia e contadina a scapito della borghesia. Vince una visione centralistica dello Stato, che distrugge qualsiasi forma di autonomia della Slovacchia. Si sviluppano, sulla scia dell’URSS, anche forme di culto per il capo supremo Gottwald.
Dopo la stagione delle purghe, la Cecoslovacchia versa in una situazione di totale immobilismo, che fa sì che non viva nemmeno la fase di destalinizzazione, che in altri paesi del blocco comunista porta al potere un ceto dirigente più riformista. Ciò è dovuto al fatto che l’ondata di epurazioni vissuta dal paese è più vasta, più spietata e più lunga che altrove.
La Primavera di Praga
Con gli anni Sessanta si accentua anche la crisi economica, dovuta alla rigidità e alle distorsioni del sistema. Il Paese ha il tasso di crescita più basso del blocco comunista. Nel 1962 crolla all’1 percento annuo. Gradualmente inizia il processo di destalinizzazione a opera di una nuova generazione di dirigenti politici convinti che il sistema si possa riformare. Tale processo accelera per due ragioni: da un lato gli Slovacchi non hanno mai accettato la situazione rigidamente unitaria e formano un fronte di opposizione interna al partito – Alexander Dubcek (1921-1992) è eletto guida del Partito Comunista slovacco nel 1963 –; dall’altro si fanno più forti le spinte per introdurre forme di razionalità ed elasticità nel sistema dirigistico. La decentralizzazione economica innesca una miscela esplosiva quando ad essa si associano le richieste di una liberalizzazione culturale e politica. Molti intellettuali, che in precedenza hanno favorito l’affermazione del Partito Comunista, prendono coscienza che il risultato raggiunto è tutt’altro che in sintonia con le speranze nutrite. Abbandonate la paura e la lealtà al regime, chiedono, quindi, l’abolizione della censura e indagini accurate sui crimini dell’età staliniana. Le riforme proposte restano, però, solo sulla carta e vengono sistematicamente boicottate dall’ala conservatrice del partito.
La lotta tra le fazioni porta all’elezione a capo del partito, nel gennaio del 1968, di Dubcek. Comincia la Primavera di Praga, che parte dall’ala riformista del Partito Comunista.
Nell’aprile del 1968 viene pubblicato un programma di riforme e di liberalizzazione della società, per far nascere quello che viene definito un “comunismo dal volto umano”. Il 27 giugno, appare il Manifesto delle duemila parole, che si appella alla popolazione perché faccia pressioni per l’allontanamento dal partito di coloro che hanno abusato del potere. Si legittima, per tale scopo, il ricorso a scioperi e a manifestazioni e, se necessario, anche alle armi contro le forze straniere. Queste posizioni irritano l’URSS che convoca i leader cecoslovacchi a una riunione del Patto di Varsavia, a cui però Dubcek rifiuta di partecipare. A Mosca i leader della Polonia e della Repubblica Democratica Tedesca, preoccupati da un possibile effetto domino, caldeggiano l’intervento armato. A questo punto dalla Cecoslovacchia si avanza la proposta di avviare colloqui bilaterali. Il 29 luglio e il 3 agosto l’incontro con i responsabili dell’URSS illude i Cecoslovacchi di poter restare tranquilli. Ma tra la notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe sovietiche con contingenti polacchi, tedeschi, bulgari e ungheresi invadono il Paese, anche sulla scorta di una richiesta che viene da alcuni leader conservatori cecoslovacchi. Nella sola prima giornata di lotta si contano 58 vittime. Nei mesi successi, inaspettatamente per le forze di invasione, il Paese dà vita ad una forte resistenza passiva, mentre il presidente Ludvik Svoboda (1895-1979) rifiuta di varare un nuovo governo. Anche gli operai, che hanno mostrato in precedenza scarso interesse per la politica riformista, partecipano alla resistenza passiva, con spontanei consigli di fabbrica che si oppongono alla “normalizzazione” imposta dai sovietici. Un accordo con gli occupanti prevede, quindi, che Dubcek ritorni al potere per riportare il Paese sotto controllo e procedere a una “normalizzazione”. Ma nei mesi successivi, il leader deve prima sganciarsi dai settori più liberali e poi viene allontanato dalla vita politica, mentre il comunista ortodosso Gustáv Husák (1913-1991) assume la carica di segretario del partito. Fra il 1969 e il 1970 le epurazioni allontanano dal partito 14 mila funzionari e 280mila iscritti. Molti professionisti e intellettuali vicini ai riformisti perdono il lavoro, adattandosi a svolgere i mestieri più umili.
Dagli anni Settanta al crollo del regime
Negli anni Settanta il Paese soffre per la stagnazione economica e per l’assenza di qualsiasi riforma. Come negli altri Paesi dell’Est europeo, la crisi petrolifera ha effetti negativi nella rigida economia del Paese, tanto che si rende difficile anche l’approvvigionamento del combustibile per riscaldamento. L’economia a metà del decennio imbocca un lento e costante declino che si fa più marcato nel corso degli anni Ottanta, quando le industrie evidenziano limiti tecnologici, inefficienza e un forte impatto ambientale. In questo clima pesante si sviluppa il movimento etico Charta 77, che ha tra i suoi protagonisti lo scrittore Václav Havel (1936-2011). Il documento costitutivo, sottoscritto da numerosi intellettuali cecoslovacchi, perlopiù vittime delle purghe successive alla primavera del 1968, chiede il rispetto dei diritti umani, richiamandosi agli accordi di Helsinki del 1975.
Il regime cecoslovacco resta tuttavia arroccato sulle sue posizioni, fino a giungere quasi alla rottura con lo stesso regime sovietico in via di trasformazione. Husák, in occasione del 70° anniversario della rivoluzione russa di ottobre, per contrasti con la linea enunciata da Gorbacev, lascia Mosca e non partecipa alle celebrazioni. Nel dicembre del 1987, però, viene sostituito come segretario politico da Jakes, più disposto ad aperture.
Il crollo definitivo del regime è innescato dagli avvenimenti polacchi, ungheresi e dal crollo del muro di Berlino. Numerose manifestazioni pacifiche (da qui il nome di “rivoluzione di velluto”), si susseguono nel corso del 1989 e culminano con il grande raduno sulla spianata del Letná di Praga, cui partecipano 750 mila persone. I dissidenti del Forum Civico, guidati da Havel, formano una coalizione anticomunista e negoziano le dimissione del governo, che vengono conseguite il 3 dicembre. Nasce un nuovo governo, con i comunisti minoritari, e il 29 dicembre l’Assemblea federale elegge Havel presidente della Repubblica, mentre Dubcek è eletto presidente della Camera federale.
Come in tutti gli altri Paesi dell’Est europeo, la transizione dal regime comunista a quello democratico e dall’economia statalista a quella del libero mercato si presenta faticoso. La ristrutturazione e la cura cui viene sottoposto il Paese tra il 1988 e il 1992 gli fa perdere il 20 percento del suo PIL. Il Forum Civico si divide in due partiti, uno di centrodestra, e l’altro di centrosinistra. Il primo vince le elezioni del 1992. Nello stesso anno, la Slovacchia avvia la scissione dal Paese, riprendendo una sua antica aspirazione. La separazione viene rapidamente decretata, in modo pacifico, tanto che si è detto che alla “rivoluzione di velluto” fatto seguito il “divorzio di velluto”. Il 1° gennaio 1993 la Cecoslovacchia cessa di esistere, dando luogo a due stati separati: la Repubblica Ceca, e la Repubblica di Slovacchia con capitale Bratislava. Nel 1999 la Repubblica Ceca si integra al blocco occidentale con l’ingresso nella NATO.
Nell’ultimo quinquennio, le economie dei due Paesi mostrano segnali di progresso, e nel 2004 entrambe entrano a far parte dell’Unione Europea.