La censura
La censura è una forma di controllo sociale che limita la libertà di espressione e di accesso all’informazione, basata sul principio secondo cui determinate informazioni e le idee e le opinioni da esse generate possono minare la stabilità dell’ordine sociale, politico e morale vigente. Applicare la censura significa esercitare un controllo autoritario sulla creazione e sulla diffusione di informazioni, idee e opinioni.
I primi interventi censori furono sporadici e non organizzati formalmente. La Bibbia registra uno dei primi casi, quello del re Joachim che mutilò il libro dettato dal profeta Geremia (Geremia, 36, 1-26). Nel 5° sec. a.C. le autorità spartane proibirono determinate forme di poesia, musica e danza, considerate fattori di effeminatezza e di licenziosità. Nell’antichità classica, filosofi e artisti furono talvolta accusati di empietà e alcuni libri furono distrutti, ma la libertà di parola finì per essere ritenuta una delle più importanti differenze tra il cittadino e lo schiavo o lo straniero. Sulla base di questa convinzione i filosofi greci formularono la prima difesa razionale della libertà di espressione, ma anche la prima, fondamentale giustificazione della censura. Socrate, accusato di empietà e di corruzione di giovani, e giustiziato nel 399 a.C., difendeva la libertà di parola.
Platone considera la censura un elemento necessario della sovranità. La sua difesa della censura è diventata l’argomento classico di molti regimi autocratici, che hanno insistito sulla propria facoltà di decidere quali idee o informazioni siano lecite e quali no. Secondo Tacito, nel 1° sec. d.C., dopo il consolidamento del regime autocratico, a Roma scomparve la libera manifestazione di opinioni relative agli avvenimenti pubblici. Così, anche se la censura religiosa era ridotta al minimo e si tollerava un’ampia varietà di opinioni religiose, ebrei e cristiani – i quali consideravano il culto dell’imperatore un atto non già di fedeltà politica, bensì di idolatria – furono perseguitati.
Così, nel 325, il Concilio di Nicea dichiarò eretici i libri di Ario, e Costantino prescrisse la pena di morte per chiunque avesse cercato di sottrarli al rogo da lui stesso ordinato; nel 496 papa Gelasio promulgò un indice papale dei libri condannati come eretici e proibiti.
Nel Medioevo la massima autorità censoria fu la Chiesa, che decideva quali idee e opinioni fossero contrarie alla dottrina, dannose per la fede o per la morale, o pericolose per l’unità del mondo cristiano, e nel 1231-35 Gregorio IX fondò l’Inquisizione, destinata a individuare, giudicare e condannare gli eretici e distruggere ogni loro testo.
L’avvento della stampa e il diffondersi dell’alfabetizzazione rappresentarono una minaccia per le autorità ecclesiastiche, che reagirono rendendo la censura più rigorosa e organizzata. Nel 1501 una bolla di Alessandro VI proibì di stampare senza autorizzazione, introducendo così il principio della censura preventiva sulla stampa.
Le autorità cattoliche e quelle protestanti usarono gli stessi criteri nell’organizzare la propria censura. Così, in Inghilterra, fu prerogativa della corona definire l’eresia e fissare le direttive dell’intervento censorio. Nel 1531 Enrico VIII introdusse un sistema di censura preventiva e delegò all’autorità laica il potere di concedere l’autorizzazione alla stampa. Nei Paesi cattolici era il papato a fissare la nuova legislazione relativa alla censura e a controllarne l’applicazione. Nel 1564 venne promulgato un nuovo, perentorio, Index librorum prohibitorum, il quale stabiliva le opere e gli scrittori che non dovevano essere stampati o letti dai cattolici, specificava autore e titolo dei libri proibiti, indicava quelli che potevano essere messi in circolazione solo dopo essere stati purgati e fissava una particolare normativa per il commercio dei libri. L’Index, opportunamente rivisto e aggiornato, restò in vigore per circa 400 anni ed è stato abolito soltanto nel 1966.
La guerra civile inglese (1640-60) colpì duramente l’assolutismo inglese e i suoi consolidati meccanismi di censura. In questo periodo relativamente breve di libertà di stampa vennero scritte alcune delle principali opere teoriche che, oltre a cogliere l’interdipendenza fra autocrazia e censura, chiedevano l’abolizione di quest’ultima. Nell’Areopagitica (1644), J. Milton prendeva posizione a favore dell’abolizione della censura preventiva sulla stampa; la censura veniva condannata come male sociale, mentre la libertà di parola veniva considerata socialmente utile. Nello stesso periodo, T. Hobbes nel Leviathan (1651), cercava di fornire, contrariamente a Milton, un’esplicita giustificazione della censura. Secondo Hobbes, compito principale del potere sovrano è quello di «prevenire discordia e guerra civile»; dato che «le azioni degli uomini derivano dalle loro opinioni», allora «rientra nelle competenze della sovranità giudicare quali opinioni o dottrine siano avverse alla pace e quali conducano a essa [...] e chi debba esaminare le dottrine esposte in tutti i libri prima che siano pubblicati».
In Francia la censura fu abolita con la rivoluzione e la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen (1789) riconobbe la libertà di stampa. Nei vari Paesi europei, da una parte, e nell’America del Nord, dall’altra, la Rivoluzione francese provocò reazioni diametralmente opposte, che furono all’origine del diverso status della censura nella prima metà del 19° sec. Le colonie americane si mostrarono assai sensibili alle idee della Rivoluzione francese e furono all’avanguardia nel ridurre e abolire la censura religiosa e politica. Nel 1791 il congresso degli Stati Uniti ratificò l’ormai famoso primo emendamento alla Costituzione americana: «Il congresso non promulgherà alcuna legge per imporre una religione o per proibirne la libera professione; o per ridurre la libertà di parola o di stampa, o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente e di presentare petizioni al governo per ottenere la riparazione di torti subiti». Secondo la Costituzione americana gli individui hanno sempre il diritto di indagare su argomenti di pubblico interesse e di criticare l’operato del governo.
La pubblicazione di pamphlets politici non poteva quindi più essere considerata un delitto e il Sedition act, che nel 1798 aveva condannato come atto criminale la pubblicazione di «ogni scritto falso, scandaloso e tendenzioso» contro il governo degli Stati Uniti, il congresso o il presidente, fu modificato dopo due anni. Le rivoluzioni francese e americana provocarono una reazione del tutto differente in quei Paesi europei dove i sovrani cercavano di arginare il dilagare delle idee rivoluzionarie e di rafforzare i propri regimi autocratici. Così Austria, Prussia e Russia risposero intensificando e perfezionando i propri mezzi di repressione e di controllo, in primo luogo la censura: non si poteva pubblicare alcunché senza previa approvazione; centinaia di libri, cui era stato permesso di circolare liberamente prima della Rivoluzione francese, furono proibiti. L’Austria e gli Stati tedeschi adottarono, riguardo alla censura, politiche uniformi. I censori russi, dal canto loro, avevano sempre prestato grande attenzione a quel che facevano i loro colleghi austriaci e prussiani, e perciò, dopo la repressione della rivolta decabrista del 1825, la censura russa diventò particolarmente rigida e assurda. La Rivoluzione del 1848 costrinse i governi austriaco e prussiano ad abbandonare la censura preventiva sulla stampa, ma in Russia soltanto con la Rivoluzione del 1905 la stampa fu liberata da questa come da molte altre limitazioni.
Il periodo tra la fine del 19° e l’inizio del 20° sec. segnò una svolta nella storia della censura. Questa, infatti, declinò: un declino inevitabilmente legato a quello del regime monarchico assolutistico, da un lato, e al diffondersi della democrazia, dall’altro. Ciò fu, come aveva rilevato A. de Tocqueville, «una necessaria conseguenza della sovranità popolare». Con l’estensione del diritto di voto e con la crescita della libertà individuale aumentava pure la libertà di stampa e di espressione. Si giunse così, negli Stati Uniti, alla promulgazione del primo emendamento alla Costituzione, che garantiva libertà di religione, di parola, di stampa, di riunione, ed escludeva le possibilità di censura religiosa e politica. Scopi precipui della censura diventarono, invece, la repressione dell’oscenità e la tutela della moralità pubblica, da un lato, e la salvaguardia della sicurezza nazionale e dei segreti di Stato, dall’altro.
Con le lotte dei movimenti studenteschi e con la «rivoluzione sessuale» degli anni Settanta, la storica controversia sulla censura imboccò una nuova strada, divenendo uno dei temi di affermazione della libertà individuale contro i poteri «precostituiti».
Nei periodi di guerra, o di forte tensione politica interna o internazionale, si assiste all’inasprimento di una particolare forma di censura, diretta in particolare a tutelare la sicurezza nazionale e i segreti di Stato. In tali periodi la necessità di privare il nemico di informazioni vitali porta alla reintroduzione della censura preventiva sulla stampa e a un forte aumento del potere dei censori. Nel 1966, sulla base di numerose indagini e di altrettanti rapporti e sotto la spinta dell’opinione pubblica, il Congresso approvò quello che divenne noto come il Freedom of information act, secondo il quale i cittadini possono chiedere chiarimenti su qualsiasi attività governativa, fatta eccezione per gli argomenti top secret. Da allora i cittadini degli Stati Uniti godono di una maggiore possibilità di accesso alle informazioni concernenti l’operato del proprio governo.
Nel corso del 20° sec. la censura ha avuto una storia molto diversa fuori dell’area dei Paesi sviluppati con governi liberaldemocratici. L’esperienza dei regimi monopartitici sia di tipo nazifascista sia di tipo sovietico ha dimostrato l’importanza della struttura politica e delle forme dominanti di proprietà nel determinare la natura stessa e la diffusione della censura nelle società moderne. L’instaurazione di un regime monopartitico efficiente richiede il controllo sistematico dei mass media, delle arti e di tutte le forme di espressione pubblica. Una volta introdotto, tale controllo diventa uno dei più importanti strumenti per mantenere la stabilità interna del regime.
Il governo di Mussolini introdusse la politica dell’epurazione subito dopo la presa del potere. L’eliminazione di ogni reale opposizione antifascista nel Paese doveva cominciare dalle comunicazioni di massa: la prima legge contro la libertà di stampa fu adottata dal governo fascista già nel 1923, anche se entrò in vigore un anno dopo. Dopo l’assassinio di Matteotti, invece, lo smantellamento delle vecchie strutture del periodo liberale assunse un ritmo accelerato. La fascistizzazione integrale della stampa seguì due linee generali. I quotidiani più influenti che godevano di notorietà e prestigio all’estero, come il Corriere della Sera e La Stampa, furono fascistizzati dall’interno con un radicale cambio di proprietà e l’allontanamento dei vecchi direttori. Per quanto riguarda gli altri giornali dell’opposizione, il governo Mussolini si pose come obiettivo la loro radicale eliminazione; applicò la legge del 1923 e, procedendo con sequestri e diffide a ritmo crescente, cominciò a far devastare le sedi di giornali dei partiti d’opposizione. Infine, l’attentato a Mussolini nel 1926 servì come ultimo pretesto per sciogliere ogni partito e sopprimere la stampa di opposizione. Nello stesso tempo la Federazione della stampa italiana, che era essenzialmente antifascista, venne sciolta e fusa con il sindacato fascista dei giornalisti in una organizzazione nuova, che nel 1927 divenne parte della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti. Analogamente, anche il governo nazista, per assicurarsi il controllo completo sui mass media e sull’arte, cominciò a eliminare l’opposizione e a epurare i gruppi intellettuali e artistici. Questo periodo nella Germania nazista è stato più breve che nell’Italia mussoliniana, a causa del grado di violenza, che fu incomparabilmente più alto, e dell’ideologia razzista, che fondeva la volontà di sopprimere gli oppositori del regime con il fanatismo antisemita, diretto a liquidare i «nemici della razza». Già nella prima settimana dopo l’ascesa di Hitler al potere furono adottate leggi di emergenza per proibire le pubblicazioni che mettevano in pericolo la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Famosi scrittori e artisti antinazisti furono estromessi d’autorità dall’Accademia delle arti o costretti ad abbandonarla. Molti scrittori e giornalisti furono arrestati e messi in prigione sulla base di «liste nere». Tra le azioni più clamorose del periodo di epurazione ricordiamo i roghi dei libri nella primavera del 1933, organizzati nelle più importanti università tedesche. Inoltre furono compilate «liste nere» di libri «nocivi e indesiderati» da eliminare dalle biblioteche pubbliche e «liste bianche» di libri raccomandati dallo Stato.
Nella fase della costruzione delle società totalitarie il controllo sull’informazione e sulla vita culturale ha sempre il sopravvento, mentre la censura riprende importanza primaria nella fase successiva del mantenimento del sistema totalitario, a cui i regimi nazista e fascista, spazzati via dalla Seconda guerra mondiale, non sono mai arrivati. L’evoluzione della censura nelle società di tipo sovietico assume perciò per gli studiosi del fenomeno un significato speciale. La censura costituiva, in queste società, una componente essenziale del regime monopartitico.
In queste condizioni la censura si identificava infatti con tutti i processi tramite i quali si impongono restrizioni alla raccolta, alla diffusione e allo scambio di informazioni, opinioni e idee. La censura si estendeva fino ad «avvolgere» tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla stampa al cinema, alla radio, alla televisione. Il partito al governo continuava a prospettare l’obiettivo dell’edificazione della società comunista come mezzo per legittimare il proprio monopolio del potere; esso cercava di creare nelle masse un consenso pressoché completo su questo programma e sulla sua desiderabilità e forniva regolarmente prove dei progressi compiuti verso la sua realizzazione. Ogni obiezione o differenza di opinione veniva ritenuta, perciò, un attacco alla legittimità dello Stato e un tentativo di mutare la struttura di potere esistente.
La censura dirigeva il libero flusso delle informazioni entro canali controllati dal regime, senza sopprimere, in linea di principio, le innovazioni approvate dalle autorità politiche. Il decreto sulla stampa fu promulgato dal Consiglio dei commissari del popolo il 9 novembre 1917, a due giorni dall’inizio della rivoluzione bolscevica. Esso imponeva, con effetto immediato, «misure temporanee e straordinarie» di censura su ogni pubblicazione, per impedire alla propaganda borghese l’organizzazione delle forze controrivoluzionarie. Nel 1922 venne sostituito dalla commissione superiore contro la pubblicazione dei segreti militari e di Stato, generalmente nota come Glavlit; la commissione era l’organo ufficiale della censura, annesso al Consiglio dei ministri e strettamente collegato al KGB.
Secondo i calcoli degli esperti, intorno alla metà degli anni Sessanta la censura poteva già contare su un apparato di circa 70.000 funzionari. Nel periodo staliniano dalle biblioteche sovietiche furono eliminati i libri citati nell’«elenco delle vecchie edizioni vietate nelle pubbliche biblioteche», che, aggiornato ogni anno, in alcuni casi giunse a contenere fino a 12.000 titoli. Successivamente, oltre alla massa dei libri «nocivi» distrutti da tempo, l’indice forniva regolarmente ai censori nuovi nomi di autori e uomini politici che non potevano essere citati sulla stampa sovietica.
A conclusione di questa rassegna storica degli atteggiamenti verso la censura, si può dire che le idee elaborate al riguardo nel contesto della tradizione liberale occidentale si sono gradualmente imposte in tutto il mondo. Quale che sia la prassi effettiva nei vari regimi dittatoriali, i loro governi sono a un certo punto costretti a proclamare la loro piena accettazione della libertà di parola e la loro avversione nei confronti della censura. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (1948) ha affermato il diritto fondamentale di tutti gli uomini di «chiedere, ottenere, fornire informazioni e scambiarsi idee tramite qualsiasi mezzo di comunicazione e attraverso tutte le frontiere». L’atto finale della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, firmato a Helsinki nel 1975 dai rappresentanti di 35 Paesi, contiene un appello a favore del libero flusso di informazioni tra Est e Ovest. L’affermazione delle nuove tecnologie e la diffusione di Internet hanno consentito un parziale aggiramento di forme di censura anche in quei Paesi dove il controllo dell’informazione continua a sopravvivere (per es. in Cina e in Iran). Violazioni reiterate di questi principi o un inasprimento della censura non cambiano il fatto che simili atti politici non possono più trovare alcuna giustificazione presso l’opinione pubblica mondiale.
Il futuro della censura è ormai determinato dallo sviluppo di nuove forme di comunicazione, capaci di accrescere la libertà di espressione individuale, e dall’affermarsi di nuovi metodi di consapevolezza, atti a ridurre tutte le possibili conseguenze negative per altri, non meno preziosi, diritti umani.
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