Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il ritorno al “naturale” come fonte di ispirazione segna un importante filone della pittura secentesca. Determinante nel suo sviluppo è l’esempio di Caravaggio che dà l’avvio alla conversione in senso naturalistico di uno stuolo di seguaci che accorrono a Roma dal resto d’Italia, dalle Fiandre, dalla Francia. Da Roma il linguaggio caravaggesco si diffonde nelle province cui fanno ritorno i pittori dopo le grandi fortune del movimento a Roma. Ma l’interesse per il naturale non porta esclusivamente un’impronta caravaggesca: indipendenti da essa sono le opere di Antoine, Louis e Mathieu Le Nain e di Zurbarán.
Il movimento caravaggesco
Fra le varie manifestazioni che assume tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento il recupero del naturalismo in pittura, un posto decisivo è occupato dal movimento caravaggesco. L’intensità di questo episodio, che non può essere designato come un vero e proprio “movimento” nell’accezione moderna del termine, e la sua breve ma folgorante fortuna ne fanno la punta più avanzata di un generale ritorno d’interesse per la centralità della “natura” nell’espressione artistica.
Il termine “movimento” trova la sua giustificazione nelle caratteristiche che segnano le vicende dei seguaci di Caravaggio: un gruppo di artisti accomunati sia dall’adesione a un linguaggio che ha nel metodo e nei soggetti gli elementi di un’orgogliosa appartenenza, sia un’identità fatta di esperienze sociali simili e di frequentazioni quotidiane nello spazio di un rettangolo di strade della medesima città di Roma.
La capacità di attrazione del modello caravaggesco è dovuta alle novità formali e iconografiche introdotte da Caravaggio a San Luigi dei Francesi (Vocazione di san Matteo e Martirio di san Matteo), a Santa Maria del Popolo (Crocefissione di san Pietro e Conversione di Saulo), alla Chiesa Nuova e dalla conturbante sensualità delle sue opere dipinte per i privati (come, per esempio, il Fanciullo morso da un ramarro). Fondamentali sono anche le connotazioni antiaccademiche del suo metodo, che permette a una nuova generazione di pittori di ottenere, senza uno stressante e oscuro tirocinio nelle botteghe, risultati pressoché immediati, avendo come unico punto di riferimento la realtà delle cose e dei modelli da raffigurare.
Quanto mai chiarificatore in questo senso è un brano del Bellori (1672), che illustra il clima e il fervore dei primi anni della diffusione del metodo caravaggesco: “Tanto che li pittori all’hora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li giovini concorrevano a lui [Caravaggio], e celebravano lui solo, come unico imitatore della natura, e come miracoli mirando l’opere sue, lo seguitavano a gara, spogliando modelli, et alzando lumi; e senza più attendere a studio, et insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza, e per via il maestro e gli esempi nel copiare il naturale”.
Tuttavia, paradossalmente, per giungere alla sconvolgente raffigurazione della realtà che tanto colpiva i suoi estimatori, Caravaggio si era servito di un artificio: l’ambientazione delle scene, da riportare poi sulle tele, all’interno del suo studio buio, illuminato da una luce spiovente dall’alto, che fa emergere con esasperata evidenza i corpi dei modelli. Tale espediente viene ripreso dai seguaci di Caravaggio (e da alcuni spinto a virtuosismi stilistici), come ben sottolinea Giulio Mancini (1617-1621 ca.), parlando di una vera e propria “schola”: “Proprio di questa schola è di lumeggiar con lume unito che venghi d’alto senza reflessi, come sarebbe in una stanza da una fenestra con le pariete colorite di negro, che così, havendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto oscure, vengono a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale, né fatto, né pensato da altro secolo o pittori più antichi, come Raffello, Titiano, Correggio et altri”.
Un ruolo fondamentale nella fortuna del naturalismo caravaggesco è svolto dai soggetti dei dipinti, spesso inediti o piuttosto reinventati dalla ferrea adesione al reale di Caravaggio.
I seguaci li riprendono fornendo infinite variazioni, ma quasi mai derogando da un repertorio che sembra già perfettamente definito nell’opera del pittore lombardo: si hanno così decine di versioni di “San Giovanni Battista”, “Giuditta”, “David”, “Vocazione di san Matteo”, “Salomè”, “Maddalena”, “Cena in Emmaus” e numerose ripetizioni delle fortunate invenzioni iconografiche di Caravaggio, quelle che più corrispondono a un vero e proprio “genere”, poi ulteriormente fissato dagli apporti originali di Bartolomeo Manfredi e di Gerrit Honthorst: “Concerti”, “Tavoli di giocatori”, “Buone venture”, “Negazioni di san Pietro”.
L’influenza della rivoluzione caravaggesca è evidente già al tempo in cui Caravaggio soggiorna a Roma. Il processo Baglione del 1603 è in realtà l’espressione di una rivalità pienamente in atto fra Caravaggio e coloro che si avventurano a imitare il suo metodo, ottenendo così risultati che possono apparire simili ai suoi e che pertanto vanno incontro al gusto dei potenziali committenti di Caravaggio. Si tratta in quel caso di Tommaso Salini e del suo maestro Giovanni Baglione, che proprio nel 1603 ha appena dipinto la grande Resurrezione per la Chiesa del Gesù (oggi perduta, rimane un bozzetto preparatorio al Louvre), sfidando, come ben vedeva il critico letterario Roberto Longhi, Caravaggio sul suo stesso terreno.
La prima generazione dei pittori caravaggeschi a Roma
Al pari del Baglione, artista già maturo all’inizio del Seicento, che avrà una precoce e breve conversione caravaggesca, anche altri pittori già formati mostrano una più o meno duratura conversione alle tensioni naturalistiche del grande artista lombardo.
L’esempio più significativo in questo senso è quello di Orazio Gentileschi, che alla soglia dei quarant’anni muta totalmente stile, trasformandosi da mediocre collaboratore di grandi imprese decorative ad affresco in uno dei più raffinati artisti del secolo ed esportando la sua maniera fredda, ma di suprema eleganza formale, presso le corti di Francia e d’Inghilterra. Il Gentileschi non abbandona mai una precisa struttura disegnativa che gli deriva dalla sua nascita toscana e si accosta anche ad altre esperienze naturalistiche parallele a quelle di Caravaggio, come il prezioso microcosmo paesistico di Adam Elsheimer, tuttavia egli deve alla pittura di Caravaggio (di cui è anche amico e complice nell’ambito del processo Baglione) la nuova solidità delle sue figure, che trovano già una soluzione “caravaggesca” nella Pala di Brera del 1606-1607 e ancor più nell’Incoronazione di spine o nell’ Andata al Calvario.
Fra primo e secondo decennio del Seicento, quando Caravaggio è ormai lontano da Roma, avvengono le conversioni di altri artisti, la cui complessità stilistica non può essere ridotta a una semplice adesione caravaggesca. È il caso di Orazio Borgianni che sulla base di una cultura cinquecentesca di matrice soprattutto emiliano-veneta, capace di esiti precoci e originali, come la Visione di san Francesco del 1608, deposita una coloritura naturalistica che giunge nel secondo decennio del Seicento a risultati fecondi per la seconda generazione di caravaggeschi (San Carlo Borromeo che adora la SS. Trinità, diverse versioni della “Sacra Famiglia con sant’Anna” e del “Cristo morto con dolenti”).
Amico del Borgianni e suo complice nell’attentato al Baglione del 1606 è Carlo Saraceni, pittore veneziano, che all’attenzione naturalistica derivata da Giovanni Gerolamo Savoldo, affianca l’interesse per le preziosità cromatiche di Adam Elsheimer e per le favole mitologiche dei Carracci, proponendosi come raffinato petit-maître. Improvvisa è la sua conversione caravaggesca, che dà luogo, fra il 1616 e il 1618, a quattro pale d’altare che restano fra le più significative del movimento: le due di Santa Maria dell’Anima (tra le quali il Martirio di san Lamberto), la Processione del Sacro Chiodo di san Carlo Borromeo di San Lorenzo in Lucina e San Carlo Borromeo comunica un appestato di Cesena.
A questi tre artisti, che in diverso modo si misurano con la rivoluzione caravaggesca, fondendola con esperienze precedenti, si contrappongono tre pittori ugualmente attivi sulla scena romana, più giovani di età. Fra essi l’esperienza caravaggesca corrisponde in modo indissolubile al loro essere pittori; sono essi i più fedeli seguaci di Caravaggio: Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio e Bartolomeo Manfredi.
Il primo, lo Spadarino, di origine senese, si fa interprete di una versione più elegiaca del linguaggio caravaggesco, avendo come punti di riferimento opere come la Madonna dei Palafrenieri o il San Giovanni Battista Corsini. Egli pare a conoscenza del precedente di Savoldo in opere come il Narciso Barberini; più tardi sembra accostarsi a Honthorst, influenzando forse pittori fiamminghi attivi a Roma nel terzo decennio, come Paulus Bor e Jacob van Oost il Vecchio, approdando infine a una severità quasi giansenista (il Battesimo di Costantino).
Quanto a Francesco Boneri, bergamasco, strettamente legato a Caravaggio, pur nella scarsità di dati documentari, possiamo riconoscere in lui una formidabile lucidità e un esasperato naturalismo (quasi un iperrealismo ante litteram) che va al di là dello stesso Caravaggio nell’audacia dei significati omoerotici e nella tensione compositiva: si pensi a dipinti come l’Amore al fonte o alla Resurrezione, dipinta per la chiesa fiorentina di Santa Felicita fra il 1619 e il 1620.
Bartolomeo Manfredi, mantovano, dopo un iniziale apprendistato presso Cristoforo Roncalli, si avvicina a Caravaggio e ben presto produce opere di stretta osservanza naturalistica, come Marte che punisce Amore, che mostra anche un preciso rapporto col Boneri. Più tardi spetta a lui la messa a punto di una serie di soggetti conviviali (scene di osteria, concerti, giocatori) che avranno larghissima fortuna e che costituiranno un vero e proprio filone di pittura caravaggesca, battezzato dal Sandrart “manfrediana methodus”.
Un’iniziale tangenza col Roncalli, maestro di Manfredi, accomuna altri due artisti variamente implicati nelle vicende caravaggesche: il primo è Antiveduto Gramatica, presso il quale Caravaggio sosta nei suoi primi tempi romani e che, già dall’inizio del Seicento, mostra una decisa adesione al luminismo e al cromatismo caravaggeschi in opere come la Giuditta o la Santa Cecilia.
Quindi, a capo di un frequentatissimo atelier, diviene una figura centrale sia per le fertili amicizie (Borgianni, Guerrieri, probabilmente Serodine e Vouet), sia per il suo peso politico che lo porta a rivestire la carica di Principe dell’Accademia di San Luca.
Presso il Roncalli si svolge anche l’educazione del viterbese Bartolomeo Cavarozzi. Egli rimane in quell’entourage, fino all’inizio del secondo decennio, quando nel suo percorso avviene una sorprendente mutazione in senso caravaggesco. Realizza così alcuni capolavori come il San Gerolamo con due angeli o la Sacra Famiglia.
Oltre a Bartolomeo Cavarozzi, anche alcuni artisti spagnoli contribuiranno a diffondere la tendenza caravaggesca nella loro terra d’origine. Al contrario di Ribera, che Mancini inserisce nella “schola” di Caravaggio, che si trasferisce a Napoli per intraprendere una luminosa carriera, tornano in Spagna durante il secondo decennio artisti già pienamente caravaggeschi come Juan Bautista Maino, autore nel 1613 del formidabile Retablo di san Pietro Martire, dove si mostra reattivo al Gentileschi e al Boneri, e Pedro Nuñez del Valle, vero e proprio alter ego spagnolo del Boneri.
Il metodo di lavoro nella cerchia caravaggesca
Il successo della pittura caravaggesca presso i collezionisti e la “facilità” del metodo, testimoniati da un famoso brano del marchese Vincenzo Giustiniani, spinge molti giovani artisti a trasferirsi a Roma, non solo dall’Italia, ma anche dalla Francia e dalle Fiandre. Il culmine di questo fenomeno di immigrazione artistica avviene durante il secondo decennio del secolo (continuerà, anche nel terzo), quando il Mancini, incapace di fornirne un decoroso censimento, si vede costretto ad affermare: “molti franzesi e fiammenghi che vanno e vengono, non li si puol dar regola”.
Se Carlo Saraceni ha nella sua bottega diversi francesi, fra cui si distinguono soprattutto Jean Le Clerc e Guy François, è soprattutto la “manfrediana methodus” a vedere fra le proprie fila una nutrita rappresentanza di francesi. Sia Nicolas Tournier nella sua fase romana, sia Nicolas Régnier di Meuberge ripropongono, talvolta superando il maestro nella raffinatezza pittorica, le scene conviviali del Manfredi. Ma il più grande caravaggesco di orbita manfrediana, coinvolto anche nell’esperienza del Boneri, è senz’altro Valentin de Boulogne che sa tingere di una dolorosa e selvatica malinconia le raffigurazioni naturalistiche dei suoi colleghi.
Scene conviviali, ambientate a lume di candela, con la fonte di luce in evidenza, fanno la fortuna di Gerrit van Honthorst di Utrecht, giunto in Italia probabilmente all’inizio del secondo decennio. Proprio per quelle scene a lume notturno viene chiamato Gherardo delle Notti.
Ma la sua importanza, quale ideatore di un genere che avrà larga fortuna, prima nelle riprese del senese Francesco Rustici e nelle riedizioni dei diversi pittori tuttora confusi nel gruppo del cosiddetto Maestro del lume di Candela, non sta certo in queste fortunate ma, in fondo, ripetitive composizioni. In un gruppo di pale, eseguite per i Carmelitani (Decollazione del Battista di Santa Maria della Scala a Roma e l’Incoronazione di Santa Teresa d’Avila della chiesa di Sant’Anna a Genova) e per i Cappuccini (San Francesco, San Bonaventura e la principessa Gonzaga con la Madonna e angeli nel convento di Albano), egli si mostra come uno dei più sensibili e tecnicamente dotati interpreti del caravaggismo, di cui esalta, ponendosi in questo a fianco dello Spadarino, i contenuti più sentimentali.
La scuola di Utrecht
Dopo un soggiorno romano, nel secondo decennio del Seicento tornano a Utrecht anche altri artisti originari di quella città come Hendrick Ter Brugghen, di cui è ignota l’attività italiana (fino al 1614 circa). In Olanda TerBrugghen mette a punto uno stile di grande preziosità pittorica con effetti di luminismo più sottili rispetto a Honthorst.
Dirck van Baburen è famoso soprattutto per la sua attività romana, in particolare quella svolta in collaborazione con l’amico David de Haen nella chiesa di San Pietro in Montorio (dipinti della cappella della Passione).
Una direttrice importante lungo la quale si muove (seguendo il percorso biografico di Caravaggio) la diffusione del naturalismo caravaggesco è l’asse Roma-Napoli. Nella città partenopea, nel corso degli anni, giungono da Roma artisti precocemente implicati nel naturalismo, come il fiammingo Louis Finson, il valsesiano Tanzio da Varallo, che è attivo anche nelle regioni meridionali, come dimostrano le pale di Pescocostanzo e di Fara San Martino, e che verso il 1616 fa ritorno nella natìa Lombardia) e il già citato Ribera. Più tardi, alla fine del terzo decennio, dopo una complessa parabola caravaggesca, certo più sperimentale rispetto a quella del padre Orazio, vi approda Artemisia Gentileschi, decisa a mantener fede alla sua passione originaria nella città dove, a differenza di Roma, la pittura di ispirazione naturalistica riuscirà a dominare ancora a lungo.
Protagonisti della scena napoletana sono pittori come Battistello Caracciolo (che ha diretta familiarità con Caravaggio nei suoi anni napoletani e che si trova a Roma all’inizio del secondo decennio), Filippo Vitale, il cui recente recupero non ne permette ancora una valutazione definitiva, ma che si presenta già come un personaggio di rilievo, Massimo Stanzione, Domenico Finoglia, Francesco Guarino, Onofrio Palumbo e Antonio De Bellis. Infine, da non dimenticare, per la squisita eleganza delle sue realizzazioni, Bernardo Cavallino, che infonde alle sue scene una grazia protosettecentesca, e il pittore ancora anonimo detto Maestro degli Annunci, fedele assertore per tutta la sua carriera di contenuti di forte impronta pauperistica trattati con grande padronanza dei mezzi pittorici.
Durante il terzo decennio a Roma il movimento caravaggesco è ormai in crisi e la sua sopravvivenza e il suo rinnovamento, sulla spinta delle mode bolognesi introdotte con decisione da Gregorio XV, sono legate soprattutto a due fenomeni: il primo è l’influenza, anche sul piano politico-artistico, del francese Simon Vouet, che, da un iniziale coinvolgimento nella cerchia Manfredi-Gramatica, si evolve verso un’interpretazione del naturalismo in chiave ben più dinamica e sensuale rispetto alla severità e al rigore morale degli ortodossi.
Fra i pittori che più risentono di questi nuovi approcci al naturale sono da ricordare, oltre alla già citata Artemisia Gentileschi, autrice di uno dei quadri-manifesto del decennio (Giuditta e la fantesca), il pisano Orazio Riminaldi, già prossimo al Manfredi al suo arrivo a Roma negli anni Venti del secolo e più tardi capace di trarre il meglio da Vouet e Lanfranco, e il fiorentino Giovanni Martinelli.
Più isolato – e certo meno seguito del Vouet nella sua impervia e inimitabile grandezza – è un altro protagonista del terzo decennio romano, il ticinese Giovanni Serodine. Inizialmente autore di opere di stretta osservanza caravaggesca, eseguite probabilmente nel secondo decennio (come la Vocazione dei figli di Zebedeo, il Miracolo di santa Margherita), sa aggiornare il proprio linguaggio naturalistico, più attento agli aspetti di povertà, sulle novità di Lanfranco e Guercino nelle pale per San Lorenzo fuori le mura (1622-1623 ca.) e nelle tele dipinte per Asdrubale Mattei, fino a giungere a una personale apertura al barocco nella Incoronazione della Vergine.
La crisi d’interesse per la pittura caravaggesca, unita a contingenze personali, provoca il ritorno alle terre di origine di molti pittori approdati a Roma negli anni forti del naturalismo.
Un breve elenco dovrà almeno ricordare il genovese Domenico Fiasella, il marchigiano Giovanni Francesco Guerrieri, il veronese Marcantonio Bassetti, i piemontesi Niccolò Musso e Giuseppe Vermiglio; in taluni casi (Musso, Bassetti, Guerrieri), l’esperienza romana non andrà del tutto perduta e al ritorno in patria, pur con l’inevitabile perdita di stimoli, questi pittori riaffermeranno nelle loro province, attraverso le loro pale d’altare, la grammatica di un linguaggio non più d’avanguardia nel centro di irradiazione.
Anche in Emilia, la regione più restia a lasciarsi coinvolgere in esperienze naturalistiche in quanto dominata dal classicismo reniano e carraccesco, si hanno esempi di attenzione per la realtà e per un luminismo più contrastato (Bartolomeo Schedoni e Carlo Bononi). Né si potrà negare qualche rapporto col mondo caravaggesco (Borgianni, in particolare) nell’attività giovanile del Guercino. Ma l’episodio più adatto ad essere inserito in questo contesto riguarda Guido Cagnacci, presente peraltro a Roma nel 1622 insieme al Guercino.
Pittori della realtà fuori d’Italia
Altre esperienze di evidente interesse per il naturale ma non strettamente legate all’esperienza caravaggesca si sviluppano lontano da Roma e fuori d’Italia. Un posto di rilievo ha in questo ambito la parabola dei tre fratelli Le Nain, Antoine, Louis e Mathieu, che in totale indipendenza dalla grande stagione romana nella loro appartata Piccardia elaborano un linguaggio di grande fascino formale, spesso rivolto nei contenuti a una silenziosa e tenera attenzione per i fatti minuti di gente di poca importanza (contadini, fabbri, mendicanti), dove sembra di riconoscere un contatto col Gentileschi che a Parigi trascorse qualche anno nel terzo decennio del secolo, e una tangenza e misteriosa col naturalismo sperimentato all’inizio del secondo decennio dallo spagnolo Juan Bautista Maino.
Difficilmente catalogabile con il metro del naturalismo caravaggesco risulta anche l’opera di Zurbarán, svoltasi a Siviglia fra l’inizio degli anni Trenta e il 1664, anno della sua morte. Questi, pur servendosi di un luminismo sintetico di origine italiana, risente di una cultura arcaistica del tutto indipendente da Roma, che trova le sue radici nei movimenti spirituali spagnoli (gli alumbrados, in particolare) e nell’esperienza dei grandi mistici, che forniscono spesso l’ispirazione per i contenuti. Ne scaturisce un naturalismo immobile, di irresistibile fascino arcaizzante, illuminato da una luce ferma e tagliente, che si carica di significati spirituali (la luce che inonda di Grazia Divina), dove la vocazione popolare e devozionale convive con la sofisticata e stilizzata essenza delle immagini.