Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La canzone francese del Novecento riprende e rinnova due filoni delineatisi nel secolo precedente: da un lato la tradizione del canto “di strada”, rivitalizzata da un’interprete straordinaria come Edith Piaf, dall’altro la canzone “intellettuale”, contaminata dalla poesia colta e affidata alle voci inquiete dei cantanti della rive gauche. Su questo sfondo si stagliano le figure degli autori-compositori-interpreti, individualità spiccate, caratterizzate da tratti compositivi e interpretativi irriducibili a una fisionomia unitaria: da Charles Trenet ai “tre grandi”: Léo Ferré, Georges Brassens e Jacques Brel.
Charles Trenet
Léo Ferré
Franco la muerte
[...]
Che importa se la Spagna è morta
Ascolta la morte davanti alla tua porta
È Grimau che te la conduce
Franco la muerte
Tu dormi con una Penelope
Che tesse un sudario in fondo all’Europa
Su questa Spagna che tu blocchi
Aspettando che t’acchiappi)
Franco la muerte
[...]
Testo originale:
[...]
Qu’importe si l’Espagne est morte
Entends la mort devant ta porte
C’est Grimau qui te la rapporte
Franco la muerte
Tu couches avec une Penelope
Qui tisse un suaire en bas d’Europe
Sur cette Espagne que tu stoppes
En attendant qu’elle te chope
Franco la muerte
[...]
L. Ferré, Il cantore dell’immaginario, a cura di M. Macario, Milano, Elèuthera, 2000
La canzone francese del Novecento acquista la sua fisionomia specifica negli “anni folli” del primo dopoguerra, quando il disco, la radio e il cinema parlato spazzano via il caffè concerto e accelerano il processo di industrializzazione della musica leggera. L’artista che, a partire dagli ultimi anni Trenta, riesce a sfruttare meglio di ogni altro i nuovi canali comunicativi è Charles Trenet. I temi delle sue canzoni sono i più diversi: frammenti di storie d’amore, bozzetti di vita parigina o provinciale, folgoranti scioglilingua di stampo dadaista, ricordi d’infanzia da cui sembrano emergere inquietudini e ossessioni nascoste. Trenet dissolve la coerenza logica e la coesione narrativa della canzone tradizionale in una trama di sensazioni e di impressioni, dando libero sfogo al gusto degli accostamenti inattesi, dei giochi linguistici sorprendenti. Il senso del ritmo di matrice jazz, le melodie sincopate che variano dal charleston al tango, dal valzer ai ritmi popolari tradizionali, valorizzano la duttile leggerezza della voce e il dinamismo di una lingua ricchissima di allitterazioni, onomatopee, effetti di suono.
Edith Piaf, Yves Montand e Juliette Gréco
Un eccezionale esempio di continuità con la canzone francese tradizionale è costituito invece da Edith Piaf (1915-1963), l’ultima delle cantanti “realiste” eredi della canzone di strada e del filone malavitoso e populistico inaugurato da Aristide Bruant. Nella sua voce-grido da cantante di strada, che sgorga con potenza lacerante da un corpo devastato, Edith Piaf reca la traccia del dolore di tutta una vita, funestata dalla malattia, dall’abuso di alcol e di droga, da tragiche vicissitudini sentimentali. Qualunque cosa canti (“potrebbe cantare anche l’elenco telefonico”, dice Boris Vian), lo trasforma, con la voce rauca e l’interpretazione drammatica, in un’invettiva appassionata, amara e di popolare immediatezza, conferendo una straordinaria vitalità a canzoni di qualità discontinua, gremite di un’umanità marginale e dolorante, che si abbarbica all’amore come passione incondizionata, ultimo rifugio, estrema sfida ai mali della vita.
Nel secondo dopoguerra, sotto le ali di Edith Piaf muove i primi passi Yves Montand (1921-1991), che, per la nettezza e la notorietà delle sue prese di posizione politiche, e per la collaborazione con autori e compositori di qualità (celeberrime le sue interpretazioni dei testi di Jacques Prévert musicati da Joseph Kosma), si può considerare il primo cantante engagé del dopoguerra. Negli stessi anni, nel quartiere di Saint-Germain-des-Près il filone della canzone “intellettuale” diventa un fenomeno di massa. Nelle caves “esistenzialistiche” frequentate da intellettuali come Jean-Paul Sartre, Raymond Queneau, Roger Vadim, e da una gioventù ribelle e anticonformista, sboccia lo stile rive gauche, letterariamente raffinato e intriso di una sottile vena d’angoscia. La sua interprete più incisiva è Juliette Gréco. Nelle sue canzoni c’è un modo nuovo, impietosamente sincero, di guardare le cose. Con una voce carezzevole, ironica, sensuale, porta alla ribalta un nuovo tipo di donna, decisa ad affermare il proprio diritto a disporre di se stessa.
Léo Ferré e Georges Brassens
Le voci di Edith Piaf, Yves Montand e Juliette Gréco conferiscono una vitalità nuova a due filoni tipici della tradizione francese: la rielaborazione teatrale del canto di strada e la canzone colta, affidata alla collaborazione tra poeti e musicisti. Su questo sfondo, due autori-compositori-interpreti riattualizzano la figura dello chansonnier che compone e canta le sue canzoni prendendo posizione sui problemi della società: Georges Brassens (1921-1981) e Léo Ferré (1916-1993).
Ferré mette in musica testi apocalittici e rivoltosi: canzoni dure, che forzano le formule abituali, mescolando l’invettiva alla tenerezza, l’argot a una rarefatta lingua letteraria, momenti di canto spiegato a stremati ripiegamenti lirici, sotto il segno di un’anarchia che, prima di essere una concezione politica, è un mito letterario, uno stile di vita trasgressivo sul modello di quei “poeti maledetti” che egli stesso mette in musica con risultati straordinari. Anche Brassens veste i panni del deviante malvisto dai benpensanti, ma in lui c’è una tendenza all’ironia e alla smorzatura che attenua le dosi massicce di turpiloquio scagliato con spavaldo divertimento sugli ascoltatori. Il suo mondo è una società bucolica fuori del tempo, bloccata in un contrasto stilizzato tra un popolo allegro e dei gendarmi citrulli, come nella rissa di Hécatombe, dove uno stuolo di bellicose massaie sgomina una squadra di poliziotti. E anche quando la violenza dello Stato si mostra in tutta la sua crudezza, la punizione che spetta ai potenti è buffonesca e paradossale, come quella che tocca al giudice concupito dal Gorilla protagonista della canzone omonima.
Più legato alle lacerazioni e alle violenze della realtà contemporanea, Ferré attacca ogni forma d’autorità e di potere in forma livida e rancorosa. Nel 1949 chiama in causa Pio XII che tacque di fronte ai crimini nazisti (Monsieur tout blanc), e negli anni seguenti aggredisce altri potenti, da Francisco Franco ad Augusto Pinochet Ugarte, passando per il generale Charles de Gaulle.
Lo stesso sguardo lucido, disilluso e intransigente, ispira le canzoni meno “politiche”, dedicate all’amore e all’amicizia, alla precarietà della condizione umana, alla sconfitta dei poeti e degli anarchici in lotta contro le grettezze della società. Così, quando esplode il Sessantotto, il “vecchio leone” scopre con stupore di avere un nuovo amplissimo pubblico di ragazzi, che si riconoscono nelle sue profezie, nelle sue inquietudini e nelle sue indignazioni, e dà il via a una nuova fase della sua opera, basata su una ricerca di forme poetiche e musicali nuove, che sfonda i limiti tradizionali della canzone. Il gusto delle grandiose costruzioni poetiche e musicali, l’eclettismo, il desiderio di travolgere ogni steccato tra i livelli e i generi codificati differenziano radicalmente Ferré da Brassens. Mentre quest’ultimo, grazie a sobri ritmi di ballata affidati all’accompagnamento “povero” della chitarra, instaura con il pubblico un rapporto di immediata complicità, il dialogo di Ferré con il pianoforte o con la magniloquenza delle basi musicali crea una patetica distanza dagli ascoltatori, che può essere colmata soltanto da un’accentuazione parossistica dell’intensità interpretativa.
Queste diverse trasposizioni in canzone del mito anarchico hanno matrici culturali ben distinte. Nel caso di Brassens è la linea gaudente e anticlericale che dal canto goliardico porta alle invenzioni carnevalesche di Rabelais per sfociare negli scritti satirici degli illuministi e nelle canzoni di François Béranger. Per Ferré sono le suggestioni visionarie che scaturiscono dall’opera di Baudelaire e Rimbaud e sboccano nella rivolta surrealista.
Jacques Brel
A differenza di Ferré e di Brassens, Jacques Brel (1929-1978) non si collega alla tradizione colta, e non si ispira a un orientamento ideologico. Le sue canzoni sono ritratti satirici (Les bourgeois), malinconici (Les vieux), feroci (Ces gens-là), di categorie umane che impersonano la sconfitta degli slanci e delle aspirazioni della giovinezza. Gli sfondi sono spesso provinciali, piccoli mondi chiusi in cui la venalità e il perbenismo castrano ogni devianza o velleità di evasione. Brel si trova perfettamente a suo agio nel breve spazio della canzone e ne sfrutta tutte le caratteristiche di immediatezza e di essenzialità. Il suo lessico è semplice e diretto, teso a realizzare il massimo di espressività; la musica è totalmente compenetrata con le parole, ne accompagna e ne sottolinea mimeticamente gli impacci, le impennate, gli abbandoni, assecondando la comunicatività della voce e del corpo, che si fondono sulla scena con un irresistibile effetto di coinvolgimento e di commozione.
Serge Gainsbourg, Barbara e Charles Aznavour
L’arco cronologico dell’opera dei “tre grandi” è il momento culminante della canzone francese. Al loro fianco si profilano altre personalità di spicco. Serge Gainsbourg (1928-1991) investe di un’aura mefistofelica la tradizionale figura del poeta maledetto. Le sue canzoni attingono al jazz, al rock, alla moda ye-ye, ai ritmi latino-americani, e giocano ossessivamente con il linguaggio, spezzando le strutture ritmiche tipiche della lingua francese. Ne scaturiscono atmosfere ipnotiche, amori perversi, personaggi monomaniaci, situazioni ambigue, evocate con poche pennellate sinuose e indirette. Più legata all’essenzialità e alla misura della tradizione rive gauche, Barbara (1930-1997), incarna un tipo di donna tenera, orgogliosa, inquieta, capace di confessarsi con sincerità impudica e di sorridere di se stessa con autoironia: il carattere introspettivo delle sue canzoni, dedicate a stati d’animo impalpabilmante sospesi tra speranza e sconforto, è valorizzato da una voce sensibilissima, in dialogo costante con le sonorità intime del pianoforte. Charles Aznavour (1924-) avvolge di musiche costruite per catturare rapidamente l’orecchio e il cuore degli ascoltatori un repertorio di immagini, situazioni e sentimenti di immediata fruibilità. L’eroe delle sue canzoni è spesso un uomo escluso e dolente, in guerra con le donne e con la vita, ben incarnato dal corpo gracile e dalla voce incrinata che un consumato talento di attore trasforma in efficaci risorse interpretative.
Negli ultimi decenni del Novecento non sono mancati i continuatori della generazione dei “grandi”, ma la chanson, nella sua forma classica, sembra aver perso di vitalità. Gli sviluppi della tecnologia, i nuovi modi di produzione e di fruizione della musica leggera, i rapporti di forza e i meccanismi su cui si regge il mercato internazionale ne hanno messo in discussione la peculiarità: la centralità della parola, gli spazi ristretti del teatro e del cabaret, il dialogo diretto e personale con un pubblico ristretto.