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La chiamata de relato quale riscontro probatorio
La valutazione della prova costituisce, nei sistemi di tradizione democratica, un’isola che il diritto può soltanto lambire. Le regole ad essa inerenti, difatti, in qualche modo limitano le prerogative del giudice su un terreno ispirato al principio del libero convincimento. Il contributo analizza taluni profili della complessa tematica afferente alla valutazione della chiamata in correità (o reità) de relato, con riferimento al caso specifico della mutual corroboration tra dichiarazioni di siffatta natura ed alla luce dei chiarimenti offerti dalla recente giurisprudenza di legittimità. Per effetto di essa il processo di elaborazione della nozione di riscontro vede aperti itinerari nuovi.
Il tema della chiamata de relato è ricco di implicazioni che operano secondo uno schema multilivello, muovendo esse dal piano dell’etica probatoria ed estendendosi sino a ricomprendere aspetti concernenti la valutazione della prova e, non ultimi, profili normativi di ordine sistematico e costituzionale.
È chiaro che si tratta di una specie di contributo dichiarativo, l’approccio valutativo al quale è intriso di profili problematici scaturenti sia dalla connotazione contenutistica della dichiarazione, la quale si colloca nell’ambito concettuale proprio dell’istituto della testimonianza indiretta, sia dalla qualità dei soggetti da cui esso proviene, essendo persone coinvolte in vicende criminose legate a quelle oggetto del processo in cui il dato probatorio è acquisito da – più o meno accentuati – stati di relazione suscettibili di incidere sulla neutralità del dichiarante.
La prima delle accennate caratteristiche esige la risoluzione di questioni che ineriscono, innanzitutto, all’ambito di operatività dei meccanismi di verifica delineati dall’art. 195 c.p.p. relativamente al caso di dichiarazioni ordinariamente non suscettibili di trovare conferma nella fonte diretta.
La seconda, invece, richiama il ricorso a strumenti di immissione dell’elemento di prova in ambito processuale che, trovando corrispondenza in mezzi di prova – l’esame dell’imputato, l’esame di persona imputata in procedimento connesso o collegato, la testimonianza ex art. 197 bis c.p.p. – progettati per coordinare le esigenze dell’accertamento penale con le necessità difensive di figure da tutelare rispetto al pericolo di se detegere, sono caratterizzati dalla previsione di eccezionali cautele sul versante valutativo.
La regola di valutazione contenuta nell’art. 192, co. 3-4, c.p.p. e richiamata dall’art. 197 bis, co. 6, c.p.p., infatti, esige la conferma del giudizio di attendibilità della dichiarazione accusatoria1 – qualunque ne sia la natura e, dunque, a prescindere dalla sua qualificazione come diretta o de relato – mediante elementi di riscontro esterni e ciò vale a maggior ragione quando la qualificazione processuale del chiamante connota – e ciò avviene nella gran parte dei casi – la figura del collaboratore di giustizia. Che essi non debbano essere dotati di un’autonoma efficacia probatoria rispetto al fatto è stato più volte ribadito e la conclusione appare oltremodo ovvia, venendo altrimenti meno la funzione dimostrativa della dichiarazione2.
Costituisce un dato egualmente acquisito quello secondo cui i riscontri devono avere carattere individualizzante, ossia riferirsi ad ulteriori e specifiche circostanze strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere3.
È questione delicata e giustamente ancora dibattuta, invece, quella concernente l’idoneità dimostrativa della chiamata de relato4 in relazione ai casi in cui l’elemento di riscontro sia a sua volta costituito da una dichiarazione di eguale natura. Qui, infatti, le ragioni di cautela si accentuano, a causa dell’instaurarsi di una relazione – quello di riscontro è un concetto relazionale – che vuole coniugare in rapporto a due paradigmi normativi tanto eterogenei quanto complessi – quello delineato dall’art. 195 c.p.p. e quello descritto dall’art. 192 c.p.p. – e nell’ambito di un sistema che affida al libero convincimento il momento valutativo della prova, elementi conoscitivi privi di un rapporto percettivo diretto ed immediato con il loro oggetto.
Il tema è stato affrontato dalla giurisprudenza più recente5 e l’occasione ha permesso di esaminare i diversi aspetti problematici che la figura in discorso pone, non a caso prendendo le mosse dalla reiterata sottolineatura dell’aderenza di essa allo schema generale della testimonianza indiretta, schema necessitante, però, di inevitabili adattamenti in ragione della speciale natura del soggetto dichiarante e della sua proiezione nel sistema dei mezzi di prova delineato dal codice. Non senza avere precisato, quale fondamentale premessa metodologica, che in un sistema incentrato sul principio del libero convincimento del giudice – valore ideale in quanto punto di riferimento del processo valutativo di dati probatori – appare poco coerente una catalogazione gerarchica in senso piramidale dei tipi di prova secondo una loro asserita ed astratta idoneità dimostrativa, sganciata dalla specifica realtà processuale.
Come già detto, la chiamata de relato si colloca, processualmente, nell’ambito del mezzo di prova costituito dalla testimonianza indiretta6 e di questa, ma non solo, assimila quei limiti gnoseologici che da sempre hanno circondato di perplessità l’istituto.
2.1 Lo schema di riferimento: la testimonianza indiretta
Disciplinato dall’art. 195 c.p.p., «[n]ell’annosa logomachia tra garantisti ed antigarantisti (o sostanzialisti, o fautori della difesa sociale, o come altrimenti li si voglia chiamare), il tema della testimonianza indiretta … rappresenta uno degli indicatori più significativi delle ricorrenti oscillazioni tra esigenze di funzionalità del processo e di rispetto delle garanzie del singolo alle quali è andato soggetto, con innovazioni e modifiche a tal punto provvisorie e cangianti da divenire talora schizofreniche nell’andamento (se non dissennate nelle conseguenze), l’impianto del nostro codice di procedura penale»7.
Esso, come ricordato, risponde ad uno schema da molti ritenuto discutibile e, soprattutto dopo l’introduzione dei principi costituzionali del giusto processo, le notazioni polemiche si sono accentuate poiché lo strumento probatorio «si limita a veicolare nel processo dichiarazioni extra-procedimentali, provenienti da una fonte che non compare in giudizio, con palese detrimento dell’immediatezza (perché il giudice non ha alcun contatto con la fonte di prova), dell’oralità (che si esercita solo in apparenza, su soggetto diverso da quello che fornisce le informazioni per averne fatto esperienza), del contraddittorio (che si svolge su fonte diversa da quella le cui informazioni sono destinate all’uso probatorio»8. La peculiare struttura del mezzo di prova in questione ha portato taluno a contestarne la natura di testimonianza, dovendosi ritenere tale soltanto «l’atto con il quale il teste, comunicando agli altri le sue percezioni, esplicitamente o implicitamente garantisce l’esistenza dei fatti che le hanno provocate»9.
Nonostante l’avversione della dottrina10, tanto più giustificata se a ragioni di ordine dogmatico si antepongono motivazioni di carattere pratico legate all’effetto perturbativo connesso al trasferimento di informazioni dal protagonista della percezione storica all’autore della dichiarazione giudiziale11, l’art. 195 c.p.p. riserva all’istituto un’articolata disciplina, seguendo un meccanismo che consente sì l’assunzione della testimonianza de relato, ma subordina l’utilizzabilità del risultato conoscitivo alla presenza di determinate condizioni. La norma prevede, quindi, come condizione minima di utilizzabilità della dichiarazione l’identificazione della fonte primaria, di talché dispone, in applicazione di una regola di «ammissione condizionata ex post»12, che il dichiarante «debba comunque fare le proprie dichiarazioni di scienza salvo poi a ritenerle inutilizzabili, una volta chiarito che non voglia o non possa indicare le proprie fonti di informazioni»13.
Superato questo stadio della dinamica informativa, subentra quello della verifica di attendibilità della fonte di riferimento, quest’ultima dovendosi sottoporre all’esame, richiesto dalla parte o disposto d’ufficio dal giudice, ed essendo ovvio che nel caso in cui il giudice, in presenza di un eventuale contrasto tra dichiarazioni, ritenga attendibile la dichiarazione del teste di secondo grado, in assenza di qualsiasi indicazione normativa circa il valore probatorio di essa può e deve utilizzare la stessa ai fini processuali14.
2.2 Gli adattamenti e i correlati effetti
I meccanismi di bilanciamento interni allo schema funzionale della testimonianza indiretta non operano rispetto alla chiamata de relato.
Il principio generale teso a privare del carattere della tassatività l’elencazione dei casi di impossibilità di esame della fonte diretta contenuta nell’art. 195, co. 3, c.p.p.15 fa infatti da sfondo all’orientamento giurisprudenziale16 secondo cui la chiamata de relato, proprio in ragione delle garanzie contro il rischio di se detegere connesse alla posizione processuale del dichiarante, è utilizzabile a prescindere dall’acquisizione della dichiarazione di riferimento. Ma, per le medesime ragioni, l’eventuale conferma proveniente dalla fonte diretta non sottrarrebbe il giudice dal dovere di reperire elementi estrinseci di conferma, trattandosi di dichiarazioni che, virtualmente, si fonderebbero in un’unica dichiarazione inidonea, di per sé, a provare il fatto storico oggetto del giudizio17.
Il canone valutativo elaborato dalla giurisprudenza in relazione ad ogni ipotesi di chiamata plurima ed implicante la ricorrenza dei requisiti costituiti dalla convergenza in ordine al fatto oggetto di narrazione, dall’indipendenza genetica e dalla specificità, non appare più soddisfacente. La neutralizzazione dello schema di verifica interno deve trovare nel sistema un meccanismo di compensazione: esso, non potendo avere collocazione diversa dal versante valutativo, deve consistere in un effetto accrescitivo dell’attitudine dimostrativa del riscontro. La natura del dato cognitivo conduce, cioè, ad una rimodulazione del grado di conferma che dal riscontro si esige e ciò vale, in particolare, allorquando la chiamata de relato vuole costituire, di quel dato, l’elemento confermativo. Se, dunque, l’assenza di una predeterminazione normativa della specie e della qualità degli elementi di conferma ha consentito di teorizzare un principio di “libertà dei riscontri” e, coerentemente, di considerare inammissibile l’estromissione della chiamata de relato dall’ambito della relativa nozione, la stessa deve essere plasmata con connotazioni particolarmente stringenti e selettive.
Le Sezioni Unite, nel risolvere il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità che il meccanismo della mutual corroboration abbia due chiamate in correità o reità de relato quali termini di relazione18, hanno ribadito che siffatta tipologia di dichiarazioni può avere come unico riscontro ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato altra o altre chiamate di analogo tenore.
Il catalogo delle condizioni richieste affinché la relazione in esame produca un’efficacia probatoria piena è, però, molto selettivo, richiedendosi che: - risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; - siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; - vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; - vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; - sussista l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse19.
La giurisprudenza più recente tende ad esplorare in modo penetrante la nozione di riscontro esterno. Lo aveva già fatto, in generale, esigendone il carattere individualizzante, ma si trattava di un dato di qualificazione che non guardava agli elementi di fatto quali dati di struttura del riscontro.
Anche i requisiti costituiti dall’indipendenza genetica e dall’autonomia delle chiamate, più che elementi strutturali del riscontro, costituiscono elementi qualificativi dell’interrelazione che deve sussistere tra le chiamate.
La delicatezza del meccanismo che la pluralità delle chiamate de relato innesca sulle dinamiche valutative ha inaugurato, invece, una diversa metodologia ricostruttiva della nozione di riscontro esterno, nel cui ambito la pretesa di predefinirne i dati fattuali di contenuto tende a sovrastare il fattore squisitamente assiologico. Esigere, infatti, che “siano accertati” i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta equivale a pretendere lo specifico accertamento di un fatto riguardato alla stregua di elemento costitutivo del riscontro e dal quale inferire, sul piano effettuale, dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto il dichiarante afferma essere stato a lui confidato. La “dinamica del riscontro” – se così si può chiamare un processo evolutivo dai tratti inediti – fa sì che l’attenzione della giurisprudenza si sposti dai dati di qualificazione esterni all’individuazione specifica e puntuale dei dati di fatto costituenti il “dover essere” del riscontro e su cui innescare meccanismi inferenziali.
La tendenza in corso ridisegna l’essenza qualitativa del riscontro esterno, trasferendo sulla connotazione contenutistica di questo gli effetti del giudizio di affidabilità dell’elemento principale: più alta è la seconda, minore è il grado di penetrazione di elementi di fatto rispetto al primo.
L’obiettivo perseguito dalla giurisprudenza più recente è chiaro, posto che il fine è quello di accrescere l’affidabilità dell’accertamento penale e, quindi, il grado di accettazione sociale della sentenza che lo enuncia e del giudicato che lo cristallizza. Altrettanto palpabile è, allo stesso tempo, il rischio che gli esiti a cui è giunta la Suprema Corte e, soprattutto, i non pronosticabili sviluppi futuri della prospettiva che si è aperta, siano causa di eccessivi irrigidimenti dell’attività valutativa della risultanze probatorie acquisite nell’ambito del processo penale. Restringendo la libertà di selezione dei fatti su cui attivare percorsi inferenziali, infatti, si accentua il pericolo di impercettibili scivolamenti in direzione della legittimazione di micro-sistemi di prova legale nell’ambito di un macro-sistema ispirato, comunque, al principio del libero convincimento del giudice.
1 Il percorso argomentativo rimane, comunque, quello delineato da Cass. pen., S.U., 21.10.1992, n. 1653.
2 V., nell’ambito di un orientamento giurisprudenziale unanime, Cass. pen., 18.1.2000, n. 4888.
3 V., per tutte, Cass. pen., S.U., 30.10.2003, n. 45276.
4 Generalmente ammessa quale elemento di prova. V., per tutte, Cass. pen., S.U., 30.10.2003, n. 45276.
5 Cass. pen., S.U., 29.11.2012, n. 20804.
6 Sull’istituto v., per tutti, Menna, M., Prove dichiarative, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, II, Prove e misure cautelari, t. I, Le prove, Milano, 2009, 220 s.; Di Paolo, G., Testimonianza indiretta, in Dig. pen., Aggiornamento, III, Milano, 2005, 1673 s.; Cesari, C., Testimonianza indiretta (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, 1134 s.
7 Puleio, F., La testimonianza indiretta, in Cass. pen., 2003, 2108. Mette in rilievo Longo, M., La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2004, 4183, come «[a] seconda della più o meno ampia delimitazione del divieto della testimonianza de relato muta il ruolo del dibattimento e il peso probatorio esercitato sul giudizio dalle attività svolte nella fase delle indagini preliminari».
8 Cesari, C., Testimonianza indiretta, cit., 1137.
9 Calamandrei, I., Art. 194-195 c.p.p., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II, Torino, 1990, 429.
10 V., in questo senso, Calamandrei, I., Art. 194-195 c.p.p., cit., 429; Sturla, M.T., Prova testimoniale, in Dig. pen., X, Torino, 1995, 410; Zacchè, F., Testimonianza indiretta e contraddittorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 134.
11 Fa notare Manzini, V., Trattato di diritto processuale italiano, VI ed., Torino, 1970, 294, come «i racconti passati di bocca in bocca si alterano e si deformano per via».
12 Di Paolo, G., Testimonianza indiretta, cit., 1690.
13 Giarda, A., Art. 195 c.p.p., in Codice di procedura penale. Commentario, a cura di A. Giarda, II, Milano, 1992, 5.
14 Sottolinea Puleio, F., La testimonianza indiretta, cit., 2111, che se necessitasse comunque la conferma della fonte principale, l’indicazione del teste indiretto finirebbe col rimanere superflua, attesa l’esistenza di altra prova. Patrocina una soluzione diversa, ispirata ad una lettura dell’art. 111 Cost. quale norma di garanzia di forme di contraddittorio cd. “forte”, Zacchè, F., Testimonianza indiretta e contraddittorio, cit., 138, secondo il quale, nel caso in cui abbia luogo l’escussione del teste diretto, la testimonianza de relato dovrebbe degradare a strumento di verifica dell’affidabilità del primo. L’impostazione richiama quella di Cesari, C., Testimonianza indiretta, cit., 1142.
15 V., di recente, Cass. pen., 22.3.2011, n. 17107.
16 V., da ultimo, Cass. pen., S.U., 29.11.2012, n. 20804.
17 Cass. pen, S.U., 29.11.2012, n. 20804.
18 In senso contrario, v. Cass. pen., 9.5.2002, n. 43464.
19 Cass. Pen., S.U., 29.11.2012, n. 20804.