La Chiesa aquileiese
Tracciare i primi quadri della società cristiana nella "Venetia" non pare possibile senza considerare l'evangelizzazione della metropoli aquileiese e l'attività missionaria irradiatasi da quel centro nell'area di sua influenza.
Dopo i contributi del Paschini, volti ad affrontare con rinnovato metodo critico l'intricata questione delle origini cristiane di Aquileia, e screditata la supposta missione di s. Marco in questo centro adriatico, restava da porre su nuove basi il dibattuto problema (1). Queste furono offerte, dopo la scoperta del musaico teodoriano nel 1909, dall'iscrizione celebrativa del vescovo Teodoro, che nel secondo decennio del secolo IV si fece promotore di un vasto complesso edilizio per fornire di aule cultuali una comunità religiosa non certo trascurabile, a giudicare dall'impianto architettonico, dalla ricchezza didattica del simbolismo nei musaici e dall'opulenza dell'ornamentazione. L'acclamazione a Teodoro suona:
Theodore feli[x / a>diuvante Deo / omnipotente et / poemnio caelitus tibi / [tra>ditum omnia / [b>aeate fecisti et / gloriose dedicas / ti (2).
Non viene attribuito a Teodoro un titolo specifico ma pure, anche se non posse-dessimo la sottoscrizione alla sinodo di Arles (314), ove si firmò col titolo che gli competeva di vescovo aquileiese (3), capiremmo con sufficiente chiarezza, dall'epigrafe, l'ufficio del personaggio in seno alla comunità ecclesiale di Aquileia, l'ufficio cioè di pastore del gregge, a cui anche il vescovo Cromazio (388-408), qualche decennio più tardi, paragonò la funzione episcopale (4).
Per lumeggiare l'ambiente e le condizioni precedenti all'impianto ufficiale e pubblico di una comunità già progredita, senza far ricorso alla discussa tradizione marciana, sono stati operati vari tentativi. Attraverso le indicazioni dei discussi cataloghi episcopali (5), si era creduto di poter stabilire con una certa approssimazione l'origine della diocesi aquileiese, unica per tutta la regione veneto-istriana, intorno alla metà del sec. III col protovescovo Ermagora (6). Ma una attenta analisi dei rapporti fra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria e una rinnovata lettura dell'antico Simbolo aquileiese trasmessoci da Rufino di Concordia (morto nel 410) hanno indotto recentemente Guglielmo Biasutti ad anticipare ipoteticamente alla seconda metà del sec. II l'esistenza in Aquileia di una comunità cristiana organicamente costituita e di un "boni depositi custos" con l'autorità di mutare la formula del Credo (7).
L'origine della leggenda marciana inoltre sarebbe in relazione più che con l'attività autonomistica sviluppata dalla Chiesa aquileiese in aperto antagonismo con la Chiesa di Roma durante lo scisma tricapitolino del sec. VI, con un nucleo storico costituito da intensi rapporti fra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria fin dai primordi cristiani: non pochi indizi infatti additerebbero in missionari ebreo-cristiani, ed anzi di estrazione alessandrina, i primi evangelizzatori di Aquileia. Tali proposte bisognose di ulteriori verifiche sono le uniche, al momento, che diano ragione di indizi altrimenti inspiegabili. Un termine, tuttavia, oltre il quale riesce difficile ammettere una presenza massiccia di cristiani nei quadri della società romana locale è offerto dagli avvenimenti aquileiesi del 238, in occasione della crisi massiminiana, "che diede luogo nel momento di supremo pericolo a una dimostrazione non solo di fiducioso consenso al nome romano, ma anche di unanime fedeltà alla tradizionale fede religiosa" (8): apprendiamo infatti dallo storico contemporaneo Erodiano che, quando la fedeltà dei cittadini ai comandi senatoriali contro l'usurpatore Massimino pareva vacillare, nell'ardore della battaglia, gli Aquileiesi assediati invocarono il dio nazionale Beleno e l'ebbero al loro fianco con la promessa di vittoria (9).
Non mancano i martiri, probabilmente pochi di numero, dei quali ad Aquileia erano noti i nomi e venerate le tombe. I sermoni di s. Cromazio di Aquileia, il Martirologio geronimiano, compilato in area veneto-aquileiese nella seconda metà del sec. V, e i materiali archeologici attestano appunto l'intensità del culto martiriale e la solidità dei ricordi più ancora delle tarde e incerte Passiones (10)
Mancano dati storici sicuri sulle più remote origini della Chiesa di Aquileia, ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che essa si trovasse al centro di un vasto territorio geografico penetrato ben presto dalla predicazione evangelica. Antiche e sicure testimonianze sulla diffusione del cristianesimo nelle regioni intorno ad Aquileia ci vengono infatti da due parti opposte.
Per la regione a Sud di Aquileia, s. Paolo (Ad Romanos, 15, 19), attesta una predicazione evangelica nell'Illirico fin da tempi apostolici e lascia intendere (II Ad Timotheum, 4, 9-10) che la prima propaganda cristiana in Dalmazia può essere fissata entro il I secolo, piuttosto verso la fine che nel periodo propriamente apostolico (11)
Per i territori a Nord di Aquileia, è s. Ireneo di Lione che ci attesta l'esistenza di Chiese organizzate in Germania per il tempo in cui scriveva l'Adversus haereses, cioè intorno al 185 (12).
La lettera di Innocenzo I (401-417) a Decenzio vescovo di Gubbio, pur di altissimo valore, nulla determina per quanto riguarda Aquileia, mentre il richiamo a seguire scrupolosamente le tradizioni romane non escludeva che Aquileia ne avesse delle proprie, come risulta ad esempio dalla formula del Credo. Tuttavia il Paschini non era alieno dal ritenere che, se la prima propaganda cristiana poteva esser giunta ad Aquileia e, più generalmente, in tutta la "Venetia et Histria" dall' Illirico e dalla Dalmazia, con cui Aquileia e le città istriane intrattenevano strette relazioni commerciali, un'altra corrente di evangelizzazione fosse venuta pure dall'Italia centrale e, per Ravenna e Affino, fosse giunta ad Aquileia (13).
Ultimamente il Biasutti ha ritenuto opportuno trasferire il problema delle origini cristiane di Aquileia dalle questioni personali (s. Marco ed Ermagora) e temporali (età apostolica o metà del sec. III) a un piano, per così dire, qualitativo, fissando piuttosto l'attenzione sulla matrice spirituale sottesa alle prime correnti missionarie qui approdate. Così, tenendo presente il carattere della predicazione di Paolo, poco conciliante verso la religione ebraica, egli ha messo in particolare risalto quel passo della citata lettera ai Romani in cui Paolo scrive di aver riempito del Vangelo di Cristo tutto il territorio di Gerusalemme e dei paesi all'intorno sino all'Illirico, attento però a evangelizzare dove Cristo non era ancora nominato per non fabbricare sopra fondamenta altrui (14). Parrebbe dunque logico arguire che, dall'Illirico in su, il "fundamentum" del Vangelo fosse già stato posto da altri, tanto più che lo stesso Paolo, nel suo slancio missionario, prevede l'itinerario Gerusalemme-Roma-Spagna (15), escludendo il passaggio in Occidente che lo avrebbe fatto passare obbligatoriamente per Aquileia. Sulla base di queste premesse, si potrebbero individuare nel cristianesimo primitivo di Aquileia alcuni residui di una corrente giudaizzante e, in qualche modo, antipaolina giunta presumibilmente fin dai tempi apostolici da Alessandria d'Egitto, con cui Aquileia aveva strettissimi scambi di ogni genere.
Una prima serie di indizi al riguardo sarebbe riconoscibile - come si è accennato - nella formula del Simbolo aquileiese, fortunatamente tramandatoci da Rufino, e particolarmente nelle tre aggiunte che lo caratterizzano rispetto a quello di altre Chiese (16). Esse sono le seguenti: gli attributi "invisibile et inpassibile" dati a Dio Padre onnipotente; il "descendit in inferna" nella missione cristologica fra la morte e la risurrezione; l'insistenza del dimostrativo nel verso "huius carnis resurrectionem". Da un'indagine analitica delle tre varianti, il Biasutti credeva di poter concludere che l'impassibilità e particolarmente l'invisibilità del Padre si inquadra in una predicazione giudeo-cristiana volta a sottolineare l'ineffabilità e la spiritualità di Dio; che il "descendit in inferna" è segno evidente di una mentalità giudeo-cristiana; infine, che la concretezza dell'"huius" nella risurrezione della carne riproduce il pensiero dei farisei e degli spiriti più illuminati del mondo ebraico al tempo di Gesù.
Un secondo ordine di indizi è stato intravisto nel culto sabbatico documentato fra i rustici friulani ("quod et rustici nostri observant") nel canone XIII del Concilio forogiuliese del 796 (17). Escluso che essi fossero permeati direttamente di giudaismo o che la consuetudine fosse penetrata nell'Aquileiese durante il sec. IV caratterizzato da ostile intransigenza per quanto potesse sapere di giudaico o di ereticale, il Biasutti supponeva che tale costume affondasse le sue radici anteriormente all'instaurazione del riposo domenicale nel sec. II e che la prima propaganda cristiana ad Aquileia fosse tale da non rifiutare la celebrazione popolare del sabato (18). Anche per questa via, dunque, resterebbe attestata nell'Aquileiese la presenza di una corrente evangelizzatrice di carattere non paolino e fortemente giudaizzante, sulla linea di quanto aveva già intravisto confusamente il Marcon (19).
Nell'intento di individuarne la provenienza, se ne sospetta la presumibile origine alessandrina in base a un passo molto discusso della lettera XII tra quelle comunemente attribuite a s. Ambrogio: si tratta dell'ultima delle quattro lettere scritte a nome del concilio di Aquileia del 381 e generalmente edite, assieme agli Atti conciliari, tra le epistole ambrosiane (20). Essa è indirizzata agli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio per ringraziarli dell'aiuto concesso nella lotta contro gli ariani e per esporre loro i nuovi motivi di apprensione suscitati dai tristi fatti dello scisma antiocheno cui si accenna.
I vescovi infatti affermano di aver appreso che ad Alessandria e ad Antiochia erano sorte rivalità e discordie "inter ipsos catholicos" e si dimostrano preoccupati di sapere a chi debbano concedere la loro "communio", richiesta con lettere canoniche da ambedue le parti contendenti. Impossibilitati a intervenire personalmente con arbitri di pace, richiedono l'intervento degli imperatori perché d'autorità indìcano un concilio ad Alessandria, dove la vertenza possa essere risolta. La preghiera rivolta dai padri conciliari agli imperatori costituiva un'ingerenza indebita nel governo interno di un'altra Chiesa: per questo, in un passo assai noto e discusso, i padri aquileiesi desiderano sottolineare di essere stati sempre rispettosi dell'"ordo" e della "dispositio" della Chiesa alessandrina; ma tuttavia sostengono, quasi scusandosi, che l'intervento degli imperatori sembra loro l'unica soluzione(21).
Il Biasutti, pur tenendo conto delle riserve e dei limiti che le critiche hanno posto alla sua interpretazione del passo, continuava a credere che rimanesse "sempre abbastanza per affermare che tra i mittenti aquileiesi e la Chiesa d'Alessandria intercorrevano un rapporto di vecchia data e una comunione ecclesiale di vincolo indissolubile". Del resto l'ardente spirito missionario delle prime comunità cristiane e i rapporti commerciali tra Alessandria e Aquileia renderebbero "contestualmente possibile l'approdo di giudeo-cristiani alessandrini nella nostra regione e, per conseguenza, una loro funzione evangelizzatrice" (22).
In definitiva il Biasutti tornava a ribadire come storicamente probabile la prospettiva di una matrice giudaico-cristiana e alessandrina per il primitivo cristianesimo aquileiese e in tale cornice riteneva di dover inserire il problema delle origini della Chiesa di Aquileia, riconsiderando le questioni personali o temporali poste dalla tradizione marciana e rigorosamente stroncate dalla critica radicale (23).
Di queste conclusioni tuttavia egli non intese servirsi per riabilitare l'apostolato di s. Marco ad Aquileia, ma per rivedere certe tesi troppo facili e sbrigative sulla tarda evangelizzazione dell'Italia settentrionale.
Viceversa Giorgio Fedalto, attento a una rilettura e a una possibile rivalutazione di tradizioni e di fonti dell'area veneta per lo più screditate, ha ultimamente tentato di riabilitare i fondamenti storici della tradizione marciana, aggiungendo nuove argomentazioni a quelle già messe in campo dal de Rubeis intorno alla metà del sec. XVIII.
Così, se gli studi del Tavano sulla presunta cattedra di s. Marco - anticipano come vedremo - il culto marciano a Grado e ad Aquileia agli inizi del sec. VII, un sermone composto a Bisanzio intorno al 380 da s. Gregorio Nazianzeno sembrerebbe non ignorare l'apostolato di Marco in una regione italiana: "Non andarono forse peregrinando gli apostoli? non furono forse stranieri nelle molte nazioni e città in cui si sparsero, perché il Vangelo giungesse dovunque? [...>. Sia pure la Giudea di Pietro.
Che ha di comune Paolo con i gentili, Luca con l'Acaia, Andrea con l'Epiro, Giovanni con Efeso, Tomaso con l'India, Marco con l'Italia?" (24). Ora, considerando che nel basso impero tale termine serviva a indicare l'Italia settentrionale, nota appunto come vicariato d'Italia, il Fedalto non ha difficoltà a concludere che non esiste altro apostolato d'Italia riferibile a Marco all'infuori di quello aquileiese, successivo a una sua prima missione egiziana (25).
Passata dunque in rassegna la letteratura critica che ha dibattuto con diversi esiti la tradizione marciana aquileiese, resta da affrontare la questione ermacoriana, per la quale esistono testimonianze di non poco peso, anche se discusse, come il Martirologio geronimiano (compilato nei secoli V-VI) e il catalogo episcopale, di cui ignoriamo peraltro le fonti.
Nel primo leggiamo sotto il 12 luglio ("TV id. Iul. "), secondo i codici fondamentali: "In Aquileia (festum) sanctorum Fortunati et Armageri". Il nome di Fortunato si trova in tutti i codici al primo posto, mentre il secondo nome si presenta anche con le varianti "Armagri" "Armigeri" e, in qualche codice derivato dai primi, esso manca del tutto. L'ultimo editore del Geronimiano, riferendosi alle memorie della Chiesa aquileiese, propone di leggere : "In Aquileia (festum) sanctorum Fortunati et Hermagorae", così da identificare questo "Hermagora" col primo nome del catalogo episcopale (26).
Sulla legittimità di questa identificazione già il Tillemont a suo tempo dubitava assai : egli infatti rilevava che, se "Armagerus" non è che una corruzione di Ermagora, il Geronimiano ci può attestare il suo martirio, ma assai più difficilmente confermare la sua condizione di protovescovo, posposto com'è al suo diacono Fortunato, ma incomparabilmente più illustre di lui secondo il racconto della Passio (27). Il Paschini non ha difficoltà ad ammettere l'episcopato di Ermagora, sebbene il Geronimiano (contrariamente al solito) non lo precisi, ma certo non può mancare di chiedersi come mai l'anonimo compilatore non gli abbia attribuito un posto di maggiore rilievo degno della sua fama, mentre, per 1'11 giugno ("M id. lun.") anche i codici più attendibili attestano la traslazione di un Fortunato vescovo e martire, ignoto a tutta l'antichità aquileiese. Sebbene il problema, probabilmente connesso con lo stato deplorevole del Geronimiano, rimanga tuttora insoluto, il Paschini, seguito in ciò dal Biasutti, tentò ultimamente di spiegarlo con la venerazione speciale che si dovette sviluppare in Aquileia per Fortunato analogamente a quanto si verificò per Lorenzo a Roma e per Vincenzo a Saragozza, dove la venerazione per i due diaconi fece passare in seconda linea quella per i loro rispettivi vescovi; e come il culto per Lorenzo e per Vincenzo si allargò a tutta la cristianità occidentale, così quello' per Fortunato si sarebbe diffuso in tutta la "Venetia".
Il Geronimiano e il catalogo episcopale dunque, per quanto avari e discussi, ci assicurerebbero - anche secondo le conclusioni del Menis - che la Chiesa aquileiese già intorno al sec. V riteneva Ermagora quale protovescovo e martire: in tali dati sarebbe quindi da riconoscersi il nucleo tradizionale rielaborato posteriormente nella Passio (28).
Ma, al di là di questo nucleo essenziale generalmente accolto, non è dato sapere chi fossero i primi banditori della rivelazione neotestamentaria ad Aquileia e nella "Venetia"; forse è da supporre che fossero quegli itineranti attestati ancora nella Didaché che, come missionari o catechisti di primo slancio e forti di un potere carismatico, precorrono talora il ministero organizzato. Sono tuttora dibattuti anche i primi nomi tramandati dai cataloghi episcopali di Aquileia, dove la serie dei presuli anteriore a Teodoro è insufficiente a colmare l'arco di tre secoli fra la pretesa origine apostolica e l'età costantiniana. Stando quindi al catalogo puro e semplice, poiché esso presenta un punto di rifèrimento in Teodoro storicamente accertato per il 314, con i suoi tre o quattro antecessori, si può giungere al massimo all'inizio del sec. III solo allora, secondo il Paschini e la cosiddetta scuola critica, sarebbe stata regolarmente stabilita la gerarchia in Aquileia a cominciare da Ermagora, finora privo di appoggi di natura archeologica e monumentale (29).
Recentemente invece non sono mancate riserve anche sul catalogo episcopale specie da parte del Biasutti che ritiene metodologicamente più corretto rigettare la pretesa di una continuità organizzativa e gerarchica fin dai tempi apostolici, come quella di fissare un perentorio inizio tra il 220 e il 250 in base a mancanza di documenti e all'asserita ma non provata tarda evangelizzazione dell'Italia settentrionale: la realtà sarebbe forse alquanto diversa e la vicenda assai più modulata con momenti di grande impegno ma anche di crisi e di fughe dovute a contrarietà e a persecuzioni, con vacanze ecclesiali anche lunghe e con successive ricostituzioni, come già il de Rubeis aveva supposto nel Settecento (30).
Ultimamente il Saxer proponeva di sospendere ogni giudizio sul catalogo aquileiese in attesa di precisare le fonti da cui è passato alla tradizione medievale; per il momento esso è da considerarsi come testimonianza delle tradizioni aquileiesi all'e-poca della trascrizione manoscritta e non come fonte per la storia del primo cristianesimo aquileiese (31). Ad ogni modo non va trascurata la notevole differenza tra i nomi del sec. IV (Teodoro, Fortunaziano, Valeriano), attestati da documenti al di sopra di ogni sospetto, e quelli di età precostantiniana (Ermagora, Ilario, Crisogono I, Crisogono II), forniti di pezze di appoggio molto tardive in mancanza di una documentazione antica. Il Saxer rileva che alcuni martiri aquileiesi del Geronimiano sono considerati vescovi nelle liste senza che si possa peraltro stabilire un rapporto di dipendenza del Martirologio dalla lista. Viceversa sarebbe questa a trarre profitto dalle informazioni del Geronimiano, che di Ermagora e Fortunato e di Ilario e Taziano non precisa alcun grado gerarchico mentre è generalmente attento nell'indicare l'appartenenza alla gerarchia di certi santi aquileiesi o dei martiri romani menzionati nello stesso giorno di Ilario e Taziano. Per quanto riguarda i nomi dei vescovi anteriori a Teodoro, il Saxer ritiene che la lista di Aquileia sia stata messa a punto dopo la metà del sec. V (in cui si situa la redazione italica del Geronimiano), se non dopo il sec. VII.
Resta ora da vedere quale considerazione meriti il racconto delle Passiones di questi personaggi o almeno l'elemento cronologico che le caratterizza. Occorre dire che fino a poco tempo fa questo genere di scritti non aveva mai seriamente interéssato gli studiosi, convinti di trovarsi di fronte a narrazioni fantasiose e leggendarie da cui si sarebbero potuti ricavare ben pochi dati storici; perciò archeologi, filologie agiografi, come il Delehaye e il Paschini, avevano condotto ogni ricerca in proposito col solito procedere ipercritico, opponendo il loro scetticismo alle notizie fornite dagli Atti dei martiri. Solo le verifiche consentite dalle recenti esplorazioni archeologiche a S. Canzian d'Isonzo e dalle felici scoperte cromaziane del Lemarié e dell'Etaix hanno provocato una inversione di tendenza, facendo nascere il sospetto che le leggende agiografiche non siano da ripudiare in blocco e che quasi sempre si coagulino intorno a nuclei essenziali di verità. Su questa linea si pone Maria Pia Billanovich, attenta alle conferme portate dalle recenti indagini alle Passiones dei santi Felice e Fortunato e dei santi Canziani. Essa pertanto non trova difficoltà a riferire all'epoca di Nerone il martirio di Ermagora e Fortunato, al principato di Numeriano (284) il martirio di Ilario e Taziano e tanto più, suppongo, alla persecuzione dioclezianea quello di Crisogono, così come i rispettivi Atti tramandano (32). In questa nuova ottica allora si farebbe più probabile l'ipotesi delle lunghe vacanze nella successione episcopale durante i primi tre secoli o della perdita di alcuni nomi della lista.
Se invece, con diverso atteggiamento mentale, preferiamo mantenere le nostre riserve sulle leggende agiografiche, salvo che non si. presenti una possibilità di verifica, dobbiamo ammettere che il primo impianto cristiano ad Aquileia sembra assicurato per epoca assai remota, più che da testimonianze esplicite e documentate, da tutta quella serie di dati e di indizi fin qui esaminati, da cui non pare possibile escludere Aquileia senza grave pregiudizio della verità storica: non si può trascurare infatti quella verosimiglianza che nasce dalla natura delle cose (come il meraviglioso espandersi del cristianesimo primitivo) e dalla realtà geografica, per cui sembra quasi assurdo che nel sec. II ci fosse una comunità gerarchicamente costituita, per esempio, a Lione e che non ci fosse ad Aquileia (33).
Pertanto, se il catalogo episcopale dovesse risultare degno di fede e senza soluzione di continuità fra un nome e l'altro, saremmo inclini a ritenere che il supposto episcopato di Ermagora intorno alla metà del sec. III segni non già il primo impianto cristiano ad Aquileia ma la forma definitiva o almeno definitivamente ortodossa assunta dall'organizzazione ecclesiastica aquileiese.
Per il momento dunque solo Aquileia, il grande e celebrato emporio adriatico della "Venetia", ci può fornire dati sicuri o indiziari per uno studio dei primordi cristiani sul territorio.
Per qualificare l'impegno religioso e culturale, l'intensità di vita spirituale, l'acuta sensibilità e la maturità estetica della prima comunità cristiana della "Venetia", appena uscita dalla grave prova della persecuzione dioclezianea, basta considerare l'architettura cristiana primitiva promossa dal vescovo Teodoro ad Aquileia, per cui più volte è stata messa in luce l'originalità, la ricchezza e la pregnanza dottrinale dei suoi musaici pavimentali (34).
Nella seconda metà del sec. IV l'eresia di Ario intervenne a sconvolgere la vita interna della cristianità anche nella "Venetia" appena uscita dal turbine delle persecuzioni. La dottrina del presbitero alessandrino, secondo cui il Figlio di Dio sarebbe stato una "creatura" del Padre e avrebbe avuto quindi una natura diversa e distinta da quella di Dio, fu condannata - come è noto - nel primo concilio ecumenico di Nicea (325), ove si definì che il Figlio di Dio è della stessa e identica ("consostanziale") natura del Padre (35). Alla morte di Costantino però (337), l'eresia riuscì ad avere il sopravvento prima in Oriente, favorita dal nuovo imperatore Costanzo, e, dopo la morte di Costante, anche in Occidente. Furono anni di crisi, durante i quali "tutto l'orbe gemette [come scriveva s. Girolamo> riconoscendosi con stupore ariano" (36). La maggior parte dei vescovi occidentali cedette alle minacce di Costanzo, come Fortunaziano di Aquileia che pur era stato eletto in opposizione all'ariano Valente di Mursa intorno al 342 e che, dopo essersi dichiarato solidale nella condanna di Ario al concilio di Sardica (343-344), aveva ospitato nella sua sede il campione della fede nicena, Atanasio di Alessandria, celebrando con lui la Pasqua del 345 in edifici non ancora solennemente consacrati (37). La morte di Costanzo (361) segnò la fine dell'arianesimo, che, privo dell'appoggio imperiale, andò lentamente decadendo.
Naufragato anche l'effimero tentativo di Giuliano (361-363) di riattivare il paganesimo, la politica religiosa dei nuovi imperatori cristiani mirava a ricostruire l'unità morale dell'impero sotto il segno di quell'ortodossia che Teodosio (379-395) avrebbe imposto come religione di stato (380).
La vita di Aquileia appare in questi anni sempre più polarizzata attorno alla Chiesa locale che, superata la crisi ariana, riprese le sue attività con pieno fervore e visse quella che può ben essere definita l'epoca d'oro dell'antico cristianesimo aquileiese. Il merito maggiore di questa fioritura spetta alle due eminenti personalità che guidarono la Chiesa di Aquileia in quel periodo, i vescovi Valeriano (368?-388) e Cromazio (388-408), uomini di vasta cultura, di ricca spiritualità e di grande energia organizzativa.
Di una scuola teologica fiorita nella seconda metà del sec. IV abbiamo sicure notizie da due tra i più grandi scrittori ecclesiastici del tempo, Rufino e Girolamo, che qui soggiornarono per un certo tempo (38).
La personalità più eminente fu senza dubbio Cromazio, animatore di quel "chorus beatorum" di cui parla con entusiasmo Girolamo. I suoi scritti, dopo il recupero insperato e clamoroso ad opera di J. Lemarié e di R. Etaix (39), illuminano la ricca e originale personalità dell'autore e la cultura dell'ambiente cristiano di Aquileia, su cui esercitò notevole influsso la letteratura cristiana d'Africa soprattutto per merito di quel Paolo di Concordia che aveva conosciuto a Roma, in gioventù, Ponzio, il vecchio segretario di s. Cipriano (40). Con sicurezza ed equilibrio, attraverso l'analisi del senso spirituale e di quello tipologico o allegorico dei testi che commenta, Cromazio ricava ed espone la sua dottrina fondata sui padri della Chiesa occidentale. Pur con intenti prevalentemente pastorali, egli sa evitare ogni moralismo tedioso e presenta ai suoi fedeli il mistero del Cristo e della Chiesa, il "caeleste mysterium" appunto, con particolare insistenza sul fondamento trinitario della fede cristiana e sul mistero delle due nature in Cristo (41). Agli uomini di questo cenacolo va riconosciuto il merito di aver portato un decisivo contributo alla soluzione della crisi ariana in Occidente, quando si pensi alla parte avuta dal vescovo Valeriano, accanto al papa nelle sinodi romane e accanto ad Ambrogio nel concilio di Aquileia del 381, per sostenere con successo la causa dell'ortodossia (42). Dal cosiddetto "Seminarium Aquileiense" uscì anche una schiera di vescovi che occuparono sedi dell'Italia settentrionale, della Rezia, del Norico e della Pannonia (43).
Il grado di cristianizzazione raggiunto dall'ambiente aquileiese trova puntuale verifica nel formulario dell'epigrafia funeraria dettato quasi sempre con semplicità e immediatezza da una coscienza religiosa ormai cristianamente orientata (44).
Sulle vicende della cultura ecclesiastica nei tempi immediatamente successivi, non abbiamo sicure memorie; ma che non siano mancati nel clero cultura e studio fino al sec. VI è attestato indirettamente dalle dispute per la controversia pelagiana e soprattutto per quella dei Tre Capitoli (45).
Quanto all'attività missionaria fra i rustici dell'agro, mancano esplicite testimonianze, anche se il simbolismo del mare e della pesca nel musaico dell'aula meridionale di Teodoro attesta in certo modo lo slancio missionario della comunità. Ciò che non si può assolutamente seguire nei particolari con sicurezza di dati storici è come avvenisse l'assimilazione di queste popolazioni al cristianesimo, su quali classi facesse breccia la prima propaganda cristiana, quali fossero i missionari, quale la prima organizzazione ecclesiastica, quali componenti storiche intervenissero nel fenomeno religioso delle conversioni, come reagisse la popolazione locale. Viceversa di questo lento, secolare processo di evangelizzazione possiamo cogliere documentariamente solo i risultati. Esso doveva servirsi della rete stradale che metteva in contatto Aquileia con i centri periferici della regione, come sembrano confermare i pochi documenti trovati di antiche presenze cristiane; Grado, come elemento dell'emporio portuale aquileiese, e S. Canzian d'Isonzo, lungo la strada che porta in Istria (la supposta via Gemina), presentano sicure testimonianze dell'immediata irradiazione cristiana dal centro già nella prima metà del sec. IV: li una piccola aula di culto pavimentata a cocciopesto sotto lo strato musivo della basilica eliana (46), qui la primitiva memoria rettangolare dei martiri Proto e Crisogono (47) sono appunto riferibili a quell'epoca. Ad ogni modo mancano tracce di fermenti cristiani nei luoghi più lontani dal centro episcopale per epoche anteriori alla seconda metà del sec. IV, quando il vescovo Fortunaziano pensò di compilare un commento ai Vangeli nel "sermo rusticus", secondo l'informazione di s. Girolamo (48). Ma solo durante l'episcopato di Valeriano e di Cromazio possiamo pensare avvenuta una sistematica penetrazione cristiana nella "Venetia". Anzi, nel quadro dell'attività pastorale di questi due vescovi aquileiesi, e soprattutto di Cromazio, dobbiamo inserire l'erezione di altre due diocesi nel territorio friulano; probabilmente quella di "Iulium Carnicum" nella parte alta (49) e, sicuramente, quella di "Iulia Concordia" in pianura (50).
Per il municipio di "Iulium Carnicum", la fonte epigrafica che attesta la morte del vescovo "Ienuarius" non è anteriore al 490 (51), ma le esplorazioni archeologiche hanno portato alla luce le fondazioni di una basilica suburbana rettangolare che, per la tipologia architettonica e per lo stile dei musaici, è stata ultimamente riferita alla prima metà del sec. V (52).
Per "Iulia Concordia", invece, sulla via Annia, oltre al complesso costituito dai singolari recinti sepolcrali e dalla tricora del sec. IV, dalla "basilica Apostolorum" della fine del secolo e dalla basilica cemeteriale sviluppatasi sulla tricora nella prima metà del sec. V (53), possediamo il discorso "in dedicatione ecclesiae" che il vescovo Cromazio pronunciò quando la Chiesa di Concordia fu eretta a sede vescovile, affermando per l'occasione: "ornata est igitur ecclesia Concordiensis et munere sanctorum et basilicae constructione et summi sacerdotis officio" (54). Per la prima cristianità di Concordia hanno grande valore storico anche le iscrizioni funerarie come quelle sui sarcofaghi di "Faustiniana clarissima femina", del "sanctus presbyter Maurentius" e, fra quelle dei militari, soprattutto le iscrizioni latine che nominano il clero e la Chiesa di Concordia, cui i dedicanti raccomandano il loro sepolcro; altre iscrizioni in greco ricordano i neofiti della Siria, che tra il IV e il V secolo probabilmente a Concordia furono "illuminati" dalla grazia del battesimo (55). E da ritenere infine che l'erezione della diocesi di Concordia abbia avviato in tutto il territorio del "municipium", posto lungo la sponda destra del Tagliamento, un processo di più intensa cristianizzazione (56).
Così, per quanto ci è dato di conoscere, non è azzardato affermare che agli inizi del sec. V le regioni orientali della "Venetia" dovevano essere in buona parte cristianizzate e che la Chiesa locale aveva già consolidato le sue strutture organizzative non solo al centro, dove si era ormai costituita la giurisdizione metropolitica della sede aquileiese, ma anche in periferia (57).
Neppure le invasioni del sec. V arrestarono il processo di cristianizzazione delle masse rurali e quindi la proliferazione di chiese plebane attestate dalle esplorazioni archeologiche in centri minori. In effetti, i "castella" che in questo periodo si andarono costituendo sulla fascia alpina e prealpina per la difesa contro le frequenti scorrerie dei barbari risultano sempre forniti di una "ecclesia" sulla sommità del colle; testimonianze sicure per il territorio friulano ci vengono dalla pieve medievale di Zuglio, che certamente insiste su fondazioni paleocristiane in relazione a un "castellum" del sec. V (lì fu appunto trovata l'epigrafe del vescovo "Ienuarius") (58), e dalle recenti esplorazioni di Invillino sull'alta valle del Tagliamento, dove intorno all'antica pieve è emerso un livello del sec. V (59). Ma, per la stessa epoca, non mancano testimonianze di modesti impianti cultuali anche nelle isole lagunari destinate a rapido incremento, come si dirà.
Quanto al territorio istriano di stretta pertinenza all'area culturale aquileiese, possiamo ragionevolmente affermare che, durante le persecuzioni precedenti l'editto di tolleranza (313), esso è già penetrato dal nuovo messaggio: ha i suoi luoghi privati di culto, quasi sicuramente documentati a Parenzo e a Pola (60), e i suoi martiri nelle figure storicamente sicure o attendibili di Giusto a Trieste (61), di Mauro a Parenzo (62) e forse di altri santi che, come Germano a Pola (63), si celebrano nelle Chiese istriane, ma che non hanno solidi documenti di sicure presenze sul territorio. Spesso si tratta di culti e di reliquie importati da altre sedi dell'arco adriatico e perfino dal Mediterraneo orientale, che hanno ricevuto onore e accresciuto la fede (64). Dalla pace di Costantino alla fine del IV secolo la costa istriana lungo la via Flavia ci appare ormai largamente cristianizzata, a giudicare dai resti monumentali pervenutici.
Per quest'epoca, la partecipazione dei vescovi Crispino di Padova e Lucillo di Verona al concilio di Sardica e di Eliodoro di Altino e di Abbondanzio di Trento a quello di Aquileia (381) attesta sicuramente l'esistenza di altre Chiese ormai consolidate nella "Venetia", dove non mancano tradizioni agiografiche di martiri locali, appoggi di natura archeologica e talvolta anche testimonianze di una produzione letteraria, come quella di Zeno di Verona (364-377), atte a documentare il grado di cristianizzazione qui allora raggiunto (65).
Forse non è il caso di prevedere - come un tempo si è fatto - una precisa azione missionaria ad opera di Roma o di Aquileia, in quanto è probabile che le Chiese siano germinate a seconda delle energie locali e delle possibilità, ma è certo che le città, allora fornite di preminenza amministrativa, hanno avuto, se non sempre l'impegno del primo insegnamento, la responsabilità della prima organizzazione (66). In questo senso allora intenderemo i rapporti delle Chiese veneto-istriane con Aquileia, confermati anche dalle affinità tipologiche degli edifici cristiani di culto, dell'arredo liturgico (67) e del fonte battesimale. L'influenza organizzativa aquileiese si faceva dunque sentire anche nei centri più lontani della "Venetia et Histria", dove erano sorte sedi episcopali giuridicamente subordinate ad Aquileia: è del 442 una lettera di Leone Magno che, per la prima volta, attesta esplicitamente l'autorità metropolitica del vescovo aquileiese verso i suoi "provinciales sacerdotes" (i vescovi suffraganei) (68).
Così proprio mentre il sistema politico dell'impero andava decomponendosi e stava per essere sommerso dalla incombente marea barbarica, anche qui "il cristianesimo ricomponeva una diversa e più profonda unità" (Menis).
Ma i tristi eventi di cui fu teatro la "Venetia" nel V e VI secolo (trasmigrazioni di popoli, caduta dell'impero, guerre gotiche, violenze e distruzioni, irreparabile rovina di Aquileia) non mancarono di far sentire il contraccolpo anche sulla vita interna della cristianità locale soprattutto quando, travagliata dalla crisi dello scisma tricapitolino (555-699), fu sorpresa dall'invasione longobarda.
Il panorama si oscura rapidamente dopo l'invasione attilana del 452, quando i vescovi si trovarono a dover affrontare la grave situazione sociale in cui si dibatteva la popolazione in mezzo a tante calamità e a destreggiarsi fra le sottili insidie della politica gotica e bizantina, mentre andavano così maturandosi antagonismi e fermenti autonomistici (69).
Nella primavera del 452 Aquileia, dopo accanita resistenza, cadde sotto i colpi degli Unni di Attila e subì un duro saccheggio. Se un autore contemporaneo ai fatti, s. Prospero d'Aquitania, ricorda nel suo Chronicon solo le devastazioni dei barbari nelle regioni d'Italia senza riferimenti particolari ad alcuna città - ché il suo interesse è rivolto alla storia della Chiesa e agli avvenimenti della Gallia -, viceversa la caduta di Aquileia fu considerata un fatto assai importante da Cassiodoro nel suo Chronicon del 519. Tuttavia la prima narrazione diffusa sull'espugnazione e sulla distruzione di Aquileia ci è data da Iordanes, che nel 551 pubblicò un sunto della Storia Gotica di Cassiodoro: "Attila, afferrata l'occasione datagli dalla ritirata dei Visigoti e, cosa che sempre aveva desiderato, vedendo che i suoi nemici si erano divisi, ormai sicuro mosse il suo esercito per abbattere i Romani, e al primo urto assediò la città di Aquileia, che è la metropoli delle Venezie, situata su una punta o lingua del mare Adriatico, i muri della quale ad Est lambisce il fiume Natisone, che viene dal Monte Pece. Nonostante l'assedio ivi durasse già da lungo tempo, egli non riusciva in alcun modo ad avere successo, poiché all'interno della città i fortissimi soldati romani resistevano. Il suo esercito già mormorava e desiderava andarsene, quando Attila camminando lungo le mura, mentre deliberava se dovesse togliere l'accampamento o ancora restare, vide che dei bianchi uccelli, cioè delle cicogne, le quali fanno il nido sui tetti delle case, portavano via dalla città i loro pulcini e contro il loro costume li portavano fuori per le campagne. Appena ebbe notato questo, egli che era un avvedutissimo indagatore, disse ai suoi 'Osservate gli uccelli che, avendo prescienza del futuro, abbandonano la città in procinto di perire e lasciano, nell'imminenza del pericolo, le fortezze che stanno per cadere. Non si creda un tale comporta-mento privo di significato oppure incerto: quando si conosce il futuro, la paura che sta per sopraggiungere fa cambiare le abitudini'. C'è da dire di più? L'animo dei suoi soldati di nuovo si infiamma per assediare Aquileia. Ed essi, costruite macchine e usando ogni genere di catapulte, senza più alcun ritardo, invadono la città, la saccheggiano, ne dividono la preda, la devastano così crudelmente, che quasi non hanno lasciato che di essa appaia traccia" (70).
Quasi contemporaneo a quello di Iordanes e sostanzialmente vicino alla sua narrazione è il racconto dello storico bizantino Procopio di Cesarea che, avendo soggiornato a lungo in Italia durante la guerra gotica (535-553), poté raccogliere particolari significativi sulla caduta di Aquileia e riportarli come racconto udito nella sua Storia delle Guerre (71).
I due autori concordano nella successione dei fatti (lungo e vano assedio, episodio delle cicogne, ripresa dell'assedio e caduta della città), ma il racconto di Procopio è più verosimile: egli infatti parla solo di un nido di cicogne e della repentina caduta di quel tratto di mura sul quale l'uccello nidificava; inoltre precisa che la città fu conquistata con la forza attraverso il varco apertosi fortuitamente nelle mura, ma non lascia intendere che essa fosse rasa al suolo.
È da ritenere infatti che la distruzione di Aquileia sia stata piuttosto un "sacco", com'era nello stile di una scorreria barbarica, che una distruzione totale e programmata (72).
Lo conferma indirettamente la lettera del papa Leone Magno "Regressus ad nos" del 21 marzo 458, indirizzata a Niceta, metropolita di Aquileia, la quale lascia intravedere una ripresa e una normalizzazione della vita cittadina e gli sforzi per rimediare alle conseguenze dell'invasione (73). Del resto anche nella controversia dei Tre Capitoli, sorta un secolo più tardi (553-554), la Chiesa di Aquileia si dimostrò notevolmente attiva. Lo spopolamento e l'abbandono di Aquileia come città e, quindi, il suo disfacimento e degradazione a zona rurale quale appare dai versi di s. Paolino (802), si verificò in seguito alla conquista longobarda della "Venetia" (569): allora l'antica metropoli si trovò in territorio di frontiera e periferico, cessando anche di essere residenza episcopale, mentre nello stesso tempo per cause naturali perdeva definitivamente i suoi legami con il mare a tutto vantaggio della vicina Grado, rimasta unita all'impero assieme a tutta la fascia lagunare veneta (74).
Tra le scarse fonti rimasteci per tracciare un profilo della vita sociale ed economica d'Italia durante la dominazione gota, le Variae di Cassiodoro sono senza dubbio il meglio e talora l'unica fonte d'informazione: si tratta di una silloge di 468 lettere raccolte nel 537 da un uomo che fu ministro di ben quattro sovrani goti e fautore di quella pacifica convivenza fra Romani e Goti perseguita dalla politica di Teodorico.
La nota lettera di Cassiodoro ai tribuni marittimi (537-538), che dal Trecento in poi ogni storico di Venezia utilizza, svela per la prima volta un vivo mondo lagunare quasi escluso dagli accadimenti della grande storia ma non privo di strutture sociali, economiche e politiche locali che ricevevano rilievo dalle contingenze della guerra greco-gotica (535-553). Non mancano testimonianze più antiche, come quelle di Servio, sulla società lagunare configurata nelle sue strutture di vita marinara, di traffici fluviali, di coltivazione delle isole (75), ma lo splendore della terraferma veneta aveva fatto passare in secondo piano la vita che da tempo remoto si andava intessendo su quegli insediamenti minori della laguna, che solo le congiunture storiche del V-VI secolo schiudono all'ansia dei profughi e all'attenzione degli storici. Cassiodoro descrive un mondo di isole abitate e operose, dove gli abitanti delle lagune vivevano una vita frugale e laboriosa a guisa di uccelli palustri ("hic vobis aquatilium avium more domus est") in case modeste sopra un suolo strappato alle acque, con un sistema economico elementare fondato sulla pesca e sulle saline senza alcun turbamento della concordia sociale, mentre la guerra greco-gotica scatenava attorno bramosie e appetiti: lì trovarono rifugio i profughi dei municipi romani senza dover ricominciare dal nulla ma impiantandosi in un contesto sociale che aveva già imparato a conoscere le difficoltà dell'ambiente lagunare (76).
Questi insediamenti risultano troppo ben radicati nell'ambiente per essere prodotti di una frettolosa riconversione economico-sociale dei profughi venetici a partire dal V secolo: gli studi del Carile e i recenti scavi di Torcello rovesciano le conclusioni del Cessi, che pensava a un ripopolamento lagunare nel VI secolo, supponendo una netta cesura fra le più antiche tracce di vita e la testimonianza di Cassiodoro; viceversa quelle esplorazioni confermano le ipotesi di una continuità culturale fra età romana e altomedievale a Torcello sulla linea del Filiasi e degli eruditi veneziani del secondo Settecento. Tali insediamenti sarebbero dunque frutto di una tradizione locale remota e consolidata, pronti a sviluppare una vita cittadina accogliendo gli alti gradi delle gerarchie civili, militari ed ecclesiastiche per l'ormai irreversibile esodo nelle lagune da Aquileia, da Concordia, da Altino, da Oderzo, da Padova qualche decennio dopo la testimonianza di Cassiodoro (77). Del resto è particolarmente significativa in proposito la vicenda di Grado (78), dove forse già da tempo stanziava una flotta aquileiese subentrata a quella ravennate per il territorio compreso fra il Po e il Timavo e per la costa istriana fra il Timavo e l'Arsa. E al tempo stesso è sintomatico che la raffinata lavorazione del vetro, prodotto ad Aquileia dalle sabbie quarzifere dell'Istria meridionale, si ritrovi nella Torcello dei secc. VII-VIII, dove si è scavata da poco una fornace vetraria (79).
Non è facile conoscere quali fossero le reazioni delle genti venete di fronte al rivolgimento del quadro economico e sociale provocato dalla guerra greco-gotica e all'oppressivo fiscalismo bizantino denunciato dallo stesso Procopio (uomo di fiducia di Belisario) come una delle cause che non conciliavano le simpatie italiche al regime di Giustiniano (80): forse lo scisma dei Tre Capitoli, nato come è noto da un orgoglioso e malinteso attaccamento al concilio di Calcedonia (451) e radicatosi nella coscienza dell'episcopato aquileiese con maggiore ostinazione che altrove, potrebbe essere rivelatore dei sintomi di profondo dissenso nei confronti di Bisanzio all'indomani della guerra greco-gotica, anche se non sempre il dissenso religioso coincideva col dissenso antimperiale (81).
In questo momento acquista probabilmente connotati definiti la tradizione marciana, di cui forse non saranno mancate premesse leggendarie o liturgiche: noi possiamo però solo intuirle senza conoscerle, anche perché ignoriamo l'eventuale risposta del patriarca Paolino (557-569) alla lettera di papa Pelagio I (556-561) che lo sfidava a produrre documenti autentici a sostegno delle sue affermazioni circa la vantata dignità patriarcale (82).
In tale situazione generale si inserì dal 569 l'insediamento longobardo destinato a portare radicali mutamenti nel tessuto sociale dei territori conquistati. In effetti proprio durante l'espansione longobarda in terraferma lo stato di guerra durato per oltre cent'anni indusse le gerarchie episcopali venete a trasferire definitivamente le proprie sedi in laguna, secondo il comune orientamento antilongobardo: a parte la discussa tradizione cronachistica, il primo trasferimento sicuramente attestato è quello del metropolita aquileiese nell'isola di Grado (83). Così l'umile società lagunare di pescatori, di salinari, di costruttori di navi, di marinai e mercanti veniva potenziata da questo trapianto di istituzioni civili e religiose dall'entroterra veneto, in concomitanza con gli interessi alto-adriatici dell'impero bizantino che, nel clima di restaurazione imperiale inaugurato da Eraclio (630), volle riconoscere la legittimità del patriarca gradese inviandogli, forse tramite il "magister officiorum" Stiliano, la cattedra d'avorio ritenuta di s. Marco e una cattedra-reliquiario di alabastro con una insigne reliquia della croce (84).
Quanto alle origini di Grado, vi è unanime consenso tra gli studiosi nel ritenerlo un centro sorto e stabilmente abitato già in età romana quale elemento del sistema portuale del celebre emporio di Aquileia.
Il nome stesso latino di "Gradus" equivale a scalo, come si registra nella toponomastica romana di luoghi geograficamente simili, anche se non è ancora definito dove fosse esattamente lo scalo, cioè il "gradus" di Aquileia sul mare; è certo però che non vi mancano documenti della romanità largamente attestati nel lapidario del duomo, sebbene in parte forse provenienti da Aquileia e da Altino. Del resto anche la più antica basilica cristiana di Grado - quella posta a circa un metro sotto la navata centrale del duomo e assegnata alla seconda metà del sec. IV - risulta sorta nell'area cemeteriale di una necropoli precristiana, di cui sono testimonianza i tre grandi sarcofagi con coperchi a tetto e ad acroteri scavati in quel luogo nel 186o e ora disposti lungo il vialetto di accesso al battistero (85).
Solo in seguito, fenomeni naturali e l'abbandono delle opere idrauliche causato da gravi congiunture storiche trasformarono parte del florido agro colonico di Aquileia, su cui si estendeva la centuriazione romana, nella laguna di Grado, sommergendo coltivazioni e abitati o isolandone altri come Grado stessa (86). Qui cercarono riparo dalle violenze dei barbari invasori le popolazioni dell'entroterra e solo allora Grado venne a ereditare quel ruolo civile e religioso prima mantenuto da Aquileia. Dopo le scorrerie di Alarico (401) o dopo l'incursione di Attila (452), gli Aquileiesi vi posero le basi di un complesso difensivo, elevando una cinta muraria di forma rettangolare molto allungata (m 360 x 90 circa), con quattro o cinque porte affiancate da torri, o prolungando a Nord e a Sud un centro fortificato minore forse esistente già nel sec. IV; l'antico scalo si trasformò dunque nel "castrum" di Grado, divenuto prima temporaneo rifugio, poi stabile dimora degli Aquileiesi (87). Per questo il vescovo Niceta (454-485) dovette gettare le fondamenta di una nuova, grande cattedrale, che, passate le prime, drammatiche vicende politiche, rimase incompiuta e fu portata a termine con rinnovato progetto solo ai tempi del patriarca Elia (571-586).
Si può dire che i primi momenti della progressiva ascesa di questa città siano documentati, più che dalle cronache, dai preziosi resti monumentali. Infatti sulla lunga duna sabbiosa che condizionò la forma del "castrum", nella zona della necropoli romana in seguito occupata dalla basilica di Elia, sorse già nella seconda metà del sec. IV la ricordata basilichetta cemeteriale per i primi fedeli di Grado, presto utile anche alla comunità Aquileiese in cerca di sicuro rifugio sulle dune lagunari.
L'incursione di Attila (452) sembra un evento decisivo per l'incremento della città: al vescovo Niceta, ritiratosi a Grado coi tesori della Chiesa, sono attribuiti l'impianto generale del duomo e il battistero ottagono, entrato in funzione prima che la cattedrale fosse compiuta, mentre la prima fase di S. Maria era già adibita a basilica episcopale (88). I lavori infatti dovettero andare a rilento e i muri soffrirne, se prestiamo attenzione a quanto ci informa l'epigrafe musiva di Elia: "Atria quae cernis vario formata decore [...> longa vetustatis senio fuscaverat aetas" ("La basilica che vedi ornata di varie decorazioni [...> lunghi anni avevano offuscato con l'invecchiare del tempo").
Prima della riconquista bizantina da parte di Narsete (552), Grado fu sede di un presidio goto di fede ariana, a giudicare dalla presenza nel "castrum" di un secondo battistero, di cui restano le tracce davanti alla basilica scavata in piazza della Vittoria (89).
Nel 569, sopraggiunti i Longobardi, il dramma religioso degli Aquileiesi divenne lentamente politico e nazionale: Aquileia fu immediatamente assorbita da questa prima invasione e l'esito della violenta pressione subita dall'orda impetuosa fu l'esodo della popolazione; Grado, antico "castrum et plebs" della stessa Aquileia, accoglie il primo nucleo migratore guidato dal patriarca Paolino, a cui preme mettere in salvo il tesoro della sua Chiesa e prima di tutto le reliquie dei martiri (90) così come il presbitero tergestino Geminiano, rifugiatosi a Grado al primo affacciarsi dei Longobardi sui confini d'Italia, ritorna a Trieste e vi recupera i corpi di 42 martiri di nome ignoto (91). Per il momento Grado non è che un temporaneo rifugio, ma la fuga, né improvvisata né forse totale, risulta essere la conclusione drammatica e dolorosa di un lento e progressivo spostarsi (urbanistico, economico, ecclesiastico) degli Aquileiesi dalla terraferma alle isole lagunari (92).
Che la fuga di Paolino da Aquileia a Grado abbia avuto un'intenzione di transitorietà forse si dimostra col fatto che non siamo sicuri se lo stesso patriarca morisse a Grado o ad Aquileia, mentre, del suo successore Probino, Paolo Diacono attesta che morì "apud Aquileiam" (93); del resto la presenza dei suffraganei della "Venetia" longobarda alla sinodo gradese del 579 sembra - come vedremo - assai significativa per dimostrare uno scambio reciproco di comunicazioni fra le due zone, che non sarebbe stato a lungo concesso al clero veneto-istriano per le direttive politiche dei governi bizantino e longobardo presto giunti a un grave dissidio e a una chiusura di frontiere. Passato dunque il primo momento di panico e di terrore, quando le cose ritornarono tranquille e il clero della provincia ecclesiastica aquileiese poté liberamente muoversi dal territorio di occupazione longobarda a quello rimasto sotto la sovranità bizantina, non è escluso che i patriarchi ritornassero ancora ad Aquileia.
Il disinteresse dimostrato all'inizio dai nuovi dominatori in materia di fede lascia indisturbate le reciproche relazioni dei vescovi, che si sentono intimamente uniti in un'unica giurisdizione ecclesiastica facente capo al metropolita aquileiese stabilito per il momento nel "castrum Gradense". Solo con Elia, fiero ed energico successore di Probino, si inizia per la Chiesa aquileiese una nuova fase durante la quale la questione dello scisma tricapitolino si complica di motivi politici; si viene così a creare uno stato di tensione fra l'autorità bizantina e l'episcopato aquileiese, tramonta ogni speranza di un possibile ritorno all'antica sede patriarcale, mentre Grado, che gli avvenimenti politici non consentono più di abbandonare, diviene il centro della metropoli ecclesiastica; a essa fanno capo almeno una ventina di sedi episcopali dall'Italia all'arco alpino e oltre, sia nell'area costiera e istriana, rimasta nominalmente bizantina, sia nel continente, dove ormai saldamente esercita la sua autorità il ducato longobardo del Friuli (94).
Il nuovo assetto politico non alterò dunque la precedente organizzazione ecclesiastica, tranne che per la presenza del metropolita, spostatosi nell'isola lagunare di Grado, in una posizione cioè politicamente anfibia, tra mare e terra, tra Bizantini e Longobardi, onde sottrarsi alla inospitale e cadente Aquileia ma anche per difendersi da un'eventuale offensiva degli uni e degli altri (95).
A rendere più difficile la situazione intervenne lo scisma detto dei Tre Capitoli, a cui aderì il vescovo di Aquileia Paolino (557-569) usurpando il titolo patriarcale in aperto antagonismo con la sede apostolica, ritenuta colpevole di aver ceduto alla condanna giustinianea dei Tre Capitoli (persona e scritti di Teodoro di Mopsuestia, maestro di Nestorio, e scritti di Teodoreto di Ciro e di Iba di Edessa venati di nestorianesimo) e di aver così messo in discussione il concilio di Calcedonia (451) che invece, sui Tre Capitoli, non si era in alcun modo pronunciato (96).
La divisione politica fra il territorio longobardo e la fascia costiera bizantina si accentuò dunque anche per queste cause di ordine religioso: lo scisma dei Tre Capitoli infatti ebbe come triste conseguenza la scissione della diocesi aquileiese fra il partito favorevole alla riunione con Roma, rappresentato dal vescovo Candidiano eletto a Grado nel 607, e quello assertore della fede tricapitolina, capeggiato da Giovanni eletto ad Aquileia. "Ex illo tempore [commenta amaramente Paolo Diacono> coeperunt duo esse patriarchae" (97). Da allora cioè si ebbero due patriarchi antagonisti con lo stesso titolo e si formarono due metropoli: quella di Grado, ortodossa, coi vescovadi dell'Istria e del litorale soggetti al dominio bizantino; quella di Aquileia, scismatica, coi vescovadi della "Venetia" continentale. Solo quando alla classe politica longobarda giovò avviare una politica d'intesa con Roma, cessò lo scisma anche nel territorio friulano (699) (98). Viceversa trovò riconoscimento la divisione della Chiesa aquileiese fra i due titolari, come pure la dignità patriarcale da entrambi rivendicata specie quando l'incorporazione del territorio istriano nel regno longobardo prima e nel dominio franco poi diede occasione al titolare della restaurata sede aquileiese di far valere i presunti diritti giurisdizionali sulle sedi istriane.
Grado visse allora uno degli ultimi momenti di splendore nel clima di restaurazione imperiale inaugurato da Eraclio, che - come si diceva - volle riconoscere la legittimità del patriarca gradese inviandogli nel 63o doni preziosi collegati col culto e con la tradizione marciana aquileiese ormai in fase di consolidamento.
Alla fine del regno longobardo (774), i patriarchi di Grado Giovanni (766-803) e Fortunato (803-826) sono costretti a destreggiarsi fra la politica bizantina, la nuova potenza franca e il giovane dogado veneziano, antifranco e autonomista, per ricuperare la giurisdizione sull'Istria, la regione più ricca e più importante della provincia ecclesiastica (99). Da allora la questione della legittimità del patriarcato di Grado e della sua giurisdizione metropolitica contro le pretese del patriarca di Aquileia suscita interminabili dispute, come nel concilio di Mantova (827), e non poche violenze che logorano e impoveriscono la Chiesa di Grado fino al trasferimento della residenza del patriarca a Venezia al tempo di Enrico Dandolo (1131-1186) e del titolo patriarcale alla diocesi veneziana di Castello nel 1451, di cui era vescovo s. Lorenzo Giustiniani (100). Per questo è stato scritto non senza enfatica ammirazione per la romanità di queste terre: "La storia di Grado è intrecciata con la storia di Aquileia e di Venezia; Grado brilla fra il tramonto di Aquileia e l'alba di Venezia; in quel periodo - dal VI al X secolo - vive di vita propria: prima e dopo vive di vita riflessa. Grado raccoglie l'eredità romana di Aquileia, la custodisce per alcuni secoli con amore e con fierezza, poi la trasmette a Venezia" (101).
Il duomo di Grado è ancora lì, sul punto più alto di quella duna sabbiosa, dove e come lo inalzò l'indomito patriarca Elia sulle rovine di un progetto precedente. La nuova cattedrale ha forme che riassumono in sé la lunga esperienza artistica delle scuole aquileiesi e anticipano partiti architettonici e decorativi della cultura medievale (102). Elia, inflessibile nell'atteggiamento scismatico verso Roma per le convinzioni di fede tricapitolina ereditate dai predecessori, consacrò la nuova cattedrale dedicandola con ogni probabilità ai protomartiri Ermagora e Fortunato, al culto dei quali era forse destinata originariamente la "trichora" annessa a oriente della navata sinistra (nei documenti posteriori regolarmente indicata come cappella di S. Marco), e a s. Eufemia martire di Calcedonia, nella cui basilica si era celebrato il IV concilio ecumenico (451) e circa cent'anni dopo papa Vigilio aveva trovato rifugio dalle violenze di Giustiniano per la questione dei Tre Capitoli. La tutela di s. Eufemia infatti è forse ricordata sul disco musivo quasi al centro della basilica, se è attendibile l'integrazione dell'epigrafe mutila proposta dal Ferrua: "Servus Ie (s)u Chr(is) ti Haelias ep(iscopu)s Aquil(eiensis) Dei gratia auxilioque fundator eccl(esiae) s(an)c(t)ae Euphemiae votum solvit" (103).
Si può dire che ogni mattone e ogni pietra ricuperata da Elia per questa basilica svelino un po' della sua lunga e travagliata storia, mentre il suo atto di fondazione si legge in quell'epigrafe latina campita sul pavimento musivo della navata centrale in cui il patriarca volle ricordata l'opera sua: "Atria quae cernis vario formata, decore, squalida sub picto caelatur marmore tellus, / longa vetustatis senio fuscaverat aetas. I Prisca en cesserunt magno novitatis honori, / praesulis Haeliae studio praestante beati. Haec sunt tecta pio semper devota timori" ("La basilica, che vedi ornata di varie decorazioni - sotto il musaico si nasconde un povero pavimento -, lunghi anni avevano offuscato con l'invecchiare del tempo. Ecco le opere primitive hanno ceduto il posto al grande fasto delle nuove per la nobile premura del beato presule Elia. Questi sono ora gli edifici sempre sacri al timor di Dio") (104).
Altri nomi si leggono sulle numerose epigrafi del pavimento che risuonano come i versi di una litania nell'assorto silenzio della basilica: sono nomi latini, orientali e barbarici di ecclesiastici, di ufficiali, di funzionari, di marinai e di artigiani raccolti attorno alla "sancta Aquileiensis ecclesia", esule a Grado (105).
Il momento in cui Elia dettava la sua epigrafe e consacrava la nuova cattedrale era uno dei più oscuri per quella ventina di Chiese locali, rappresentate quel giorno a Grado dai rispettivi vescovi, che facevano capo alla metropoli ecclesiastica di Aquileia: violenze e rapine subite ormai da decenni per mano di barbari, pagani o ariani; mancata difesa da parte di un forte potere centrale che fosse in grado di garantire sicurezza; tensione politica fra Bizantini e Longobardi, che non consentiva ai profughi di abbandonare i rifugi lagunari; rifiuto della comunione con la sede romana per la controversia dei Tre Capitoli; chiusura esclusivistica nelle proprie tradizioni patrie, difese ad oltranza con una sorta di provincialismo culturale fino a supporre, su qualche indizio non meglio controllabile, la predicazione di s. Marco ad Aquileia forse anche per legittimare la propria autocefalia (106). Allora, perduta ogni speranza di un possibile ritorno all'antica sede aquileiese, Grado divenne il centro della vasta metropoli ecclesiastica fra l'Adriatico e il Danubio.
La dedicazione della basilica fu celebrata il 3 novembre 579 e diede occasione all'episcopato aquileiese di ribadire in un concilio provinciale presieduto da Elia la propria cattolicità intesa come incondizionata adesione al Calcedonese e rifiuto del detestato Costantinopolitano II (553-554); ciò è quanto appare da una professione di fede pervenutaci con gli Atti conciliare, ritenuti una malaccorta falsificazione invero di età assai posteriore da cui soli si salvano un piccolo nucleo e l'elenco degli intervenuti conservati negli Atti del concilio mantovano dell'827 (107). Così, in un momento terribile per la situazione d'Italia, l'intrepido patriarca aquileiese approfitta delle circostanze politiche infelicissime che lo salvaguardano da ogni minaccia di Roma - assediata dai Longobardi e ancora in periodo di sede vacante prima dell'elezione di Pelagio II (26 novembre 579) - e da ogni possibile violenza dell'esarca ravennate, troppo occupato da necessità impellenti. Convoca perciò i suoi suffraganei siano essi sudditi greci o longobardi, per riaffermare, nella piena unità ecclesiastica, l'incondizionato attaccamento alla fede tricapitolina: il concilio di Grado sanzionava a quel clero, materialmente diviso fra due poteri, la sua unità spirituale - che veniva riaffermata con l'autorità di una sinodica riunione - e dimostrava apertamente la stretta intimità che legava il patriarca aquileiese ai vescovi della terraferma sottoposti ai Longobardi, lasciando intravedere da quali sentimenti antibizantini fossero tutti animati nonostante le formali proteste di devozione all'idea imperiale.
Per quanto si ricava dal nucleo originale degli Atti faticosamente isolato dal Cessi, possiamo dire che nella sinodo gradense del 579 non si fece che ribadire la fede inconcussa nel concilio di Calcedonia (451) e nei tre precedenti concili ecumenici di Efeso (431), di Costantinopoli (381) e di Nicea (325), secondo la proposta di Elia accolta con unanime consenso dai padri sinodali, nell'intento di riaffermare la propria ortodossia e la propria coerenza con le decisioni prese dal patriarca Paolino nella sinodo del 557, come reazione immediata alle decisioni del detestato Costantinopolitano II a condanna dei Tre Capitoli. I sottoscrittori rappresentano tutte le regioni che facevano capo alla Chiesa di Aquileia in un ambito assai più ampio della giurisdizione civile: la Rezia seconda, il Norico, la Pannonia, oltre all'Istria e alla Venezia, secondo la lista gradese riportata dagli Atti del concilio mantovano; furono presenti infatti, oltre al patriarca Elia, Marciano di Opitergio, Leoniano di Tiburnia, Pietro di Altino, Vindemio di Cissa, Vigulo di Padova, Giovanni di Celeia, Chiarissimo di Concordia, Patrizio di Emona, Adriano di Pola, Massenzio di Giulio Carnico, Severo di Trieste, Giovanni di Parenzo, Aronne di Agunto, Maternino di Sabiona, Flaminio di Trento, Vigilio di Scarabanzia, Lorenzo di Feltre, Marciano di Pedena (108).
La professione di fede proclamata dai padri sinodali per l'occasione, sicuramente autentica anche se forse compilata qualche anno prima (109), palesa dunque col suo silenzio circa i deliberati del Costantinopolitano II il suo carattere scismatico e servì all'assemblea per insistere sul proprio atteggiamento, esplicitamente riaffermato più tardi nella supplica all'imperatore Maurizio e nella sinodo di Marano, forse entrambe del 591(110).
Così la sinodo gradense del 579 segna l'ultimo momento di unità culturale ed ecclesiastica della regione; quelli che seguirono furono anni di lotte politiche e di insanabili divisioni ecclesiastiche, la cui eco si riflette nelle successive manipolazioni subite dagli Atti gradensi, strumentalizzati di volta in volta alle rivendicazioni del momento.
Era diffusa convinzione di una storiografia ormai superata che l'origine delle diocesi lagunari fosse contemporanea alla fondazione delle città, quando i profughi della terraferma vi "condussero con sé il clero e le sacre cose e vi rizzarono chiese e vi piantarono la cattedra episcopale" (111).
Ma non pare più possibile ormai acconsentire con tale ipotesi sia per i risultati di più recenti e accreditate tendenze storiografiche circa la vita di queste regioni lagunari anteriore alla fuga dai floridi centri di terraferma (112), sia considerati gli esiti di scavo che qua e là sembrano confermare una fioritura di vita civile e spirituale anteriore all'occupazione longobarda. Così gli edifici cultuali paleocristiani da poco venuti in luce a Jesolo potrebbero essere un documento di vita cristiana nel luogo, indipendentemente dalla presenza del vescovo opitergino, che non sappiamo con certezza se abbia trovato rifugio a "Equilium" o a Eraclea dopo la caduta di "Opitergium" in mano longobarda (639), e indipendentemente dalla fondazione della sede episcopale equilense, che dalle fonti documentarie risulta piuttosto tarda.
Infatti, a parte i risultati già acquisiti dalla storiografia grazie alle recenti indagini di Torcello e a quelle meno recenti di Grado, nuove conferme sono venute in proposito dopo le esplorazioni archeologiche condotte a Jesolo dalla Soprintendenza alle Antichità delle Venezie tra il 1963 e il 1966, i cui esiti abbiamo avuto la sorte di pubblicare ultimamente: così si è potuto dimostrare, contro ogni previsione, l'esistenza di un impianto paleocristiano in questo antico centro lagunare, proporre una edizione critica delle epigrafi votive che si leggono su alcuni lacerti del musaico pavimentale, tentare una ricostruzione dei pannelli in cui si articolava l'intero tappeto musivo e avanzare una prima datazione del monumento (113). E, se è vero che l'aula paleocristiana pavimentata a musaico, per le sue dimensioni ridotte, non poteva più rispondere alle esigenze liturgiche e all'importanza commerciale e politica che Jesolo era andata lentamente acquistando specie dopo la distruzione longobarda di "Opitergium", è probabile che la fondazione sulla stessa area della nuova, grande cattedrale di S. Maria Assunta (di cui sussistono ancora i ruderi) sia da riferire al sec. IX, in cui si colloca il nome del primo vescovo noto di "Equilium", Pietro (114), o al sec. X, che segna il periodo della ricostruzione dopo la furia devastatrice degli Ungari (899).
In seguito a tali sorprendenti risultati, la Soprintendenza Archeologica per il Veneto ha ritenuto di dover effettuare sul posto una più attenta campagna di scavo guidata dal compianto dr. Michele Tombolani al fine di procedere al restauro delle strutture di fondazione della basilica paleocristiana e di eseguire alcuni saggi stratigrafici nei settori non compromessi dalle precedenti esplorazioni con l'intento di raccogliere elementi utili alla discussa datazione dell'impianto paleocristiano (115). In una prima fase delle indagini, sono state messe completamente allo scoperto le strutture superstiti di tale costruzione, costituite da tratti di fondazione dei muri perimetrali e della divisione interna e da tracce del sottofondo dei pavimenti musivi che erano stati strappati nel 1966. È così apparsa quasi integralmente, nello schema d'impianto che avevamo intravisto, una basilica "a perimetro rettangolare di m 25 x 14, divisa in tre navate, con absidi semicircolari interne, tre ingressi sulla fronte, e nartece con lesene". Un'analisi dei materiali rinvenuti dalla sezione stratigrafica praticata lungo un tratto del muro meridionale ha messo in evidenza frammenti di vasellame in terra sigillata chiara D, di anfore, di lucerne di tipo africano, di piccoli calici in vetro e di pettini "multipli" in osso, assegnabili complessivamente a un periodo compreso tra la seconda metà del V e la prima metà del VI secolo, così che si è creduto di dover "fissare intorno alla metà di tale secolo un termine 'post quem' per la datazione dei mosaici" (116), che noi invece eravamo inclini ad anticipare tra la fine del V e gli inizi del VI secolo per i caratteri stilistici e per il linguaggio epigrafico (117). Tale cronologia dovrebbe riguardare complessivamente anche una seconda fase di costruzione della basilica, in relazione a un suo ampliamento per l'aggiunta dell'area presbiteriale e absidale, a cui il pavimento musivo appare strutturalmente collegato. Ma le novità più interessanti di queste indagini in corso sono venute dalla scoperta di un edificio ancora più antico "distinto per impianto e tecniche murarie dalle successive costruzioni" e datato dal Tombolani almeno al sec. V: esso consta di un'aula rettangolare di m 12 x 8, con abside semicircolare esterna di m 6 di diametro, secondo uno schema planimetrico, semplice ed essenziale, paragonabile a quello dell'aula sottostante il duomo di S. Eufemia a Grado (118). Purtroppo non si è trovata alcuna traccia, per ora, di un impianto battesimale con cui poter collegare questi edifici di culto, mentre molto più tarda risulta un'intensa utilizzazione della zona quale area cemeteriale.
Se l'esplorazione della primitiva aula di culto verrà completata in una prossima campagna di scavo, l'elemento per ora più rilevante sotto il profilo storico e artistico è dato dai vari lacerti di musaico pavimentale trovati friabilissimi e sconnessi su un piano irregolare per il cedimento del sottofondo, dovuto anche alla caduta delle strutture murali conseguente all'abbandono della chiesa; perciò furono strappati nel maggio 1966 per un totale di m2 30, in vista di un consolidamento e di un restauro, e sono tuttora conservati in un magazzino del comune di Jesolo, dove abbiamo potuto studiarli.
Dalle epigrafi dedicatorie superstiti risultano con sicurezza solo pochi nomi di donatori: "Paulus", "Iohannes", registrato due volte, "Georgius", l'unico finora attestato nelle epigrafi cristiane dell'Alto Adriatico, e qualche altro nome supposto. Di loro e degli altri che ricordano la loro offerta alla Chiesa non sappiamo pressoché nulla perché le iscrizioni, già in sé povere di notizie, ci sono giunte assai mutile. Tuttavia, almeno in quattro casi possiamo rilevare che il donatore associa nell'offerta i propri familiari non meglio identificati; che le pedature di musaico donate variano da un minimo di 11 a un massimo di 70 piedi nella zona del presbiterio; che in sei casi ricorre l'espressione ricca di fede "de dono Dei" con la variante "de donum Dei" come l'unica formula che a Jesolo indichi l'adempimento del voto.
Null'altro conosciamo di questa antica comunità cristiana di "Equilium": essa ci ha tramandato dei nomi e delle memorie per i quali ora siamo in grado di stabilire un'attribuzione cronologica posteriore alla metà del sec. VI, anche se il repertorio decorativo del musaico, i caratteri grafici delle iscrizioni e il formulario ivi adottato sembrano improntati a modelli di età precedente.
Si può osservare infatti che siamo di fronte a un musaico pavimentale di notevole importanza, ancora fedele al lessico tardoromano e paleocristiano, abbastanza puntuale e corretto nel disegno, con chiare note di vigore decorativo ed espressivo, anche se talora l'esecuzione risulta un po' scadente e provinciale.
Ad ogni modo, pur in attesa di una pubblicazione definitiva, i risultati dell'esplorazione stratigrafica ultimamente resi noti dal Tombolani sembrano risolutivi per ogni dubbio in proposito e sembrano assegnare con sicurezza - come si diceva - l'ampliamento della seconda aula di culto col musaico pavimentale alla seconda metà del sec. VI. Tale datazione tuttavia non sposta i termini del problema e le conclusioni che ne avevamo tratto sotto il profilo storico, considerando che almeno per il sec. V, se non per la fine del IV, resta attestato in quel sito un precedente impianto cultuale bisognoso peraltro di ulteriori indagini (119).
Certo non mancano difficoltà di ordine storico per una cronologia così alta: qualora infatti si dovesse ritenere che l'inizio della vita civile di "Equilium" coincida con la distruzione longobarda di "Opitergium" per mano di Rotari prima (639) e di Grimoaldo poi (669), risulterebbe arduo accogliere una datazione del primitivo impianto paleocristiano all'inizio del sec. V. Ma se al contrario prestiamo attenzione a quel mondo lagunare di isole abitate e operose che l'epistola di Cassiodoro ai "tribuni maritimorum" attesta intorno al 537-538 e alle conclusioni che ultimamente ne ha saputo trarre al riguardo il Carile, allora anche "Equilium" può venire associata a Grado e a Torcello e configurarsi come la prova di una tradizione locale remota, pronta a incrementare il proprio ruolo civile quando accoglie gli alti gradi delle gerarchie politiche, militari ed ecclesiastiche, che, poco dopo la testimonianza di Cassiodoro, si apprestano a trasferimenti irreversibili sulla laguna.
Dopo tali premesse, allora, non è necessario collegare le strutture cultuali ultimamente scoperte a Jesolo con una sede episcopale, che resta sicuramente attestata - come si è detto - appena per il sec. IX, e neppure con la residenza precaria dell'episcopato opitergino, probabilmente trasferitosi a Eraclea (120).
A nostro parere, l'impianto paleocristiano di Jesolo, che i dati di scavo finora emersi consentono di datare per la fase più antica almeno al sec. V, si collega alla vita dell'umile mondo lagunare prima dell'incremento ricevuto dalla rovina dei centri di terraferma. Che la comunità cristiana vi abbia avuto un luogo di culto come a Grado nella basilichetta di "Petrus" anteriore al grande complesso eliano e che vi abbia dato vita a una prima organizzazione plebana, è un'ipotesi del tutto attendibile anche se bisognosa di ulteriori conferme, come quella che potrebbe venire dalla scoperta di un impianto battesimale (1121): ad ogni modo l'intitolazione mariana della basilica successiva attestata per il 1060, quando era ormai da tempo istituito l'episcopato equilense, resta un indizio non secondario, conforme agli esiti delle recenti indagini sulla più antica organizzazione plebanale in Friuli (122).
A questo proposito Giorgio Fedalto, tenuto conto dei risultati di scavo, ha ultimamente considerato la possibilità di collegarli con una notizia tramandata dal Chronicon Gradense circa la fondazione di sei nuove sedi vescovili (Torcello, Malamocco, Olivolo, Jesolo, Eracliana e Caorle) da parte del patriarca Elia in occasione della sinodo provinciale da lui radunata a Grado il 3 novembre 579 (123). In precedenza però, mancando ogni riscontro archeologico, lo stesso Fedalto aveva ritenuto frutto di composizione letteraria successiva l'istituzione di questi sei vescovadi riferita all'iniziativa di Elia: non lo avrebbero consentito infatti le scarse presenze insediative attestate per quel periodo nelle isole lagunari né le prescrizioni del concilio di Sardica (343), che proibiva di creare nuovi vescovadi "in aliquo pago vel parva urbe, cui vel unus presbyter sufficit [...> ne episcopi nomen et auctoritas vilipendatur" (124). Ma, dopo lo studio del musaico iesolano e tanto più ora dopo gli esiti delle successive esplorazioni archeologiche che attestano un sicuro impianto liturgico - anche se non necessariamente episcopale per un'epoca così alta, è opportuno rivedere col Fedalto la storia cristiana di questo litorale e le origini dei vescovadi lagunari, riesaminando in sede critica l'attendibilità storica del citato brano del Chronicon Gradense.
La migliore storiografia - come si sa - non ha dato finora troppa rilevanza critica ai testi della cronachistica delle origini, relegandola nel genere letterario della leggenda piuttosto che discuterne eventuali errori e anacronismi. Ora invece è proprio l'archeologia a riproporre un esame della cronachistica e a presentarsi come un settore di promettente indagine, grazie alla possibilità di uno studio comparato fra dati di scavo e tradizione letteraria. Anzi, secondo l'intervento del Fedalto successivo alle esplorazioni di Jesolo, perfino i criteri di lettura interna agli stessi testi sarebbero "suscettibili di offrire un quadro sufficientemente completo della storia cristiana per i secoli più sprovvisti di altre fonti" (125).
Così, nel caso specifico di Jesolo, i sollecitanti risultati dell'esplorazione archeologica incoraggiano oggi il Fedalto a rivalutare quanto si ricava dal Chronicon Gradense circa la fondazione di sei vescovadi nella "Venetia maritima" per iniziativa di Elia, che avrebbe affidato l'elezione dei rispettivi presuli al clero e al popolo di ciascuna parrocchia "sicuta beato Benedicto sancte Romane sedis antistite fuerat sancitum, nec non et privilegii scripto confirmatum" (126). E se tale privilegio di papa Benedetto I (574-578) non è altrimenti noto, il Fedalto rileva che a quel pontefice non dovevano essere estranei i problemi di Grado: a lui infatti si sarebbe rivolto il patriarca gradese per avere un rescritto su problemi di sponsali, peraltro ritenuto apocrifo (127), e da lui si sarebbe recato, assieme ad alcuni tribuni e nobili, lo stesso Beato, duca veneto-bizantino di Malamocco, con la richiesta di istituire il "castrum Gradense" come "nova Aquileia" e di crearlo sede metropolitica "tocius Venetie et Histrie" (128). Il pontefice avrebbe acconsentito, consegnando alla delegazione gradese il privilegio scritto che prevedeva anche le modalità per l'elezione, l'investitura, la consacrazione e il conferimento del pallio al nuovo metropolita (129). Secondo l'anonimo compilatore del Chronicon Gradense, sarebbe stato dunque il duca Beato tra il 574 e il 575 a volere che si ufficializzasse il trasferimento della sede a Grado con la creazione di una nuova metropoli, la "nova Aquileia", mentre solo qualche anno dopo Elia, nella sinodo del 579, avrebbe provveduto in via di fatto all'istituzione delle sei diocesi, tra cui si pone appunto la sede equilense nella grande laguna eracliana tra Piave e Livenza.
A un simile quadro degli avvenimenti ricavato dal Chronicon Gradense nel tentativo di far luce sulle recenti scoperte archeologiche di Jesolo si oppongono però non poche difficoltà e incongruenze. Così, a parte l'anacronismo che anticipa l'istituto ducale e più specificamente il governo di Beato alla seconda metà del sec. VI (130), sembrano storicamente poco attendibili sia la concessione di privilegi papali in favore di Chiese divise dalla comunione con la sede apostolica sia l'eventualità di un qualche ricorso al papa da parte dell'episcopato aquileiese, allora fieramente avverso a Roma per la controversia dei Tre Capitoli. In effetti, secondo la redazione più estesa degli Atti del concilio di Grado trasmessaci nella Chronica del Dandolo (sec. XIV), sarebbe stato Elia a scrivere una lettera a papa Pelagio II per fargli conoscere le forti ragioni di trasportare definitivamente la sede metropolitica in Grado, chiamandola "nova Aquileia", e ne avrebbe domandata l'autorizzazione. Il papa avrebbe inviato a Grado il presbitero Lorenzo con la risposta che concedeva quanto Elia domandava, subordinando al consenso dei vescovi comprovinciali la concessione stessa. Per ottenere questo consenso e per dare maggior solennità alla cosa, Elia avrebbe radunato la sinodo dei suffraganei, i quali all'unanimità approvano e da ultimo professano la fede di Calcedonia. Ma, contrariamente a questa ricostruzione dei fatti (131), sarei incline a ritenere che la presenza del presbitero romano Lorenzo quale legato e latore di lettere di Pelagio II alla sinodo di Grado sia destituita di ogni fondamento storico; nella sua prima lettera indirizzata all'episcopato aquileiese (585), infatti, il papa si giustificava di non aver potuto scrivere prima ad Elia e agli altri vescovi, impedito dalle calamità dei tempi. Del resto questo passo degli Atti era confinato già dal Cessi tra le parti contaminate (132) e a provare l'inautenticità di tale redazione, che riflette l'ultima disperata carta giocata da Grado dopo il pesante scacco subito dalle rivendicazioni del patriarca aquileiese Poppone nei primi anni del sec. XI, basta rileggere la supplica dei suffraganei aquileiesi all'imperatore Maurizio nel 591, dove è asserito a chiare lettere che "essi e i loro predecessori hanno sempre evitato la comunione col romano pontefice da quando fu aperta" la controversia tricapitolina (133). Nel 579 dunque - a nostro giudizio - non si trattò della traslazione canonica della sede, se Elia si sottoscrisse "sanctae ecclesiae Aquileiensis episcopus" e se i suoi successori ancora per anni continuarono a chiamarsi aquileiesi, come attesta del resto anche la citata supplica del 591, in cui i vescovi esprimono la viva speranza di poter ritornare sudditi della "sancta respublica" una volta spezzato il giogo barbarico.
E che dire del silenzio degli Atti - almeno nel nucleo autentico isolato dal Cessi - sull'istituzione delle sei diocesi lagunari ad opera di Elia? Anche per questo il Cessi rifiutava l'attendibilità della notizia tramandata al riguardo dal Chronicon Gradense (134); per di più non esistono tracce nelle documentazioni successive, come nella lettera di papa Agatone per il concilio di Costantinopoli del 680 (135). E, anche se il Paschini rimproverava al Cessi di dare troppa importanza a questi silenzi e riteneva arbitrario supporre per l'inizio del sec. IX l'esistenza certa di due sole sedi episcopali (Grado e Olivolo) nell'ambito del ducato veneziano, pure sulla fondazione delle diocesi lagunari non poteva avanzare altra testimonianza all'infuori di "un'antica leggenda veneziana" tramandata appunto dal Chronicon Gradense (136). Per tali motivi incliniamo ad acconsentire piuttosto con le prime ipotesi del Fedalto quando riteneva quella narrazione un tardo ripensamento della vicenda con una rielaborazione di dati offerti da documenti o da tradizioni allora non ancora registrati dalla cronachistica (137). Resta il fatto però che quelle località menzionate si presentano come punti di supporto per l'intelaiatura successiva di Chiese diocesane che al tempo di Elia, molto probabilmente, non erano state ancora istituite. Così, da un possibile riscontro tra la nostra fonte letteraria e i risultati delle recenti esplorazioni archeologiche, mi sembra che resti ormai attestato come unico dato certo l'esistenza sul territorio lagunare di una rete di parrocchie rurali destinate a diventare diocesi sia pure di non grande rilievo (138).
A Cittanova, presso l'antica Eraclea, gli scavi negli anni Cinquanta stavano mettendo in luce i resti di una basilica paleocristiana col suo battistero, distrutti dai proprietari del terreno prima che se ne potessero eseguire attenti rilievi (139). Tuttavia la documentazione grafica e fotografica esistente presso l'archivio della Soprintendenza Archeologica di Padova consente di riconoscervi il battistero con vasca rettangolare al centro e con abside a oriente: la circolarità della pianta interna ripropone indirettamente la "vexata quaestio" del battistero di S. Maria Assunta a Torcello, anch'esso in origine forse circolare; "la ricostruzione Forlati, con le due nicchie, può rappresentare una chiave di lettura pure per il battistero di Eraclea, che non sarebbe allora azzardato ritenere coevo a quello torcellano, dunque poco anteriore alla metà del VII secolo": a questa data rimanda infatti la nota epigrafe torcellana del 639, che ricorda la costruzione della basilica in onore della Madre di Dio ("Theotókos") per conto ("ex iussione") dell'esarca di Ravenna Isaac (140).
I precari dati di scavo e la cronologia proposta sembrano dunque avvalorare le indicazioni che pongono a Eraclea anche il nuovo centro di vita ecclesiale dopo la caduta di Oderzo. Del resto la testimonianza di tali resti non si presenta in alternativa a quella che ci viene dalle recenti scoperte di Jesolo, se consideriamo che gli impianti di culto qui venuti in luce non prevedono per il momento strutture battesimali e che la loro datazione si colloca almeno tra l'inizio del V e la metà del VI secolo, assai prima dunque della caduta di Oderzo e del conseguente incremento di vita civile nelle isole della laguna. Perciò non abbiamo riscontri archeologici sicuri per confermare, con l'esistenza di attrezzature episcopali, la presunta istituzione della diocesi equilense ad opera di Elia, ma pure è certo che quelle strutture cultuali restano indicative di una realtà abitativa e sociale in cui possiamo riconoscere una di quelle "parochiae" lagunari presto elevate al rango di diocesi per formare di fatto la provincia ecclesiastica della "nuova" metropoli veneto-istriana: quando infatti nel 628 Onorio I scelse tra i suoi suddiaconi regionari un tale Primogenio da inviare a Grado con l'ornamento del pallio perché vi fosse consacrato vescovo (141), allora forse il papa fu disposto a riconoscere almeno implicitamente alla Chiesa di Aquileia trasferita a Grado quel titolo patriarcale vivacemente contestatole settant'anni prima da Pelagio I; ma, se non del titolo patriarcale, certo dell'autorità metropolitica si trattava, che Primogenio e i suoi successori esercitarono di fatto solo sulle diocesi del litorale veneto-istriano a scapito della giurisdizione del vescovo di Aquileia in territorio longobardo.
1. Per i termini del dibattito in corso v. Giuseppe Cuscito, Le origini cristiane nella Venezia orientale. Bilancio bibliografico-critico, "Aquileia Nostra", 48, 1977, coll. 311-312, n. I (coll. 297-320); Id., Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1977 [ma 1979>, passim; Id., Il primo cristianesimo nella " Venetia et Histria". Indagini e ipotesi, Udine 1986; Id., La tradizione marciana aquileiese come problema storiografico, in Miscellanea 7, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Magistero, Udine 1988, pp. 9-44; Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978.
2. Orazio Marucchi, Aquileia: scoperta di una antica basilica cristiana, "Nuovo Bollettino di Archeologia Cristiana", 16, 1910, pp. 162-165; Giovanni Brusin - Paolo Lino Zovatto, Monumenti paleo-cristiani di Aquileia e Grado, Udine 1957, pp. 111 ss.; AA.VV., La basilica di Aquileia, Bologna 1933, p. 204. Anche nell'aula Nord del complesso teodoriano si è vista fin dal 1893 un'altra epigrafe celebrativa del vescovo Teodoro: "[Theod>ore felix, hic crevisti, hic felix". Recentemente si sono occupati di tali testimonianze epigrafiche Antonio Carlini, Il vescovo Teodoro e il suo gregge, "La Panarie", n. ser., 16, 1983, pp. 5-13, e Giuseppe Cuscito, Vescovo e cattedrale nella documentazione epigrafica in Occidente, in Atti dell'XI Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, I, Città del Vaticano 1989, pp. 735-756.
3. Il concilio di Arles fu tenuto nel 314 per disposizione di Costantino allo scopo di risolvere la questione dei Donatisti; le sottoscrizioni dei vescovi più o meno rimaneggiate ci sono pervenute; fra esse troviamo appunto: "Theodorus episcopus, Agathon diaconus de civitate Aquileiensi, provincia Dalmatiae"; cf Pio Paschini, Storia del Friuli, I, Udine 1934, p. 23 e n. 7.
4. Chromace D'aquilée, Sermons, II, a cura di Joseph Lemarié, in Sources Chrétiennes, 164, Paris 1971, Sermo XXXIII, pp. 164, 97-166, 116.
5. Il catalogo episcopale ci è conservato in due redazioni che differiscono solo per una leggera trasposizione di nomi; una delle redazioni è quella del Chronicon Patriarcharum Aquileiensium (in Bernardo Maria de Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, Argentinae 1740, Append., p. 6) di un codice dell'inizio del sec. XI, che riproduce, secondo una fonte aquileiese, il catalogo patriarcale antico; l'altra redazione è quella del Chronicon Altinate (a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, pp. 37-38) e del cronista veneto Andrea Dandolo (Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, I, 1938-1958, pp. 9-30) e rappresenta le fonti gradesi. I due cataloghi sono sostanzialmente gli stessi, perché unica doveva essere la fonte da cui attinsero: Pio Paschini, La Chiesa aquileiese ed il periodo delle origini, Udine 1909, pp. 14 ss., riteneva infatti che essi fossero derivati dai dittici col primitivo elenco episcopale utilizzato anche da Paolo Diacono; ma oggi - come vedremo - tale ipotesi appare assai meno probabile.
6. Su queste posizioni della cosiddetta "scuola radicale" si attestano Adolfo Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, Torino 19543, pp. 513-514 e p. 515, n. 2; Francesco Lanzoni, Le diocesi d'Italia dalle origini all'inizio del sec. VII (an. 604), Faenza 1927, pp. 876-885: P. Paschini, La Chiesa aquileiese; Id., Storia del Friuli, I, pp. 23-25.
7. Guglielmo Biasutti, Otto righe di Rufino, Udine 1970; G. Cuscito, Le origini cristiane, coll. 313-314, n. 7; Id., Fede e politica ad Aquileia. Dibattito teologico e centri di potere (secoli IV VI), Udine 1987, pp. 15-25. Invece Sergio Tavano (Aquileia cristiana, Udine 1972, pp. 19-20; S.V. Aquileia, in Reallexicon fiir Antike und Christentum, Suppl. IV, Stuttgart 1986, pp. 539-540 [pp. 522-553>), ritiene che le varianti del "Credo" di Aquileia possano riguardare una tendenza o il pericolo di una tendenza patripassiana nella comunità (o anche nelle Chiese dell'area aquileiese) probabilmente agli inizi o nella prima metà del sec. III e, in subordine, a cavallo fra III e IV. Ma il significato battesimale della lavanda dei piedi attestato da Cromazio e il complesso teologico ed esegetico che ad essa si accompagna hanno indotto ultimamente Pier Franco Beatrice, La lavanda dei piedi. Contributo alla storia delle antiche liturgie cristiane, Roma 1983, p. 94, a ricercare nell'Asia Minore, anziché nel cristianesimo alessandrino, le matrici delle peculiarità distintive della liturgia e dello stesso cristianesimo aquileiese.
8. Roberto Cessi, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, I, Dalla preistoria alla storia, Venezia 1957, p. 297 (pp. 179-401).
9. Erodiano, Storia dell'Impero romano dopo Marco Aurelio, a cura di Filippo Cassola, Firenze 1967, VIII, 3, 8-9, pp. 379-380.
10. Sergio Tavano, Appunti per il nuovo "Proprium" aquileiese goriziano, "Studi Goriziani", 39, 1966, pp. 141-170, Id., Aquileia Cristiana, pp. 20-26; Id., Riflessione sulle "Memorie" dei martiri aquileiesi, "Il Santo. Rivista antoniana di storia, dottrina, arte", ser. II, 24, 1984, pp. 341-354. G. Cuscito, Le origini cristiane, col. 314, n. 9; Id., Cristianesimo antico, pp. 86- 100. Antonio Niero, I martiri aquileiesi, in AA.VV., Aquileia nel IV secolo (A.A., 22), Udine 1982, pp. 151-174.
11. Tutta la questione è ampiamente trattata, anche in relazione alla discussa autenticità della II Ad Timotheum e all'uso lì fatto del termine Dalmatia, da Jacques Zeiller, Les origines chrétiennes dans la province romaine de Dalmatie, Paris 1906, pp. 2-5.
12. S. Irenaei Episcopi Lugdunensis Contra haereses, I, 10, 2, in P.G., 7, coll. 552-553; A. Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo, p. 521.
13. Secondo Silvio Tramontin, Le origini cristiane, in AA.VV., Storia della Cultura Veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, p. 104, n. 9 (pp. 102-123), sembrerebbe ormai consolidata la tesi propugnata dall'Harnack sulla doppia origine orientale e romana del cristianesimo veneto, anche se a volta a volta alcuni hanno voluto vedere o l'una o l'altra o più l'una che l'altra.
14. Ad Romanos, 15, 19-21. Guglielmo Biasutti, Aquileia e la Chiesa di Alessandria, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente Mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 217-218 (pp. 215-229).
15. Ad Romanos, 15, 24-28.
16. Tyrannii Rufini Expositio Symboli, a cura di Manlio Simonetti, in Corpus Christianorum, 20, Turnholti 1961, pp. 125-182. Prima di avviare l'"expositio" della parola "credo", Rufino precisa che "in diversis ecclesiis aliqua in his verbis inveniuntur adiecta. In ecclesia tamen urbis Romee hoc non deprehenditur factum": a Roma infatti la recitazione pubblica del Simbolo da parte dei neofiti davanti all'assemblea serviva ad accertare che non vi si introducesse alcunché. "In ceteris autem locis, quantum intellegi datur, propter nonnullos haereticos addita quaedam videntur, per quae novellae doctrinae sensus crederetur excludi" (3, 6-15) ; quindi premette questa dichiarazione: "Nos tamen, illum ordinem sequemur, quem in Aquileiensi ecclesia per lavacri gratiam suscepimus" (3, 15-17). Rileva il Biasutti (Otto righe di Rufino, p. 29) che la parola "ordo" non si riduce al significato comune di "ordine" o di "sequenza" ma implica il valore di "formula liturgica ed ecclesiale", oltre a quello di legittimità canonica e di derivazione apostolica. Ritornerebbe qui, sia pure in altro campo, il senso di "ordo" che, come vedremo, il Biasutti segnala per la III lettera del concilio aquileiese (381) agli imperatori. La "Aquileiensis ecclesia" aveva dunque nel sec. IV un proprio "ordo Symboli", come l'avevano certamente altre Chiese, dal momento che Rufino accenna a varianti "in ceteris locis". L'opera è dedicata a "Laurentius" forse primo vescovo di Concordia; Cf. Yves Marie Duval, Aquilée et la Palestine entre 370 et 420, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 299-300, 317 (pp. 263-322). Maurice Villain, Rufin d'Aquilée commentateur du Symbole des Apôtres, "Recherches de Science Religieuse", 32, 1944, pp. 129-130 (pp. 129-156).
17. P.L., 99, col. 301.
18. Guglielmo Biasutti, Sante Sàbide: studio storico-liturgico sulle cappelle omonime del Friuli, Udine 1956; Id., La tradizione marciana aquileiese, Udine 1959, pp. 36-38. Anche Carlo Guido Mor, Per la storia del primo cristianesimo in Friuli, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 43, 1958-59, pp. 19-32, ha accolto in parte l'ipotesi del Biasutti e vi ha aggiunto nuove argomentazioni. Cf. inoltre Sergio Tavano, Aspetti del primitivo cristianesimo nel Friuli, in AA.VV., La religiosità nella valle padana. Atti del II Convegno di studi sul folklore padano, Modena 1966, pp. 386-387 (pp. 383-399). Id., Aquileia cristiana, pp. 17-18. Sulla forza dell'ebraismo in Aquileia, cf. Lellia Ruggini, Ebrei e orientali nell'Italia settentrionale fra il IV e il VI sec. d.C., Roma 1959; Ead., Il Vescovo Cromazio e gli ebrei di Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 353-381.
19. Enrico Marcon, La "domus ecclesiae" di Aquileia. Ipotesi e indagini, Cividale 1958. G. Biasutti, Aquileia e la Chiesa di Alessandria, p. 221, ma cf. la recensione di Gian Carlo Menis, "Aquileia Nostra", 30, 1959, coll. 94-96 (Coll. 91-98) e Giovanni Lettich, Note marginali sulle origini del cristianesimo nella Venezia orientale, "Studi Goriziani", 51-52, 1980, pp. 53-69. Per altre considerazioni cf. Vittorio Peri, Le Chiese dei primi secoli nella regione giuliana. A proposito di un libro sul cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 34, 1980, pp. 188-203. G. Cuscito, Il primo cristianesimo, pp. 3-4.
20. Sancti Ambrosii Opera. Pars X. Epistulae et Acta, III, a cura di Michaela Zelzer, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 82/3, Vindobonae 1982, pp. 186-190.
21. Ibid., p. 190: "Nam etsi Alexandrinae ecclesiae semper dispositionem ordinemque tenuerimus et iuxta morem consuetudinemque maiorum eius communionem indissolubili societate ad haec usque tempora servemus, tamen ne aut aliqui videantur esse posthabiti [...> id obsecramus, ut cum inter se coetu pleniore tractaverint, etiam auxilia decretis sacerdotalibus vestrae pietatis aspirent" (" Infatti, benché noi abbiamo sempre mantenuto l'ordine e la disposizione della chiesa alessandrina e, secondo il costume e la consuetudine dei padri, conserviamo fino ad oggi con indissolubile vincolo comunione con essa, tuttavia, perché non si sentano lasciati da parte alcuni [...> vi preghiamo che, quando le parti ne avranno trattato in un congresso più ampio, alle deliberazioni episcopali si aggiunga la conferma della vostra pietà").
22. Anche per la bibliografia precedente, cf. G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 56-62. Ultimamente Giorgio Fedalto, Fondamenti storici della tradizione marciana aquileiese, "Il Santo. Rivista antoniana di storia, dottrina, arte", ser. II, 24, 1984, pp. 359-360 (pp. 355-362); Id., Dalla predicazione apostolica in Dalmazia ed Illirico alla tradizione marciana aquileiese. Considerazioni e problemi, in AA.VV., Aquileia, la Dalmazia e l'Illirico (A.A., 26, I), Udine 1985, p. 255 (pp. 237-259), dà particolare risalto all'espressione "dispositionem ordinemque" della lettera in parola per confermare la connessione fra le due Chiese di Aquileia e di Alessandria in riferimento al comune apostolato di s. Marco. Ma per una ipotetica matrice microasiatica del cristianesimo aquileiese, cf. P.F. Beatrice, La lavanda dei piedi, p. 94.
23. G. Biasutti, Aquileia e la Chiesa di Alessandria, pp. 222-226. Id., Apertura nel cristianesimo primitivo in Aquileia, Udine 1968, pp. 14-17. A conferma dell'ipotesi del Biasutti, il Tavano (Aspetti del primitivo cristianesimo, p. 388) sottolinea interessanti punti di contatto fra Cromazio e la cultura alessandrina, come la forza del simbolo, l'impegno nell'interpretazione allegorica del testo scritturale: questi però possono essere in relazione alla sua amicizia con l'"origeniano" Rufino senza indicare più antichi scambi fra le due Chiese. Ad ogni modo anche il Tavano ritiene possibile per più ragioni che il "cristianesimo in Aquileia abbia faticato molto a distinguersi dal preesistente e forte giudaismo e che sia stato facilmente confuso con lo stesso o imbevuto di alessandrinismo ebraico". Forse non è un caso che i nomi dei primi vescovi aquileiesi siano tutti d'impronta orientale, non latina, mentre latini risultano i nomi dei personaggi a loro accostati o da loro convertiti nei racconti delle Passiones, come i diaconi Fortunato, Taziano o i martiri Canzii, Felice e altri.
24. Gregorii Nazianzeni Oratio XXXIII. Contra Arianos et de se ipso, in P.G., 36, col. 228.
25. G. Fedalto, Fondamenti storici, pp. 355-367; Id., Della predicazione apostolica in Dalmazia, pp. 237-259: contrariamente all'esegesi eusebiana, qui e altrove l'A. propone un'interpretazione diversa di I Petri 5, 13 ("vi saluta la comunità, che è stata eletta come voi e dimora a Babilonia e anche Marco figlio mio") per dimostrare che Marco aveva già fondato la prima comunità cristiana in Egitto anteriormente all'apostolato aquileiese e aveva portato da tale Chiesa di Babilonia (o Cairo vecchio) a Roma i saluti di quella comunità, che Pietro poteva trasmettere alle Chiese di Asia. Il silenzio degli antichi scrittori ecclesiastici, che grava come una pesante ipoteca sull'apostolato aquileiese di s. Marco, dipenderebbe dal fatto che, non essendo egli morto ad Aquileia, "non poteva essergli intitolata la chiesa matrice, da sempre dedicabile al martire del luogo o ad un apostolo, di cui si fossero possedute le reliquie". Inoltre l'A. insinua anche l'ipotesi che per Girolamo e per Rufino poteva essere arduo allora parlare di Alessandria, dove aveva predicato il più grande eresiarca del sec. IV. Del resto - osserva ancora il Fedalto (Della predicazione apostolica in Dalmazia, pp. 255-256) - il primo a ricordare la Chiesa alessandrina come "la santa cattedra dell'evangelista Marco" fu un presbitero della Chiesa di Costantinopoli, Alipio, in una lettera a Cirillo appena intorno alla prima metà del sec. V. Per una discussione dell'intero problema cf. G. Cuscito, La tradizione marciana aquileiese, pp. 9-44.
26. Hippolitus Delehaye, Commentarius perpetuus, in Martyrologium Hieronymianum ad recensionem Henrici Quentin, in Acta Sanctorum Novembris, tomi II pars posterior, Bruxelles 1931, p. 31.
27. Louis Sebastien Le Nain De Tillemont, Mémoires pour servir à l'histoire ecclésiastique des six premiers siècles, II, Venezia 1732, note VI, pp. 497-498.
28. P. Paschini, La Chiesa aquileiese, p. 24; Id., Le fasi di una leggenda aquileiese, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 8, 1954, p. 164 (pp. 161-184): nella prima opera l'A. poneva il problema; nella seconda, tentò di dare la sua risposta accolta da G. Biasutti, La tradizione marciana, p. 15; Giancarlo Menis, La "Passio" dei santi Ermacora e Fortunato nel cod. n. 4 della Biblioteca guarneriana, "Studi di Letteratura friulana", I, 1969, p. 17(PP. 15-49).
29. G. Cuscito, Cristianesimo antico, p. 63; Id., Il primo cristianesimo, pp. 29-30.
30. B.M. De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, col. 42; G. Biasutti, Apertura sul cristianesimo primitivo, p. 13; Id., Aquileia e la Chiesa di Alessandria, p. 228. Anche S. Tavano, Aquileia cristiana, p. 11, pensa che le fonti medievali del catalogo episcopale derivino da un archetipo del sec. VI. Il Biasutti ritiene il catalogo aquileiese di redazione certamente tarda e crede di poterlo utilizzare a conferma delle ipotesi sulla preponderante presenza orientale nella prima comunità cristiana aquileiese - radicatasi per un certo tempo nell'etnia grecizzante della colonia - e sulla tarda dilatazione fra l'elemento latino, come del resto sembrano attestare le due prime coppie di vescovi e diaconi, Ermagora e Fortunato, Ilario (o Elaro) e Taziano, indicative di una "consocia zione posteriore dell'elemento latino all'elemento ellenista primigenio". Anzi attorno a queste due coppie la tradizione avrebbe potuto fissare riassuntivamente un lento processo formativo della comunità, forse in un primo tempo retta da un "collegium presbyterorum" e solo in seguito da una serie di vescovi monarchici. Viceversa G. Lettich, Note marginali, p. 67, ritiene di non dover dare troppo peso ai nomi greci dei primi vescovi del catalogo; le indicazioni possibili sarebbero piuttosto di natura sociologica che etnico-culturale: si tratterebbe infatti di "cognomina" libertini diffusissimi nell'Occidente romano.
31. Victor Saxer, L'hagiographie ancienne d'Aquilée. Apropos d'un livre recent, "Mélanges de l'Ecole franaise de Rome. Moyen Age-Temps modernes", 92, 1980, pp. 383-387 (pp. 373-392).
32. Maria Pia Billanovich, Appunti di agiografia aquileiese, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 30, 1976, pp. 12-13, 20-21(pp. 5-24), con recensione di Giuseppe Cuscito, "Aquileia Nostra", 47, 1976, coll. 227-229.
33. G. Biasiutti, La tradizione marciana, pp. 13-16.
34. S. Tavano, Aquileia cristiana, pp. II, 170 ss.; Joseph Lemarié, Symbolisme de la mer, du navire, du pêcheur et de la pêche chez Chromace d'Aquilée, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., I), Udine 1972, pp. 141-152.
35. Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1973, pp. 1-5.
36. S. Eusebii Hieronymi Dialogus adversus Luciferianos, 19, in P.L., 23, col. 181: "Ingemuit totus orbis et Arianum se esse miratus est".
37. Pio Paschini, Le vicende politiche e religiose del territorio friulano da Costantino a Carlo Magno (secc. IV-VIII), Cividale del Friuli 1912, pp. 31-43. Per il cedimento di Fortunaziano e per l'influenza negativa che avrebbe esercitato su papa Liberio, esiste la testimonianza di Girolamo (Liber de viris illustribus, caput 97, in P.L., 23, coll. 735-738): "et in hoc habetur detestabilis, quod Liberium, Romanae urbis episcopum, pro fide ad exsilium pergentem, primus sollicitavit ac fregit, et ad subscriptionem haereseos compulit". L'interpretazione del passo è stata oggetto di vivaci dibattiti, su cui qui non mi soffermo; cf. Giuseppe Cuscito, La crisi ariana tra Aquileia e Ravenna, in AA.VV., Aquileia e Ravenna (A.A., 13), Udine 1978, pp. 327-332 (pp. 311-354), Id., Fede e politica ad Aquileia, pp. 37-44.
38. Rufino, della "gens Turannia" stabilitasi a Concordia, giunse ad Aquileia durante l'episcopato di Valeriano e "ritiratosi sin d'allora [come egli scrive> in monastero e rigenerato colla grazia del battesimo" (Apologia, I, 4, in P.L., 21, col. 543), fu istruito nella fede dal prete Cromazio, dall'arcidiacono Giovino e specialmente dal diacono Eusebio. Verso il 370 vi giunse anche Girolamo che stette in affettuosa relazione con Rufino, coi suoi amici e con altri giovani ecclesiastici di cui conservò sempre ottimo ricordo, giungendo ad esclamare: "I chierici d'Aquileia sono quasi un coro di beati" (P.L., 25, coll. 697-698).
39. Chromace D'aquilée, Sermons, I, a cura di Joseph Lemarié, in Sources Chrétiennes, 154, Paris 1969, pp. 9-120. Chromatii Aquileiensis Opera, a cura di Raimond Étaix - Joseph Lemarié, in Corpus Christianorum, 9 A, Turnholti 1974; Supplementum, Turnholti 1977.
40. Giuseppe Cuscito, Africani in Aquileia e nell'Italia settentrionale, in AA.VV., Aquileia e l'Africa (A.A., 5), Udine 1974, pp. 153-155 (pp. 143-163).
41. S. Tavano, Aquileia cristiana, p. 28.
42. Verso il 375 Girolamo attesta che fu sradicato da Aquileia il veleno ariano e ne rivolge lode ai "clerici Aquileienses", tra cui si distinguevano i due fratelli preti Cromazio ed Eusebio: "Licet cotidie Christum confiteamini [...> tamen ad privatam gloriam publica haec successit vobis et aperta confessio, quod per vos ab urbe vestra Arriani quondam dogmatis virus exclusum est" (Epistola VII. Ad Chromatium, Jovinum et Eusebium, in P.L., 22, col. 341, b) P. Paschini, Le vicende, pp. 43-52. Anche per la precedente bibliografia, cf. G. Cuscito, Fede e politica, pp. 45 ss.
43. Aurelia Scholz, Il "seminarium Aquileiense", "Memorie Storiche Forogiuliesi", 50, 1970, pp. 5- 106.
44. Giuseppe Cuscito, Valori umani e religiosi nell'epigrafia cristiana dell'Alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., 2), Udine 1972, pp. 167-196; Id., Aspetti sociali della comunità cristiana di Aquileia attraverso le epigrafi votive (secc. IV VI), in AA.VV., Scritti storici in memoria di P.L. Zovatto, Milano 1972, pp. 237-258; Id., Le iscrizioni paleocristiane di Aquileia, in AA.VV., I musei di Aquileia. Arti applicate. Ceramiche. Epigrafi. Numismatica (A.A., 24), Udine 1984, pp. 257-283. Danilo Mazzoleni, L'epigrafia cristiana ad Aquileia nel IV secolo, in AA.VV., Aquileia nel IV secolo (A.A., 22), Udine 1982, pp. 301-325.
45. Giuseppe Cuscito, Aquileia e Bisanzio nella controversia dei Tre Capitoli, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 231-262; ciò si può dire nonostante le accuse polemiche rivolte dai papi nelle loro lettere ai vescovi di Aquileia, in cui viene messa in evidenza la scarsa conoscenza delle fonti patristiche e conciliari e la poca attitudine a una retta interpretazione di esse relativamente alla questione dei Tre Capitoli da parte di quell'episcopato ostinatamente scismatico.
46. Mario Mirabella Roberti, La più antica basilica di Grado, in AA.VV., Arte in Europa. Scritti di Storia dell'Arte in onore di E. Arslan, Milano 1966, pp. 105-1 12.
47. Id., La memoria di S. Proto a S. Canzian d'Isonzo, "Aquileia Nostra", 31, 1960, coll. 85-94; Id., Che cosa hanno dato di nuovo gli scavi a San Canzian d'Isonzo, "Quaderni Giuliani di Storia", 2, I, 1981, pp. 7-12; Sergio Tavano, Indagini a San Canzian d'Isonzo, "Ce fastu?", 41-42, 1965-66, pp. 3-9 dell'estratto (pp. 460-480).
48. Fortunatiani Episcopi Aquileiensis Commentarii in Evangelia, in Corpus Christianorum, 9, a cura di Andrea Wilmart - Bernard Bischoff, Turnholti 1957, pp. 367-370. S. Eusebii Hieronymi Liber de viris illustribus, caput 97, in P.L., 23, coll. 735-738: "Fortunatianus natione Afer, Aquileiensis episcopus, imperante Constantio, in Evangelia, titulis ordinatis, brevi et rustico sermone scripsit Commentarios". E più chiaramente nel pregare Paolo prete di Concordia, perché glieli voglia inviare, dice di essi: "et ne putes modica esse quae deprecor, margaritam de evangelio postularis, scilicet commentarios Fortunatiani"; cf. Epistola X. Ad Paulum senem Concordiae, in P.L., 22, col. 343. Un altro giudizio sull'utilità dell'opera ci viene dall'introduzione al Vangelo di Matteo; cf. P. Paschini, Le vicende, p. 42. Iusti Fontanini Historiae Literariae Aquileiensis libri V, Roma 1742, pp. 106-121. Nondimeno Gian Carlo Menis (La diffusione del cristianesimo nel territorio friulano in epoca paleocristiana, in AA.VV., Atti del III Congresso Nazionale di Archeologia cristiana [Aquileia, Grado, Cividale 1972> [A.A., 6>, Udine 1974, p. 51 [pp. 49-6I>), ritiene ragionevole pensare che già subito dopo la pace costantiniana la Chiesa di Aquileia abbia iniziato la sua espansione evangelizzatrice e organizzatrice nell'immediato entroterra, anche tenuto conto del fatto che al concilio di Arles del 314, a cui partecipò Teodoro col diacono Agatone, si accenna già all'esistenza di chiese rurali (cf. Karl Joseph Hefele - Henri Leclercq, Histoire des Conciles, I, Paris 1907, p. 29); non è dimostrabile però che il riferimento ai "diacones urbici" in opposizione a quelli delle campagne del canone 18 del concilio di Arles possa riflettere anche una situazione locale. Per la fine del sec. IV il Lemarié (Introduction à Chromace d'Aquilée, in Sermons, I, p. 46) ricorda i contatti stretti che Cromazio coltivò con i missionari aquileiesi sparsi nelle regioni del Nord e la sua frequente corrispondenza con essi, di cui è rimasta traccia nelle fonti, ma che purtroppo è andata interamente perduta.
49. Mario Mirabella Roberti, Iulium Carnicum centro romano alpino, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 94-95, 100-101 (pp. 91-101).
50. Giuseppe Cuscito, Cromazio di Aquileia e la Chiesa di Concordia, in AA.VV., Studi su Portogruaro e Concordia (A.A., 25), Udine 1984, pp. 69-88; Id., Rapporti fra Concordia e Aquileia in epoca tardoantica, in AA.VV., Rufino di Concordia e il suo tempo (A.A., 31), II, Udine 1987, pp. 157-169.
51. Giuseppe Cuscito, Gradi e funzioni ecclesiastiche nelle epigrafi dell'Alto Adriatico orientale, in AA.VV., Atti del III Congresso Nazionale di Archeologia cristiana (Aquileia, Grado, Cividale 1972) (A.A., 6), Udine 1974, pp. 238-239 (pp. 211-253).
52. M. Mirabella Roberti, Iulium Carnicum, pp. 94-95, 100-101.
53. Secondo S. Tavano, Aquileia cristiana, p. 151, "A Concordia la 'basilica apostolorum' consacrata da Cromazio verso il 390, ha forma di trichora, a sud della cattedrale vera e propria, severamente rettangolare", ma cf. Bruna Forlati Tamaro Giulia Fogolari, Concordia paleocristiana, in AA.VV., Iulia Concordia dall'età romana all'età moderna, Treviso 19782, pp. 143-207.
54. Chromatii Aquileiensis Sermo XXVI, in Corpus Christianorum, 9 A, pp. 119-122. Joseph Lemarié, La liturgie d'Aquilée et de Milan au temps de Chromace et d'Ambroise, in AA.VV., Aquileia e Milano (A.A., 4), Udine 1973, pp. 268-269 (pp. 249-270).
55. B. Forlati Tamaro-G. Fogolari, Concordia paleocristiana, pp. 143-157. Giovanni Lettich, Le iscrizioni sepolcrali tardoantiche di Concordia, Trieste 1983. Giuseppe Cuscito, Studi e ricerche di epigrafia cristiana fra Milano e l'Istria, "Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria", n. ser., 33, 1985, pp. 45-64.
56. G.C. Menis, La diffusione del cristianesimo, p. 55.
57. Id., Le giurisdizioni metropolitiche di Aquileia e di Milano nell'antichità, in AA.VV., Aquileia e Milano (A.A., 4), Udine 1973, pp. 271-294.
58. M. Mirabella Roberti, Iulium Carnicum, p. 95.
59. Volker Bierbrauer, Gli scavi a Ibligo-Invillino, Friuli. Campagne degli anni 1972-1973 sul colle Zuca, "Aquileia Nostra", 44, 1973, coll. 85-126.
60. Mario Mirabella Roberti, Architettura paleocristiana in Istria, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., 2), Udine 1972, pp. 197-211.
61. Giuseppe Cuscito, San Giusto e le origini cristiane a Trieste, "Archeografo Triestino", ser. IV, 31-32, 1969-1970, pp. 3-36; Id., Le epigrafi musive della basilica martiriale di Trieste, "Aquileia Nostra", 44, 1973, coll. 127-166.
62. Id., "Hoc cubile sanctum". Contributo per uno studio sulle origini cristiane in Istria, "Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria", n. ser., 19, 1971, pp. 77-79 (pp. 77-99); Id., I santi Mauro ed Eleuterio di Parenzo. L'identità, il culto, le reliquie, "Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno", 16, 1985-1986, pp. 33-59; Id., I martiri cristiani di Aquileia e dell'Istria. Questioni di agiografia, in corso di stampa.
63. Camillo De Franceschi, La leggenda di San Germano, martire polese, "Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria", 51-52, 1939-1940, pp. 243-255. Giuseppe Cuscito, I reliquari paleocristiani di Pola. Contributo alla storia delle antichità cristiane in Istria, "Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria", n. ser., 20-21, 1972-1973, pp. 91-126 e spec. p. 123; Germano tuttavia è il meno sicuro dei tre martiri istriani ricordati.
64. Mario Mirabella Roberti, Origini cristiane in Istria, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., 2), Udine 1972, pp. 141-145. G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 146-151.
65. Id., Il primo cristianesimo, passim. Per Altino, ci soccorre l'epistolario geronimiano, ultimamente analizzato al riguardo da Antonio Niero, Santi di Torcello e di Eraclea tra storia e leggenda, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 31-76: non sarebbe escluso che nei "conciliabula martyrum" cui attendeva con cura devota Nepoziano siano da riconoscere sacelli dedicati ai martiri distribuiti sul territorio dell'agro altinate, tra cui si potrebbe forse individuare la più antica aula paleocristiana di Iesolo (p. 45).
66. M. Mirabella Roberti, Origini cristiane, p. 141.
67. Grazia Bravar, L'arredo liturgico nelle basiliche altoadriatiche, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico
(A.A., 2), Udine 1972, pp. 213-236.
68. Paul F. Kehr, Italia pontificia, VII, I, Berlin 1923, p. 19 n. 4.
69. Gian Carlo Menis, Storia del Friuli, Udine 1969, p. 123; Giuseppe Cuscito, Economia e Società, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal Il secolo d.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, pp. 668 ss. (pp. 571-694).
70. Iordani Episcopi Ravennatis De Gothorum origine et rebus gestis, caput 42, in P.L., 69, coll. 1281 ss.
71. Procopio di Cesarea, Le guerre persiana, vandalica, gotica, a cura di Marcello Craveri, Torino 1977, III, 4, p. 202.
72. Angelo De Nicola, I versi sulla distruzione di Aquileia, "Studi Goriziani", 50, 1979, p. 21 (pp. 7-3I).
73. P.L., 54, col. 1135. G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 198-201.
74. Ibid., pp. 289-325.
75. Servii Grammatici qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, a cura di Georg Thilo, III, I, Leipzig 1887 (rist. Hildesheim 1961), p. 191, 15-19: "Lintres fluviales naviculas. Sane non sine ratione lintrium meminit, quia pleraque pars Venetiarum, fluminibus abundans, lintribus exercet omne commercium, ut Ravenna, Altinum, ubi et venatio et aucupia et agrorum cultura lintribus exercetur. Alii lintres, in quibus uva portatur, accipiunt". Giuseppe Pavanello, Di un'antica laguna scomparsa. La laguna eracliana, "Archivio Veneto-Tridentino", 3, 1923, p. 283, n. 5 (pp. 263-307). Paolo Lino Zovatto, Profilo storico archeologico della zona di Eraclea e di Iesolo, in AA.VV., Le prime bonifiche consorziali del Basso Piave, Venezia 1956, pp. 1-15.
76. Cassiodori Senatoris Variae, XII, 24.
77. Jacopo Filiasi, Memorie storiche de' Veneti primi e secondi, III, Padova 18112, pp. 181-182. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 182-188. Lech Leciejewicz - Eleonora Tabaczyïska - Stanislaw Tabaczyïski, Torcello. Scavi 1961-1962, Roma 1977, con recensione di Gustavo Traversari, "Rivista di Archeologia", 2, 1978, pp. 130-132.
78. Giuseppe Cuscito, Il nucleo antico della città di Grado. Appunti per un'indagine storico-bibliografica, "Aquileia Nostra", 40, 1969, coll. 143-182. Maria Bollini, Antichità classiarie, Ravenna 1968, p. 56. Un'iscrizione trovata a Caorle (C.I.L., V, 1956) relativa a un "classiarius" della "liburna Clupeus" fa pensare che una piccola flotta fosse stata distaccata in quel porto; cf. G. Cuscito, Economia e società, p. 693, n. 79.
79. Anche per la precedente bibliografia al riguardo, cf. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, p. 21 I. Eleonora Tabaczyïska, Le origini della produzione vetraria veneziana, in AA.VV., Le origini di Venezia: problemi, esperienze, proposte. Symposium italo-polacco, Venezia 1981, pp. 119- 12 1.
80. Ernest Stein, Histoire du Bas-Empire, II, De la disparition de l'Empire d'Occident à la mort de Justinien (476-565), a cura di Jean Remy Palanque, Paris-Bruges 1949, rist. Amsterdam 1968, pp. 447-448.
81. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 169-170. G. Cuscito, Fede e politica, pp. 96 ss.
82. Pelagii I Papae epistulae quae supersunt (556-561), a cura di Pio M. Gassò - Columba M. Batlle, Abbatia Montisserati 1956, p. 158. G. Cuscito, Fede e politica, p. 105. Sulla specifica questione del titolo patriarcale però forse non è più il caso d'insistere dopo il recentissimo intervento del Peri volto a documentare, fra diverse Chiese dell'Oriente e dell'Occidente, una proliferazione spontanea di tale appellativo, che Giustiniano volle riservare con provvedimento legislativo alle cinque sedi principali dell'Impero (pentarchia): solo la ragione storica dello scisma tricapitolino e non una deliberata volontà polemica di contestare alla sede romana l'unico titolo patriarcale superstite in Occidente spiegherebbe la puntigliosa fierezza di Aquileia in tale rivendicazione; cf. Vittorio Peri, La pentarchia: istituzione ecclesiale (IV VII sec.) e teoria canonico-teologica, in AA.VV., Bisanzio, Roma e l'Italia nell'Alto Medioevo, Spoleto 1988, pp. 262-265.
83. Osservava Roberto Cessi, Concordia dal Medioevo al dominio veneziano, in AA.VV., Iulia Concordia dall'età romana all'età moderna, Treviso 19782, p. 267 (pp. 263-305), che "per effetto dell'invasione longobarda nessuno dei vescovi del continente veneto si mosse dalle sue sedi, ad eccezione del vescovo di Aquileia, che fissò definitivamente la sua sede a Grado solo quando la crisi ecclesiastica interna si acutizzò, di quello di Padova, dopo l'occupazione del 602, di quello di Oderzo, dopo la distruzione del 639". II vescovo di Altino sarebbe rimasto indisturbato nella sua sede, "perché la città mai fu occupata dai longobardi", e così sarebbero restati nelle loro sedi gli altri vescovi dei territori inizialmente occupati dai Longobardi che si ritrovano alla sinodo di Grado (579) e a quella di Marano (591). Secondo Gian Piero Bognetti, L'età longobarda, IV, Milano 1968, pp. 303-338, che ha sempre sostenuto la continuità fra le vecchie sedi episcopali continentali e le nuove lagunari, Torcello continuerebbe Altino, Caorle Concordia, Cittanuova Oderzo e Malamocco Padova. Forse la vicenda dell'origine delle diocesi lagunari è più modulata secondo le recenti conclusioni di Antonio Niero, La sistemazione ecclesiastica del ducato di Venezia, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 101-121.
84. Sergio Tavano, Il culto di S. Marco a Grado, in AA.VV., Scritti storici in memoria di P.L. Zovatto, Milano 1972, pp. 201-219; Id., La "cattedra di S. Marco" e la stauroteca di Grado, Gorizia 1975; Id., Le cattedre di Grado e la cultura artistica del Mediterraneo orientale, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 445-490; Id., Nota marcianti, "Felix Ravenna", I27-130, 1984-1985, pp. 455-469.
85. Fernando Rebecchi, Sull'origine dell'insediamento in Grado e sul suo porto tardoantico, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 1980, pp. 41-56. M. Mirabella Roberti, La più antica basilica di Grado, p. 108.
86. G. Cuscito, Il nucleo antico, coll. 143-182. Germana Marchesan, Problemi di archeologia cristiana nella laguna gradese, in AA.VV., Atti del III Congresso Nazionale di Archeologia cristiana (Aquileia, Grado, Cividale 1972) (A.A., 6), Udine 1974, pp. 93-106. Luciano Bosio, Grado e la sua laguna in epoca romana, in AA.VV., Grado-Gravo, Udine 1980, pp. 12-40. Giulio Schmiedt, Archeologia della laguna di Grado, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 198o, pp. 17-40.
87. Mario Mirabella Roberti, Il "castrum" di Grado, "Aquileia Nostra", 45-46, 1974-1975, coll. 565-574.
88. Id., La più antica basilica di Grado, pp. 109-110.
89. Germana Marchesan, La basilica di piazza della Vittoria a Grado, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17, 2), Udine 1980, pp. 309-324. Carlo Guido Mor, La fortuna di Grado nell'alto Medioevo, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., I), Udine 1972, pp. 299-315.
90. Pauli Historia Langobardorum, II, 10. Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), p. 62.
91. Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, pp. 37, 39.
92. Sergio Tavano, Il territorio di Aquileia nell'Alto Medioevo. Note urbanistiche, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'Antichità (A.A., 15, 2), Udine 1979, pp. 627-661.
93. Pauli Historia Langobardorum, III, 14.
94. Bice Stoppato, La Chiesa metropolitana d'Aquileia fino alla duplice elezione patriarcale di Giovanni e Candidiano, "Archivio Veneto", 61, 1931, p. I o6 (pp. 59-157). Sergio Tavano, Grado. Guida storica e artistica, Udine 1976, pp. 17-18.
95. Carlo Guido Mor, Bizantini e Longobardi sul limite della laguna, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17, I), Udine 198o, pp. 231-264.
96. Anche per la precedente bibliografia, cf. G. Cuscito, Fede e politica, pp. 95 ss.
97. Pauli Historia Langobardorum, IV, 33.
98. G. Cuscito, Cristianesimo antico, pp. 310-312.
99. Carlo Guido Mor, Grado da Bisanzio a Venezia, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 59, 1980, pp. 11-24; Id., Drammi e tragedie dei patriarchi in età bizantino-veneta, in AA.VV., Grado-Gravo, Udine 1980, pp. 41-51.
100. Antonio Niero, Dal patriarcato di Grado al patriarcato di Venezia, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 198o, pp. 265-284; ID., Il culto dei Santi da Grado a Venezia, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 163-186.
101. Gelso Costantini, Aquileia e Grado, Milano s.d. [ma 1916>, p. 125.
102. Sergio Tavano, Aquileia e Grado. Storia - arte - cultura, Trieste 1986, pp. 308 ss.
103. Antonio Ferrua, Antichità cristiane: Aquileia e Grado, "La civiltà Cattolica", 99, vol. III, 1948, p. 170 (pp. 160-170). G. Cuscito, Cristianesimo antico, p. 315, n. 6.
104. Antonio Carlini, L'epigrafe musiva di Elia nella basilica di Sant'Eufemia di Grado, "Civiltà classica e cristiana", I, 2, 1980, pp. 259-269.
105. Giuseppe Cuscito, Una pianta settecentesca del Duomo di Grado e le iscrizioni musive del sec. VI, "Aquileia Nostra", 43, 1972, coll. 105-124. Danilo Mazzoleni, Nomi di barbari nelle iscrizioni paleocristiane della Venetia et Histria, "Romanobarbarica", I, 1976, pp. 159-180.
106. Giuseppe Cuscito, Il XIV centenario del Duomo di Grado, "Aquileia Nostra", 50, 1979, coll. 573-584; Id., La fede calcedonese e i concili di Grado (579) e di Marano (591), in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), Udine 198o, pp. 207-230.
107. Concilia Aevi Karolini, II, 2, a cura di Albert Werminghoff, in M.G.H., Legum sectio III, Concilia, 1893, pp. 588-589. Roberto Cessi, "Nova Aquileia", "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 88, 1928-29, pp. 543-594, si è sforzato di isolare le successive redazioni degli Atti sinodali di Grado tramandateci a partire dagli Atti conciliari di Mantova e dalle Cronache veneziane antichissime e ha tentato di ricostruire le fasi della falsificazione, adducendo le ragioni storiche che avevano potuto suggerirla e distinguendo da un nucleo originale e scismatico gli adattamenti e le aggiunte posteriori. Queste furono volte ad affermare, in un primo momento, la figura giuridica del titolo gradense come sede metropolitana e successivamente si sforzarono di sostenere la traslazione canonica della sede sulla base di una supposta autorizzazione di papa Pelagio II, che mal s'accorda con l'ostinato atteggiamento scismatico di Elia e con quanto ci informa la supplica dell'episcopato aquileiese all'imperatore Maurizio nel 591. Cf. anche G. Cuscito, La fede calcedonese, pp. 207-230.
108. Concilia Aevi Karolini, pp. 588-589. P. Paschini, Storia del Friuli, I, p. 94. Per alcune varianti registrate da altre fonti, cf. G. Cuscito, Il primo cristianesimo, pp. 31-32, n. 78. Così, ad esempio, dalla Chronica del Dandolo (a cura di E. Pastorello, pp. 80-84) risultano 20 i vescovi partecipanti o rappresentati assieme al patriarca, poiché vi si legge anche la firma di Solazio di Verona; inoltre i vescovi Ingenuino (e non Maternino) di Sabiona e Fonteio (e non Lorenzo) di Feltre avrebbero mandato come loro delegati rispettivamente i presbiteri Marciano e Lorenzo; cf. G. Cuscito, La fede calcedonese, pp. 229-230: il problema però rimane tuttora aperto.
109. P. Paschini, Storia del Friuli, I, p. 94.
110. La stessa supplica a Maurizio e la convocazione della sinodo di Marano, ove andò a discolparsi Severo dopo l'abiura dalla fede tricapitolina, si pongono per lo più in due successivi momenti del 591 cf. Giuseppe Cuscito, Aquileia e Bisanzio nella controversia dei Tre Capitoli, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, p. 242, n. 16 (pp. 231-262).
111. Giuseppe Cappelletti, Le Chiese d'Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, IX, Venezia 1853, p. 615. Paul F. Kehr, Italia Pontificia, VII, 2, Berlin 1925, p. 81.
112. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 173 ss.: "Lo splendore delle 'Venetiae' di terraferma ha impedito dunque alle fonti di far trapelare qualcosa di più del tessuto, meno prestigioso ma per avventura tanto più importante storicamente, degli insediamenti minori nell'ambito lagunare, di quel contesto di vita civile, più umile, più solida, che da tempo remoto vi si veniva intessendo e che il declino economico e la catastrofe politico-militare delle 'Venetiae' dischiuderanno all'ansia dei profughi e all'attenzione degli storici".
113. Giuseppe Cuscito. La basilica paleocristiana di Iesolo. Per lo studio dei primi insediamenti cristiani nella laguna veneta, "Aquileia Nostra", 54, 1983, coll. 217-268;. ID., La basilica ed i mosaici paleocristiani di Jesolo, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 187-210.
114. G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia, IX, p. 615.
115. Michele Tombolani, Jesolo (Venezia) - loc. "Le Mure" - Saggi di scavo nell'area della Basilica di S. Maria Assunta, "Aquileia Nostra", 56, 1985, coll. 474-476.
116. Classificata ormai una buona parte dei materiali, il Tombolani, in una gentile comunicazione epistolare del 26 ottobre 1986, mi confermava la datazione da lui proposta per i musaici, dal cui strato sottostante è venuta in luce anche una moneta di Teodorico. Lo scavo stratigrafico è stato ripreso dal Tombolani nell'estate 1987 con notevole recupero di materiali, che attendono un'analisi e una pubblicazione sistematica rese più ardue dall'immatura scomparsa dello studioso.
117. G. Cuscito, La basilica ed i mosaici, pp. 206-208.
118. M. Mirabella Roberti, La più antica basilica di Grado, pp. 105- 112.
119. Giuseppe Cuscito, L'antica comunità cristiana di Equilio, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 9-29.
120. Nella cronaca del diacono Giovanni si legge: "postquam autem Opiterine civitas a Rothari rege capta est, episcopus illius civitatis auctoritate Severiani pape hanc Eraclianam petere ibique suam sedem confirmare voluit. Quinta insula Equilus nuncupatur, in qua dum populi illic manentes episcopali sede carerent, auctoritate divina novus episcopatus ibi ordinatus est" ("Dopo che la città di Oderzo venne conquistata dal re Rotari, su esortazione di papa Severiano, il vescovo di quella città volle venire qui a Eraclea e quivi stabilire la propria sede. Venne chiamata Equilio la quinta isola, nella quale per autorità divina venne ordinato un nuovo episcopato, poiché i popoli ivi dimoranti erano privi di sede episcopale "); cf. Cronache veneziane antichissime, pp. 64-65. Viceversa dal Chronicon Altinate, p. 14, apprendiamo che sarebbe stato lo stesso patriarca gradese Elia a costituire gli episcopati lagunari così che: "Quartum episcopium fieri constituit esse in Equilense. Quintum in Eracliana Civitatis nove, que inter Helias patriarcha ad honorem beati Petri Apostoli edificavit et ecclesie Opertegine concessit apellari" ("Stabilì che il quarto episcopato si costituisse in Equilo. Il quinto in Eracliana Cittanova, che nel frattempo Elia edificò ad onore del beato apostolo Pietro e concesse che venisse chiamata chiesa opitergina "). Sulla stessa linea, come vedremo, si pone l'anonimo compilatore del Chronicon Gradense (in Cronache veneziane antichissime, pp. 43-44). Giorgio Fedalto, Cittanova Eracliana, "Studi Veneziani", n. ser., 2, 1978, pp. 13-35. Cf. inoltre Giuseppe Cuscito, Testimonianze archeologico-monumentali del cristianesimo antico tra Piave e Livenza fino al secolo IX, in AA.VV., Le origini del cristianesimo tra Piave e Livenza, Vittorio Veneto 1983, pp. 84 e 104, nn. 14-15 (Pp. 79-107).
I2I. Secondo Lia Artico, Novità su Jesolo, "Arte Veneta", 31, 1977, p. 17 (pp. 16-26), è probabile che gli scavi compiuti nel 1961 abbiano portato alla scoperta di un battistero ottagono a m 5,50 dalla porta maggiore della basilica medievale, mentre a circa m 2 dall'angolo Nord della facciata sono tuttora superstiti le grosse fondamenta del campanile di forma quadrata. Stando così le cose, in attesa di più attente indagini, mancherebbero indicazioni per riconoscere un impianto battesimale collegato con la fase paleocristiana Dell'insediamento.
122. Guglielmo Biasutti, Racconto geografico santorale e plebanale per l'arcidiocesi di Udine, Udine 1966. Anche per la recente bibliografia sull'argomento, cf. Giuseppe Cuscito, Per uno studio dei primi insediamenti plebanali sul territorio della diocesi di Trieste, "Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria", n. ser., 35, 1987, pp. 75-95.
123. Giorgio Fedalto, Jesolo nella storia cristiana tra Roma e Bisanzio. Rilettura di un passo del Chronicon Gradense, in AA.VV., Studi lesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 91-105; Id., Le origini della diocesi di Venezia, in AA.VV., Le origini della Chiesa di Venezia, a cura di Franco Tonon, Venezia 1987, pp. 133 ss. (pp. 123-142). Per il passo del Chronicon Gradense, cf. Cronache veneziane antichissime, pp. 43-44: "Tunc Helias, egregius patriarcha [...> ordinavit sedecim episcopatus [...>; in Venetia autem sex episcopatus fieri constituit, quorum electiones uniuscuiusque parrochie clero et populo committens, sicut a beato Benedicto sancte Romane sedis antistite fuerat sanccitum [...> duci investicionem concessit [...>. Quartum episcopatum in Aequilensem civitatem fieri constituit" ("Allora Elia, grande patriarca [...> ordinò sedici episcopati [...>; nella Venezia stabilì che venissero costituiti sei episcopati, affidandone l'elezione al clero e al popolo di ogni parrocchia, come era stato stabilito dal beato Benedetto pontefice della santa sede romana [...> e ne concesse l'investitura al duca [...>. Stabilì che il quarto episcopato si costituisse nella città di Equilo"). Così, di fronte alla prospettiva che si andava drammaticamente delineando di una nuova sede metropolitica staccata dall'entroterra aquileiese in mano ai Longobardi, il patriarca di Aquileia, ormai radicato in area gradese-bizantina, avrebbe potuto costituirsi una nuova corona di suffraganei, necessaria per organizzare una qualunque sinodo, per consacrare vescovi e insomma "per promuovere una regione ecclesiastica ormai staccata da quella continentale, sotto regime diverso, e definitivamente perduta per il futuro"; cf. G. Fedalto, Jesolo nella storia cristiana, p. 97. Per l'episcopato di Caorle istituito all'epoca di Gregorio Magno, cf. P. Paschini, Storia del Friuli, I, pp. 105-106. G. Fedalto, Cittanova Eracliana, pp. 20 ss.
124. Johannes Dominicus Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, III, riprod. anast. Graz 1960, col. 10.
125. G. Fedalto, Desolo nella storia cristiana, p. 98; Id., Le origini della diocesi di Venezia, pp. 123 ss.
126. Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, p. 43. Del resto anche in altre traslazioni di sedi riferite dalla cronachistica veneziana, ricorre il motivo dell'autorizzazione papale, quasi "topos" rivelatore di una mentalità ormai lontana ed estranea alle laceranti divisioni dello scisma tricapitolino. Così il diacono Giovanni ci informa nella sua Cronaca (in Cronache veneziane antichissime, pp. 66, 84) che, dopo l'offensiva di Rotari (639), anche i vescovi di Oderzo e di Altino avrebbero invocato l'autorità di papa Severino per trasferire la loro sede rispettivamente a Eraclea e a Torcello; è anche vero però che nel 595 Pietro di Altino doveva essere sul punto di passare alla comunione romana, stando alla lettera di Gregorio Magno (Registrum Epistolarum, a cura di Ludwig M. Hartmann, in M.G.H., Epistolae, II, 19572, pp. 359-360); cf.: A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 324, 355.
127. G. Fedalto, Jesolo nella storia cristiana, pp. 94-95. Tale responso entrò poi nel Decretum Gratiani, C. 28, q. 2, c. 18, a cura di Emil Friedberg, I, Leipzig 1879, pp. 1066-1067 (= P.L., 72, coll. 683-684); tuttavia non mancano dubbi sull'attribuzione del testo a Benedetto I, mentre non si fa il nome del patriarca gradese cui il rescritto è destinato.
128. Chronicon Gradense, in Cronache veneziane antichissime, p. 37: "Hisdem autem temporibus Beatus dux Metamaucensium cum quibusdam tribunis et nobilibus ad universalem Romane sedis pontificem nomine Benedictum adgressi sunt iter, at quem cum pervenissent [...> quatinus Gradense castrum novam Aquileiam institueret et tocius Venetie et Histrie metropolim ordinaret deprecabantur" ("In questo tempo Beato duca di Malamocco con alcuni tribuni e nobili si recarono presso il pontefice universale della sede di Roma, chiamato Benedetto, e, giunti presso di lui [...> chiedevano con insistenza che il castello Gradense venisse istituito come Nuova Aquileia e venisse ordinato metropoli di tutta la Venezia e l'Istria").
129. Ibid., pp. 39-40: "Tunc idem sanctissimus Benedictus summus Romane sedis pontifex [...> tocius Venetie et Histrie metropolim ordinavit, arcessitoque duce et qui cum eo erant: per privilegii, inquit, preceptum [...>" ("Allora lo stesso santissimo Benedetto sommo pontefice della sede romana [...> ordinò la metropoli di tutta la Venezia e Istria, e fatto venire il duce e tutti quelli che erano con lui, disse: in forza di privilegio scritto LI"). Il Kehr (Italia Pontificia, VII, 2, pp. 31-32) riteneva spurio il privilegio di Benedetto a Beato e confuso dal Chronicon Altinate con la lettera spuria di Pelagio II a Elia in occasione della sinodo di Grado.
130. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 227, 234: il doge Obelerio si associò il fratello Beato nei primissimi anni del sec. IX; ma [rileva il Carile a p. 227> "della cronologia lagunare anteriore al 726 non si può fare alcun affidamento perché le nostre fonti cronachistiche soggiacciono a troppe preoccupazioni di carattere non strettamente storiografico per poter essere prese sul serio".
131. Ibid., pp. 317-318. Ultimamente il Fedalto, Jesolo nella storia cristiana, p. 97, ha giudicato pienamente plausibile, anche senza ricorrere al Chronicon Gradense, che il patriarca di Aquileia trasferitosi a Grado, pensando al peggio, "abbia compiuto i passi necessari a Roma per l'erezione di una nuova sede metropolitana con un congruo numero di vescovadi suffraganei, appunto necessari per la sua giurisdizione". Tuttavia l'ipotesi mi sembrerebbe più attendibile qualora non fosse stato in atto lo scisma tricapitolino o quel periodo di relativa calma nei rapporti coi Longobardi che consentì gli spostamenti ai numerosi vescovi della provincia ecclesiastica aquileiese giunti a Grado nel novembre 579. Del resto ancora nel 591 tali vescovi speravano di ritornare sudditi dell'impero, mentre il peggio doveva ancora avvenire con la caduta di "Opitergium" (639): fu quello il momento conclusivo di una situazione militare e politica maturatasi negli anni precedenti e che vide una separazione netta tra la "Venetia" interna in mano ai Longobardi e la "Venetia maritima" soggetta ai Bizantini, ponendo fine a tutti quei rapporti bilaterali di traffico tra la costa e l'interno della regione constatati ancora nel 579. Allora fu proprio la nuova città precedentemente progettata e patrocinata dall'imperatore Eraclio ad assumere il ruolo e la funzione di caposaldo più arretrato sulla frontiera bizantina.
132. R. Cessi, "Nova Aquileia", pp. 543-594. Per l'opinione del Kehr, cf. supra alla n. 129.
133. G. Cuscito, La fede calcedonese, pp. 214-215.
134. Roberto Cessi, Le origini del ducato veneziano, Napoli 1951, p. 54.
135. J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum, XI, col. 31 I. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, p. 359.
136. P. Paschini, Storia del Friuli, I, pp. I 11-112: "tanti infatti sono i silenzi secolari riguardo a sedi che certamente esistettero, e tanto scarse e povere sono le notizie sicure che abbiamo sulle condizioni del litorale veneziano durante i secoli sesto-nono"!
137. A. Carile - G. Fedalto, Le origini di Venezia, p. 362. G. Cuscito, L'antica comunità, p. 24. Su questa linea interpretativa si pone Antonio Niero (La sistemazione ecclesiastica del ducato di Venezia, pp. I0I ss.), convinto che alla base della notizia sull'origine eliana delle sei diocesi lagunari ci fossero fattori di natura giuridica nelle rivendicazioni fra Grado e Aquileia: del resto il diacono Giovanni, "solerte e serioso cronista dell'età orseoliana", mai aveva accennato a tale tradizione; e poiché la sua testimonianza non poteva servire a finalità giuridiche di origine apostolica, sarebbe stata sdegnosamente trascurata dai cronisti posteriori, come gli anonimi redattori del Chronicon Gradense e del Chronicon Altinate. E a tali conclusioni sembrano rimandare anche le testimonianze dei documenti privati.
138. È interessante al riguardo anche il caso di Olivolo, per cui l'autore del Chronicon Gradense (in Cronache veneziane antichissime, p. 44) prevede l'istituzione della sede episcopale nel 579 sulla base di una chiesa parrocchiale intitolata ai santi Sergio e Bacco (patroni dell'esercito bizantino), presto sostituita da una in onore di s. Pietro; ora, a parte le informazioni della cronachistica, gli esiti delle esplorazioni archeologiche ultimamente avviate dalla Soprintendenza Archeologica per il Veneto presso la Cattedrale di S. Pietro di Castello sembrano confermare una presenza insediativa e cultuale tra VI e VII secolo: in attesa di una pubblicazione dei materiali rinvenuti, sappiamo infatti, grazie alla cortesia del compianto dott. Michele Tombolani, che vi sono stati trovati frammenti di plutei paleocristiani e un tremisse di Eraclio. Il Fedalto (Jesolo nella storia cristiana, p. 94, n. 6) rileva che diverso è il caso delle pievi rurali dell'entroterra veneto e perciò rinvia a Luigi Melchiorri, Padova e il Pedemonte del Grappa nei primi secoli cristiani, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 55, 1966, pp. 61 ss. (pp. 1-286).
139. Luisa Bertacchi, Architettura e mosaico, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, p. 333 (pp. 99-336).
140. Pierluigi Tozzi - Maurizio Harari, Eraclea veneta. Immagine di una città sepolta, Parma 1984, pp. 82-83, 88, figg. 39-45: si fa notare inoltre a p. 83 che l'imoscapo di colonna fotografato presso una fondazione rettilinea attesta certamente la presenza di una basilica, mentre dalla documentazione esistente si ha l'impressione che il complesso ecclesiastico altomedievale si sia impiantato nel sito di un edificio precedente forse di età romana (una villa?). Ciò sembra portare un altro contributo in favore delle origini romane di Venezia ultimamente sostenute da Maurizia Vecchi, Torcello. Ricerche e contributi, Roma 1979. Per la ricostruzione oggi ritenuta più attendibile del battistero torcellano, cf. Ferdinando Forlati, L'architettura a Torcello, in AA.VV., Torcello, Venezia 1940, p. II2 (pp. 105-123). Maurizia Vecchi, Torcello: la primitiva struttura del battistero di santa Maria Assunta, "Rivista di Archeologia", I, 1977, pp. 92-95. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, II, Milano 1983, pp. 628-629. R. Cessi, Venezia ducale, I, Venezia 1963, p. 12, riteneva doversi trattare di una plebania con chiesa intitolata al Battista e con fonte battesimale anteriore alla migrazione altinate di s. Mauro nel 639; ma il Niero (Santi di Torcello, pp. 73-74) si chiede: "anteriore di quanto?". Non è il caso qui di discutere se l'iscrizione del 639 scoperta dentro la basilica di Torcello e ivi conservata si debba riferire proprio a Torcello oppure a Cittanova Eracliana, sebbene l'opinione comune degli studiosi sia d'accordo sulla realtà torcellana dell'epigrafe. Così il Traversari ("Rivista di Archeologia", 2, 1978, p. 131) ritiene che i forni per la produzione vetraria scoperti dalla missione polacca nello strato dei secc. VI-VII vengano a dimostrare la contemporaneità fra la costruzione della cattedrale torcellana e l'officina, da cui forse uscì il materiale utile alla sua decorazione.
141. M.G.H., Epistolae, III, p. 695: "Honorius episcopus, servus servorum Dei, dilectissimis fratribus, universis episcopis per Venetiam et Istriam constitutis [...>. Nos quidem [...> Primogenium subdiaconum et regionarium nostrae sedis Gradensi ecclesiae episcopali ordine cum pallii benedictione direximus consecrandum. Oportebit ergo fraternitatem vestram iuxta legem ecclesiasticam cuncta disponere capitique vestro sinceram obedientiam exhibere" ("Il vescovo Onorio, servo dei servi di Dio, ai dilettissimi fratelli, a tutti i vescovi istituiti nella Venezia e Istria [...>. Noi [...> abbiamo diretto con la benedizione del pallio il suddiacono e regionario della nostra sede Primogenio perché venisse consacrato con l'ordine episcopale per la chiesa gradense. Sarà quindi necessario che la vostra fraternità disponga ogni cosa secondo la legge ecclesiastica e che mostri al vostro capo sincera obbedienza"). Per il problema generale delle elezioni episcopali e dei diritti dei metropoliti e dei patriarchi, cf. Cesare Magni, Ricerche sopra le elezioni episcopali in Italia durante l'alto medioevo, I, Roma 1928. Vittorio Peri, Spalato e la sua Chiesa nel tema bizantino di Dalmazia, in AA.VV., Vita religiosa, morale e sociale ed i concili di Split (Spalato) dei secc. X-XI, Padova 1982 (Medioevo e Umanesimo, 49), pp. 280 ss. (pp. 271-347).