Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso dell’Ottocento la Chiesa cattolica si trova ad affrontare gli enormi problemi posti dalle tumultuose trasformazioni economiche, sociali e culturali in corso. Il processo di laicizzazione avviato nel Settecento si intensifica e accelera, e a esso si aggiunge la nuova preoccupante disaffezione dei ceti popolari. La Chiesa cerca per lo più una risposta nella conferma intransigente dei propri diritti e nella validità della tradizione. Nonostante i fermenti liberali che attraversano il mondo cattolico, la chiusura della gerarchia nei confronti del mondo contemporaneo, condannato in blocco e senz’appello, sembra assoluta. Solo verso la fine del secolo, con l’enciclica Rerum Novarum, si aprono spiragli di dialogo con la modernità.
La Rivoluzione francese e il processo di laicizzazione
La Rivoluzione francese, con la sua volontà di dare allo Stato una forma laica, cioè incompatibile con l’idea che ci sia una religione ufficiale, e la sua determinazione a ridurre la Chiesa cattolica a una delle Chiese cristiane, cancella tutti i privilegi materiali e aggredisce con forza quelli spirituali (monopolio della formazione morale dei sudditi ed esclusiva degli strumenti di comunicazione ideologica ai livelli più “bassi” della società) di cui il clero ha goduto nell’antico regime. Questo intervento della rivoluzione nelle cose religiose non riguarda solo la Francia. Coinvolge, in modo più o meno deciso e con un rapporto estremamente variabile di evoluzione/involuzione, tutti quei Paesi nei quali arriva il “vento” giacobino. In Italia si attua dapprima nelle repubbliche sorelle (cispadana e cisalpina), instaurate dalla armate francesi. Poi, dal 1802 al 1814, nella Repubblica italiana e nel Regno d’Italia, oltre che nei territori annessi direttamente allo Stato francese. Il più importante effetto della rivoluzione nell’età napoleonica riguarda il rapporto tra Chiesa e Stato: il cattolicesimo si trova improvvisamente di fronte un Paese che non solo non ha più una religione ufficiale, come accade nella costituzione monarchica, ma che non intende nemmeno modificare questo principio. Non c’è paragone con ciò che nel corso della storia moderna avviene quando un detentore (singolo o collettivo) del potere politico decide di cambiare confessione di fede cristiana passando, per esempio, al luteranesimo e facendo del luteranesimo la religione ufficiale dello Stato. La Chiesa cattolica sa che il dispositivo del cuius regio eius religio introdotto nel mezzo del XVI secolo consente di operare, anche militarmente, per ottenere un rovesciamento, dato che esso si realizza in modo automatico agendo sul “principe”. Allora bisogna trovare uno statuto particolare per il più importante potere religioso esistente nella società francese. Lo esigono lo Stato e la Chiesa.
La politica religiosa di Napoleone
Il primo indicatore concreto della volontà di conservazione e al contempo della volontà di modificazione degli effetti istituzionali provocati dalla rivoluzione lo possiamo cogliere nel 1801. Tra Napoleone, primo console della repubblica (rappresentato dal fratello Giuseppe consigliere di Stato), e Pio VII, di cui Ercole Consalvi è plenipotenziario, viene firmato un concordato secondo cui la Chiesa francese accetta l’incameramento dei beni effettuato durante la rivoluzione: “Sua Santità, per il bene della pace e il felice ristabilimento della religione cattolica, dichiarò che nemmeno i suoi successori avrebbero turbato in alcun modo gli acquirenti dei beni ecclesiastici alienati e – di conseguenza – la proprietà di quei beni, i diritti consolidati e le rendite che ne derivano”. In cambio, le spese di funzionamento per il servizio religioso e il mantenimento del clero vengono iscritte in parte nel bilancio pubblico, trasformando i curati, in un certo qual senso, in salariati dello Stato e facendo per contro maturare in diversi settori del cattolicesimo la convinzione di avere perso con il concordato la libertà della Chiesa. La Chiesa cattolica ottiene molte vantaggiose variazioni alla costituzione civile del clero del 1790, ma deve sottostare alla nomina statale dei vescovi, caratteristica delle precedenti politiche giurisdizionaliste, come quella di Giuseppe II nell’Impero asburgico. Ciò che maggiormente conta è che, malgrado una certa opposizione manifestata dalle assemblee legislative, in cui sopravvive lo spirito laico, che non intende privilegiare alcuna componente religiosa, il cattolicesimo viene riconosciuto come confessione di fede della grande maggioranza dei cittadini francesi. È importante notare che a Roma non viene comunicato che, in allegato al concordato, per mostrare che lo Stato francese intende regolare la vita di tutte le istituzioni religiose impiantate sul suo territorio, vengono pubblicati gli “articoli organici” delle due più importanti comunità protestanti (quella luterana e quella calvinista). Dieci anni prima, il 27-28 settembre 1791, l’Assemblea costituente aveva votato la Loi relative aux Juifs che, per puro effetto della proclamazione dei principi dell’Ottantanove, aveva fatto degli ebrei residenti nei territori francesi dei cittadini francesi. Napoleone riprenderà lo spirito della legge convocando, nel 1806, un’assemblea dei notabili del giudaismo francese designati dai prefetti che, insieme ai commissari dello Stato, adotta all’unanimità il regolamento organico del culto mosaico. Il Sanhedrin dei rabbini approva le decisioni dottrinali adottate e prepara un accordo (il nome di concordato non viene utilizzato, ma di fatto è osservato lo schema concordatario) con le istituzioni statali, che sarà modificato in alcuni particolari. L’elemento di maggiore rilevanza, che peraltro provoca qualche dissenso nell’ebraismo francese perché si percepisce, nell’ordinamento statale del culto, una limitazione delle libertà comunitarie, è il passaggio degli oneri per il mantenimento dei rabbini al tesoro pubblico.
Una restaurazione parziale
Con il Congresso di Vienna e l’avvento dell’età della Restaurazione, la Chiesa cattolica cerca di ritornare allo status quo ante e vi s’impegna con tutte le forze, credendo di potere realizzare il suo intento in modo integrale insieme ai principi che riprendono possesso delle loro terre e che dovrebbero ripristinare l’ordine d’antico regime. Ma non tutto ritorna come prima. Anzi. Sono proprio i rapporti tra Stato e Chiesa a subire gli effetti del sistema rivoluzionario e di quello concordatario. La Chiesa cattolica insomma deve adattarsi all’idea che diversi cambiamenti sono irreversibili e che i principi i quali si trovano avvantaggiati dall’incameramento dei beni ecclesiastici intendono utilizzarlo a vantaggio dello Stato. Si pensi che in Francia il sistema concordatario napoleonico resta in vigore fino al 1905, quando viene proclamato il principio della separazione dello Stato dalla Chiesa. E si pensi anche che, nel corso del XIX secolo, si firmano molti concordati. Talvolta essi portano dei vantaggi all’iniziativa piuttosto aggressiva del cattolicesimo nei confronti dello Stato e delle tendenze autonomistiche di alcune Chiese con pretese “nazionali” (giuseppinismo, febronianesimo, gallicanesimo). Ma anche in tal caso le cose non tornano come prima della rivoluzione. Memorabile esempio di questa duplicità è il concordato restaurativo dei Borboni (1818) che capitolano di fronte al Consalvi, accettando il principio che il cattolicesimo è la sola religione di Stato. Nel Regno delle due Sicilie però riescono a mantenere una parte non irrilevante delle proprietà alienate. Altrettanto importante, sul piano restaurativo, il concordato del 1855 con l’Impero austro-ungarico, che abolisce tutta una serie di restrizioni introdotte nel Settecento dalla politica ecclesiastica di Giuseppe II e fa della dottrina cattolica la prima componente dell’ideologia asburgica (articolo 1). Ma esso viene abolito dopo appena quindici anni.
Dal giurisdizionalismo alla legge Siccardi
Alla fine del XVIII secolo negli Stati italiani si determinano situazioni di aspra conflittualità tra Stato e Chiesa nel quadro del giurisdizionalismo confessionista (la Chiesa cattolica è posta come istituzione religiosa ufficiale e gode dei tradizionali privilegi; lo Stato però esercita ingerenza costante e controllo capillare della gerarchia ecclesiastica). Ne dà soprattutto conto la politica di Leopoldo I in Toscana, che raggiunge il livello più alto con la convocazione del sinodo di Pistoia. Il Piemonte mostra invece, nei rapporti tra Stato e Chiesa, un “cordiale” accordo (concordato del 1841). Esso arriva fino al 1848, quando viene concesso lo Statuto Albertino che, tra l’altro, dà ai valdesi la libertà di culto e scatena una serie di conflitti che vengono portati anche in senato. Ma è soprattutto quando Vittorio Emanuele comincia a legiferare in materia ecclesiastica che le cose cambiano. Le leggi Siccardi (1850), abolendo i tre grandi privilegi “medievali” del clero cattolico (foro riservato, impunità per chi trova asilo nelle Chiese, inalienabilità della proprietà), adeguano dapprima il Regno di Sardegna, e poi il Regno d’Italia, agli altri Paesi europei. Le leggi Rattazzi portano ancora più oltre il piano giurisdizionalista di Camillo Cavour sopprimendo le corporazioni ecclesiastiche, malgrado l’ingerenza della Chiesa arrivi fino alla decisione di Pio IX di scomunicare il re, i suoi ministri e i parlamentari che le hanno votate. Il diritto ecclesiatico dello Stato unitario vorrebbe adottare la soluzione che si esprime nella formula cavouriana di “libera Chiesa in libero Stato”. È costretto però ad aggiungere alla tendenza separatista quella giurisdizionalista con la legge delle guarentigie (1871), che costituisce in effetti un atto unilaterale e mostra una decisione indefettibile.
La Chiesa cattolica e il movimento risorgimentale
In Italia il conflitto tra la Chiesa e gli Stati ha anche un altro aspetto. Fa corpo con la storia del Risorgimento e le aspirazioni (teoriche e pratiche) all’unificazione nazionale: un ideale che trova un ostacolo difficilmente sormontabile nell’esistenza della Chiesa come Stato. Ma l’ideale, come ci si esprime nel linguaggio del tempo, fa anche emergere una cultura politica cattolica che sente il cattolicesimo come elemento fondativo dell’identità nazionale ed è disposta ad abolire il potere temporale dei papi. Vedi, per esempio, la realizzazione in forma plateale di tale sentimento nella raccolta di firme organizzata dal sacerdote Carlo Passaglia per chiedere a Pio IX di rinunciare spontaneamente alla sovranità territoriale. Questa cultura, per molti aspetti, è da considerarsi come una forma italiana di cattolicesimo liberale in quanto movimento religioso europeo. Ma l’elemento politico risorgimentale prevale su quello religioso, che nella maggior parte dei casi resta tradizionale e non sa inserirsi nel dibattito teologico internazionale. Esso porta i neoguelfi (che del cattolicesimo liberale fanno parte integrante) a volere fare dei papi i protagonisti dell’unificazione. La forma della confederazione posta sotto la presidenza del pontefice romano, così come appare nella proposta di Vincenzo Gioberti nel libro Del primato morale e civile degli Italiani (1843), ha una genealogia complessa. Nella tesi di partenza si trova anche qualche frammento del pensiero di Joseph De Maistre, che si presenta sulla scena piemontese della Restaurazione come il rappresentante più radicale del “papismo”, un programma politico che avrebbe voluto riportare la Chiesa cattolica al centro della vita politica e religiosa europea come nel Medioevo (1819). Ciò è dovuto in parte al fatto che la cultura cattolica italiana è rimasta estranea ai grandi processi “mentali” che hanno sconvolto la vita intellettuale europea a partire dalla Riforma protestante: un evento che, secondo De Maistre, costituisce il vulnus più profondo che sia stato portato alla civiltà cristiana. La cultura cattolica francese, invece, come si può constatare nelle opere di Félicité Robert Lamennais, vede crescere la tendenza opposta a fare della Chiesa il soggetto protagonista dell’evoluzione dall’assolutismo al liberalismo, accettando la separazione dallo Stato, rivendicando la “libertà” della sfera religiosa, rifiutando ogni ingerenza della politica nella sua sfera.
La Chiesa e la modernità
Negli anni successivi il rapporto conflittuale tra la Chiesa cattolica e il liberalismo (diventato rapidamente cifra della modernità) si accentua. Anzi esso s’inasprisce mano a mano che uomini e donne, i quali assistono con trepidazione ai tumultuosi processi di trasformazione sociale e culturale, più ancora che allontanarsi dalle pratiche religiose consuetudinarie si distanziano con il pensiero dal modo di pensare della gerarchia. Ecco perché la storia della Chiesa cattolica nel XIX secolo si costituisce come una sequenza di lotte contro la modernità.
L’enciclica di Gregorio XVI Mirari vos, del 15 agosto 1832, contiene la condanna di tutti i principi sostenuti dal cattolicesimo liberale francese e sembra rompere ogni possibilità di dialogo con la modernità. Condanna per esempio l’indifferentismo (“ossia quella perversa opinione che per fraudolenta opera degl’increduli si dilatò in ogni parte, e secondo la quale si può in qualunque professione di fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto”); condanna la libertà di coscienza, d’opinione e di stampa (“da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla religione”).
Il Sillabo emanato da Pio IX nel 1864, come appendice all’enciclica Quanta cura, fa prevalere le voci dedicate alla condanna del liberalismo culturale (panteismo, naturalismo, razionalismo; indifferentismo, latitudinarismo) e politico (socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali) su quelle consacrate al liberalismo religioso così come esso si esprime nelle idee di Lamennais: “In questo tempo si trovano non pochi i quali, applicando al civile consorzio l’empio ed assurdo principio del naturalismo […] osano insegnare che ‘l’ottima regione della pubblica società e il civile progresso richiedono che la società umana si costituisca e si governi senza avere alcun riguardo per la religione, come se questa non esistesse o almeno senza fare alcuna differenza tra la vera e le false religioni’. […] Con tale idea di governo sociale, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime, dal nostro predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, cioè ‘la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera”’.
L’enciclica Pascendi dominici gregis, firmata da Pio X il 7 settembre 1907, condanna infine il tentativo di alcuni teologi di misurarsi con il modernismo religioso.
Insomma, per esprimersi con le parole di Pio IX, va condannata la tesi secondo la quale “il romano pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà” (Proposizione LXXX).
La Rerum Novarum e la dottrina sociale della Chiesa
Le rivoluzionarie trasformazioni economiche e sociali verificatesi nel corso del secolo costituiscono un’altra sfida per la Chiesa cattolica. Motivo di preoccupazione per la Chiesa è non solo l’instabilità sociale ma anche, e forse soprattutto, quello che viene percepito, con buone ragioni, come un allontanamento delle classi popolari dalla pratica religiosa e dall’insegnamento morale della Chiesa. Se nel Settecento e nella prima parte dell’Ottocento la secolarizzazione pare interessare soprattutto le classi e i ceti superiori (che però in seguito all’aumento della conflittualità sociale riscoprono l’utilità della religione istituzionale come fattore di coesione sociale), nella seconda metà del secolo il processo investe prima il proletariato urbano ma tocca anche i ceti contadini, e si manifesta in primo luogo attraverso la crescente influenza dei movimenti politici e sindacali di ispirazione prima socialista e poi comunista. È su questo terreno che la Chiesa cattolica offre una prima risposta alla modernità non improntata a un’intransigente chiusura.
L’ostilità del cattolicesimo all’individualismo “materialista”, prima illuminista poi liberale, fornisce del resto un valido punto di partenza per l’elaborazione di una “dottrina sociale” in grado di dare risposte non solo ai problemi più strettamente economici, ma più in generale sociali e culturali dati dalla perdita, per i ceti popolari inurbati, dei tradizionali riferimenti comunitari e locali. L’enciclica Rerum Novarum promulgata nel 1891 da papa Leone XIII costituisce un primo momento di maturazione e di sistemazione di questi orientamenti. La condanna del socialismo – “falso rimedio” – è naturalmente ribadita e senz’appello, così come viene confermata la liceità della proprietà privata, definita un “diritto di natura” sancito tuttavia anche “dalle leggi umane e divine”.
Come alternativa sia al collettivismo socialista che all’individualismo liberale, l’enciclica propone quindi l’ideale di una società non semplicemente solidale, ma concepita come un insieme organico e gerarchizzato, nel quale ogni individuo e ogni ceto trova una sua collocazione stabile. Qualcosa di simile in definitiva a quella che il pensiero conservatore coevo ritiene sia stata la società cetuale medievale, prima degli sconvolgimenti della Rivoluzione francese e industriale.
Tuttavia, accanto a questa visione tutto sommato arcaizzante di una società armonica, l’enciclica contiene elementi di apertura importanti, che saranno ulteriormente sviluppati dal successivo pensiero sociale cattolico. Tra questi l’incoraggiamento alla formazione di organizzazioni autonome dei lavoratori, con finalità innanzitutto di mutuo soccorso, e la legittimazione dell’intervento dello Stato a tutela dei ceti ritenuti più deboli.