Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le sfide poste dalla modernità e dai processi di secolarizzazione in atto nelle società occidentali dall’inizio del secolo trovano i vertici istituzionali della Chiesa arroccati su posizioni tutto sommato difensive della tradizione e del modello tridentino. A farne le spese sono via via le correnti riformiste, che si propongono di avvicinare il cattolicesimo alla società e al pensiero moderni (modernismo), l’associazionismo laico di ispirazione più schiettamente democratica, la filosofia politica di Jacques Maritain. Ciò a fronte di una accentuazione del ruolo del pontefice e del personale di curia nel governo effettivo della Chiesa, ma anche di una espansione missionaria del cattolicesimo fuori d’Europa senza precedenti.
Instaurare omnia in Cristo
È con questa indicazione programmatica, proclamata nell’enciclica del 4 ottobre 1903, che Pio X dà inizio al proprio pontificato (1903-1914) assumendosi l’onere del conseguimento di un obiettivo, quello appunto di restaurare tutto in Cristo, che chiarisce i termini e i modi entro cui la Chiesa si muove, almeno fino al Concilio Vaticano II, per contrastare i coevi processi di secolarizzazione in atto nelle società occidentali.
Ricostruire una società cristiana in cui il potere ecclesiastico assuma la direzione sullo stesso consorzio civile, rafforzare la gerarchizzazione interna della Chiesa e l’autorità del clero sul laicato, recuperare tutti gli elementi di continuità della tradizione cattolica contrastando al contempo le esigenze e le attese di rinnovamento intellettuale, pure presenti in determinati settori del mondo cattolico, diventano allora qualcosa di più forte dell’imperativo programmatico di un papa. Sono tutti elementi che possono essere letti, infatti, come linee di fondo di un ben più ampio processo che concerne l’intera storia del rapporto e del confronto tra Chiesa e società nel primo Novecento. Un confronto che assume sempre più spesso i toni della sfida tra la modernità in tutti i suoi aspetti, primo fra tutti la crescente laicizzazione delle mentalità e dei comportamenti, e i vertici istituzionali degli apparati ecclesiastici. Quel che ne deriva nei termini del cattolicesimo vissuto, sia per ciò che concerne il concreto funzionamento delle strutture di governo della Chiesa (dipendenza burocratica tra i vari organi amministrativi e di governo: congregazioni cardinalizie, curia romana, curie episcopali, parrocchie), sia in ordine ai problemi posti dalla formazione del clero, sia nel campo delle attività assistenziali e educative, sia soprattutto nei modi della vita religiosa della gran parte dei cattolici, appare allora, pur tra i tanti mutamenti di rilievo che si registrano, marcato principalmente dal segno della continuità con la tradizione tridentina e controriformistica, tutt’al più ravvivate dalle successive strategie pastorali di un sant’Alfonso Maria de’ Liguori o dalle iniziative catechetiche dei sulpiziani.
Se la persistenza del modello tridentino diventa addirittura tratto identitario nei percorsi formativi dei preti, che nei seminari seguono ancora l’esempio derivante dal regolamento di Carlo Borromeo e negli orientamenti pastorali dal tono apocalittico dei tanti che dai pulpiti delle chiese o dalle testate dei giornali stigmatizzano il progresso e il laicismo, il liberalismo e il socialismo ben diversa rispetto al passato è, però, ora la rinnovata affermazione centralistica della Chiesa. Il governo pontificio si dota, infatti, di più penetranti e pervasivi strumenti di controllo sulla Chiesa universale non solo in merito alla razionalizzazione dei dicasteri romani, alla ulteriore riduzione del ruolo episcopale a mero funzionariato e al controllo verticistico delle associazioni missionarie, ma finanche nel definire le condizioni di una retta organizzazione della vita collettiva del laicato. Il moltiplicarsi delle iniziative dal centro, con l’enfasi che ne deriva intorno al potere e all’autorità del papato, è tale che finisce con l’investire anche aspetti della devozione, per quella progressiva identificazione dei cattolici con il papa che segnerà tutta la storia della Chiesa del XX secolo, a cominciare dalla proclamazione della santità di papa Pecci.
Quanto al resto la domanda religiosa dei cattolici si alimenta di ricorrenti oscillazioni tra fedeltà al modello tridentino, basato sulla frequenza alla messa festiva, sulla pratica dei sacramenti, sugli esercizi di pietà davanti a reliquie e immagini sacre, e nuove proposte nate per lo più in risposta alla secolarizzazione della vita sociale. Così è, ad esempio, per i pellegrinaggi che dopo decenni di stagnazione riprendono a richiamare i fedeli con rinnovato vigore, specie se indirizzati verso i luoghi dei miracoli eucaristici e delle apparizioni mariane (Fatima e Lourdes), in una prospettiva che alle forme consuete delle pratiche di pietà assomma i toni della reazione contro l’apostasia della società dalle norme cristiane e della contromanifestazione rispetto alle coeve mobilitazioni di massa operaie e sindacali. Così è per il culto al Sacro Cuore, la cui valenza politica antirivoluzionaria assume addirittura valore emblematico nella grande basilica nazionale a esso dedicata eretta a Montmartre, centro popolare della Comune parigina, in riparazione dell’offesa compiuta dallo Stato francese con l’abbandono dei principi cristiani. E tale è nei suoi ulteriori sviluppi quando, nel corso dell’immane disastro bellico della prima guerra mondiale, viene proposta come pratica consolatoria e indicata, con un significato politico ancora più pregnante, come fine per la realizzazione di un “regno sociale del Sacro Cuore”, volto alla costruzione dell’ordine sociale cristiano, dove gli interessi della politica avrebbero dovuto essere subordinati a quelli della religione.
Chiesa e correnti riformiste
L’istanza di ricostruire una società cristiana in cui la gerarchia, e per essa il papa, mantenga un ruolo direttivo risulta particolarmente evidente nel modo in cui la Chiesa si rapporta alle correnti riformiste, che si propongono di avvicinare il cattolicesimo alla società e al pensiero moderni. Inglobate tutte insieme sotto il nome di modernismo, tacciate da Pio X di essere “non una eresia, ma il compendio di tutte le eresie”, le idee che circolano negli ambienti intellettuali dei cattolici tedeschi, francesi e italiani degli inizi del Novecento si ripropongono complessivamente, in maniera più o meno coerente tra loro, di mettere la Chiesa al passo con i tempi moderni, salvaguardando il suo essenziale patrimonio di fede adeguato, però, al linguaggio e ai nuovi bisogni della società contemporanea. Secondo la formulazione data in seguito da Romolo Murri, quando il movimento risulta già ufficialmente invalidato, esiste una convergenza nel triplice tentativo di riconciliazione del cattolicesimo con la coscienza individuale – Tyrrell – con la critica storica applicata alla Bibbia – Loisy – e con la democrazia (la Democrazia Cristiana dello stesso Murri).
In realtà, se da tutti è condivisa una generica ansia di cambiamento, molteplici ne sono le formulazioni e ben diversi e scarsamente lineari i percorsi individuali di riflessione ed è solo con qualche forzatura, quindi, che se ne possono schematicamente distinguere alcune principali linee problematiche. La prima – presente soprattutto nell’opera di Alfred Loisy in Francia e di Ernesto Buonaiuti e Salvatore Minocchi in Italia – consiste essenzialmente nell’applicazione del metodo storico-critico alla interpretazione dei testi biblici con l’istanza, di non secondario rilievo che ne deriva, ad affrancare gli studi storico-religiosi dalle direttive del magistero. Un’altra, che riecheggia nei testi di Maurice Blondel, Lucien Laberthonnière (1860-1932) e George Tyrrel e si propone il superamento della scolastica tomista in nome di una filosofia dell’immanenza e l’adozione di un’apologetica che tragga argomento per la dimostrazione del divino dalle intime esigenze dell’anima individuale. Infine le rivendicazioni per un rinnovamento in senso democratico-cristiano, e indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche, della presenza cattolica nella società, delineate con forza sia nella prospettiva di Romolo Murri e la rivista “Cultura sociale” in Italia, sia in quella di Marc Sangnier e del periodico “Le Sillon” in Francia.
L’atteggiamento assunto al riguardo dal pontefice e dalla curia si allinea, come si è detto, sulle posizioni dei “cattolici integrali” – come essi stessi si definiscono – di coloro cioè che si trincerano nella difesa della più rigida tradizione e ortodossia. Mentre la Congregazione dell’Indice moltiplica le azioni di censura contro le opere dei modernisti, tra cui il celebre romanzo di Antonio Fogazzaro Il Santo, e si scatena lo zelo inquisitoriale, che non rifugge dal ricorrere e favorire ancora una volta la pratica della delazione, Pio X dopo aver condannato a più riprese le loro proposizioni, nel 1910 con l’enciclica Sacrorum antistitum, impone una serie di misure antiereticali, come l’obbligo del giuramento antimodernista ai professori di scienze ecclesiastiche, al clero e ai seminaristi, rimaste poi in vigore fino al Vaticano II.
La diplomazia vaticana nelle due grandi guerre
È con questo bagaglio culturale tradizionale e intransigente, quale risulta ampiamente sedimentato nei vertici ecclesiastici così come nelle mentalità e nei comportamenti dei cattolici in generale, che la Chiesa va incontro al disastro della prima guerra mondiale. L’“orrenda carneficina” e l’“inutile strage”, denunciate da papa Benedetto XV con toni via via sempre più accorati nel corso del conflitto, mostrano in realtà tutti i limiti della linea di imparzialità adottata dal pontefice verso i cattolici dei due campi, ma è anche segno di quel ridimensionamento politico della Santa Sede in atto ormai da diverso tempo. Pure, di là dai reiterati, e un po’ improbabili, appelli ai governi per il raggiungimento di una tregua, risaltano con forza, accanto alla vasta opera umanitaria e assistenziale svolta da Roma verso le vittime della guerra, il celebre richiamo del papa alle “comuni radici cristiane dell’Europa”, presente nella Nota del 1917, e i suoi proclami per “una pace giusta e durevole”, che contengono già in nuce molte delle concezioni di fondo della Chiesa e dei partiti democratico-cristiani anche nei decenni successivi.
Questi ultimi, la cui presenza all’indomani della guerra risulta particolarmente rilevante in Germania, in Olanda, in Belgio e in Italia, vedono aprirsi ufficialmente la possibilità di una partecipazione “attiva” alla vita pubblica proprio in virtù del radicalizzarsi dello scontro politico in atto. In generale la loro collocazione nello schieramento dei partiti nei diversi Paesi è al centro ma, pur tra le molte oscillazioni tra un moderato liberalismo e un’aperta volontà reazionaria, l’ampia diffusione tra i cattolici della cultura intransigente e i tanti motivi di convergenza tra questa e i movimenti e gli orientamenti della destra, come il richiamo a un ordinamento pubblico di tipo gerarchico, il privilegiamento per un’organizzazione interclassista e corporativa del mondo del lavoro e lo spirito di crociata contro i portatori della modernità, finiscono con l’assegnare alle correnti della destra un peso superiore a quello delle forze più schiettamente democratiche e impegnate socialmente. Lo si vedrà chiaramente al momento del confronto decisivo con i nazionalismi, anche se la politica concordataria dei Patti Lateranensi con l’Italia, nel 1929, e degli accordi con il terzo Reich, nel 1933, attuata da Pio XI si sarebbe mostrata inadeguata a fronteggiare le frequenti frizioni con i regimi totalitari e in ogni caso restia ad accoglierne le spinte più autoritarie, oltre che il sostanziale neopaganesimo e il fanatismo razziale. Prevale sostanzialmente, però, nella linea vaticana la preoccupazione antibolscevica e il personale tradizionalismo del papa, convinto assertore dell’ordine costituito, specie se questo – come promettevano Mussolini in Italia o il generale Franco in Spagna – sembra coincidere con la ricristianizzazione complessiva della società.
A farne le spese sono dapprima proprio gli ambienti e le correnti democratiche presenti all’interno dello stesso mondo cattolico, come il Partito Popolare Italiano fondato da Luigi Sturzo, prima osteggiato dai gesuiti dalle pagine della rivista “La Civiltà cattolica” e poi apertamente sconfessato dalla Chiesa, e la filosofia politica di Jacques Maritain, che individua nell’accettazione della democrazia e delle libertà moderne la sola via per la realizzazione di una autentica società cristiana.
È così che lo scoppio della seconda guerra mondiale trova i vertici istituzionali della Chiesa arroccati ancora una volta su posizioni intransigenti, ma tutto sommato coerenti con la tradizione della diplomazia vaticana, che interpreta il conflitto come punizione inviata dalla Provvidenza agli uomini per punirli di aver estromesso i principi cristiani dalla vita pubblica, e sostiene l’imparzialità della Santa Sede per salvaguardarne lo spazio di asilo. Pesa certo sul pontificato Pacelli la “problematica dei silenzi”: il silenzio di fronte allo sterminio degli ebrei e di altre minoranze etniche, il silenzio di fronte alla distruzione sistematica del popolo polacco e ai molti altri crimini di guerra. Né la tesi, poi sempre avanzata a sua discolpa, che abbia voluto così evitare di aggravare la situazione dei perseguitati, sembra adeguata rispetto alla gravità della questione. Di certo papa Pio XII non sceglie la via della difesa diretta dei diritti umani. A essa egli antepone la preservazione del prestigio imparziale della Chiesa e, negli anni a venire, nella tensione della guerra fredda, l’affermazione del cristianesimo come valore fondativo dell’Occidente assediato dall’avanzata del comunismo.
Si tratta comunque di orientamenti e prospettive che già durante il pontificato Pacelli mostrano molti dei loro limiti e delle contraddizioni ormai esistenti tra Chiesa e società civile. Se più attiva è, infatti, la partecipazione dei cattolici alla vita politica, attraverso i partiti democratico-cristiani, i movimenti sindacali e una miriade di associazioni sul modello dell’Azione Cattolica, se al di fuori dell’Europa la Chiesa cattolica conosce una espansione missionaria senza precedenti, ancora più numerosi sono, però, gli standard che denotano la crescente laicizzazione dei comportamenti degli europei. Le indagini statistiche sulle pratiche religiose della popolazione e sullo stato del cattolicesimo – condotte sin dagli anni Trenta in Francia da Gabriel le Bras – mostrano, ad esempio, quanto forte sia il calo della frequenza all’eucaristia e alla messa, anche nelle aree rurali e in ambienti tradizionalmente cattolici. Esse mettono oltre tutto in luce l’esistenza di un livello diffuso di pratica consuetudinaria, rispetto alla quale si impongono ancora maggiori perplessità circa la carica reale della ispirazione e della vitalità religiose di quel tempo. Lo stesso dicasi per le vocazioni sacerdotali che conoscono ovunque flessioni allarmanti.
Problemi e difficoltà, di segno diverso ma non meno preoccupanti, si addensano sulla Chiesa anche per la situazione dei cattolici nell’Est europeo. Un groviglio di esigenze e di esperienze, dunque, che alla morte di papa Pacelli non sembrano aver trovato ancora un orizzonte di risoluzione.