La chimica nel Settecento: laboratori, strumenti e sperimentazione
Il quadro teorico generale della chimica del Settecento era quello dei fluidi imponderabili. Questi fluidi, materiali ma non direttamente osservabili per via sperimentale, erano considerati responsabili delle trasformazioni della materia: si combinavano con le sostanze come qualsiasi altro elemento chimico, oppure si liberavano dai loro legami e sfuggivano nell’aria circostante. Generalmente considerati come modificazioni dell’elemento fuoco, i fluidi erano il calorico, la luce, il flogisto, il fluido magnetico, il fluido elettrico.
In particolare, la teoria del flogisto, inteso come fuoco fissato nei corpi e responsabile di alcune loro proprietà, in primis quella di bruciare, trovò la sua massima espressione e il suo compimento nel corso del Settecento, e rappresentò la cornice teorica di riferimento per tutti i chimici europei. Tuttavia, di questa teoria, elaborata all’inizio del secolo dal chimico tedesco Georg Ernst Stahl (1659/1660-1734), esistevano differenti versioni, perché i chimici non erano d’accordo su cosa fosse davvero questo fluido: nei tempi più ‘maturi’ della teoria, cioè verso la fine del secolo, il flogisto venne addirittura identificato con l’aria infiammabile (idrogeno) dal chimico irlandese Richard Kirwan (1733-1812), che poi abbandonò questa interpretazione per rivolgersi alla nuova chimica lavoisieriana. Anche i tradizionali quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) nel corso del 18° sec. subirono una progressiva ridefinizione, per essere abbandonati alla fine del secolo, grazie principalmente all’opera di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) e dei suoi collaboratori.
La grande novità chimica nel Settecento è rappresentata dalla scoperta del ruolo attivo dell’aria nelle reazioni chimiche. Fu il chimico e botanico inglese Stephen Hales (1677-1761) ad accorgersi per primo che le piante avevano la capacità di ‘fissare’ l’aria attraverso le foglie; tuttavia Hales non distinse i diversi tipi di gas. Da qui iniziarono le ricerche sull’‘aria fissa’ (biossido di carbonio), scoperta dal medico scozzese Joseph Black (1728-1799) nel 1756 e poi sui diversi tipi di gas. Nel corso del secolo vennero infatti scoperti l’azoto, l’ossigeno, l’idrogeno, il metano, il protossido d’azoto, l’anidride solforosa e molti altri. Se prima l’aria veniva intesa come uno dei quattro elementi e considerata solo come uno strumento indispensabile per le reazioni chimiche, in particolare per la combustione, ora invece entrava direttamente nelle reazioni combinandosi con le diverse sostanze; inoltre non era più un elemento singolo: si parlava infatti di ‘arie’, con diverse proprietà, pesi, colori e così via. Fu proprio dalla chimica pneumatica che prese avvio la cosiddetta rivoluzione chimica di Lavoisier.
La chimica settecentesca aveva alcuni punti saldi ormai acquisiti da tempo, come la chimica dei sali, e un insieme di procedure ormai standardizzate per quanto riguarda l’analisi e la sintesi delle sostanze. Ma nel Settecento la chimica era ancora una disciplina fortemente qualitativa, e gli organi di senso dello sperimentatore erano altrettanto importanti degli apparati sperimentali: delle sostanze venivano infatti descritti anche il colore, il sapore, l’odore, la consistenza e a volte anche il rumore che si produceva durante gli esperimenti.
Fu con Lavoisier, nell’ultimo quarto del secolo, che la chimica diventò una scienza quantitativa. Egli elaborò una nuova teoria basata sull’ossigeno, che comprendeva la spiegazione dell’acidità (il nome ossigeno significa infatti ‘generatore di acidi’), della combustione, della calcinazione (ossidazione) dei metalli, della fermentazione, della respirazione, nonché della natura composta dell’acqua. Mentre prima si spiegavano questi fenomeni in base al flogisto, Lavoisier abbandonò questa concezione, guidato dal principio di equivalenza ponderale tra reagenti e prodotti in una reazione chimica, e dalla definizione di elemento come termine ultimo al quale perviene l’analisi. Le sue scoperte lo portarono a riformare tutto il linguaggio della chimica, introducendo la nomenclatura sistematica. Infine, nella sua opera fondamentale (Traité élémentaire de chimie, 1789), illustrò con tavole dettagliate gli strumenti indispensabili per compiere gli esperimenti della nuova chimica.
La nuova teoria si diffuse in Italia grazie alla stampa periodica e alle traduzioni dei testi di Lavoisier e dei suoi collaboratori. Il traduttore ‘ufficiale’ di questi testi fu il farmacista veneziano Vincenzo Dandolo (1758-1819), che nel 1791 pubblicò la prima, fortunata, edizione della traduzione del Traité di Lavoisier; ma anche nel Regno di Napoli comparve l’anno successivo una traduzione di questo testo a uso del Corpo reale di artiglieria, pubblicata da Luigi Parisi e Gaetano La Pira. Il primo manuale di chimica lavoisieriana, le Istituzioni di chimica, fu pubblicato, sempre nel Regno di Napoli, da Matteo Tondi (1762-1835) nel 1786.
La prima cattedra di chimica parauniversitaria in Italia fu fondata nel 1714 a Bologna, presso l’Istituto delle scienze. La cattedra era tenuta da Marco Antonio Laurenti (1678-1772), che però di fatto non fece mai lezione. Nel 1734 la cattedra fu affidata a Jacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766), il quale nel 1737 assunse anche la titolarità della prima cattedra di chimica universitaria italiana, presso l’Università di Bologna. Un laboratorio di chimica fu presente nell’Istituto delle scienze fin dalla sua fondazione.
Papa Benedetto XIV riformò tra il 1744 e il 1748 l’ordinamento degli studi dello Studium Urbis Sapientiae, l’università di Roma. In particolare, nel 1745 istituì la cattedra di istituzioni ed esperimenti chimici presso la facoltà di Medicina, tenuta dal ferrarese Luigi Filippo Giraldi. Anche l’Università di Ferrara fu riordinata dal papa nel 1742, con l’istituzione della cattedra di chimica retta dall’anno successivo da Francesco Luigi Pecci.
All’Università di Padova la cattedra di chimica fu istituita nel 1726 e affidata a Bartolomeo Lavagnoli (1678-1765), il quale, tuttavia, tenne le sue lezioni solo molti anni dopo aver ricevuto l’incarico. Nel 1759 la cattedra passò a Marco Carburi (1731-1808), che però venne immediatamente inviato all’estero per compiere un viaggio minerario nell’Europa centrale e settentrionale: le lezioni regolari iniziarono quindi solo nel 1767, e senza l’ausilio di un laboratorio, che doveva ancora essere completato. Tuttavia, tra il 1771 e il 1773 fu proprio il laboratorio padovano a fungere da modello per quelli di Parma (dove dal 1767 Marco Aurelio Cavedagni reggeva la cattedra di chimica), Firenze e Torino.
La prima cattedra di chimica dell’Università di Modena fu istituita nel 1772 ma unita a botanica, e fu affidata al francese Francesco Roberto de Laugier (1722-1793), che in precedenza era stato professore di chimica e botanica a Vienna. A partire dal 1773 le lezioni si tennero nel nuovo Laboratorio chimico.
All’università di Pavia un allievo di Carburi, il trentino Giambattista Borsieri (1725-1785), dal 1770 insegnava chimica ai futuri medici. La cattedra di chimica vera e propria fu istituita nel 1776 e affidata al naturalista Giovanni Antonio Scopoli (1723-1788), il quale nel 1777 divenne anche direttore del laboratorio di chimica. Presso l’Ospedale Maggiore di Milano, tra il 1784 e il 1786 fu costruito un moderno laboratorio chimico-farmaceutico per sostituire la spezieria; qui vennero inaugurati anche due corsi di lezioni e dimostrazioni, tenuti da Pietro Moscati (1739-1824) e dal farmacista Paolo Sangiorgio (1748-1816).
Una cattedra di chimica esisteva a Napoli dal 1723, ma unitamente a botanica. La cattedra autonoma di chimica fu istituita solo nel 1760 e affidata a Giuseppe Vairo. Uno dei suoi allievi più illustri fu il medico leccese Nicola Andria (1747-1814) che nel 1771 aprì a Napoli una scuola privata di medicina e chimica di grande successo. Andria, che fu a sua volta maestro di Tondi, teneva anche esperimenti pubblici di chimica utilizzando il laboratorio della spezieria di Nicola Petra.
Nel Granducato di Toscana, una cattedra di chimica fu istituita a Pisa nel 1757, retta da Antonio Nicolao Branchi della Torre (1723-1810), il quale già negli anni 1752-53 aveva tenuto corsi di chimica presso la Farmacia del cinghiale a Firenze. Nel 1771 un’altra cattedra fu istituita a Siena. Per volontà del granduca Pietro Leopoldo, nel 1775 aprì al pubblico l’Imperiale e regio museo di fisica e storia naturale. Questo museo, corredato di laboratori, ebbe come direttore Felice Fontana e come vicedirettore Giovanni Fabbroni (1752-1822), i due maggiori chimici toscani dell’epoca.
A Torino fu fondata nel 1757 la Società privata che, nel 1760, divenne Società reale e, nel 1783, Accademia reale delle scienze di Torino. Qui si svolgevano ricerche chimiche importanti, ma la cattedra di chimica applicata alle arti fu fondata solo nel 1800 e affidata a Giovanni Antonio Giobert (1761-1834), mentre Costanzo Benedetto Bonvicino (1739-1812) resse quella di chimica farmaceutica e storia naturale dei medicamenti, istituita contemporaneamente.
Fino all’ultimo quarto del Settecento i laboratori chimici avevano più o meno tutti le stesse dotazioni: innumerevoli elementi di vetreria (storte, ‘cucurbite’, matracci, vasi e recipienti di varie misure e capacità, tubi di vetro ecc.); gli indispensabili fornelli; serpentine e apparati per la distillazione, apparati per il bagnomaria e il bagno di sabbia, cannelli ferruminatori, mortai, pestelli e, ovviamente, le bilance.
La nascita della chimica pneumatica provocò inevitabili modificazioni nella strumentaria di laboratorio: divennero necessari apparati per produrre, conservare, manipolare, fissare, comprimere, dilatare ed elettrificare i gas. Questi strumenti erano descritti nei più diffusi testi scientifici dell’epoca, come quelli dell’inglese Joseph Priestley (1733-1804; Experiments and observations on different kinds of air, 3 voll., 1775-1777) o del medico e fisico francese Joseph-Aignan Sigaud de La Fond (1730-1810; Description et usage d’un cabinet de physique experimentale, 1775). Alcuni degli strumenti descritti da Lavoisier, invece, come quello per sintetizzare l’acqua o il calorimetro a ghiaccio, inventato dallo stesso Lavoisier e da Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), erano troppo complessi e costosi, e i chimici italiani ed europei escogitarono soluzioni alternative più economiche, come, per es., l’utilizzo dell’eudiometro di Volta nella sintesi dell’acqua. Nel caso dell’analisi di questa sostanza, invece, l’esperimento per produrre aria infiammabile (idrogeno) consisteva nel far passare l’acqua goccia a goccia attraverso una canna di fucile arroventata, ed era quindi facilmente riproducibile.
Oltre alla chimica pneumatica, nel corso del Settecento l’elettrologia esercitò una considerevole influenza sulla chimica, soprattutto nella seconda metà del secolo: nei laboratori chimici comparvero quindi bottiglie di Leyda (condensatori), elettrofori di Volta, macchine elettrostatiche di Ramsden e, all’alba del nuovo secolo, le pile (Volta inventò la pila nel 1799).
Come già detto, il laboratorio di chimica dell’Università di Padova era considerato un laboratorio modello, ma il professore Carburi doveva prepararsi da solo tutte le sostanze come acidi, basi, sali, reagenti ecc.; inoltre ricercava le argille migliori da utilizzare per la costruzione dei recipienti di laboratorio senza dovere così essere costretto a comperarli all’estero – riuscendo in tal modo a risparmiare fondi. Il laboratorio universitario comprendeva due stanze, nelle quali trovavano posto cinque cappe per un totale di 25 fornelli, più sette distillatori di rame. Al piano superiore si trovava una grande sala contenente 15 armadi pieni di varie suppellettili, strumenti e reagenti; una raccolta di minerali; il teatro chimico per dimostrare gli esperimenti agli studenti. Gli strumenti essenziali erano una pompa a vuoto, uno specchio ustorio, una macchina elettrica, strumenti elettrici come bottiglie di Leyda; emisferi di Magdeburgo. Nel 1781 Carburi dovette far costruire, a sue spese, gli apparecchi per raccogliere i gas.
Il laboratorio dell’Istituto delle scienze di Bologna, che per buona parte del Settecento era stato dotato di strumenti abbastanza antiquati, verso la fine del secolo si rinnovò completamente. Nel 1785 furono acquistate macchine e apparati pneumatici da Parigi, e una macchina di Smeaton perfezionata da Nairne fu acquistata a Londra. Inoltre, a Bologna era presente un abile costruttore di apparati per raccogliere i gas, lo speziale Francesco Viero. Le sue macchine erano utilizzate dagli scienziati bolognesi, e in particolare da Luigi Galvani, già a partire dal 1781. Nel 1790 venne acquistata l’intera collezione di strumenti del nobile inglese residente a Firenze lord George Cowper (1738-1789). Essa comprendeva, tra l’altro: una macchina per la condensazione dell’aria di Nairne e Blunt; una macchina per la condensazione e rarefazione di Smeaton; vari altri apparati per lo studio della chimica pneumatica; eudiometri, pistole elettriche, una stadera di Merlin, alcune bottiglie per fondere il ferro in aria deflogisticata (ossigeno). Gli strumenti della collezione Cowper furono divisi tra il laboratorio di chimica e quello di fisica, ma tutti gli apparati per lo studio delle arie passarono al laboratorio di fisica. Nel 1798 il laboratorio di chimica comprendeva due camere: nella prima erano contenuti circa 88 pezzi di vetreria e un fornello provvisto di alambicco in rame; nella seconda erano presenti 13 fornelli, ma una sola bilancia. Le camere della fisica erano invece otto, di cui, nel 1799, due erano destinate alla chimica pneumatica, mentre una conteneva gli apparati per lo studio di luce, calore e fuoco.
Il Museo di fisica e storia naturale di Firenze era dotato di un laboratorio chimico equipaggiato con strumenti moderni. Il granduca Pietro Leopoldo, infatti, era molto interessato alla chimica e aveva anche un suo laboratorio privato; egli finanziò il viaggio di Felice Fontana e Fabbroni a Parigi e Londra negli anni 1775-79, e li incaricò di acquistare strumenti per il laboratorio del Museo. Anche in questo laboratorio si ritrovavano, dunque, macchine pneumatiche ed elettrostatiche, una macchina magnetica, gli eudiometri, l’elettroforo di Volta, la macchina di Nairne, la stadera di Merlin, strumenti ottici di Dollond, la macchina pneumatica di Fortin. Nel 1790, alla morte del fratello Giuseppe II, Pietro Leopoldo ereditò il trono imperiale; nel lasciare Firenze, donò alcuni strumenti del suo laboratorio privato al Museo: in particolare, il bellissimo banco chimico, oggi conservato presso l’Istituto e museo di storia della scienza di Firenze.
A Torino, come in molte altre parti d’Italia, erano presenti soprattutto laboratori privati: Bonvicino dava corsi privati di chimica e aveva un laboratorio con notevoli collezioni didattiche; anche Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio (1734-1810) e Carlo Lodovico Morozzo di Bianzè (1744-1804) avevano laboratori piuttosto forniti. Gioachino Bonaventura Argentero marchese di Brezé (1727-1796), negli anni Settanta presentò all’Accademia delle scienze di Torino un eudiometro ad aria nitrosa e un gasometro, e Felice di San Martino della Motta (1762-1818), negli anni Ottanta, presentò un nuovo apparato pneumato-chimico. Presso l’Accademia delle scienze di Torino fu inoltre fatto un tentativo di impiantare un laboratorio per produrre economicamente il colore blu, dal 1773 il colore ufficiale delle divise dell’esercito. Venne istituita una commissione di nove membri, la Deputazione per le tinture, che aveva a disposizione fondi considerevoli per acquistare reagenti e strumenti per potenziare il laboratorio sotto la direzione di Saluzzo e del mineralogista Carlo Antonio Napione (1756-1814), mentre Giuseppe Maria Urbano Fontana (1753-1791), Giobert e Bonvicino ebbero il compito di redigere una lista dei reagenti e degli strumenti necessari. Il lavoro della Deputazione per le tinture non ebbe buon esito, principalmente perché mancò il coordinamento tra i suoi membri, e di fatto il laboratorio non venne mai utilizzato.
La chimica della prima metà del Settecento in Italia aveva un carattere fortemente applicativo: è pressoché impossibile separarla dalla medicina e farmacia da un lato, e dalla mineralogia e metallurgia dall’altro. Anche il settore tessile e quello delle tinture erano importantissimi, così come quello dei concimi, fertilizzanti, antiparassitari, e di tutto ciò che era relativo all’agricoltura e alla zootecnia.
Questa tendenza mutò con il modificarsi della chimica nell’ultimo quarto di secolo: se prendiamo come esempio l’unico periodico italiano specificamente dedicato alla chimica, gli «Annali di chimica» di Luigi Valentino Brugnatelli (1761-1818), che uscirono in 22 volumi dal 1790 al 1805, le memorie a carattere applicativo sono l’8,5% del totale, mentre le ricerche sulla nuova chimica e nomenclatura sono circa l’11,3% e la sola elettrochimica copre il 7%.
Per quanto riguarda il settore mineralogico, i governi dei principali Stati della penisola finanziarono viaggi all’estero (in particolare nelle miniere dell’Europa centrale e settentrionale e nelle scuole di mineralogia come quella, importantissima, di Chemnitz) per i loro mineralogisti, in modo che potessero osservare le tecniche estrattive e di lavorazione dei minerali per poi applicarle in patria. Tra coloro che beneficiarono di questa opportunità vi furono Carburi, Tondi, alcuni accademici piemontesi e mineralogisti toscani.
Di notevole importanza furono le ricerche sulle acque minerali. Gli studi generalmente comprendevano anche il possibile uso medico di queste acque e il metodo per riottenerle artificialmente a partire dai prodotti dell’analisi. Andria pubblicò a Napoli nel 1775 il suo Trattato sulle acque minerali, nel quale fornì un protocollo standardizzato, completo di avvertenze pratiche, per esaminare le acque: esso comprendeva l’esame del terreno alla sorgente, l’analisi qualitativa sensoriale dell’acqua, l’analisi con diversi reagenti e così via. Nella seconda edizione (1783), Andria descrisse varie fonti anche del Regno di Napoli (Ischia, Castellammare di Stabia, Riardo, Pisciarelli, Napoli), per un totale di 21 acque fredde e 20 acque calde.
Anche gli accademici torinesi analizzarono le acque minerali del territorio piemontese. Il re Vittorio Amedeo III nel 1779 aveva infatti incaricato Gioannetti di analizzare le acque di Saint Vincent e di Courmayeur, Bonvicino quelle della Savoia e poi dei Bagni di Acqui, G.M.U. Fontana le acque di Vinadio, il conte di San Martino quelle della Valle d’Aosta, il marchese di Brezé quelle di Torino e della provincia (Castelletto Adorno, Saint Genis, Monferrato). Nel 1793 Giobert pubblicò a Torino il suo saggio sull’acqua termale solforosa di Valdieri (Des eaux sulphureuses et thermales de Vaudier, avec des observations physiques, économiques et chimiques sur la Vallée de Gesse et de remarques sur l’analyse des eaux sulphureuses en générale), forse lo studio più completo relativamente alle acque minerali.
In Toscana, nel corso del Settecento, molti naturalisti e chimici pubblicarono le analisi delle acque termali del Granducato, in particolare relativamente ai Bagni di Pisa (Antonio Cocchi, 1750; Giovanni Bianchi, 1757; Bartolomeo Mesny, 1758), e a quelli di Lucca (Giuseppe Benvenuti, 1758; Domenico Moscheni, 1792). Gli accademici bolognesi invece si occuparono delle terme porrettane (Ferdinando Bassi, 1768), mentre nel Veneto Domenico Vandelli nel 1761 analizzò le acque di Padova e Giovanni Arduino (nel 1761) e Gemello Villa (nel 1794) studiarono quelle di Recoaro.
Una delle proprietà fondamentali dei vari tipi di gas che si venivano scoprendo nel corso del Settecento era la loro respirabilità. Poiché combustione e respirazione erano analoghe, la prova più semplice consisteva nel porre una candela accesa sotto campane di vetro in cui erano contenuti diversi tipi di gas: alcuni di essi estinguevano immediatamente la fiamma, mentre altri sostenevano la combustione per un tempo più o meno prolungato. Un altro metodo consisteva nel porre sotto la campana di vetro animali come rane, piccoli uccelli o piccoli mammiferi. Si registravano le condizioni di temperatura e pressione, a volte il peso dell’animale e il tempo che esso impiegava a soffocare; poi se ne sezionava il cadavere per osservare lo stato dei polmoni e del cuore. In questo modo i chimici e i naturalisti stabilirono che l’aria fissa (biossido di carbonio), l’aria infiammabile (idrogeno), l’azoto ecc. erano fortemente letali, mentre per il motivo opposto l’ossigeno venne inizialmente definito aria vitale. Quello che importava conoscere, tuttavia, erano le ragioni della soffocazione o dell’estinzione della fiamma.
Gli studi sulle arie ‘viziate’ di Giuseppe Veratti, professore di fisica a Bologna, risalgono al 1743. I polmoni di uccelli e piccoli mammiferi morti sotto la campana della macchina pneumatica piena d’aria galleggiavano sull’acqua, mentre i polmoni di animali morti nel vuoto pneumatico affondavano. Veratti spiegava questo fenomeno in base al fatto che più i polmoni emettevano aria e più diventavano densi, cioè più pesanti specificamente, e quindi affondavano. Nel 1746 Veratti fece esperimenti sia con le rane sia con gli uccelli: gli uccelli confermavano la tesi della soffocazione dovuta alla diminuzione dell’elasticità dell’aria; le rane invece quella degli effluvi velenosi come causa della soffocazione. Veratti, tuttavia, sosteneva che la causa della soffocazione era dovuta al consumo di un principio ignoto presente nell’aria, che veniva distrutto gradualmente durante la respirazione, rendendo l’aria meno elastica.
Negli anni Cinquanta il naturalista e professore a Bologna Tommaso Laghi (1709-1764), che sosteneva invece la tesi degli effluvi nocivi, con l’apparato pneumato-chimico di Hales, verificò l’aumento del livello dell’acqua sotto una campana in cui ardeva una candela e in cui veniva posto un animale. Il tempo della vita dell’animale non era sempre inversamente proporzionale al numero di candele poste sotto la campana. Laghi, infine, congetturò che l’aria inspirata mutava all’interno dell’animale: il suo organismo ne consumava il principio vitale (pabulum) e la disgregava, quindi quando la espirava essa era inadatta alla vita.
Sempre alla metà del Settecento ebbe luogo una disputa tra il professore di fisica sperimentale all’Università di Torino, Giambattista Beccaria (1716-1781), e i suoi allievi Giovanni Francesco Cigna (1734-1790), Giuseppe Luigi Lagrange e Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio (1734-1810). La disputa riguardava la possibilità o meno di mantenere a lungo la vita di un organismo animale in un ambiente chiuso: per Beccaria non era possibile, per i suoi allievi sì. Cigna, riferendosi alle ricerche di Veratti, studiò (1759) le cause dello spegnimento della fiamma in ambiente chiuso: concluse dando ragione a Beccaria e attribuendo la causa della morte degli animali ai vapori e alle esalazioni che si formavano durante la respirazione.
Nel 1779, il bolognese Pietro Onofri (m. 1787) riprese gli studi di Veratti e Laghi in merito alla nuova controversia sulle cause della morte degli animali in ambiente chiuso che era sorta tra Cigna e il naturalista emiliano e professore a Pavia Lazzaro Spallanzani. Cigna sosteneva che gli aliti nocivi impedivano il passaggio del sangue nell’organismo, provocandone così la morte; Spallanzani invece, che aveva trovato i polmoni degli animali soffocati molto dilatati, sosteneva che la morte avveniva perché gli aliti nocivi attaccavano il sistema nervoso. In base ai propri esperimenti Onofri diede ragione a Cigna.
Felice Fontana, già famoso in tutta Europa per le sue Ricerche fisiche sopra l’aria fissa (1775), nei primi anni Ottanta si occupò della flogisticazione dell’aria nei polmoni e della fisiologia e chimica della respirazione animale. Secondo Fontana, il sangue portava ai polmoni il flogisto presente nell’organismo; l’ossigeno presente nell’aria inspirata, avendo molta affinità per il flogisto, lo toglieva al sangue e con l’espirazione esso veniva espulso nell’atmosfera. Troppo flogisto nel sangue significava la morte.
Un campo di ricerca molto coltivato in Italia fu quello dell’eudiometria, ossia della misura della salubrità dell’aria atmosferica. In realtà, le ricerche eudiometriche stabilivano solo la percentuale di ossigeno che essa conteneva: gli stessi scienziati coinvolti in questo tipo di ricerche erano ben consapevoli del fatto che i requisiti della salubrità dell’aria erano altri; tuttavia, fu anche grazie all’eudiometria che si cominciò a riflettere sull’importanza per la salute del ricambio d’aria nei luoghi affollati come i teatri, oppure negli ospedali.
Priestley per primo aveva notato che l’aria nitrosa (ossido d’azoto), reagendo con l’ossigeno presente in un campione d’aria, lo diminuiva di volume. Nel 1775 Felice Fontana costruì una serie di eudiometri ad aria nitrosa, sfruttando la reazione descritta da Priestley: in base alla diminuzione di volume del campione d’aria era possibile stabilire la quantità di ossigeno presente nel campione stesso. Il problema dell’eudiometro di Fontana era che la reazione era troppo lenta e che lo strumento stesso era impreciso; esso fu notevolmente migliorato dal milanese Marsilio Landriani (1751-1815), che lo utilizzò spesso, raccogliendo campioni durante i suoi viaggi e in ambienti diversi.
Nel 1776 Alessandro Volta aveva scoperto il metano, che aveva chiamato «aria infiammabile delle paludi». Volta notò che se questa aria veniva incendiata tramite una scintilla elettrica in un recipiente chiuso si aveva una notevole diminuzione nel volume dell’aria stessa. Volta pensò di costruire un eudiometro ad aria infiammabile (utilizzando però l’idrogeno e non il metano) chiamandolo «apparato universale per l’infiammazione delle arie in luogo chiuso». Volta, amico e corrispondente di Landriani, aveva infatti fortemente criticato l’utilità del suo eudiometro: la sola cosa certa indicata da esso era la quantità di aria respirabile contenuta in un dato campione di gas qualsiasi; ma lo strumento non diceva nulla a proposito delle esalazioni infette, degli odori e così via. Addirittura, l’aria di montagna, ritenuta unanimemente salubre, conteneva meno aria pura (ossigeno) di quella raccolta in prossimità di paludi o risaie, luoghi noti per la loro insalubrità.
Il piemontese Giobert criticò invece l’utilizzo degli animali per misure eudiometriche (cioè misurando quanto tempo un animale viveva quando veniva chiuso in un recipiente assieme all’aria campione) perché non erano affidabili, così come riteneva inaffidabili gli eudiometri ad aria nitrosa; ma criticò anche l’eudiometro ad aria infiammabile di Volta, perché, secondo Giobert, l’idrogeno conteneva sempre impurità di carbonio, quindi scoccando la scintilla elettrica si formava anche acido carbonico che falsava i risultati. Nel 1785 Giobert presentò una memoria all’Accademia di Torino in cui suggeriva l’uso del fosforo in questo strumento. L’eudiometro di Giobert fu particolarmente apprezzato e perfezionato da Spallanzani. Questo eudiometro era semplicissimo, poiché constava di un tubo piegato a L e graduato con scala centesimale, nel quale si inserivano il campione d’aria da analizzare e un pezzetto di fosforo puro, il quale reagiva immediatamente con l’ossigeno presente nel campione.
Nella seconda metà degli anni Settanta Volta impiegò il suo eudiometro per confrontare l’aria infiammabile delle paludi con l’altra aria infiammabile già nota (idrogeno), scoperta nel 1766 dal chimico e fisico inglese Henry Cavendish (1731-1810). Facendo scoccare la scintilla elettrica nell’eudiometro riempito con le debite proporzioni di aria infiammabile e di aria pura (ossigeno) si aveva una totale scomparsa delle due arie, con formazione di un vapore bianco e di umidità sulle pareti dell’eudiometro stesso. Poiché Volta era consapevole del principio di conservazione della materia, cioè che le due arie non potevano essersi annichilite, si poneva un problema fondamentale: qual era il residuo della combustione delle due arie?
Questo problema occupò Volta fino al 1783, anno in cui Cavendish stabilì che il prodotto di questa combustione era acqua pura. Gli scienziati europei fornirono diverse interpretazioni teoriche di questo fenomeno, pur continuando a ritenere l’acqua una sostanza semplice; Lavoisier, invece, elaborò una teoria rivoluzionaria, considerando l’acqua un composto di idrogeno e ossigeno.
Volta non accettò subito l’interpretazione del francese ed elaborò la teoria per cui l’aria infiammabile era acqua chimicamente unita al flogisto, mentre l’aria deflogisticata era acqua chimicamente unita al calore: bruciando insieme queste due arie, l’acqua diventava libera e sensibile, mentre il calore si univa chimicamente al flogisto per formare la fiamma. Volta ribadì sempre di essere andato molto vicino alla scoperta della natura composta dell’acqua e di avere mostrato la scomparsa delle due arie nel suo eudiometro allo stesso Lavoisier durante il suo viaggio a Parigi del 1781-82; tuttavia, riconobbe che lo scienziato francese era stato il primo a interpretare correttamente il fatto che il risultato della combustione di idrogeno e ossigeno fosse l’acqua. Oltre alla sintesi, Lavoisier aveva anche compiuto l’esperimento inverso, decomponendo l’acqua in idrogeno e ossigeno e dimostrando così che essa non era un elemento semplice.
Tra il novembre 1784 e il gennaio 1785, il medico toscano Ferdinando Giorgi ripeté, anche avvalendosi della collaborazione di Gaetano Cioni, gli esperimenti sulla natura composta dell’acqua. Servendosi degli strumenti della Farmacia del cinghiale a Firenze, fece passare goccia a goccia questa sostanza in tubi di diversi materiali, a una temperatura di un grado superiore a quello dell’acqua bollente. Ottenne sempre lo stesso risultato, cioè che tutta l’acqua si convertiva in un’aria permanentemente elastica leggermente più pura dell’atmosferica, ma meno salubre della deflogisticata (ossigeno). Notando la concordanza di peso tra acqua di partenza e aria prodotta, concluse che l’acqua era composta di aria deflogisticata più un’altra aria ignota (probabilmente la flogisticata, cioè azoto). Rifiutò quindi categoricamente l’aria infiammabile come componente dell’acqua, ritenendola invece parte costituente del metallo di cui erano fatti i tubi dell’apparato sperimentale impiegato dai francesi.
Anche Felice Fontana aveva rifatto questi esperimenti ottenendo, come i francesi, aria infiammabile dalla decomposizione dell’acqua; ma l’interpretazione teorica che ne diede era completamente opposta a quella di Lavoisier: l’acqua per Fontana restava un elemento semplice.
La polemica sulla natura dell’acqua tra seguaci di Lavoisier e seguaci del flogisto si riacutizzò qualche anno dopo, tra il 1792 e il 1796, e si allargò fino a comprendere scienziati di quattro Stati della penisola italiana: i lombardi Simone Stratico, Carlo Barletti ed Ermenegildo Pini, i veneti Anton Maria Lorgna, Giuseppe Tomaselli, Francesco Du Pré, Carburi, G.B. Marzari, Vincenzo Dandolo, i bolognesi Giuseppe Vogli e Sebastiano Canterzani, il piemontese Giobert. Ammettere definitivamente l’acqua nel novero delle sostanze composte, infatti, era concettualmente difficile, perché non si capiva come da due sostanze allo stato gassoso se ne potesse ottenere una allo stato liquido; inoltre, l’abitudine a considerare l’acqua elemento semplice richiedeva un non facile cambiamento di prospettiva.
Nel marzo 1794 Lorgna aveva ottenuto aria infiammabile arroventando una canna di ferro, senza passaggio di acqua, esperimento confermato da Carburi che aveva arroventato dei globi cavi di ferro. In questo modo si otteneva idrogeno semplicemente convertendo l’ossigeno atmosferico, quindi senza decomposizione dell’acqua. Giobert e Dandolo criticarono duramente la validità di questi esperimenti, sostenendo che l’aria infiammabile doveva essersi prodotta da residui di umidità presenti nei gas di partenza o nell’aria atmosferica poiché gli apparati utilizzati non erano perfettamente isolati.
L’elettricità fu portata all’attenzione dei chimici e dei fisiologi per i suoi effetti sui sensi: al pari delle varie sostanze chimiche, anche l’elettricità era dotata di odore, sapore, ‘suono’, colore, ed era in grado di provocare sensazioni tattili. Per gli effetti che provocava, l’analogia per eccellenza divenne quella con il fuoco; lo stesso Priestley, nel corso degli anni Settanta, arrivò a identificare l’elettricità (animale) con il flogisto, cioè con il fuoco fissato nei corpi. Il ruolo che il fluido elettrico poteva svolgere all’interno del vivente era stato accennato anche dal piemontese Beccaria nel 1772: ogni alterazione nella quantità di fluido elettrico presente in un corpo ne determinava un’alterazione nelle dimensioni o in altre qualità. Secondo Beccaria, il fuoco si propagava più facilmente nei corpi conduttori di elettricità e meno facilmente nei corpi meno conduttori.
Nel 1784 il medico e fisiologo veneziano Stefano Gallini (1756-1836) avanzò invece l’ipotesi che la base dell’aria infiammabile (idrogeno), e più in generale di tutte le arie, venisse portata allo stato aeriforme per mezzo del fluido elettrico. Sostenne che la base dell’aria infiammabile era il vero principio costituente del sangue ed elaborò una teoria fondata sul ruolo del fluido elettrico nella respirazione. Secondo i fisiologi dell’epoca, l’aria respirata deponeva nel polmone la materia del calore e ne estraeva il flogisto, che la rendeva così fissa o flogisticata. Ma poiché Gallini aveva dimostrato che l’aria non depositava calore, ma che estraeva dai polmoni un principio simile alla base dell’aria infiammabile, sostenne che nella respirazione quest’aria infiammabile si combinava con la deflogisticata dell’atmosfera. Quindi le due arie abbandonavano il fluido elettrico che le rendeva aeriformi; il fluido elettrico libero penetrava nel sangue ed era responsabile dei fenomeni che si erano fino a quel momento attribuiti al calore. Nel 1788 Gallini non attribuì più al fluido elettrico questo ruolo, e si orientò definitivamente verso la teoria lavoisieriana, che assegnava al calorico la responsabilità dello stato aeriforme della materia. Sempre nel 1788, Andria, che conosceva bene gli scritti di Gallini, pubblicò i Physiologiae elementa, dove affermò che il fluido tenuissimo che dall’aria respirata passava al sangue, come avevano dimostrato alcune sue esperienze, era lo stesso fluido elettrico che liberava il sangue dall’inquinamento del flogisto.
Dopo la scoperta della pila e l’annuncio della decomposizione dell’acqua per mezzo di essa (1800), il professore di chimica a Pavia Luigi Valentino Brugnatelli arrivò alla conclusione che il fluido elettrico era un elemento che aveva tutte le caratteristiche di un acido; pertanto, nella sua nomenclatura sistematica (differente da quella francese), lo chiamò ossielettrico, cioè acido elettrico. In quanto acido, unendosi ai metalli esso dava origine a sali che Brugnatelli chiamò ossielettrati. Egli notò che questi erano insolubili in acqua, anzi, venivano trasportati dal fluido elettrico attraverso l’acqua e depositati sopra altri metalli di diversa natura. Nel 1802 Brugnatelli sfruttò questa proprietà dell’elettricità per produrre vari oggetti con la tecnica della galvanoplastica, di cui è a pieno titolo lo scopritore – oggetti tuttora conservati al Museo dell’Università di Pavia.
A differenza degli altri chimici, Fabbroni per primo ipotizzò che l’elettricità non fosse una causa del mutamento chimico, ma piuttosto un suo effetto. Tuttavia, i risultati sperimentali e le interpretazioni date da Fabbroni all’‘effetto Sultzer’, cioè la sensazione acidula provocata sulla lingua quando questa entrava in contatto con due metalli diversi (dovuta per Fabbroni all’azione chimica dei metalli sulla saliva), restarono pressoché ignorati all’estero fino alla fine del secolo, benché il medico pratese Giovacchino Carradori (1758-1818) ne avesse pubblicato la notizia in una lettera a stampa già nel 1794 (Articolo di lettera del sig. G. Carradori al sig. Brugnatelli sull’elettricità animale e sopra alcuni nuovi sali metallici, «Annali di chimica», 1794, 5, pp. 27-29).
L’Italia del Settecento non era certo il centro delle ricerche chimiche europee, ma i contributi degli italiani allo sviluppo della chimica non furono privi di importanza. Gli accademici piemontesi, Felice Fontana, Volta, Brugnatelli, Fabbroni e, per certi aspetti, Spallanzani diedero contributi fondamentali che vennero discussi e recepiti non soltanto nei vari Stati italiani ma anche all’estero.
Sicuramente ci furono disparità a livello regionale per quanto riguarda la qualità della ricerca, dovute da un lato alla frammentazione politica del Paese, e dall’altro alle risorse dei singoli Stati. Tuttavia la chimica italiana non era certamente arretrata rispetto alle nuove scoperte e si dimostrò capace di stare al passo con i tempi. La buona circolazione di periodici stranieri nel nostro Paese, e non solo nei centri più attivi, in primis il «Journal de physique» dell’abate Rozier, che veniva pubblicato dal 1771, e poi delle «Annales de chimie», pubblicate da Lavoisier e dai suoi collaboratori a partire dal 1789, consentiva agli scienziati e ai chimici italiani di essere rapidamente aggiornati sulle nuove scoperte e sulle nuove linee di ricerca.
I dibattiti e le controversie riportate in questa trattazione evidenziano il fatto che, nonostante la frammentazione politica della penisola, gli scienziati italiani erano in stretto contatto tra di loro: esisteva dunque una comunità scientifica italiana ben prima dell’esistenza dell’Italia stessa come Stato unitario. Oltre all’immancabile corrispondenza privata, fu soprattutto grazie all’opera di Carlo Amoretti (1741-1816) a Milano, editore degli Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti pubblicati a partire dal 1775, e di Luigi Brugnatelli, che pubblicò numerosi periodici scientifici tra il 1777 e il 1827, che si venne a creare nella penisola un senso di appartenenza a una comunità scientifica italiana, capace di valicare i confini dei vari Stati nazionali che costellavano il territorio del Paese.
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