La chimica oggi
Il singolare sviluppo della chimica organica, che ha caratterizzato la crescita industriale delle società avanzate nel 20° sec., è stato reso possibile dal concomitante affermarsi di sofisticati metodi di analisi e di indagine strutturale, nonché di potenti strutture teoriche che hanno consentito una drastica riduzione dei tempi di lavoro di laboratorio e una perfetta programmazione della ricerca di nuovi prodotti di sintesi. Si è così sviluppato un formidabile ‘meccano’ della chimica che permette oggi una tecnica praticamente infinita di assemblaggio molecolare, realizzabile spostando gruppi chimici tra molecole o all’interno della stessa molecola, sostituendo gruppi con particolari proprietà con altri dotati di proprietà diverse, saldando e separando molecole, allungando o restringendo a piacimento catene di atomi e soprattutto programmando sulla carta le funzionalità specifiche di nuove molecole da costruire.
Questa straordinaria macchina di sintesi molecolare ha fornito all’umanità uno degli strumenti più potenti per trasformare la natura in modo da adattarla ai crescenti bisogni delle società in continua espansione demografica, economica e culturale, e ha consentito un aumento praticamente illimitato delle possibilità di progettare e realizzare materiali con proprietà inimmaginabili fino a tutto il 19° secolo. Il numero di nuovi composti sintetizzati o identificati come prodotti naturali ogni anno è dell’ordine delle centinaia di migliaia e tende a crescere continuamente. Non esiste alcun limite alla possibilità di nuove sintesi, se non l’interesse pratico o scientifico del prodotto. La chimica permette oggi di produrre materiali particolari per tutte le applicazioni tecnologiche, dai metalli speciali ai polimeri, da prodotti farmaceutici mirati alla cura di determinate malattie ad anticrittogamici estremamente efficaci, da combustibili ad alto rendimento energetico a fertilizzanti adattati alle specifiche necessità della vegetazione e del terreno.
La sinergia tra l’apparato teorico della chimica moderna e le nuove tecniche di sintesi ha aperto un consistente numero di filoni di ricerca di carattere sia industriale e applicativo sia puramente teorico e speculativo. Tra i tanti sviluppi recenti che hanno riguardato la chimica, cercheremo di analizzare quelli che si sono configurati da un lato come più rappresentativi del fermento di nuove idee nell’ambito della ricerca sul finire del 20° sec., dall’altro come agenti primari di grandi trasformazioni nella struttura concettuale della disciplina e di spettacolari applicazioni tecnologiche per il futuro.
Astrochimica
Questo peculiare filone di ricerca, arricchitosi di importanti scoperte al punto di divenire una nuova branca della chimica, riguarda lo studio delle molecole nelle grandi nubi interstellari, enormi ammassi di atomi, molecole e particelle solide che si trovano negli ampi spazi vuoti tra le stelle.
Le nubi interstellari presenti nelle galassie, in particolare nella nostra, contengono essenzialmente idrogeno (90%) ed elio (10%) allo stato gassoso, oltre a quantità minori di altri elementi chimici come ossigeno, carbonio, azoto, nichelio, zolfo, calcio, alluminio e ferro. Grandi nubi molecolari esistono, per es., nella nebulosa di Orione; una nube ricca di ossido di carbonio si trova alla periferia della nebulosa e si estende fino a sovrapporsi a una vicina nube d’idrogeno. Nella parte centrale della nebulosa vi sono nubi di dimensioni minori di acido cianidrico e nubi ricche di altre molecole come alcol metilico, solfuro di carbonio, ammoniaca, cianogeno e derivati etilenici. Un’enorme nube molecolare è stata anche trovata nella costellazione del Sagittario (B2), al centro della nostra galassia, a circa 25.000 anni luce di distanza dalla Terra. Altre importanti nubi oscure sono presenti nella costellazione della Croce del Sud e del Cigno. Gli astrofisici hanno stimato che la massa totale di molecole esistente nella sola Via Lattea è circa un milione di volte più grande della massa solare.
Queste grandi nubi di gas interstellare si estendono da zone a temperature altissime che vanno da 104 fino a 106 K, a zone estremamente fredde con temperature intorno a 3 K. Le zone fredde hanno densità che oscillano da 104 fino a 1010 molecole/cm3, mentre quelle ad altissima temperatura sono assai rarefatte, con densità che possono scendere fino a qualche molecola/cm3. Una piccolissima parte (∼2%) del materiale che forma le nubi interstellari è formata da microparticelle solide (grani interstellari), composte essenzialmente da silicati e da grafite circondati da un leggero strato di ghiaccio.
Le nubi interstellari contenenti particelle solide sono normalmente definite oscure perché le particelle di polvere cosmica non lasciano passare la parte visibile e ultravioletta della luce delle stelle. Proprio in queste grandi nubi oscure si concentra la maggior parte delle molecole esistenti nello spazio.
Lo studio spettroscopico della composizione della materia interstellare iniziò nel 20° sec. utilizzando come sorgenti la radiazione visibile e ultravioletta proveniente da stelle lontane e osservando l’assorbimento della radiazione al suo passaggio nelle nubi interstellari.
Un complesso e proficuo lavoro di ricerca sperimentale, basato dagli anni Quaranta del secolo scorso sullo sviluppo della spettroscopia nell’infrarosso e della radioastronomia, ha condotto all’identificazione di numerose molecole, radicali e ioni, in primo luogo dalla molecola d’idrogeno (H2), di gran lunga quella più rappresentata nello spazio interstellare.
Nella tabella è riportato un elenco piuttosto completo delle molecole più piccole, di dimensioni fino a 9 atomi, presenti nelle nubi interstellari della nostra galassia. Alcune di queste molecole sono particolarmente esotiche e poco note ai chimici di laboratorio, ma accanto a esse esiste nello spazio cosmico un gran numero di molecole molto comuni e anche di dimensioni considerevoli.
Grazie alla spettroscopia a radiofrequenze e ai telescopi infrarossi montati su satelliti al di fuori dell’atmosfera terrestre a partire dalla scoperta, nel 1968, della prima molecola poliatomica, l’ammoniaca NH3, si sono susseguite molte altre scoperte rilevanti: formaldeide, HCHO (1969); alcol etilico, C2H5−OH (1974); il radicale, •(C≡C)3−CN (1978); cianotriacetilene, H−(C≡C)3−CN, e acetone, (CH3)2CO (1984); metano, CH4 (1991). Nel 1993 fu poi scoperto nello spazio il catione H+3, lo ione più abbondante nell’universo, e successivamente: l’acido acetico, CH3COOH (1997); quindi il benzene, C6H6 (2001); la glicina, H2N−H2C−COOH (2003); il diidrossipropanone, CO(CH2OH)2, e l’etere metiletilico, CH3OC2H5 (2005); l’acetamide, CH3CONH, e il propanale, CH3CH2CHO (2006); il radicale, H−(C≡C)4•, e il propilene (o propene) CH3−CH=CH2 (2007). Esistono, inoltre, molte evidenze, anche se non definitivamente confermate, della presenza nello spazio di molecole ancora più complesse: idrocarburi aromatici, amminoacidi, poliacetileni variamente sostituiti e così via.
La ricerca di nuove molecole nello spazio continua senza sosta in numerosi laboratori grazie alla cooperazione tra chimici e astrofisici. Una tecnica normalmente utilizzata è quella di programmare sulla carta nuove specie, anche particolarmente esotiche, candidate secondo la teoria a popolare lo spazio, e poi di sintetizzarle in laboratorio e misurarne lo spettro a radiofrequenze per trovare coincidenze con bande osservate. Molte molecole o radicali, potenziali ospiti di nubi interstellari, risultano però particolarmente reattivi e hanno vita brevissima; ne conseguono complicazioni nelle tecniche di sintesi e di misura. Procedimenti di questo tipo sono stati di recente utilizzati per scoprire la presenza di molecole o radicali contenenti atomi di silicio e hanno permesso di identificare nello spazio molecole di SiCN dotate di un forte momento di dipolo permanente in grado di produrre intense righe rotazionali nella radiazione cosmica.
La scoperta di molecole poliatomiche nelle nubi interstellari ha rappresentato una tappa importante nello sviluppo della chimica dello spazio. Fino ad allora si riteneva impossibile, a temperature molto basse e con densità estremamente rarefatte, la formazione nello spazio di molecole con più di due atomi. Anche le molecole biatomiche erano considerate destinate a vita molto breve perché esposte all’intenso flusso di radiazione ultravioletta e di raggi cosmici provenienti dalle stelle che le avrebbe rapidamente dissociate.
Soltanto nella nostra galassia esistono oltre cento miliardi di stelle e ognuna di esse emette una notevole quantità di radiazioni e di raggi cosmici. In questo inospitale bagno di radiazione una molecola avrebbe scarsa possibilità di sopravvivere a lungo senza essere dissociata, a meno di non trovarsi al riparo dal bombardamento cosmico. Tale riparo è in effetti assicurato dalle grandi nubi interstellari oscure, ricche di pulviscolo cosmico; quest’ultimo, costituito da granuli di grafite o di silicati, assorbe la radiazione visibile e ultravioletta e i raggi cosmici provenienti dalle stelle e riemette energia nell’infrarosso in grado di eccitare le molecole in stati vibrorotazionali. Da questi stati eccitati partono i fotoni che, una volta raccolti, rappresentano le impronte digitali delle molecole spaziali.
Se l’esistenza della polvere interstellare riesce a spiegare bene la sopravvivenza di molecole anche complesse nello spazio cosmico, è rimasto a lungo poco chiaro come le molecole e i grani di pulviscolo si siano formati all’inizio. Nell’universo nascente non esistevano elementi di peso atomico superiore al litio e quelli più pesanti si sono formati nello spazio successivamente alla prima generazione di stelle a causa di reazioni nucleari in cui l’idrogeno era bruciato producendo gli altri elementi. Per queste ragioni la stessa esistenza delle molecole di idrogeno rappresentò per anni un vero e proprio puzzle. Di fatto le nubi interstellari più dense che contengono non più di 1010 molecole/cm3, corrispondono sulla Terra a un vuoto quasi assoluto e la loro temperatura, dell’ordine di qualche decina di kelvin al massimo, è molto lontana dalla possibilità di assicurare un’efficiente trasformazione per collisione di energia cinetica in energia chimica. Normalmente è difficile formare molecole per urto di due atomi senza emissione di un fotone che dissipi l’eccesso di energia. Questi processi di associazione radiativa sono poco efficienti e a livello dei tempi astronomici non costituiscono il processo fondamentale di formazione di molecole. I meccanismi possibili di formazione prima delle molecole d’idrogeno e poi di altre più complesse sono stati però sufficientemente chiariti dalle ricerche di astrochimica e forniscono un quadro piuttosto completo della formazione di nubi interstellari.
Le più importanti reazioni che portano da idrogeno atomico a idrogeno molecolare sono rappresentate nella figura 1. I processi elementari che preparano la strada alla formazione di idrogeno molecolare in fase gassosa sono la produzione di ioni positivi o negativi o dell’atomo nello stato elettronico eccitato 2s (H nella fig.), di gran lunga lo stato più attivo per portare alla formazione di H2.
Da questi stadi intermedi si ottiene la formazione della molecola H2 o anche quella dello ione H+3, una particella fortemente protonante che reagisce facilmente con atomi e con molecole dando inizio a una significativa catena di reazioni. Per es., lo ione H3O+ può facilmente reagire con elettroni formando acqua
H3O++e− →H2O+H [1]
o con CO2 formando uno ione carbonico
H3O++CO2 → HCO+2 +H2O [2]
Alcune di tali reazioni sono relativamente lente, tuttavia sulla scala dei tempi astronomici questo non rappresenta un impedimento alla formazione delle nubi molecolari nello spazio. Nelle nubi oscure ad alta densità molte reazioni avvengono sulla superficie dei grani di pulviscolo cosmico, specialmente di microcristalliti di silicati che favoriscono la formazione di idrogeno molecolare. Tale processo, avviato da atomi di idrogeno sulla superficie di grani di silicati, è stato spesso interpretato come un vero e proprio processo di catalisi eterogenea.
Per quanto riguarda la formazione di molecole più complesse, anche in questo caso il numero di possibili reazioni è abbastanza limitato, ma non trascurabile. Come conseguenza delle basse pressione e densità, si possono verificare reazioni soltanto con l’incontro di due particelle, un tipo di reazione non molto efficiente in generale. Calcoli teorici degli astrofisici Eric Herbst e William Klemperer, dell’università di Harvard, hanno permesso di dimostrare l’importanza delle reazioni tra ioni e molecole neutre e di provare che esse possono dare origine a molte specie, anche di dimensioni notevoli. Su queste basi sono state prospettate teoricamente oltre 4000 reazioni possibili che coinvolgono circa 400 specie chimiche diverse. Tali reazioni sono oggetto di elaborazione attraverso enormi programmi di calcolo elettronico che permettono di predire le percentuali delle diverse specie chimiche nello spazio e successivamente confrontarle con i dati sperimentali disponibili.
Le nubi interstellari costituiscono un’immensa riserva di materia da cui si formano le stelle e alla quale esse prima o poi restituiscono i loro resti. Il ciclo ha inizio con nubi diffuse composte essenzialmente di atomi. Nella fase successiva le nubi di atomi si evolvono formando nubi molecolari prima diffuse, poi sempre più dense e oscure. Le parti divenute più dense nel tempo si contraggono in nubi ancora più condensate fino a dare origine a stelle di nuova generazione che possono essere di bassa densità come il Sole o di alta densità. La vita delle stelle di bassa densità è molto lunga e la loro temperatura si mantiene bassa. Nelle nubi fredde di alta densità che le circondano, le molecole si condensano sulla superficie dei grani di polvere cosmica e finiscono per formare pianeti e comete. Queste stelle diventano poi giganti rosse, stadio nel quale cominciano a perdere parte della loro massa che riversano nello spazio sotto forma di pulviscolo interstellare e di molecole, o frammenti di molecole, di dimensioni sempre maggiori. La vita delle stelle ad alta densità è molto più breve e le nubi che le circondano raggiungono temperature relativamente alte, tra i 50 e i 200 K, essendo sottoposte a un alto flusso di radiazione e a onde di shock che facilitano la formazione di nuove specie molecolari. Dopo un tempo relativamente breve le stelle pesanti si trasformano in supernove che esplodono scagliando materia nello spazio. Il ciclo si chiude e un nuovo processo ricomincia.
Secondo alcuni astronomi e astrofisici, la vita sulla Terra è stata propiziata dall’arrivo sul pianeta di frammenti di molecole di importanza biologica, provenienti dallo spazio e trasportati da meteoriti. A partire dalla teoria capostipite (1979) elaborata da Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe, secondo cui nelle nubi interstellari vi sarebbero grandi quantità di involucri batterici e quindi la vita sarebbe nata nello spazio, ne sono seguite tante altre che, sebbene non confermate da dati sperimentali sufficienti, continuano a stimolare la ricerca nello spazio di molecole biologicamente importanti. Negli ultimi anni sono stati raccolti dati sulla presenza di materiale prebiotico nelle comete. Questi corpi celesti sono composti per la maggior parte di sostanze gassose come anidride carbonica, metano e acqua allo stato solido, depositati su aggregati di polvere e di vari minerali. La sublimazione delle sostanze volatili quando la cometa è in prossimità del Sole causa la formazione della chioma e della coda. Recentemente l’analisi di minuscoli grani di polvere della cometa Wild 2, campionati nel 2004 dalla sonda Stardust, ha rivelato la presenza in tracce di molecole organiche come ammine e catene di atomi di carbonio.
Ipotesi a parte, resta il fatto che le nubi interstellari rappresentano laboratori chimici molto particolari che offrono possibilità uniche di seguire percorsi reattivi in condizioni estreme, non realizzabili sulla Terra, e permettono di sviluppare una nuova chimica di singolare interesse dal punto di vista sia concettuale sia applicativo. Diventa così possibile lo studio spettroscopico di specie altamente reattive come lo ione H+3 o di radicali a vita brevissima che nello spazio interstellare riescono a sopravvivere per tempi sufficientemente lunghi, data la bassissima probabilità di scontrarsi con altre particelle.
La chimica molecolare del carbonio
Questa chimica si è sviluppata proprio a partire dallo studio della composizione delle nubi interstellari e in pochi anni è divenuta un capitolo completamente nuovo della chimica moderna che ha portato alla scoperta di molecole con importanti applicazioni industriali e tecnologiche.
Nel 20° sec. il grande sviluppo della chimica organica e della biochimica aveva oscurato le potenzialità della chimica degli elementi. La chimica inorganica, dopo il completamento del sistema periodico con l’aggiunta dei gas e delle terre rare, dopo la scoperta della radioattività e dopo la grande stagione dei composti metallo-organici e di coordinazione, si era lentamente avviata sul viale del tramonto, divenendo essenzialmente una materia propedeutica d’insegnamento, al limite delle attività dei grandi laboratori di ricerca.
La rinascita della chimica inorganica è iniziata nella seconda metà del 20° sec. con le ricerche del chimico inglese Sir Harold W. Kroto (n. 1939), professore presso la University of Sussex di Brighton, che aveva formulato l’ipotesi secondo cui nello spazio potevano esistere catene di atomi di carbonio, prodotto della combustione delle giganti rosse (stelle di grandi dimensioni relativamente fredde la cui atmosfera, formata essenzialmente da idrogeno e azoto, è ricca di carbonio). In collaborazione con il collega David Walton, Kroto iniziò negli anni Settanta un progetto di ricerca volto a individuare catene di carbonio nello spazio interstellare. Una molecola di questo tipo, il cianoacetilene (H−C≡C−C≡N), era già stata osservata spettroscopicamente in grandi nubi interstellari con densità dell’ordine di 103-104 molecole per cm3. Kroto intendeva individuare cianopolieni superiori con catene più lunghe come, per es., H−C≡C−C≡C−C≡N e H−C≡C−C≡C−C≡C−C≡N, che di fatto identificò nel periodo 1975-1978 studiandone gli spettri rotazionali e la struttura.
Per ricreare in laboratorio un’atmosfera simile a quella delle stelle giganti rosse, Kroto ritenne di utilizzare la tecnica dei raggi molecolari avvalendosi della collaborazione dei chimici Richard E. Smalley (1943-2005) e Robert F. Curl (n. 1933) della Rice University in Texas, i quali disponevano di un’apparecchiatura in grado di vaporizzare per ablazione laser sostanze solide all’interno di un sistema a raggi molecolari.
Nell’esperimento di Kroto, Smalley e Curl un plasma di atomi di carbonio a temperature dell’ordine di 10.000 °C venne generato da impulsi laser per ablazione di un disco rotante di grafite. Per raffreddare il plasma di atomi di carbonio che si era formato e portarlo a temperature alle quali gli atomi potessero ricombinarsi tra loro, vennero usati impulsi di atomi di elio raffreddati a bassissima temperatura per espansione supersonica in alto vuoto. Il fascio di atomi di elio trascinava con sé gli aggregati di carbonio formatisi, i quali venivano inviati in uno spettrografo di massa a tempo di volo per determinarne la massa.
L’esperimento effettuato nel 1985 non soltanto confermò la formazione di catene di atomi di carbonio, ma rivelò anche la presenza di molti aggregati di vario peso molecolare, tutti formati da un numero pari di atomi di carbonio.
Kroto, Smalley e Curl, insieme al gruppo di studenti che collaborò all’esperimento, scoprirono che l’intensità delle righe corrispondenti ai vari aggregati dipendeva fortemente dalle condizioni sperimentali. Quando l’impulso laser arrivava in ritardo rispetto a quello degli atomi freddi di elio, si otteneva, una distribuzione grosso modo gaussiana di aggregati, con masse variabili tra 38 e 120 unità, in cui i picchi corrispondenti alle molecole C60 e C70 erano leggermente più intensi degli altri, ma non dominanti. Quando, invece, l’impulso laser arrivava quasi contemporaneamente o, meglio ancora, in leggero anticipo rispetto a quello di atomi freddi, l’intensità dei picchi corrispondenti alle molecole C60 e C70 aumentava sensibilmente. Se poi si lasciava abbastanza tempo agli aggregati di riorganizzarsi e strutturarsi, usando una seconda camera a espansione supersonica, il picco della molecola C60 diventava dominante rispetto agli altri.
L’iniziale ipotesi che la molecola C60, particolarmente stabile, si formasse per riorganizzazione di strati monomolecolari di grafite, fu però rapidamente scartata sulla base di esperimenti codotti con campioni di grafite 12C e 13C puri mescolati insieme, i quali confermarono che gli aggregati si formano da atomi di carbonio liberi e non da strutture preorganizzate.
Una molecola stabile, costituita da 60 atomi di carbonio, non poteva che avere una forma molto compatta. Per ottenere poliedri compatti in tre dimensioni usando poligoni regolari era evidente che bisognasse alternare esagoni e pentagoni, come già Archimede aveva capito duemila anni prima. In effetti una molecola di cui si conosceva la struttura ai raggi X, il corannulene, era proprio costituita da un pentagono circondato da 5 esagoni di atomi di carbonio e aveva la forma di una coppa. Il giapponese Eiji Osawa nel 1970 aveva ipotizzato che potesse esistere una molecola con una struttura sferoidale simile a un pallone da calcio in cui due molecole di corannulene fossero unite insieme da legami C−C. Dopo il loro esperimento Kroto, Smalley e Curl svilupparono questa idea indipendentemente da Osawa, e scelsero per la molecola C60 la struttura di un icosaedro troncato, formato da atomi di carbonio collegati in esagoni e pentagoni (fig. 2). Per la sua forma originale la nuova molecola fu chiamata, su proposta di Kroto, buckminster fullerene, in onore dell’architetto Richard Buckminster Fuller (1895-1983), il quale aveva ideato l’isomorfa cupola geodetica del padiglione americano all’esposizione universale del 1967 a Montréal, in Canada.
La scoperta di Kroto, Smalley e Curl, per la quale ottennero nel 1996 il premio Nobel per la chimica, diede origine a un’intensa produzione di lavori teorici per predire le proprietà e la struttura di questa nuova molecola. Innanzi tutto, l’applicazione della teoria dei gruppi al calcolo della simmetria dei modi normali di vibrazione di una molecola con simmetria icosaedrica chiarì che essa doveva possedere soltanto quattro bande di assorbimento nello spettro infrarosso, come di fatto era stato osservato misurandone lo spettro di assorbimento. Per studiare la chimica del fullerene e per determinarne la struttura ai raggi X era però necessario disporre di quantità sufficienti di prodotto, molto superiori a quelle microscopiche ottenute in un esperimento di raggi molecolari. Nel frattempo due gruppi, uno diretto da Wolfgang Krätschmer al Max-Planck-Institut für Kernphysik (MPIK) di Heidelberg e uno diretto da Donald Huffman presso la University of Arizona a Tucson, avevano collaborato allo sviluppo della tecnica di preparazione di film sottili di carbonio per evaporazione di elettrodi di grafite con scariche elettriche ad arco in ambiente di elio. Nel 1989 fu scoperto che i film di materiale carbonioso contenevano una piccola quantità di materiale diverso che poteva essere estratta con benzene, ottenendo per evaporazione cristalli di colore marrone scuro il cui spettro infrarosso mostrava la presenza delle quattro bande attese per il fullerene C60, più altre bande molto più deboli che furono assegnate alla molecola C70, il secondo fullerene a gabbia con struttura stabile. In realtà, molecole di fullerene si formano ogni volta che si producono aggregati di atomi di carbonio. Per es., piccole quantità di fullereni si trovano nella fuliggine delle candele e sono prodotte nell’atmosfera terrestre da scariche elettriche. Inoltre, aggregati di carbonio si ottengono per decomposizione di metano su superfici metalliche o di vetro per produrre strati di microcristalli di diamante. Oltre a questi ultimi si formano anche strati di carbonio amorfo nei quali sono presenti fullereni di vari tipo.
Iniziata la preparazione di quantità apprezzabili di fullereni, divenne possibile determinarne la struttura ai raggi X, anche se in maniera indiretta. A temperatura ambiente, il fullerene cristallino (fullerite) ha una struttura cubica a facce centrate con molecole di fullerene situate ai vertici della cella elementare e al centro di ogni faccia. Le molecole di fullerene, date le loro dimensioni, lasciano molti spazi vuoti nella cella elementare nei quali si possono introdurre atomi di metalli alcalini. Sono state così create molecole del tipo A3C60 con A=Na, K, Rb e Cs che hanno importanti applicazioni tecnologiche perché sono superconduttori a basse temperature. Questi composti conservano allo stato solido la struttura cubica a facce centrate del fullerene cristallino. Se si inseriscono altri tre atomi di metalli alcalini si arriva ai composti A6C60 che cristallizzano, invece, nel sistema cubico a corpo centrato.
Il numero di fullereni scoperti in pochi anni è notevole, dell’ordine di molte migliaia di molecole differenti. La chimica di queste molecole di carbonio è di grande interesse tecnologico per le loro proprietà elettriche, magnetiche e chimiche. Con reazioni sia di ossidazione sia di riduzione si possono attaccare ai fullereni atomi d’idrogeno, di ossigeno, di alogeno, gruppi metilici, lunghe catene alchiliche e così via. La spettroscopia di massa è stata ampiamente impiegata nello studio dei fullereni e ha permesso di stabilire che oltre al C60 esistono molecole ancora più grandi come il C70, il C76, il C78 e il C84 e anche un gran numero di molecole meno stabili e non a gabbia, alcune con strutture ioniche come le molecole di tipo C+2n, altre a catene ramificate. Fullereni di dimensioni assai maggiori sono in realtà possibili anche se non sono stati ancora identificati. Recentemente calcoli quantomeccanici hanno dimostrato che anche i fullereni C240 e C540 possiedono superfici potenziali stabili e addirittura hanno previsto l’esistenza di C1500 e di C2160.
I fullereni, in particolare la molecola più nota della famiglia, il C60, sono forme allotropiche del carbonio che si sono aggiunte alle due forme standard note da sempre, il diamante e la grafite, con la differenza che mentre queste sono strutture cristalline che ripetono nello spazio la struttura della cella elementare, il fullerene è un’unica molecola. Altre forme allotropiche del carbonio, i nanotubi, sono state poi scoperte durante lo studio dei fullereni e degli aggregati di carbonio amorfo. I nanotubi sono molecole giganti formate anch’esse di solo carbonio, costituite da uno o anche più strati concentrici di strutture grafitiche arrotolati a formare tubicini coassiali di dimensioni di nanometri e perfino di qualche millimetro, dimensioni impressionanti per una singola struttura molecolare. I nanotubi di carbonio sono materiali fondamentali per la microstrumentazione del futuro in virtù delle loro particolari caratteristiche: proprietà elettriche, leggerezza, resistenza meccanica superiore a quella dell’acciaio, capacità di resistere a temperature fino a 2000 °C in assenza di ossigeno, facilità di emettere elettroni in presenza di campi elettrici; proprietà preziose in microtecnologia e microelettronica. Recentemente i nanotubi hanno cominciato a interessare anche i neurofisiologi, in quanto è stato dimostrato che essi possono essere utilizzati per collegare neuroni o per far crescere al loro interno neuroni di lunghezza submicroscopica. Biologi particolarmente ottimisti sperano che queste ricerche possano servire in futuro a realizzare protesi neurali capaci di collegarsi al cervello.
La scoperta dei nanotubi è molto controversa e numerosi ricercatori ne vantano la primogenitura che potrebbe, in futuro, essere consacrata con l’assegnazione del premio Nobel per la rilevanza anche applicativa di tali materiali. L’esistenza di nanotubi concentrici a più strati, segnalata la prima volta nel 1952 (L.V. Raduškevič, V.M. Luk´janovič, O strukture ugleroda obrazujuščegosja pri termičeskom razloženii okisi ugleroda na železnom kontakte, Sulla struttura di carbonio formata da decomposizione termica di monossido di carbonio su substrato di ferro, «Žurnal fizičeskoj chimii», Rivista di chimica fisica, 1952, 26, 1, pp. 88-95), fu documentata nel periodo 1976-77 da una serie di lavori provenienti dal Laboratoire Marcel Mathieu del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) di Angot, curati dalla ricercatrice francese Agnès Oberlin e dai giapponesi Morinobu Endo e Tsuneo Koyama in cui si presentavano fotografie al microscopio elettronico di fibre cave di carbonio di dimensioni del nanometro, ottenute per crescita da vapore. Nel 1979 seguì la pubblicazione di fotografie di nanotubi ottenuti da un gruppo dell’università di Canterbury, in Nuova Zelanda, e nel 1982 apparve sul giornale dell’Accademia delle scienze russe un nuovo lavoro sui nanotubi. I primi nanotubi a monostrato furono invece ottenuti nel 1991 dal giapponese Sumio Iijima alla NEC (Nippon Electric Company) utilizzando la tecnica della scarica ad arco tra elettrodi di grafite in presenza di metalli di transizione come catalizzatori. Nel 1993, indipendentemente da Iijima, anche Donald Stimson Bethune e i suoi collaboratori scoprirono nei laboratori dell’IBM (International Business Machines corporation) a Yorktown Heights (N.Y.) che i metalli di transizione come il cobalto catalizzano la formazione di nanotubi di carbonio a monostrato.
Smalley, avendo colto le enormi potenzialità delle applicazioni tecnologiche offerte dai nanotubi, specialmente per la miniaturizzazione del calcolo elettronico, convinse l’amministrazione della Rice University a creare un centro finalizzato allo studio delle applicazioni dei nanotubi nel campo delle nuove nanotecnologie (CNST, Center for Nanoscale Science Technology, ridenominato successivamente Smalley institute for nanoscale science and technology, in memoria del premio Nobel scomparso). Le ricerche di Smalley, orientate alla sintesi chimica di nanotubi di carbonio e allo studio delle loro proprietà fisiche, portarono allo sviluppo di un nuovo metodo per produrre grandi quantità di nanotubi di ottima qualità per decomposizione dell’ossido di carbonio sotto alta pressione. Da questi sviluppi nacque la compagnia Carbon nanotechnologies, che egli fondò dopo qualche anno.
I nanotubi di carbonio a monostrato possono essere immaginati come formati da un singolo strato di grafite (grafene) avvolto su sé stesso e saldato ai bordi (fig. 3). Quelli concentrici possono invece essere di due tipi: formati da un solo foglio di grafene avvolto su sé stesso a spirale oppure costituiti da vari tubi a monostrato inseriti l’uno nell’altro.
Recenti simulazioni al computer hanno prospettato la possibilità di costruire anche nanotubi di atomi di boro che per alcune applicazioni tecnologiche sarebbero perfino più promettenti di quelli di carbonio. I nanotubi di boro avrebbero strutture più complesse di quelli di carbonio perché un reticolo con celle esagonali non sarebbe stabile: a tal fine al centro di alcuni esagoni sarebbe necessario inserire un atomo extra di boro. Il boro è un elemento utilizzato per drogare microcristalli di diamante impiegati nella costruzione di fotocelle sensibili alla radiazione ultravioletta. Inoltre questi cristalli sono superconduttori a temperatura inferiore a 20 K. La presenza di atomi di boro nel reticolo del diamante lascia pensare che sarebbe possibile creare nanotubi misti carbonio-boro con nuovissime proprietà tecnologiche.
Chimica supramolecolare
Negli anni Settanta del 20° sec. si è sviluppata un’ulteriore direzione d’indagine chimica che ha utilizzato le deboli forze intermolecolari per costruire nuovi tipi di strutture molecolari di grandi dimensioni, invece di limitarsi a progettare molecole con gli atomi collegati da legami covalenti stabili. Le forze che tengono insieme gli aggregati molecolari vanno dalle deboli interazioni di van der Waals, a quelle più forti e direzionali come i legami idrogeno, alle varie interazioni elettrostatiche tra multipoli elettrici localizzati sulle molecole. Modelli teorici di clatrati stabili sono stati proposti da numerosi autori, utilizzando programmi di dinamica molecolare che impiegano potenziali intermolecolari ottenuti da calcoli quantistici, in particolare dal metodo dei funzionali densità.
Strutture composte da più molecole tenute stabilmente insieme da queste forze, permettono di realizzare sistemi molto elastici e deformabili, estremamente importanti per applicazioni tecnologicamente avanzate e per la capacità di riprodurre meglio le complesse strutture biologiche che determinano i processi vitali. La nuova branca della chimica che se ne occupa (chimica supramolecolare) studia la creazione di aggregati di molecole di notevoli dimensioni la cui struttura è finalizzata a specifiche funzioni, spesso biologiche, ed è tenuta insieme dalle interazioni strutturali tra i diversi componenti del sistema.
La chimica supramolecolare, per quanto sia una filiazione diretta e recente della chimica organica, ha origini abbastanza lontane. Si può ritenere, infatti, che un percorso lungo più di due secoli si sia concluso nel 1987 con l’assegnazione del premio Nobel per la chimica a Charles J. Pedersen (1904-1989), Jean-Marie Lehn (n. 1939), al quale si deve la nuova denominazione disciplinare, e a Donald J. Cram (1919-2001). Questo percorso, iniziato con il riconoscimento di aggregati stabili di molecole, passa dalla scoperta dell’idrato di cloro (1810), attraverso la sua rappresentazione in formula bruta del 1923 (Cl2:10H2O), alla fondamentale conferma della stabilità di composti tenuti insieme da forze di van der Waals, effettuata nel 1948 da Herbert M. Powell (1906-1991). Con la diffrazione dei raggi X egli riuscì a dimostrare che anche il β-idrochinone, allo stesso modo degli idrati di atomi o di altre molecole semplici precedentemente scoperte, formava aggregati sia con molte molecole semplici (SO2, HCl, HBr) sia con atomi di gas rari, e che le molecole ospiti erano inglobate nelle cavità del reticolo formato dalle molecole di idrochinone nelle quali erano trattenute dalle forze di van der Waals. Powell propose per questi composti il termine clatrato, derivato dal latino clatratus, che significa «chiuso con inferriata». Questo nome venne successivamente esteso a tutti quei sistemi in cui atomi, oppure molecole, risultano ingabbiati in reticoli più o meno organizzati formati da molecole associate tra loro, con zone vuote che vengono occupate dalle molecole ospiti, tenute ferme dalle forze intermolecolari.
Gli idrati sono clatrati molto diffusi in natura e particolarmente studiati nel settore petrolifero dai geochimici che ne hanno individuato grandi depositi sottomarini contenenti idrocarburi, in particolare clatrati di metano. L’acqua allo stato solido ha due strutture fondamentali, una esagonale (ghiaccio I) e una cubica (ghiaccio Ic). Anche se queste strutture sono relativamente poco dense, gli spazi vuoti nel reticolo non sono sufficientemente ampi per ospitare molecole senza che la struttura si rompa. Negli idrati la disposizione delle molecole di acqua si riorganizza, formando un reticolo cubico (struttura II) con unità locali tetraedriche, costituito da 136 molecole di acqua collegate da legami idrogeno. In questa struttura esistono due tipi di zone vuote, una più piccola con la forma di pentagono dodecaedro (512) di molecole di acqua e una più grande formata da una complessa struttura con 12 facce pentagonali e quattro esagonali (51264). Un altro tipo di struttura (struttura I) è composto di 46 molecole di acqua che formano due cavità a forma di pentagoni dodecaedri (512) e sei cavità più grandi a forma di poliedri con 12 facce pentagonali e due (51262) esagonali. Questi poliedri sono normalmente classificati con numeri che indicano i tipi di poligoni che formano le facce e con apici che indicano il numero di questi poligoni.
Nella letteratura anglosassone è chiamata host la struttura molecolare le cui cavità ospitano le molecole più piccole, dette guest. Le numerose famiglie di composti realizzate in chimica supramolecolare sono classificate con nomi spesso altisonanti e fantasiosi, criptandi, sferandi, templati, carcerandi, semicarcerandi, corone e anticorone ecc., per rappresentare la struttura spaziale delle molecole host e il loro effetto sulle molecole guest. Questi nomi sono oramai divenuti di uso comune nella letteratura scientifica.
Per le applicazioni chimiche, biologiche e farmaceutiche dei clatrati, è di grande importanza la forma delle cavità delle molecole host e la loro corrispondenza con quella delle molecole guest. La forma della cavità deve infatti adattarsi alla struttura della molecola ospite perché l’inserimento sia efficace e stabile, secondo il concetto, detto meccanismo chiave-serratura, sviluppato da Emil Fischer (1852-1919) per spiegare la specificità dell’azione degli enzimi su un substrato, che si adatta bene anche alla corrispondenza tra la forma delle molecole guest e host nel caso dei complessi supramolecolari. Per l’interazione tra molecole host e guest finalizzata alla creazione di strutture supramolecolari complesse è fondamentale il concetto di autoassemblaggio. Al livello di singole molecole non esistono ovviamente pinzette capaci di prendere una molecola e inserirla in maniera opportuna in un’altra. Le strutture complesse sono però in grado di assemblarsi da sole, cioè di autorganizzarsi, grazie alle interazioni intermolecolari che dirigono una molecola verso l’altra, la ruotano opportunamente e la orientano verso la regione molecolare nella quale l’inserimento dell’una nell’altra viene realizzato. Questo effetto di riconoscimento strutturale è chiamato effetto templante ed è determinante per la realizzazione di strutture supramolecolari.
Molte molecole contenenti gruppi O−H o N−H formano zone strutturate in fase liquida che contengono al loro interno cavità vuote di dimensioni notevoli con pareti idrofobiche, capaci di ospitare al loro interno molecole guest che non formano legami idrogeno. In liquidi senza forti interazioni direzionali come i legami idrogeno queste cavità vuote si formano e si distruggono in tempi relativamente brevi, dell’ordine delle decine di picosecondi (10−12 s), tuttavia sufficientemente lunghi, sulla scala dei tempi molecolari, per permettere l’inserimento di molecole guest. Tipiche molecole che formano strutture organizzate di tipo host, ampiamente utilizzate in processi industriali, sono, per es., l’urea, la tiourea e l’idrochinone. L’urea e la tiourea formano al loro interno cavità tubolari di forma elicoidale tenute insieme da forti legami idrogeno capaci di ospitare catene lunghe come quelle degli idrocarburi alifatici. Questi clatrati hanno numerose applicazioni specie nell’industria petrolifera. Anche l’acido trimesico (1,3,5-benzentricarbossilico) forma una struttura con canali in cui possono prender posto molecole lunghe. I canali sono a sezione romboidale e le molecole guest sono praticamente isolate.
Nei clatrati dell’idrochinone (HQ), di cui il primo ospitante molecole di H2S con formula H2S∙4HQ fu preparato da Friedrich Wöhler (1800-1882), si formano cavità di forma quasi sferica nelle quali si sistemano molecole guest di dimensioni modeste come, oltre a H2S, HCl, SO2, CH4, CH3Cl, CH3CH2CN ecc., o atomi di gas rari. A temperature basse le molecole compiono piccole oscillazioni intorno a posizioni fisse, ma al crescere della temperatura cominciano a svilupparsi moti di maggiore ampiezza che portano poi a salti orientazionali nella cavità del tipo di quelli che si osservano nei cristalli plastici. I clatrati di molecole polari in idrochinone possono essere utilizzati per costruire efficienti celle di Pockels per spettroscopia laser a impulsi.
Un altro tipo di composti classificabile come supramolecolare è quello formato da strati bidimensionali di molecole collegate nel piano da legami covalenti, che stringono a sandwich strati di molecole di tipo diverso. Questi intercalati nascono per autoassemblaggio, dall’inserimento di atomi o molecole negli spazi interplanari di composti a struttura lamellare.
Intercalati di vario tipo sono noti in natura da moltissimo tempo in strati sia neutri, come il caolino, sia carichi, come la β-allumina. La chimica dei composti di intercalazione tuttavia si è sviluppata soltanto dopo che Karl E. von Schafhaeutl nel 1840 scoprì gli intercalati di grafite. La chimica di questi composti si sviluppò soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta del 20° sec. per la loro utilizzazione come superconduttori, catalizzatori, elettrodi in batteria ad alta densità, lubrificanti e membrane. Le famiglie di intercalati di grafite ad alta conduttività con pentafluoruri, e quelli con fluoro e metalli alcalini e con bismuto, hanno conducibilità superiore a quella del rame.
In natura esistono anche sistemi cristallini come le zeoliti, che a tutti gli effetti si comportano come supramolecolari disponendo di grandi cavità in grado di ospitare al loro interno ioni e perfino molecole. Le zeoliti naturali sono alluminosilicati con struttura cristallina reticolata, formata da nanocavità occupate da cationi, da anioni e da molecole di acqua, e collegate tra loro e con l’esterno grazie a una rete di canali le cui dimensioni, comprese tra 3 e 10 Å, permettono l’entrata di piccole molecole escludendo quelle più grandi. Per questo motivo vengono spesso chiamate setacci molecolari. A temperatura ambiente, le molecole e gli ioni intrappolati nelle cavità hanno una considerevole libertà di movimento che consente loro di spostarsi con facilità da un sito a un altro. Abbassando la temperatura la mobilità diminuisce fino a che, a temperature molto basse, le molecole o gli ioni si bloccano in siti preferenziali.
Tra le numerose tipologie di zeoliti, molte delle quali di sintesi, in gran numero trovano applicazione in vari settori industriali (per es., petrolchimica, apicoltura, edilizia, trattamento delle acque).
Nello sviluppo della chimica supramolecolare particolare importanza hanno molecole cicliche di grandi dimensioni (macrocicli) che possono ospitare al loro interno molecole di notevoli dimensioni. La conferma che le molecole delle ciclodestrine (α, β e γ), secondo gli studi di Schardinger, appartenevano in termini funzionali e strutturali a questa categoria segnò la strada della sintesi dei macrocicli, dando inizio al vigoroso sviluppo della chimica supremolecolare che condusse Pedersen alla sintesi degli eteri corona, risultato che gli valse il premio Nobel.
Gli eteri corona sono tra i più semplici leganti macrociclici noti e formano una famiglia di polieteri ciclici con un’unità strutturale −O−CH2−CH2− ripetuta più volte, in cui gli atomi di ossigeno, i veri responsabili dell’azione chelante, sono separati da spaziatori formati da gruppi −CH2−CH2− che li tengono a distanza sufficiente per permettere loro di esercitare meglio l’azione qualificante. I doppietti liberi di elettroni degli ossigeni rendono l’interno della cavità fortemente polare e capace di solvatare efficacemente ioni positivi, mentre al contrario la superficie esterna è apolare. Questi composti derivano il nome dal fatto che le loro configurazioni più stabili hanno la forma di una corona (crown). Il diametro della cavità degli eteri corona dipende ovviamente dal numero di atomi che la formano. Gli eteri corona sono classificati in funzione del numero di gruppi −O−CH2−CH2− e del numero totale di atomi che formano la cavità. Cavità formate da 5 gruppi −O−CH2−CH2− per un totale di 15 atomi prendono il nome di [15] crown-5, cavità più grandi formate da 6 gruppi −O−CH2−CH2− prendono il nome di [18]crown-6 e così via (fig. 4). La dimensione degli ioni alcalini che possono entrare nella cavità di un etere corona dipende ovviamente dalla dimensione di quest’ultimo: per esempio, un etere corona 15-crown-5 chela soltanto Na+, mentre quello 18-crown-6 è in grado di chelare il catione K+. L’isolamento degli ioni all’interno della cavità e il bilanciamento della loro carica positiva con quella negativa dei doppietti degli ossigeni permettono di ottenere soluzioni non acquose di composti normalmente insolubili in solventi organici apolari o poco polari.
Gli eteri corona di Pedersen avevano strutture bidimensionali nel senso che lo ione intrappolato si trovava al centro di una corona circolare. Eteri corona con una vera struttura tridimensionale furono sintetizzati alla fine degli anni Sessanta dal francese J.-M. Lehn, professore del dipartimento di chimica dell’Université Louis Pasteur di Strasburgo, che nel 1969 realizzò la sintesi dei criptandi rigidi per la quale fu a sua volta insignito, nel 1987, della massima onorificenza svedese.
Lehn e i suoi collaboratori Bernard Dietrich e Jean-Pierre Sauvage riuscirono, infatti, a sintetizzare eteri corona tridimensionali, di struttura più rigida di quella dei composti di Pedersen, che bloccavano molto meglio i cationi al loro interno. Lehn li chiamò criptandi, nome scelto per mettere in evidenza la capacità di sequestrare cationi come una cripta racchiude una salma. Il primo di tali composti sintetizzato fu il 10-diaza-4,7,13,16,21,24-esaoxabiciclo[8.8.8]esacosano (N[−CH2−CH2−O−CH2−CH2−O−CH2−CH2−]3N), normalmente abbreviato in [2,2,2] criptando. Esso è costituito da tre ponti che collegano i due atomi di azoto; ciascuno di questi ponti contiene due atomi di ossigeno che funzionano da leganti per lo ione che si introduce nella cavità (fig. 5).
Un gran numero di criptandi e di molecole simili è stato sintetizzato in seguito, progettato per assolvere specifiche funzioni nella complessa dinamica dei sistemi in soluzione.
La sintesi dei criptandi è estremamente laboriosa. Tra le varie strade tentate, a dare i migliori risultati è stata quella di usare due catene lineari che posseggono gruppi terminali reattivi per preparare, per ciclizzazione, un etere corona al quale veniva aggiunta una terza catena lineare per creare la struttura tridimensionale. Centrale nell’attività di Lehn fu il ricorso alle tecniche di autoassemblaggio, utilizzando il fatto che supramolecole si formano da sole in soluzione quando un host con cavità adatta incontra un guest di dimensioni appropriate per entrarvi e con la corretta corrispondenza di siti interattivi per minimizzare l’energia. Questa situazione risulta parallela a quella che nei sistemi biologici riguarda l’interazione tra un enzima e un substrato, secondo il meccanismo chiave-serratura illustrato sopra. Particolarmente importanti sono state le ricerche di Lehn sul trasporto di cationi attraverso membrane assistito da supramolecole trasportatrici e sulla catalisi stereospecifica di sistemi chirali, realizzata partendo dall’idea che recettori appropriati possono complessare un substrato e reagire con esso per poi rilasciare i prodotti della reazione rigenerando il ricettore che ritorna in ciclo per una nuova reazione.
Cram, l’altro padre della chimica supramolecolare, consacrato con l’assegnazione in condivisione del premio Nobel nel 1987, estese le ricerche sui macrocicli iniziate da Pedersen alla programmazione di sintesi per progettare molecole capaci di riconoscere e bloccare selettivamente ioni di particolari elementi metallici, realizzati in modo da ottenere cavità concave di dimensione e forma adatte a ricevere le molecole o gli ioni guest con le adatte superfici convesse.
Questo tipo di ricerca prevedeva uno studio accurato delle interazioni in gioco che coinvolgevano la valutazione delle attrazioni di van der Waals, dei legami idrogeno, delle interazioni dipolo-dipolo, di quelle leganti-metallo e di tutte le interazioni idrofobiche. Nello specifico, il gruppo da lui diretto utilizzò al massimo le tecniche di riconoscimento strutturale, in particolare la diffrazione dei raggi X, al fine di studiare le interazioni tra le molecole host e guest per poter separare enantiomeri, analizzare la presenza di tracce di ioni (Li+, Na+, K+ ecc.) in soluzione in liquidi biologici, e per valutazioni su problemi di catalisi. A questo scopo Cram e i suoi collaboratori progettarono e sintetizzarono host preorganizzati con nomi altisonanti quali sferandi, cavitandi e carcerandi. Gli sferandi, progettati da Cram, sono host con una struttura molto rigida formata essenzialmente da anelli aromatici, in cui gli atomi donatori, per es. ossigeni, sono già predisposti a corona pronti a ricevere uno ione metallico di appropriata dimensione. Come i criptandi di Lehn, anche i carcerandi inglobano la molecola ospite completamente, ma in questo caso non esiste possibilità per la molecola, o ione guest, di sfuggire dalla gabbia.
Ingegneria molecolare per nanosistemi
Sistemi di grande complessità che si presentano oggi come la promessa per una microtecnologia a livello molecolare sono i catenani e i rotassani. I catenani sono formati da anelli macrociclici concatenati come quelli di una catena, mentre i rotassani sono formati da un anello macrociclico attraverso il quale passa una molecola a struttura lineare con agli estremi due grosse molecole ingombranti (stoppers) che evitano il suo sfilamento dal macrociclo.
Schematicamente la sintesi di un catenano si realizza facendo prima infilare una molecola lunga e flessibile all’interno di un macrociclo e poi saldando insieme i due estremi. La sintesi di un rotassano inizia anch’essa con la preparazione di una molecola lineare infilata all’interno di un macrociclo, ma prosegue con l’aggiunta degli stoppers agli estremi della molecola.
I catenani e i rotassani si presentano oggi come sistemi molto adatti alla realizzazione di macchine molecolari, cioè di sistemi di dimensioni molecolari capaci di compiere lavoro meccanico. La costruzione di macchine molecolari artificiali fu proposta in maniera del tutto formale e astratta da Richard P. Feynman nel 1959 e ripresa in seguito da Kim E. Drexler, ricercatore del Battelle memorial institute nel campo dell’intelligenza artificiale, che descrisse i principi fondamentali della progettazione di macchine molecolari, di ingegneria dei sistemi proteici e di produzione di nanosistemi (Molecular engineering. An approach to the development of general capabilities for molecular manipulation, «PNAS. Proceedings of the National academy of sciences of the USA», 1981, 78, 9, pp. 5275-78). Nei suoi lavori Drexel sosteneva la possibilità di costruire un nanorobot a livello molecolare capace di assemblare, atomo dopo atomo, qualsiasi sistema molecolare e perfino di autoreplicarsi. Le sue idee furono severamente criticate da Smalley, convinto che la costruzione di nanorobot meccanici autoreplicanti fosse impossibile per gli insormontabili problemi di base che rendono semplicemente irrealizzabile una nanotecnologia fondata sull’assemblaggio di atomi. In effetti gli atomi sono troppo reattivi per poter essere prelevati da una molecola e portati su un’altra, senza attaccarsi alle dita, come scriveva Smalley.
La natura è in grado, però, di costruire, per autoassemblaggio di molecole già precostituite, macchine molecolari estremamente complesse, come la miosina, la dineina e la chinesina, proteine note come motori proteici. La mielina costituisce i filamenti spessi del muscolo scheletrico e con l’actina forma il complesso actomiosina alla base del meccanismo molecolare della contrazione muscolare. La chinesina è una proteina con una testa globulare e una coda costituita da catene proteiche avvolte a spirale che sfrutta l’energia prodotta idrolizzando l’ATP (adenosintrifosfato) per scorrere lungo i microtubuli nelle cellule come su un binario, trasportando vescicole intracellulari oppure anche organelli come i mitocondri. La dineina è coinvolta anch’essa nel trasporto di vescicole, organuli e cromosomi ed entra in gioco nel movimento di ciglia e flagelli batterici e degli spermatozoi.
Questi motori molecolari sono estremamente complessi e per il momento è impossibile raggiungerne il livello. Sono stati tuttavia già realizzati motori molecolari molto semplici utilizzando l’autoassemblaggio di macrociclici e di molecole con una lunga struttura lineare. Sono stati progettati e in parte realizzati oltre un centinaio di motori molecolari ottenuti per autoassemblaggio di rotassani o catenani. In Italia è particolarmente attivo in questo campo il gruppo di fotochimica molecolare dell’Università di Bologna, diretto dal chimico Vincenzo Balzani. Tali complessi usano come combustibile la radiazione elettromagnetica assorbita da parti fotosensibili del sistema che danno origine a processi di ossido-riduzione con spostamenti di elettroni che producono il movimento.
La chimica supramolecolare sintetica promette un grande futuro. La progettazione di nuove strutture altamente specializzate apre infatti la strada alla costruzione di sistemi sempre più vicini all’altissima specializzazione dei sistemi biologici e all’utilizzazione di congegni molecolari per la realizzazione di una nuova generazione di calcolatori elettronici con dimensioni estremamente ridotte.
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