La chimica tra scienza e tecnologia
La storia della chimica non può mai essere una storia puramente disciplinare, perché è continuamente – e fittamente – legata allo sviluppo dell’industria e della società. Il racconto del lungo periodo dall’Unità ai giorni nostri ci permetterà di cogliere molti aspetti di queste forti interazioni, che si realizzarono sia attraverso la mediazione della politica sia in modo diretto, nel classico rapporto università-industria.
Dal punto di vista temporale e in riferimento ai mutamenti del rapporto chimica-società, si possono considerare quattro periodi ben distinti. Nel primo periodo, che va dalla fondazione dello Stato unitario fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, vedremo lo sviluppo di una scuola chimica nazionale e la sua partecipazione alla strutturazione dei presidi scientifici del Paese. Nei trent’anni fra il 1915 e il 1945, la chimica italiana seguì da vicino le vicende terribili vissute da un’Italia dominata da una stupida e violenta politica bellicista, di stampo inizialmente autoritario e poi schiettamente dittatoriale. Alcuni tratti della chimica di questo periodo rimarranno unici, altri invece troveranno il loro compimento nel trentennio successivo, dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1975 circa. Quest’ultima è una data molto ‘sfumata’, meno rigida delle precedenti, essendo riferita a livello internazionale agli esiti della crisi energetica del 1973, e a livello nazionale all’approvazione dei ‘progetti finalizzati’ (1975). Ancor più sfumata è l’espressione fino ai giorni nostri che caratterizza la trattazione dell’ultimo periodo, e che in realtà sarà dedicata alle trasformazioni della chimica italiana negli ultimi decenni del Novecento.
A metà dell’Ottocento era minimo il numero dei chimici italiani che potessero competere sul fronte più avanzato della ricerca. A livello internazionale tutti guardavano agli sviluppi della chimica organica. I suoi capiscuola, il francese Jean-Baptiste-André Dumas e il tedesco Justus von Liebig, erano ancora attivi e accademicamente potenti. I due maestri avevano stabilito con i loro risultati degli standard di valutazione della ricerca, e con questi standard tutti gli altri ricercatori dovevano misurarsi. Così, se anche noi assumiamo un simile riferimento di qualità, vediamo che la pattuglia dei chimici italiani più avanzati non superava la decina di componenti, fra cui i più rilevanti erano Raffaele Piria (1814-1865), che aveva lavorato a lungo nel laboratorio parigino di Dumas, i suoi allievi Stanislao Cannizzaro e Cesare Bertagnini (1827-1857), Ascanio Sobrero (1812-1888) e, infine, Francesco Selmi (1817-1881).
Nel 1851 la tempesta rivoluzionaria del 1848 si era acquietata in tutta Europa, ma le sue conseguenze politiche gravavano sui chimici italiani che avevano partecipato alle insurrezioni o alla guerra contro l’Austria a dispetto dei propri governanti. Cannizzaro e Selmi erano esuli politici in Piemonte, con incarichi di insegnamento nei collegi nazionali di Alessandria, il primo, e di Torino, il secondo. Dopo aver lasciato Palermo nell’aprile del 1849, Cannizzaro si era rifugiato a Parigi, dove aveva potuto continuare il suo apprendistato sperimentale collaborando con Stanislas Cloëz, ed era tornato in Italia nel febbraio 1851, per poi assumere la docenza di fisico-chimica e meccanica applicata alle arti ad Alessandria. A seguito della sua intensa azione politica Selmi aveva dovuto abbandonare il Ducato di Modena, a Torino era stato accolto dall’amico Sobrero e impartiva al Collegio nazionale della capitale subalpina lo stesso insegnamento di Cannizzaro. Piria e Bertagnini avevano combattuto a Curtatone, e, anche se per la sua notorietà internazionale Piria aveva salvato la cattedra, i suoi spazi di manovra all’Università di Pisa si erano ristretti di molto.
L’evento più importante del 1851 fu senza dubbio l’Esposizione internazionale di Londra, che celebrava la supremazia mondiale dell’Inghilterra vittoriana e i trionfi della scienza e della tecnologia – le travi portanti dell’imperante ideologia del progresso. Fra i tanti visitatori dell’Esposizione giunti dal continente vi furono anche Piria e Bertagnini, che nell’occasione fecero un viaggio eccezionale, non tanto per la meta quanto per la compagnia e le conoscenze che acquisirono lungo il tragitto. I dettagli del viaggio si possono ricavare dalla corrispondenza di Bertagnini con Cannizzaro; essi tratteggiano un quadro interessante della collocazione di Piria nella comunità internazionale. Partiti da Pisa, all’andata Piria e Bertagnini incontrarono Cannizzaro ad Alessandria, a Milano attesero inutilmente il grande fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti (respinto alla frontiera del Lombardo-Veneto), a Basilea discussero di chimica con Christian Schönbein (lo scopritore del fulmicotone) e, giunti a Giessen in Germania, dove insegnava Liebig, furono immediatamente coinvolti da quest’ultimo nella sua intensa vita sociale. Esito inatteso fu il fatto che Liebig propose ai due chimici italiani di proseguire insieme a lui il viaggio verso Londra per poter avere maggior comodo di conversare, e la nuova amicizia si confermò gratificante. A Londra fu nella residenza londinese del maestro di Giessen che Piria e Bertagnini poterono fare conoscenza dei massimi esponenti della comunità chimica britannica, da Thomas Graham ad Alexander W. Williamson, da Edward Frankland ad August W. von Hofmann. Sulla via del ritorno, Piria e Bertagnini si incontrano con Dumas che, secondo la testimonianza di Bertagnini, voleva bene a Piria come a un figlio (R. Piria, Appunti sull’industria chimica: dai viaggi in Inghilterra del 1851 e del 1862, a cura di L. Paoloni, 1995).
Pur nella diversità delle circostanze, il viaggio di Piria e Bertagnini nel 1851 richiama quello che faranno nel 1858 Enrico Betti, Francesco Brioschi e Felice Casorati in Francia e in Germania, con lo scopo precipuo di ‘europeizzare’ la matematica italiana. In entrambi i casi i ricercatori italiani colsero la necessità della collaborazione-competizione internazionale e la rilevanza dei rapporti personali anche in campo scientifico.
Più di una volta i destini della chimica italiana furono condizionati dalla politica, e sicuramente questo fu il caso dell’ascesa sulla cattedra genovese di Cannizzaro e della chiamata di Piria sulla cattedra torinese.
Cannizzaro aveva potuto attrezzare un buon laboratorio chimico nella sede del Collegio nazionale di Alessandria, con l’appoggio totale della municipalità, un fortunato omaggio all’ideologia del progresso che qui era impersonata da un ceto politico di centro-sinistra devoto a Urbano Rattazzi. Nel suo laboratorio privato Cannizzaro aveva scoperto la reazione di dismutazione delle aldeidi aromatiche che porta il suo nome, e ne aveva tratto una notorietà internazionale con una serie di note inviate alla rivista «Annalen der Chemie und Pharmacie», diretta dall’onnipresente Liebig. Cannizzaro aveva in mano delle buone carte scientifiche, però nell’assegnazione della cattedra genovese nell’autunno del 1855 pesò anche il suo passato antiborbonico e il suo presente di militante laico.
Chiarissimo fu l’intervento politico per la cattedra assegnata a Piria all’inizio del 1856. Piria era un candidato eccellente, tuttavia aveva come concorrente Sobrero, notissimo per la scoperta della nitroglicerina e fortemente appoggiato dagli accademici piemontesi. In effetti il Consiglio superiore della pubblica istruzione indicò Sobrero come assegnatario della cattedra, ma il ministro Giovanni Lanza ignorò l’autorevole parere del Consiglio e preferì affrontare il re Vittorio Emanuele II, piuttosto riluttante a firmare il decreto di nomina di Piria. Lanza vinse la resistenza del re esponendo le finalità politiche di un’operazione che il mondo accademico piemontese viveva come un attacco proditorio alla sua autonomia:
Io esposi minutamente i motivi che m’avevano indotto a quella decisione, ed erano che, oltre al maggior merito del Piria, come degli altri da me proposti per altre cattedre, doveva aversi riguardo alle considerazioni politiche; che il regno sardo rappresentava l’Italia, e doveva considerare virtualmente come suoi concittadini tutti gl’Italiani; che bisognava prima conquistare l’Italia moralmente per agevolare il compito delle armi, quando l’occasione si presentasse (cit. in A. Romizi, Storia del Ministero della Pubblica Istruzione, 19022, pp. 185-86).
Pure non priva di sfumature politiche fu la vicenda che portò Cannizzaro a scrivere uno dei contributi più importanti nella storia della scienza. A Genova il giovane cattedratico si era ritrovato privo di attrezzature sperimentali, e, nelle more dell’attesa di strumenti, vetrerie e reattivi, l’assegnazione della cattedra genovese era stata criticata dal quotidiano torinese «L’Armonia», organo dell’ala conservatrice del cattolicesimo piemontese. Piria si era allarmato, e aveva imposto all’allievo di mandare «qualcosa» al «Nuovo Cimento», la rivista pisana di fisica che egli dirigeva insieme al fisico Carlo Matteucci. Così Cannizzaro pubblicò un lungo saggio teorico, privo di qualsiasi dato sperimentale originale, dal titolo Sunto di un corso di filosofia chimica fatto nella R. Università di Genova: lettera al Prof. S. De Luca («Nuovo Cimento», 1858, 7, pp. 321-66). Nel Sunto, Cannizzaro determinava magistralmente il peso atomico degli elementi attraverso un uso dirimente dell’ipotesi di Avogadro e della legge di Dulong e Petit. Ne risultava la proposta di cambiare i pesi atomici in uso per ben 19 elementi, fra cui ossigeno, carbonio, silicio, ferro. Se a livello disciplinare si trattava di uno sconvolgimento che andava dalla chimica organica alla mineralogia, l’impatto scientifico dello scritto di Cannizzaro andò ben oltre i confini della chimica.
La sorte assegnò a Cannizzaro un palcoscenico straordinario per esporre le proprie teorie atomico-molecolari. Su iniziativa del tedesco Friedrich August Kekule (o Kekulé) e del francese Charles-Adolphe Wurtz, nel settembre 1860 si svolse a Karlsruhe in Germania un congresso internazionale di chimica che aveva come temi proprio le questioni teoriche affrontate da Cannizzaro nel Sunto. Al congresso, fu assegnata a Cannizzaro fin dall’inizio una posizione privilegiata, segno che il Sunto aveva già trovato dei lettori attenti. Chimici di prestigio come l’inglese William Odling rimasero scettici di fronte alla riforma cannizzariana, altri ne furono totalmente convinti. Fra questi spiccano i nomi dei due fondatori del sistema periodico degli elementi, il tedesco Lothar Julius Meyer e il russo Dmitrij I. Mendeleev: i loro contributi (pubblicati nel 1871 e nel 1872) stabilivano una volta per tutte una classificazione ordinata degli elementi che consolidava in modo irreversibile la realtà degli atomi e nello stesso tempo poneva una fitta serie di problemi. Il fatto che questi problemi furono risolti solo molti decenni più tardi, con la scoperta del numero atomico nel 1914 e con l’avvento della meccanica quantistica negli anni Venti del Novecento, dimostra la potenza d’urto della struttura teorica proposta da Cannizzaro.
Dopo l’Unità, nell’autunno del 1861 Cannizzaro si trasferì a Palermo, e la storia della chimica italiana cominciò ad assumere un carattere più corale e meno episodico. Si trattò della costruzione di una scuola nazionale di chimica, di cui furono promotori infaticabili lo stesso Cannizzaro e il suo precoce e prediletto allievo Emanuele Paternò (1847-1935). Paternò ebbe una carriera fulminea: nel 1871, a 24 anni, non solo ottenne la cattedra di Torino pochi mesi dopo la laurea, ma senza aver messo piede nel capoluogo subalpino ebbe un istantaneo trasferimento a Palermo, per occupare il ruolo lasciato libero dal suo maestro. Infatti in quell’anno Cannizzaro era stato chiamato a Roma per contribuire al progetto tutto politico di fare di questa città una grande capitale della scienza, dopo essere stata per lunghissimo tempo la sede del potere temporale e religioso dei papi. Al progetto parteciparono altri scienziati, come il fisico Pietro Blaserna e il fisiologo Jakob Moleschott. In tempi diversi Cannizzaro, Blaserna e Moleschott divennero senatori del Regno, indice anche questo che il binomio progresso-scienza era preso come insegna da buona parte della classe dirigente liberale.
L’importanza storica della nascita di una scuola nazionale di chimica è fuori discussione. Possiamo considerare la scuola di Cannizzaro e Paternò da diversi punti di vista, perché essa svolse un ruolo rilevante sia nel mondo accademico e scientifico sia in quello, politicamente più difficile, delle istituzioni dello Stato.
Una mossa importante in direzione della formazione di una comunità chimica estesa al territorio nazionale fu la fondazione di un giornale scientifico che potesse accogliere la migliore produzione scientifica dei chimici italiani. Occorreva superare la frammentazione dovuta alla miriade di atti delle accademie, che accoglievano di tutto un po’, e imporre uno standard di qualità di livello internazionale. A Firenze il 29 settembre 1870, quasi in coincidenza con la breccia di Porta Pia, un drappello di chimici, capitanato da due maestri, Cannizzaro e il tedesco Hugo Schiff (docente a Firenze), decise di pubblicare un giornale dalla testata inusuale: la «Gazzetta chimica italiana» non faceva riferimento a società scientifiche come il britannico «Journal of the Chemical society» e i tedeschi «Berichte der deutschen chemischen Gesellschaft», e nemmeno alla disciplina come i francesi «Annales de chimie et de physique» o i citati «Annalen der Chemie und Pharmacie». Era a un tempo un atto di orgoglio nazionale e di speranza scientifica, e in effetti il giornale conquistò rapidamente un posto rilevante nella letteratura internazionale.
Ben presto la «Gazzetta» diventò la bandiera prestigiosa della scuola di Cannizzaro e dei suoi alleati accademici. Alla fine dell’Ottocento gli allievi di Cannizzaro ricoprivano metà delle cattedre italiane di chimica, con un quadro complessivo piuttosto interessante. Raffaello Nasini (1854-1931) studiò le proprietà ottiche (potere rotatorio, indice di rifrazione) dei composti organici, Paternò introdusse in Italia i metodi di indagine crioscopica avviati dal francese François-Marie Raoult. Il campo sterminato della chimica organica era quello maggiormente coltivato dai chimici di tutta Europa, e la scuola di Cannizzaro ebbe in questo territorio consolidato uno scienziato d’avanguardia. Giacomo Ciamician, nel laboratorio di Cannizzaro e nelle sedi di Padova e Bologna, aprì nuovi orizzonti alla chimica organica, effettuando ricerche sul pirrolo e la piridina e diventando successivamente uno dei fondatori della fotochimica con interpretazioni magistrali delle complesse reazioni attivate dalla luce solare. Roma fu un polo di attrazione irresistibile anche per chimici già avviati a buona fama. Quando fu chiamato nella capitale nel 1893, Arturo Miolati (1869-1956) aveva iniziato con il chimico svizzero Alfred Werner un’indagine elettrochimica estremamente innovativa perché mirata alla determinazione di aspetti strutturali dei complessi dei metalli di transizione.
Nel primo decennio del Novecento venne alla ribalta una nuova generazione di ricercatori, molti dei quali prepararono inediti composti organici con sintesi abili ed eleganti. Questa linea di ricerca era stata inaugurata in Italia mezzo secolo prima da Cannizzaro con la scoperta degli alcoli aromatici; successivamente – e per molti anni – il maestro si era impegnato nella determinazione della struttura della santonina. La santonina è il principio attivo antielmintico contenuto in diverse specie di piante del genere Artemisia, ed era appunto la ricerca sulla struttura delle sostanze naturali che costituiva lo sviluppo più promettente della chimica organica. Dopo Cannizzaro la chimica organica italiana si attestò fermamente sulla chimica di sintesi, un settore che senza la creatività di Ciamician perse la funzione di avanguardia scientifica.
All’indomani dell’Unità, il compito di amalgamare in una nazione un mosaico di stati e staterelli appariva (ed era) immane. Non sempre la classe dirigente liberale si dimostrò adeguata al compito di pilotare il Paese verso un’unità non solo territoriale e verso una vera modernizzazione dello Stato e della società. Per parte loro, i chimici diedero un contributo notevole, imperniato sulla promozione costante di presidi scientifici in tutti i settori economici e sociali in cui la chimica era essenziale. Una creatura di Cannizzaro fu il Laboratorio centrale delle gabelle, fondato nel 1886 e poi diretto per molti anni da Vittorio Villavecchia (1859-1937), allievo dello stesso Cannizzaro e cultore di fama internazionale della merceologia. Un primo risultato di questo laboratorio fu la messa in mora, mediante un metodo polarimetrico, di una facile frode fiscale perpetrata dall’industria saccarifera, che importava, con un basso dazio, zucchero già raffinato ma opportunamente colorato per farlo sembrare zucchero greggio.
L’intera comunità dei chimici agì sulle autorità locali e nazionali per la fondazione di stazioni sperimentali (ad es., per l’agricoltura o per l’enologia), di istituti tecnici (anche come premessa a studi universitari scientifico-tecnologici) e di laboratori chimici municipali (impegnati principalmente nella lotta contro le sofisticazioni alimentari). Quest’ultimo tipo di istituzioni locali ebbe uno sviluppo notevole dopo la legge di riforma sanitaria del 1888, voluta da Francesco Crispi, e realizzata sulle linee volute dal medico igienista Luigi Pagliani e da Cannizzaro, che della legge crispina fu relatore al Senato. Una conseguenza della legge fu l’apertura del Laboratorio della sanità, dipendente dal ministero dell’Interno e lontano preludio del futuro Istituto di sanità pubblica.
Nel periodo qui considerato, dall’Unità alla Prima guerra mondiale, le strutture scientifiche dello Stato si adeguarono, sia pur lentamente, a un livello europeo, e tuttavia rimaneva in modo impressionante una differenza fra un Centro-Nord in via di sviluppo e un Sud continentale lasciato a se stesso, come se non facesse parte della stesso Stato. Possiamo ritrovare una traccia precisa di questo miserabile stato di cose in un evento che coinvolse al massimo livello la comunità nazionale impegnata nell’ambito scientifico e civile del Paese.
Nel 1900, in occasione dell’Esposizione universale di Parigi si era tenuto un grande congresso internazionale di chimica applicata; nel 1903 Berlino ospitò il congresso successivo e Roma fu scelta come sede del congresso del 1906. Era un grande onore, se si pensa alle grandi capitali ospiti degli eventi precedenti, e al fatto che successivamente a ricevere i chimici di tutto il mondo furono Londra (1909) e New York-Washington (1912). Era consuetudine che le diverse comunità nazionali nominassero comitati organizzatori alquanto sovrabbondanti, con un’interpretazione ‘muscolare’ della competizione scientifica. L’Italia non fu da meno. Alla base della struttura organizzativa del congresso del 1903 vi fu un gigantesco Comitato generale di circa 250 membri, divisi sul territorio in comitati regionali. I membri appartenevano all’istruzione superiore, alla pubblica amministrazione e all’industria. Il tentativo di una rappresentatività nazionale è evidente, con un esito che però non può nascondere la mancata unificazione culturale ed economica del Paese. Accorpando i risultati nelle grandi aree regionali emerge la condizione terribile del Mezzogiorno continentale (per vari motivi le Isole erano in una situazione diversa). Su un totale di 116 accademici, il Nord ne totalizza 53, il Sud 11; su 73 rappresentanti dell’industria, 34 risiedono al Nord, 5 al Sud. Ma il dato che più colpisce riguarda gli uomini della pubblica amministrazione, 27 in tutto: 12 lavorano nel Nord della penisola, 12 al Centro (che si presenta come la sede burocratica per eccellenza), 3 nelle Isole, e nessuno nel Sud. Per le sue attività tecnico-scientifiche lo Stato non era ancora arrivato nel Mezzogiorno.
Un altro punto debole dell’Italia risiedeva nello scarso sviluppo dell’industria chimica, i cui prodotti principali erano ancora al servizio dell’agricoltura (concimi, solfato di rame). Fu in questo settore arretrato che Guido Donegani (1877-1947) iniziò la sua carriera di imprenditore abile e spietato (nei confronti dei lavoratori), quando nel maggio 1910 diventò amministratore delegato della Società anonima delle miniere di Montecatini. Nello stesso anno realizzò l’assorbimento dell’Unione piriti e compì così il primo passo verso il monopolio nella produzione di acido solforico e di concimi fosfatici. I venti dell’innovazione scientifico-tecnologica soffiavano altrove, e anche in questo caso, come nel divario Nord-Sud, possiamo riferirci a un evento preciso. Dopo una lunga ed estenuante gestazione, la costruzione a Rosignano dello stabilimento per la produzione della soda Solvay iniziò nel settembre 1913. L’innovazione del belga Ernest Solvay, che aveva sconvolto l’interno comparto dell’industria chimica inorganica, giungeva quindi in Italia esattamente mezzo secolo dopo la fondazione in Belgio della società Solvay & Cie (1863) e quasi trent’anni dopo che il tedesco Ludwing Mond aveva avviato il primo stabilimento britannico con il processo Solvay (1874). Questa debolezza industriale in tempo di pace sembra contrastare con l’imponenza dello sforzo bellico seguito al ‘fatidico’ maggio 1915, quasi si fosse aspettato di accollare i rischi imprenditoriali a una nazione impegnata allo stremo in una terribile, sanguinosissima guerra.
Il secondo periodo che abbiamo preso in considerazione va dall’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 al termine della Seconda guerra mondiale nella primavera del 1945. Furono tre decenni vissuti in un clima di guerra guerreggiata e di guerra auspicata, di aspre lotte sociali e di vergognosi cedimenti sulle libertà civili, di adesione di massa al fascismo e di permanente discriminazione razziale. Per la comunità dei chimici furono anni sovraeccitati, i cui tratti positivi devono essere estratti da un contesto di entusiastica adesione al regime fascista.
In realtà, ancora nei primi mesi del 1915 i chimici italiani erano largamente attestati su una posizione neutralista, alla testa della quale era Paternò, politicamente influente poiché senatore del Regno. Spingevano verso la neutralità sia la comunanza culturale con la chimica di lingua tedesca, sia la consapevolezza che in una guerra basata sull’industria chimica l’Italia si sarebbe trovata rapidamente a mal partito. In ogni caso dopo che nel maggio 1915 in Senato era risuonato il grido osceno «Viva la guerra! Viva l’Italia», i chimici si impegnarono con decisione e abnegazione in tutti i settori in cui era richiesta la loro presenza. Le ricerche usuali furono in gran parte abbandonate, molti si dedicarono a indagini sugli aggressivi chimici, sia per la difesa, sia per l’offesa. Nell’Istituto di chimica farmaceutica dell’Università di Napoli, diretto da Arnaldo Piutti (1857-1928) furono prodotte 236 tonnellate di cloropicrina, un lacrimogeno. Altri parteciparono alla ricerca di materie prime e di risorse da impegnare nello sforzo bellico. Fra questi spicca la figura di Nasini, che nel 1919 pronuncerà parole di fuoco contro gli ostacoli burocratici frapposti alle iniziative in favore della mobilitazione industriale, e che durante la guerra si adoperò per l’estrazione di elio dai soffioni boraciferi. Molto più efficace fu l’azione di Ettore Molinari (1867-1926), una figura del tutto eccezionale nel panorama fino ad allora un po’ smorto dell’impegno politico dei chimici.
Di consolidata cultura tedesca (studi al Politecnico di Zurigo e laurea a Basilea nel 1889), Molinari divenne il nostro migliore chimico industriale, e come tale durante la guerra fu direttore scientifico dello stabilimento a Cengio della Società italiana prodotti esplodenti. Sotto la sua direzione lo stabilimento vide l’avvio di processi di produzione avanzati, come quello dell’acido solforico concentrato prodotto per catalisi eterogenea. Il tratto singolare di questa situazione è che Molinari era un attivo e dichiarato anarchico, e di conseguenza era costantemente pedinato dalla polizia e sorvegliato dai carabinieri. Anche durante la guerra scrisse e parlò contro la guerra, fino al plumbeo silenzio censorio seguito a Caporetto.
Se il mare di sangue versato durante la guerra non cambiò le idee di Molinari, così non fu per molti dei suoi colleghi, accademici e non. Alla tonalità liberaleggiante, consona alle origini borghesi e postrisorgimentali, del ‘vecchio’ gruppo dirigente, alla fine della guerra si contrappose una nuova élite, convinta da una certa interpretazione del grande conflitto appena terminato che la chimica e l’industria chimica avrebbero prosperato in Italia solo con una guida autoritaria, dentro l’accademia e nella società.
Nel maggio 1914 i chimici avevano unificato le loro organizzazioni sindacali in un unico ente, l’Unione laureati in chimica. Molinari, il professore anarchico, fu a capo dell’Unione in un dopoguerra segnato dalle lotte sociali nel Nord industriale. Quando, alla fine dell’agosto del 1920, gli operai cominciarono a occupare le fabbriche, all’interno dell’Unione si realizzò una insanabile frattura. Il 4 ottobre Molinari assunse personalmente la direzione e la responsabilità politica dell’Unione, ma dieci settimane più tardi l’intero gruppo dirigente fu rovesciato dagli oppositori raggruppati dalla sezione di Milano e capeggiati da Livio Cambi (1885-1968).
Seguì un processo di ‘pulizia’ anche nelle altre associazioni professionali: nel marzo 1921 Molinari, il più noto chimico industriale italiano, fu rimosso dal consiglio della Società di chimica industriale di Milano, e in aprile Nasini, troppo critico sulla conduzione industriale della guerra, non fu rieletto nel consiglio dell’Associazione italiana di chimica. Entrambe le associazioni cambiarono la maggioranza dei membri dei rispettivi consigli, e fra i ‘nuovi’ nomi comparvero Cambi, Donegani, Piero Ginori Conti, Francesco Giordani, Nicola Parravano, Cesare Serono – gli industriali e gli scienziati che, insieme a Giuseppe Bruni (1873-1946), avrebbero svolto il ruolo dei protagonisti all’interno della chimica sotto il regime fascista. I dirigenti della comunità dei chimici italiani si allinearono all’estrema destra prima dell’ottobre 1922.
L’ordalia della guerra aveva impartito al Paese diverse ‘lezioni’, pagate al caro prezzo della morte di 700.000 giovani. Tra queste ‘lezioni’ c’era quella che anche in Italia era possibile un’industria chimica moderna, con conseguenze importanti nella ricerca e nell’industria.
Bologna diede il segnale più forte in favore della trascuratissima chimica applicata. Nell’anno accademico 1921-22 iniziò l’attività la Regia Scuola superiore di chimica industriale, annessa all’Università di Bologna e alla Scuola superiore di ingegneria; nel 1935 (l’anno dell’aggressione all’Etiopia e delle sanzioni) essa si trasformò in facoltà di Chimica industriale. Nel 1926, contestualmente alla fondazione della facoltà di Scienze a Milano, fu attivato il corso di laurea in chimica industriale; di entrambe le novità fu protagonista Cambi, uno dei più brillanti allievi di Ciamician. Tuttavia l’interesse dei chimici verso la chimica industriale non si riversò soltanto nell’ambito istituzionale delle università, dove avrebbe potuto anche rimanere ‘inerte’ rispetto allo sviluppo economico, ma si riversò spesso nel più concreto rapporto diretto con le imprese e con la produzione.
Durante la guerra era emersa la drammatica necessità di ottenere grandi quantità di azoto ‘fissato’ in funzione dell’immane domanda di esplosivi. Nell’immediato dopoguerra, l’Italia, unica fra le nazioni in competizione, fu in grado di offrire sul mercato mondiale ben due processi per la sintesi dell’ammoniaca, laddove grandi potenze come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non ne proposero alcuno. Luigi Casale (1882-1927) e Giacomo Fauser (1892-1971) giunsero indipendentemente a brevettare processi innovativi rispetto al ‘canone’ tedesco stabilito nell’anteguerra da Fritz Haber e da Karl Bosch. Nella primavera del 1919, Casale aveva messo in funzione nello stabilimento Rumianca, presso Domodossola, un impianto semindustriale capace di produrre un quintale al giorno di ammoniaca anidra. Nel 1921 veniva fondata, con capitale misto italiano e americano, la Società Casale ammonia, che negli anni successivi costruì impianti in tutto il mondo. Il primo impianto in Italia entrò in funzione nel 1921, a Nera Montoro (Terni), una località scelta per la disponibilità dell’energia elettrica necessaria per produrre idrogeno elettrolitico. Fauser aveva costruito a Novara un impianto pilota nella fonderia paterna, e all‘inizio del 1921 l’impianto era entrato in funzione. L’immediato interesse di Donegani si concretò il 31 maggio 1921, quando tra Fauser e la Montecatini venne costituita la Società elettrochimica novarese per la produzione di ammoniaca e acido nitrico. Similmente al processo Casale, anche gli impianti Fauser ebbero un successo mondiale. Nei successivi tre decenni Fauser continuò la collaborazione con la Montecatini, dimostrando nel contempo di essere un ingegnere chimico di grande creatività.
Molti altri chimici ebbero relazioni intense con l’industria, talvolta senza ricoprire ruoli accademici come fu per Casale e Fauser; fu questo anche il caso di Ettore Viviani, esperto di cellulosa e raion. Tutto sommato, possiamo dire che la quasi totalità dei chimici italiani più rilevanti sul piano della ricerca avevano rapporti con qualche settore industriale. Parravano (1883-1938), un chimico che aveva fatto ricerche sui difficilissimi sistemi a tre e quattro componenti, fondò per conto della Breda un Istituto per lo studio dell’alluminio e dei metalli leggeri. Fin dal 1917 Bruni aveva stretto rapporti con la Pirelli, assumendo la direzione del laboratorio per indagini sulla gomma, naturale e di sintesi. Cambi stabilì un solido rapporto con la Monteponi e l’Edison, e conseguì numerosi successi nel campo dell’elettrometallurgia delle miscele zinco/ piombo (tre impianti fra il 1921 e il 1927) e del cadmio (due impianti, nel 1930 e 1937). Giordani (1896-1961) in collaborazione con l’ingegnere e imprenditore Umberto Pomilio, mise a punto una cella elettrolitica a diaframma, che ebbe un certo successo anche all’estero.
In questo contesto si collocano due altre figure che ebbero un ‘destino industriale’ molto diverso. Il fisico e geochimico Gian Alberto Blanc (1879-1966) fin dal 1918 aveva elaborato un processo per l’utilizzazione delle rocce leucitiche al fine di estrarre allumina, potassa e silice notevolmente pure, e nel 1920 aveva fondato la Società italiana potassa, che era divenuta in Italia la concessionaria delle miniere di leuciti. Il processo Blanc fu esaltato oltremodo dalla comunità scientifica italiana, sia per la provenienza disciplinare dell’inventore sia per i suoi meriti politici di fascista ‘antemarcia’. Dopo vari tentativi di parziale industrializzazione del processo da parte dello stesso Blanc, nel 1926 la Aluminium company of America fondava la Società prodotti chimici nazionali con lo scopo di utilizzare le leuciti per la produzione di allumina e potassa, secondo i brevetti Blanc, di cui aveva acquistato l’esclusiva. L’avvio della produzione nello stabilimento di Aurelia (presso Civitavecchia) richiedeva un notevole impiego di capitali, ma l’accordo con la Società italiana potassa era destinato a fallire, e malgrado il successivo intervento dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), un certo interesse della Montecatini e ulteriori tentativi di produzione, nel 1937 i procedimenti Blanc venivano definitivamente accantonati.
Meno arrischiata e ben più ricca di risultati positivi fu l’attività di Giulio Natta. Ingegnere chimico e allievo di Bruni, nel periodo qui considerato Natta ottenne una serie di successi, di cui il primo, la sintesi catalitica a livello industriale dell’alcool metilico, fu certamente il più clamoroso. Nel 1929, a ventisei anni, in seguito a ricerche strutturistiche con i raggi X Natta riuscì a individuare un catalizzatore adatto alla produzione sintetica del metanolo e non coperto da brevetti della tedesca IG Farben (Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie), che fino ad allora ne aveva detenuto il monopolio. Nel 1932, con la Montecatini, Natta realizzò la sintesi e la polimerizzazione della formaldeide; infine, nel 1942 mise a punto la preparazione del butadiene a partire dall’alcool etilico e nell’ambito dell’allestimento di uno stabilimento a Ferrara della Pirelli per la produzione di gomma sintetica.
Qui è il momento di fare un’osservazione generale sulla politica autarchica di cui grandi protagoniste furono la chimica accademica e l’industria chimica. Su entrambi questi versanti vi furono contraddizioni stridenti fra le parole e i fatti. Un grosso volume dal titolo La chimica in Italia fu pubblicato nel 1938 a cura di Parravano, in occasione del decimo Congresso internazionale di chimica pura e applicata tenuto a Roma nel maggio di quell’anno. In questo volume, i maggiori esponenti della comunità dei chimici garantivano a Benito Mussolini e al regime fascista che tutto andava per il meglio, in ogni singolo comparto dell’industria chimica. Questi stessi chimici non potevano non sapere che ogni anno giungevano alla Suprema commissione di difesa rapporti dettagliatissimi che dimostravano due cose: che l’Italia era impreparata per una guerra di lunga durata e che gli industriali baravano in ogni modo possibile, ignorando sia i consorzi obbligatori sia le disposizioni sull’import-export. Così una parte rilevante della classe dirigente lasciava il destino della nazione nelle mani di un Mussolini che, avendo accettato l’Anschluss (l’annessione dell’Austria da parte della Germania, avvenuta nel marzo 1938), aveva reso irreversibile l’alleanza con i nazisti e inevitabile la guerra.
Nella seconda metà degli anni Trenta, l’entusiasmo dei chimici per il regime fu condiviso da molti altri scienziati e da larghe masse di cittadini. In generale si attribuivano alla dittatura i tratti positivi del Paese, tratti che appartenevano in gran parte al processo di modernizzazione già avviato dai governi liberali. In ogni caso, nei due decenni fra le due guerre mondiali la situazione della ricerca chimica in Italia era cambiata notevolmente, sia in conseguenza dello sviluppo dell‘industria, sia per l’intervento diretto dello Stato nel finanziamento della ricerca. L’apporto dell’industria chimica si realizzò a pieno solo nella seconda metà degli anni Trenta e vide (finalmente) la Montecatini impegnata nella creazione di laboratori in grado di alimentare una buona ricerca interna all’impresa. Nel novembre 1934 furono inaugurati il Laboratorio di chimica organica a Cesano Maderno e il Laboratorio di chimica inorganica a Novara. Quest’ultimo metteva a disposizione di Fauser una potente strumentazione per lo studio dell’idrogenazione ad alta pressione (1000 atmosfere). Il progetto di ricerca era strettamente connesso alla politica autarchica, e nel 1937 Fauser pubblicò l’immagine di un impianto sperimentale per l’idrogenazione dell’olio albanese, ormai pienamente funzionante con torri di idrogenazione alte tre metri. Nel 1939 iniziò a operare l’Istituto sperimentale metalli leggeri, dotato di una strumentazione adeguata a compiti di ricerca avanzati.
Negli anni precedenti, spesso per iniziativa congiunta di consorzi privati e dello Stato, era nata una moltitudine di istituti, enti e stazioni sperimentali, e tuttavia non si era realizzata una vera ‘rete’ di ricerca nazionale. In questa direzione era completamente mancato al suo compito il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), un organismo nato dagli sforzi di coordinamento degli scienziati dei Paesi alleati durante la Grande guerra. Per un lungo periodo il CNR aveva gestito solo i rapporti internazionali, eppure fin dal suo effettivo insediamento (1927) il suo direttorio, presieduto da Guglielmo Marconi, si era dato come primo punto della propria attività il coordinamento delle ricerche scientifiche nel nostro Paese. Il mancato coordinamento era in gran parte dovuto alla mistura di potere accademico e potere politico che guidava i principali istituti universitari e le altre istituzioni che, spesso, non erano altro che appendici degli istituti con la funzione essenziale di acquisire qualche forma di finanziamento.
Nel 1929 Mussolini in persona aveva cercato di smuovere le acque stagnanti del CNR, dando sfogo a un certo livore nei confronti dei professori universitari, troppo distanti dai bisogni della nazione, e chiedendo a gran voce il soccorso degli industriali. Seguendo l’imperiosa direttiva, Giovanni Morselli (1875-1958), consigliere delegato e direttore generale della Carlo Erba, raccolse l’ingente somma di un milione di lire e la portò ‘in dote’ a Parravano, presidente del Comitato per la chimica del CNR. Il ‘fondo Morselli’ costituì per molti anni una risorsa essenziale per l’addestramento e l’aggiornamento professionale dei chimici, perché Parravano lo utilizzò principalmente per mandare giovani ricercatori a specializzarsi all’estero. Per quanto riguarda i finanziamenti ordinari, per molti anni Parravano seguì la pratica ‘indolore’ dei contributi assegnati ‘a spaglio’; solo nel maggio 1938 ebbe la forza di sottrarsi alle pressioni accademiche e fece una scelta radicale, assegnando a Natta esattamente il 70% dei fondi disponibili. Nel pieno della mobilitazione dei chimici per la realizzazione della politica autarchica, nel Comitato per la chimica avvenne quindi una specie di miracolo, un fatto isolato, dovuto al prestigio straordinario di Natta, che mai più si sarebbe realizzato nella lunga storia del CNR.
Parravano morì il 10 agosto 1938; il Manifesto della razza era stato pubblicato il 14 luglio. Parravano era al culmine del suo potere, nel mondo accademico, nel CNR e in quanto presidente della Federazione nazionale fascista degli industriali dei prodotti chimici. Quest’ultima carica (assegnata a un accademico!) indicava a un tempo che Parravano era un uomo di fiducia del regime e che l’associazione degli industriali chimici era stata commissariata in funzione della politica autarchica. Ci sono pochi dubbi sul fatto che Parravano, se non fosse morto prematuramente, avrebbe taciuto come tutti gli altri chimici davanti allo scempio disumano delle leggi razziali, ma in modo riservato avrebbe cercato di mantenere al servizio della nazione gli scienziati di origine ebraica espulsi dalle università. In realtà sappiamo che Mario Giacomo Levi (1878-1955), direttore dell‘Istituto di chimica industriale del Politecnico di Milano e massimo esperto italiano di carburanti, lasciò la cattedra ma mantenne stipendio e ruolo direttivo nell’annessa Stazione sperimentale dei combustibili fino agli eventi del 1943, quando dovette rifugiarsi in Svizzera. Ben diverso fu il destino di altri due ordinari: Ciro Ravenna (1878-1944) e Leone Maurizio Padoa (1881-1944), entrambi della scuola di Ciamician, furono catturati dai nazifascisti e morirono ad Auschwitz.
Quando gli alleati entrarono a Roma (giugno 1944), ben 24 cattedre della Sapienza erano occupate da esponenti fascisti di varia caratura, compresi personaggi come il fisiologo Sabato Visco, che aveva firmato il Manifesto della razza, e il chimico Felice De Carli, che aveva compiuto una brillante carriera, fino all’ordinariato e oltre, operando più come fascista che come ricercatore. È noto che la cosiddetta ‘epurazione’ si risolse in una farsa; nel caso di De Carli, ai commissari della Commissione centrale per l’epurazione parve una adeguata sanzione la privazione dello stipendio per la durata di tre mesi. Il documento assolutorio è datato 21 marzo 1945, mentre a Nord ancora si combatteva e si moriva per liberare il Paese dai fascisti e dai nazisti.
Con grande rapidità il mondo accademico tornò alla ‘normalità’, salvo accogliere con dichiarata ostilità chi, come il chimico organico Michele Giua, aveva pagato con sette anni di carcere e una lunga clandestinità l’impegno antifascista. La ‘normalità’ di cui si può parlare è però soltanto quella, strettamente accademica, della ‘presa’ sulle cattedre e del controllo del CNR, con i finanziamenti ben orientati secondo le discipline e le ‘scuole’ locali.
A livello internazionale la scienza europea aveva perso il primato detenuto ancora fra le due guerre nella fisica e nella chimica. All’emigrazione forzata degli scienziati di origine ebraica si erano sommate le devastazioni della guerra, mentre proprio lo sforzo bellico aveva fatto sì che la fisica nucleare facesse passi da gigante negli Stati Uniti e che la chimica rinnovasse completamente i suoi metodi sperimentali. Oltre oceano, durante il conflitto erano diventate di routine misure condotte con le spettroscopie nel visibile, nell’ultravioletto e nell’infrarosso, e con la spettrometria di massa. Si trattava di strumentazioni chimico-fisiche prima confinate in laboratori ultraspecializzati, e che messe a disposizione dei chimico-fisici e dei chimici organici stavano letteralmente sconvolgendo le pratiche di laboratorio.
I chimici italiani risposero alle nuove sfide in vario modo, favoriti talvolta da una certa collocazione istituzionale o da un particolare rapporto con l’industria, o ancora mossi da un vigoroso spirito d’avventura scientifica. Questo schema tripartito, piuttosto semplificato, può essere utile per vedere più da vicino alcuni aspetti della chimica italiana nei primi decenni dopo la Liberazione.
Grazie agli interventi decisivi di Domenico Marotta, all’Istituto superiore di sanità (ISS) era stato risparmiato il disastro di un trasferimento forzato al Nord. L’ISS era stato creato nel 1934, sotto il nome di Istituto di sanità pubblica (mantenuto fino al 1941), e fin dal 1935 ne era diventato direttore Marotta, uomo competente e potente, capace nello stesso tempo di sostenere le ricerche di Enrico Fermi (al di là dei propri compiti istituzionali) e di organizzare in ogni modo il consenso nei confronti del regime.
Durante la ricostruzione postbellica due chimici diedero grandi contributi servendo lo Stato in importanti sedi, nazionali e internazionali. In epoca fascista, Giordani aveva assolto vari incarichi di direzione industriale e nel 1939 era diventato presidente dell’IRI, carica mantenuta fino a quando fu nominato presidente del CNR (1943-44). Figura di rilievo internazionale, anche in campo finanziario, dal 1952 al 1956 fu presidente del Comitato nazionale per le ricerche nucleari. Per parte sua, Marotta fece sì che l’ISS diventasse un centro di ricerca di importanza mondiale. In primo luogo sfidò il monopolio angloamericano della produzione di penicillina chiamando a Roma dalla Gran Bretagna Ernst Chain (premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1945), che era riuscito a ottenere l’isolamento dell’antibiotico in condizioni ottimali e che collaborò alla costruzione di un impianto pilota contiguo alla sede dell’istituto. Alle ricerche di Chain nel campo delle penicilline semisintetiche si affiancarono quelle dei biochimici Daniel Bovet, Filomena Nitti Bovet (1909-1994) e Giovanni Battista Marini Bettolo (1915-1996) sui curari di sintesi. Bovet, svizzero per nascita e cittadino italiano dal 1947, ricevette il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1957.
Abbiamo visto che nel ventennio fascista furono molto intensi i rapporti fra i chimici accademici e il mondo dell’industria; durante la ricostruzione uno di questi rapporti crebbe di importanza, fino a diventare l’asse portante dello sviluppo industriale e della ricerca chimica nel nostro Paese. La collaborazione fra Natta e Pier Candiano Giustiniani (1900-1988), fino al 1945 direttore generale della Montecatini, nacque dopo un comune viaggio negli Stati Uniti nella primavera del 1947. Lo scienziato e l’imprenditore tornarono in Italia convinti che l’accesso alla nuova strumentazione fosse la chiave per avviare le ricerche chimiche più avanzate. Natta ricevette dalla Montecatini notevoli finanziamenti e, ‘in cambio’, nel suo istituto del Politecnico di Milano addestrò una serie di ricercatori destinati ai laboratori industriali.
La collaborazione tra Natta e Giustiniani (rientrato nel 1949 alla Montecatini e diventatone uno degli amministratori delegati) conobbe una svolta sul piano internazionale nel 1952, quando il chimico italiano stabilì un patto di cooperazione con il tedesco Karl Ziegler per lo studio di catalizzatori per la polimerizzazione delle olefine. Nel 1953 Ziegler ottenne la sintesi del polietilene in condizioni eccezionalmente favorevoli. Con uno scarto conoscitivo che risultò vincente, Natta spostò l’attenzione del suo gruppo sulla polimerizzazione del propilene. In realtà la ‘scoperta’ del polipropilene, avvenuta nel marzo del 1954, non ebbe nulla di accidentale. Memore delle sue origini come strutturista, Natta era interessato alla cristallinità dei polimeri, e il suo eccellente gruppo di lavoro seguì la traccia della cristallinità per isolare e caratterizzare il nuovo polimero, così ordinato da poter essere definito isotattico (ossia ‘egualmente ordinato’). All’industrializzazione del processo di sintesi del polipropilene parteciparono in egual misura i ricercatori dell’industria e dell’accademia, e questo fatto fu decisivo per superare gravi difficoltà, legate non solo alla totale novità delle reazioni in gioco ma anche al fatto che i catalizzatori che furono detti di Ziegler-Natta erano estremamente nocivi e pericolosi (si incendiavano al contatto con l’aria). Natta vinse il Nobel per la chimica nel 1963, la Montecatini si inoltrò con decisione nel campo della chimica organica pesante, e in tutto il Paese si verificò un eccezionale sviluppo della chimica macromolecolare.
Negli anni di fervore innovativo seguiti alla scoperta del polipropilene, la Montecatini compì scelte che si dimostrarono decisive per la sua stessa esistenza. In primo luogo dobbiamo considerare l’avventura americana, perché di una vera avventura si trattò. Nel settembre 1955 Carlo Faina, allora uno degli amministratori delegati della Montecatini, propose per l’azienda un insediamento industriale negli Stati Uniti per la produzione di polivinile. Contrasti politici all’interno della Democrazia cristiana ritardarono gli investimenti, così solo nel 1959 fu avviata la costruzione di impianti per la produzione di polipropilene, e nel 1961 gli impianti furono inaugurati. Ma la Montecatini si trovò ad affrontare gravissime difficoltà, per responsabilità proprie (la rete commerciale negli Stati Uniti) e altrui (una concorrenza impropria secondo il metro europeo). Si può dire che l’avventura americana sia fallita perché la legge statunitense sui brevetti è una legge asimmetrica; c’è infatti la possibilità che un’impresa locale contesti un brevetto concesso a stranieri purché nei laboratori dell’impresa siano state fatte ricerche analoghe, ottenute prima della presentazione del brevetto contestato. In buona sostanza, le imprese statunitensi riuscirono ad azzerare il valore dei brevetti sul polipropilene della Montecatini. Questo volle dire che la concorrenza contro la Montecatini si attivò negli Stati Uniti fin dall’inizio dell’investimento italiano in quel Paese.
Nel marzo 1959 venne lanciato il progetto della costruzione di un grande stabilimento petrolchimico a Brindisi; anche questo progetto si rivelò un punto debole per la Montecatini. Per portarlo a compimento c’era stato anche un raccordo importante tra la Montecatini e la società petrolifera anglo-nederlandese Royal Dutch Shell, e tuttavia fu sbagliata la programmazione dello sviluppo temporale degli impianti, in particolare per la localizzazione in un’area priva di infrastrutture adeguate. L’indebolimento finanziario della Montecatini fu grave, e gravissime furono le conseguenze, a cui faremo cenno più avanti.
Si è già detto che nel secondo dopoguerra il rinnovamento della chimica italiana si realizzò anche nel mondo accademico, attraverso la manifestazione di un certo ‘spirito d’avventura’, che spinse alcuni giovani ricercatori in direzioni ancora inesplorate nel nostro Paese. Fra questi filoni di indagine si può privilegiare quello della chimica teorica per almeno due motivi: il carattere nettamente non tradizionale e il successo internazionale. Uno dei promotori fu il chimico-fisico Giovanni Battista Bonino (1899-1985), che aveva nutrito un interesse verso gli sviluppi della chimica quantistica fin dagli anni Trenta e che a Bologna diresse a lungo il Centro studi di chimica fisica e idrologica del CNR, trasformandolo in un vivaio di eccellenti chimico-fisici e chimici teorici. Il fisico Eolo Scrocco (1916-2012), prima di passare nel laboratorio di Bonino si era formato scientificamente come ‘sperimentale’ nel gruppo romano che era stato di Fermi. Nel 1955 fu chiamato alla cattedra di chimica fisica all’Università di Pisa. Nel centro di Bonino operò anche il fisico Oriano Salvetti (1924-2007), che si orientò fin dall’inizio delle sue ricerche sull’uso di metodi ab initio per la soluzione di problemi tipicamente ‘chimici’ come gli stati elettronici (dell’etilene e del gruppo carbonilico. Nel 1962 ottenne la cattedra di chimica teorica presso l’Università di Pisa. Salvetti e Scrocco fondarono nel 1968 l’Istituto di chimica quantistica ed energetica molecolare del CNR.
Ma non fu soltanto Bologna a promuovere la chimica teorica; infatti i percorsi di Giuseppe Del Re (1932-2009) e di Leonello Paoloni (1920-2011) furono del tutto diversi. Del Re si laureò nel 1953 in fisica a Firenze e nel 1957 in chimica a Napoli (sua città natale), e già nel 1958 propose il metodo per il calcolo delle cariche atomiche in molecole organiche che lo avrebbe consacrato chimico teorico di fama internazionale. Nel 1969 fu chiamato alla cattedra di chimica teorica all’Università di Napoli. Le vicende di Paoloni ci richiamano drammaticamente alla storia del nostro Paese. Nel 1942, mentre era iscritto al terzo anno di chimica alla Sapienza, fu chiamato alle armi, e dopo l’8 settembre 1943 si unì alla Resistenza romana. Dopo la liberazione di Roma riprese gli studi e si laureò in chimica nel dicembre 1944; per un certo periodo associò il lavoro con gli studi del corso di fisica. Nel 1950 fu assunto all’ISS, si laureò in fisica nel 1953 e nello stesso anno iniziò una serie di studi in chimica quantistica all’estero, soggiornando prima a Parigi e Londra e poi (dal marzo 1957 al maggio 1958) a Pittsburgh negli Stati Uniti, collaborando intensamente con Robert Parr, uno dei massimi chimici teorici di quegli anni. Del Re e Paoloni non potevano non incontrarsi, e nell’ottobre 1962 fondarono il Gruppo di chimica teorica del CNR. Nel 1968 Paoloni lasciò l’ISS per ricoprire la cattedra di chimica quantistica all’Università di Palermo.
La figure di Del Re e di Paoloni spiccano nel panorama della chimica italiana anche per i loro profondi interessi culturali. Gli interessi di Del Re spaziavano dalla filosofia della chimica al rapporto tra fede religiosa e scienza; Paoloni diventò un esponente di livello internazionale della didattica della chimica e diede contributi fondamentali alla storia della chimica in Italia.
Il percorso seguito dalla chimica italiana dopo la crisi energetica della metà degli anni Settanta diventò più difficile di quanto fosse stato nel periodo precedente, dominato dall’impegno nella ricostruzione e dagli entusiasmi suscitati dalla scoperta del polipropilene nel 1954 e dal premio Nobel a Natta nel 1963. Da una parte, nel mondo universitario rimasero tutte le frammentazioni accademiche, incardinate su una difesa a oltranza dei confini disciplinari; dall’altra, nel mondo industriale si assistette al declino rovinoso e inarrestabile della Montecatini dopo la trasformazione in Montedison. Quest’ultimo tratto del nostro percorso inizierà proprio con uno stringato resoconto delle vicende dell’industria chimica.
A partire dalla metà degli anni Sessanta il destino della grande industria chimica in Italia fu segnato da un ‘gioco’ perverso, a cui parteciparono finanza pubblica e finanza privata, le ‘grandi famiglie’, e le correnti della Democrazia cristiana e del Partito socialista. La pesante situazione finanziaria travolse Giustiniani nel 1963, proprio mentre la nazionalizzazione del sistema di produzione e distribuzione dell’energia elettrica metteva enormi capitali a disposizione di Giorgio Valerio, presidente e amministratore delegato dell’Edison, l’impresa dominante nel settore. Valerio era orientato a un reinvestimento nel settore dell’auto, ma in un incontro segreto del 1965 Gianni Agnelli, Leopoldo Pirelli e Giorgio Macerata (uno degli amministratori delegati della Montecatini) gli fecero cambiare idea, e il 7 luglio 1966 nacque la Montecatini Edison (dal 1969 Montedison) con a capo Valerio. Le condizioni (politiche) della fusione furono molto laboriose; tra l’altro alla nuova impresa fu imposto l’abbandono di tutte le collaborazioni internazionali. Non solo si verificò un’ingente perdita di capitali e di competenze, ma emersero due questioni fondamentali, concatenate fra loro. La cultura ingegneristica del nuovo gruppo dirigente si scontrava con la cultura chimica, incardinata nella ‘vecchia’ Montecatini, e privilegiava l’acquisto di know-how sul mercato internazionale piuttosto che il ricorso alla ricerca interna all’impresa, che nella Montecatini allineava importanti strutture come l’Istituto Donegani di Novara e i laboratori di Cesano Maderno, Ferrara e Terni. In realtà la ‘partita’ era appena cominciata. I ministri democristiani Vittorino Colombo e Giorgio Bo mossero l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) e l’IRI in una scalata finanziaria alla Montedison, e dopo alterne vicende nel 1971 Eugenio Cefis lasciò la guida dell’ENI per assumere quella del colosso chimico.
Il ‘regno’ di Cefis durò fino all’aprile del 1977, e fu segnato da una sconsiderata e impropria ‘competizione’ in Sardegna con la SIR (Società Italiana Resine) di Nino Rovelli. Ciascuno dei due contendenti aveva dalla sua parte un pezzo di Democrazia cristiana e un pezzo di Partito socialista, così che sono condivise dalla politica e dall’imprenditoria le responsabilità di questa ‘guerra chimica’, finita con il fallimento della SIR e con gravi perdite finanziarie della Montedison. L’assetto proprietario della Montedison cambiò nuovamente nel 1981 con il ritorno in grande del capitale privato di Agnelli, Pirelli e Anna Bonomi, e alla fine del 1982 ENI e Montedison siglarono un accordo per la ‘spartizione’ delle produzioni nel campo della chimica organica pesante. Il tempo delle ‘scalate’ non era finito. L’azionariato di maggioranza cambiò a mano a mano la sua denominazione, e nel 1987 Raul Gardini del gruppo Ferruzzi diventò il socio di comando. Nel 1988 ENI e Montedison conferirono alla joint-venture Enimont le proprie attività in campo chimico. Questa presunta ‘alleanza’ fra capitale pubblico e capitale privato finì con uno dei peggiori scandali della storia italiana, perché la cessione della totalità delle attività chimiche della Montedison all’ENI (per una cifra enorme) fu accompagnata da una serie di gravissimi episodi di corruzione a livello giudiziario e politico (fino al travolgimento della ‘prima repubblica’).
A partire dalla caduta di Giustiniani nel 1963 iniziò la decomposizione di quel colosso industriale che era stato la Montecatini. A ogni cambio di proprietà si realizzarono gravi perdite di competenze e riorientamenti strategici che penalizzarono pesantemente la ricerca – e non solo all’interno della grande industria. Dopo una gestazione durata un quinquennio, nell’ottobre 1975 il Comitato interministeriale per la programmazione economica approvò i ‘progetti finalizzati’ del CNR, destinati ad alimentare e coordinare nuovi rapporti fra scienza accademica, tecnologia e industria. La procedura interna al CNR, che doveva formulare il progetto finalizzato sulla chimica fine e secondaria, fu avviata nel dicembre 1975. Con una lentezza esasperante, segno di profonde divisioni all’interno della comunità dei chimici, il progetto diventò esecutivo solo nel secondo semestre del 1980. Il conteggio delle unità operative afferenti al progetto porta alla cifra esorbitante di 673, distribuite fra università (373), CNR (132), industria ed enti vari (168). La frammentazione della ricerca nell’università e nel CNR è impressionante, anche se in parte è lo specchio dell’estrema specializzazione richiesta dalla ricerca chimica contemporanea.
Nel 1985 furono pubblicati vari bilanci del progetto finalizzato sulla chimica fine e secondaria: in tutti si segnalava che la distanza fra mondo accademico e mondo produttivo non era stata colmata, date le permanenti incertezze strategiche nella grande industria chimica, e in alcuni si denunciava il fatto che molte ricerche erano state ‘applicate’ solo di facciata, in quanto il rapporto fra pubblicazioni e brevetti era stato di undici a uno, mentre in Germania nel settore privilegiato della chimica macromolecolare era praticamente di uno a uno.
Quando si parla di ‘frammentazione’, occorre comunque ricordare che negli ultimi decenni la ricerca chimica si è estremamente specializzata e che un’intensa rete di rapporti internazionali ha permesso ai chimici italiani di mantenere una posizione di rilievo nel contesto della comunità chimica europea. Tuttavia non si può negare che in Italia vi sia stata un’interpretazione tutta accademica della specializzazione. Fino all’inizio degli anni Ottanta in molte sedi universitarie il motto accademico dei chimici fu «cento cattedre, cento istituti» (a Torino si giunse ad avere otto istituti di chimica di varia denominazione). La formazione dei dipartimenti fu avviata con una legge fin dal febbraio 1980, ma l’accorpamento degli istituti in dipartimenti procedette con grande lentezza, e nella stragrande maggioranza dei casi si trattò di una ‘unione’ puramente amministrativa, che non toccava gli indirizzi di ricerca e gli equilibri di potere preesistenti. Continuarono a esserci punti di eccellenza, come il gruppo di chimica teorica di Torino, impegnato nello studio delle superfici e dei solidi e guidato dal fisico Cesare Pisani (1938-2011), ordinario di chimica quantistica dal 2001, e come il Centro di risonanza magnetica nucleare di Firenze, fondato nel 1999 da Ivano Bertini (1940-2012), uomo di punta nel panorama della bioinorganica internazionale.
Fin dall’Unità, come accademici, professionisti o industriali, gli uomini della chimica sono stati parte integrante della classe dirigente e ne hanno seguito da vicino le sorti – con una intensità forse maggiore di quanto avvenuto per altri comparti del sapere scientifico, più lontani da interessi sociali ed economici immediati. Da questo punto di vista, la chimica diede il meglio di sé in due distinti periodi, nei decenni seguiti all’Unità e durante la ricostruzione seguita alla Seconda guerra mondiale, con riferimenti diversi: soltanto lo Stato nel primo periodo, e Stato e industria nel secondo. Stato e industria furono pure i riferimenti dei chimici nei trent’anni dal 1915 al 1945, ma l’asservimento alle finalità del regime fascista fu tale che si spuntarono successi solo nel settore della chimica industriale. E non si può in nessun modo dimenticare che l’intera classe dirigente sostenne un regime apertamente dittatoriale, applicò diligentemente le leggi razziali, e non si oppose alle rinnovate ‘imprese’ militari di Mussolini. Più sfumata è la valutazione per quanto riguarda gli ultimi decenni. Svanito il senso dello Stato, la classe dirigente italiana ha assunto un indirizzo ideologico a cui si è dimostrata inadeguata: il riferimento al mercato internazionale è diventato dominante, senza che fossero date adeguate risorse alle strutture civili, alla scienza e alla tecnologia. Senza più Stato e grande industria come interlocutori, i chimici hanno condiviso la scelta di mercato della classe dirigente. Ovviamente per i chimici, e per gli altri scienziati italiani, si è trattato del mercato internazionale della conoscenza, dove tuttora si collocano in buona posizione. La storia della chimica in Italia è, in filigrana, la storia della classe dirigente del nostro Paese.
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