Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento la chirurgia subisce numerose trasformazioni: si afferma l’idea di équipe di specialisti (chirurghi, anestesisti e personale paramedico) che favorisce la cooperazione e il lavoro di squadra; si presta attenzione alla complessità della relazione tra operazione e organismo e si preferisce interpretare la chirurgia come disciplina medica volta al reimpianto di organi piuttosto che all’asportazione. Nell’evoluzione delle tecniche chirurgiche un ruolo non secondario hanno giocato le due guerre mondiali con gli interventi di urgenza, così come le scoperte chimiche, lo sviluppo della diagnostica e lo sviluppo delle neuroscienze, dell’immunologia e della medicina rigenerativa. Restano tuttavia di scottante attualità problematiche di natura metodologica ed etica.
La chirurgia tra Ottocento e Novecento: dall’antisepsi listeriana alla chirurgia endocrina
La chirurgia, per secoli una pratica di cura manuale efficace, benché poco formalizzata e subordinata alla medicina interna, subisce spettacolari mutamenti nel corso dell’Ottocento. Già alla fine del Settecento, specialmente in Scozia e in Francia, i chirurghi si emancipano sul piano della formazione e dello status professionale, ottenendo dapprima la creazione di scuole specializzate e in seguito l’equiparazione ai medici, con cui avrebbero da allora in poi condiviso la formazione universitaria. Tappe essenziali dello sviluppo tecnico e scientifico della chirurgia ottocentesca sono state la scoperta e l’applicazione dell’anestesia (a partire dagli anni Quaranta del secolo) e l’introduzione di procedure volte a ottenere l’antisepsi (la disinfezione di oggetti già infetti) e l’asepsi (la sterilizzazione preventiva) nel teatro operatorio – una conquista legata ai nomi dell’ungherese Ignaz Philipp Semmelweiss (1818-1862) e dello scozzese Joseph Lister (1827-1912). Le scoperte di Louis Pasteur e di Robert Koch avrebbero poi confermato l’esattezza delle intuizioni del primo e delle scoperte del secondo.
Alla fine dell’Ottocento la chirurgia si presenta al grande pubblico come una parte della medicina in rapido avanzamento tecnico. I chirurghi più avvertiti tengono conto dei risultati della ricerca medica sperimentale, in particolare di quelli relativi alla fisiologia, all’anatomia patologica e alla microbiologia, e iniziano a utilizzare la statistica ai fini del controllo e della comunicazione dei risultati clinici ottenuti. La scoperta e l’applicazione alla medicina di nuovi importanti mezzi di indagine diagnostica – tra i quali le tecniche radiografiche – coadiuvano il lavoro del chirurgo.
La necessità della cooperazione tra chirurghi, anestesisti e personale paramedico ha portato, nel corso della prima metà del Novecento, al superamento della figura del chirurgo-demiurgo, brillante detentore di un talento personale non trasmissibile, a favore del lavoro di squadra e della formalizzazione del gesto chirurgico in procedure ripetibili, che possono diventare oggetto di apprendimento. L’ospedale è stato lo spazio privilegiato di questa trasformazione, segnata dal tramonto del chirurgo generalista a favore della specializzazione nei diversi settori determinati dalla localizzazione dell’organo o degli organi sottoposti a intervento operatorio (neurochirurgia, chirurgia oculistica e otorinolaringoiatrica, del torace e cardiovascolare, dell’addome, ginecologica, urologica, ortopedica, endocrina).
La principale novità teorico-scientifica della chirurgia del Novecento rispetto a quella dei secoli precedenti è rappresentata dal superamento della concezione localistica della malattia, di cui i chirurghi erano stati i massimi fautori, contribuendo allo sviluppo dell’anatomia patologica; da Giambattista Morgagni a Rudolf Virchow (1822-1902). Il chirurgo si era infatti occupato per secoli dei mali visibili all’esterno del corpo (dalle fratture alle bruciature, dalle malattie della pelle ai “tumori”) e anche quando, a fine Ottocento, aveva “conquistato le diverse cavità del corpo” (Ulirch Troehler) aveva continuato a ritenere che il proprio campo d’azione fosse limitato all’estirpazione o alla cura di una patologia localizzata. Nel Novecento si afferma invece l’idea che anche una ferita o un trauma non possono essere affrontati soltanto sul piano locale, ma vanno visti come attentati all’omeostasi e all’equilibrio metabolico generale dell’organismo, e come attivatori di processi immunitari complessi. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, lo svizzero Theodor Kocher (1841-1917), uno dei primi chirurghi a fare uso dell’antisepsi listeriana, e uno dei massimi del suo tempo, scopre che la maggior parte dei pazienti che egli aveva trattato con successo estirpando loro la tiroide sviluppa sintomi di cretinismo e apatia in seguito all’operazione. Nonostante Kocher attribuisca questo esito a danni alla trachea e alla respirazione, si fa strada una riconsiderazione degli effetti a lungo termine e sull’intero organismo delle operazioni chirurgiche.
Nella chirurgia degli ultimi decenni del Novecento l’azione chirurgica va evolvendosi da una concezione incentrata sull’estirpazione della parte o delle parti malate del corpo all’idea di ricostruzione, sostituzione o reimpianto delle parti lese, con la chirurgia dei trapianti al primo posto, anche nella mentalità comune. Anche negli interventi di ablazione o eliminazione di parti lese la tendenza è sempre più frequentemente rivolta – quando possibile – a interventi non invasivi.
Chirurgia di guerra
La guerra ha da sempre rappresentato una drammatica occasione di progresso per la chirurgia, costretta a confrontarsi con le innovazioni nelle armi e nelle ferite o patologie da esse provocate, con i problemi di organizzazione dell’intervento sanitario d’urgenza e con le conseguenze a lungo termine dei conflitti. Il chirurgo, non il medico, è di solito chiamato a operare al fronte. La prima guerra mondiale ha contribuito a far chiudere il lungo XIX secolo anche nella chirurgia. Il trattamento delle ferite è stato studiato e migliorato: il francese Alexis Carrel (1873-1944), che nel 1912 avrebbe ricevuto il Nobel per le sue tecniche operative sui vasi sanguigni e sui trapianti di pelle e di organi, ha applicato su vasta scala i risultati della batteriologia nella disinfezione e nella cura dei feriti di guerra (metodo di Carrel-Dakin).
La guerra ha indotto anche uno sviluppo della chirurgia plastica e della ricerca sulle ustioni e sul trapianto della cute, oltre che sulle patologie causate dall’uso di gas e altre sostanze tossiche.
Ovviamente un’ampia parte delle ricerche svolte durante le guerre mondiali sono state rivolte alle tecniche di trattamento delle fratture. In Italia la riorganizzazione del servizio sanitario militare durante la prima guerra mondiale e la necessità della cura e del reinserimento dei militari mutilati ha dato notevole impulso allo studio dell’ortopedia: Vittorio Putti (1880-1940) è stato attivo a Bologna all’Istituto Rizzoli, uno dei centri di eccellenza della ricerca chirurgica e ortopedica in Italia; Antonio Ceci (1852-1920) ha innovato la tecnica della preparazione del moncherino degli arti amputati per far agire la massa muscolare direttamente sulla protesi sostitutiva dell’arto.
La fine della prima guerra mondiale, con la catastrofe dello Stato tedesco, ha contribuito a dislocare la geografia della ricerca in chirurgia, che ha assunto un carattere internazionale, con una preminenza, dal secondo dopoguerra in poi, della chirurgia statunitense.
Evoluzione delle tecniche e della strumentazione
Nei primi decenni del Novecento sono state elaborate tecniche e innovazioni negli strumenti volte a migliorare la condizione del paziente e a evitare lo shock chirurgico, una complicazione molto frequente nelle operazioni più complesse. Tra queste vanno ricordate l’attenzione prestata alle condizioni fisiologiche del paziente durante l’operazione, e innovazioni come il tavolo operatorio riscaldato o lo studio sulla posizione del paziente durante l’operazione. Ma è stata l’anestesia che ha avuto il maggiore sviluppo negli anni tra le due guerre: l’introduzione di nuovi narcotici e l’utilizzazione della tecnica dell’intubazione endotracheale hanno consentito operazioni più lunghe e delicate; d’altro canto, lo sviluppo della farmacologia e dell’anestesia per via intramuscolare ed endovenosa ha consentito operazioni locali rapide e sicure.
Negli ultimi decenni lo sviluppo ulteriore delle tecniche diagnostiche non invasive, effettuate con metodi fisici (ecografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica, tomografia a emissione di positroni) o con sonde introdotte nell’organismo (endoscopia, laparoscopia) ha portato a una chirurgia non invasiva, che può essere praticata attraverso piccole incisioni. La laparoscopia è stata inizialmente applicata in ambito ginecologico, poi alle operazioni di colecistectomia. L’innovazione delle tecniche di sutura è stata favorita dall’innovazione farmacologica, come nel caso dei farmaci anticoagulanti.
La media della permanenza ospedaliera postoperatoria è diminuita, consentendo di abbattere i costi per l’assistenza, ma incrementando quelli necessari a mantenere équipe attive per un maggior numero di pazienti. Nel 2002 gli interventi più praticati negli Stati Uniti sono stati quelli cardiovascolari e ostetrico-ginecologici, seguiti dagli interventi per il trattamento delle fratture e dalle colecistectomie.
Operare la mente: la neurochirurgia
Già nei primi anni del secolo il neurochirurgo americano Harvey Cushing (1869-1939) sviluppa le principali tecniche operatorie al cervello, in particolare per il trattamento dei tumori intracranici, essendo tra i primi a utilizzare i raggi X a scopo diagnostico. La fama di Cushing, che ha lavorato per quasi tutta la sua carriera all’università di Yale, ha contribuito alla nascita della neurochirurgia come disciplina autonoma. La neurochirurgia nel Novecento è strettamente legata alle ricerche sulle localizzazioni cerebrali e più in generale allo sviluppo delle neuroscienze. Anche l’anestesia utilizzata in neurochirurgia ha tenuto conto della necessità di avere, in molte operazioni, risposte da un paziente vigile.
Le scoperte sul ruolo del lobo temporale e frontale nel controllo dell’aggressività hanno fatto sperare di poter trattare chirurgicamente i disturbi mentali, conducendo a pratiche non sempre controllate scientificamente e controverse sotto il profilo etico e sociale. Nel 1936 il neurochirurgo e uomo politico portoghese Egas Moniz (1874-1955) sperimenta e introduce nella pratica chirurgica l’operazione di leucotomia prefrontale (lobotomia), consistente nella recisione delle connessioni cerebrali tra la regione prefrontale e il resto del cervello, ottenendo nel 1949 il premio Nobel. La procedura è stata ripresa in tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti, dove Walter Freeman (1895-1972) ha operato negli anni Quaranta e nei primi Cinquanta migliaia di pazienti con una tecnica operatoria semplificata. La lobotomia è considerata una cura miracolosa per alcune psicosi, in particolare per la schizofrenia, per le quali non esiste trattamento farmacologico almeno fino alla scoperta della clorpromazina (1954) che ha messo fine alla pratica della lobotomia.
Negli stessi anni la neurochirurgia ha compiuto notevoli passi in avanti: lo svedese Lars Laksell (1907-1986), attivo al Karolinska Institutet di Stoccolma, mette a punto nel 1949 la cornice stereoattica, un apparato che consente di operare con precisione su zone specifiche del cervello servendosi di radiazioni (radiochirurgia) e quindi utilizzando tecniche non invasive, utili specialmente nel trattamento di tumori.
Immunologia e trapianti
Decisiva anche per la chirurgia è stata la scoperta, effettuata nel 1901 dall’austriaco Karl Landsteiner (1868-1943) e dai suoi collaboratori, dell’esistenza dei gruppi sanguigni. Le successive ricerche di Landsteiner sulla biochimica degli antigeni, degli anticorpi e degli altri fattori immunologici presenti nel sangue sono state altrettanto importanti per determinare la possibilità di operazioni chirurgiche complesse e che richiedono trasfusioni (adottate su larga scala solo negli anni Quaranta).
Negli stessi anni Alexis Carrel si era dedicato a ricerche di chirurgia sperimentale, tentando il trapianto di tessuti e organi, ottenendo risultati positivi nell’anastomosi (nella creazione di collegamenti) e nell’autotrapianto dei vasi sanguigni. Falliscono, invece, i suoi esperimenti di allotrapianto di reni (da animale ad animale): Carrel, pur non individuando il meccanismo del rigetto, conclude che il problema del successo dei trapianti d’organo, chirurgicamente possibili, richiede ulteriori indagini “sulle relazioni biologiche esistenti tra i tessuti viventi”. Nel 1935, tuttavia, Carrel, in collaborazione con l’aviatore statunitense Charles Lindbergh (1902-1974), concepisce una pompa a perfusione per la sopravvivenza di organi espiantati e separati dall’organismo vivente.
Negli anni Quaranta vengono tentati trapianti di rene in diversi centri scientifici statunitensi ed europei: la macchina per dialisi, prodotta sperimentalmente negli anni Quaranta, entra nell’uso clinico solo negli anni Cinquanta, ma le nefropatie gravi esigono soluzioni più radicali. I primi tentativi di trapianto riguardano quasi esclusivamente la cute (paradossalmente, si è scoprirà che l’allotrapianto cutaneo presenta problemi di rigetto molto più complessi rispetto a quelli posti da altri organi) anche a causa della frequenza e della riuscita di omotrapianti nel caso di ustioni o altri danni cutanei estesi.
Negli anni Trenta l’osservazione del meccanismo di rigetto della cute trapiantata da donatore (benché prelevata su familiari del paziente) induce negli Stati Uniti esperimenti su gemelli monozigoti. Negli stessi anni le ricerche condotte dall’immunologo inglese di origine libanese Peter Madawar (1915-1987) sulla rigenerazione dei tessuti e la tolleranza immunitaria portano alla scoperta che un secondo allotrapianto dallo stesso donatore genera un rigetto molto più rapido rispetto al primo: esiste dunque un meccanismo immunitario che si attiva e riconosce l’organo estraneo. Nel 1954 lo statunitense Joseph Murray riesce a effettuare il primo trapianto di rene senza rigetto tra gemelli monozigoti, al Peter Bent Brigham Hospital di Cambridge. Murray aveva lavorato a stretto contatto con immunologi e con lo stesso Medawar. Seguono trapianti sperimentali di altri organi: il più celebre, se non scientificamente rilevante, è stato il trapianto di cuore, effettuato per la prima volta in Sud Africa da Christiaan Barnard nel 1967. Il trapianto di fegato, tentato più volte a partire dagli anni Sessanta dallo statunitense Thomas Starzl, diviene una procedura standard negli anni Settanta e Ottanta. Nel 1978, dopo decenni di ricerche, l’inglese Roy Calne annuncia la scoperta di una molecola (ciclosporina) in grado di contenere la reazione immunitaria di rigetto, la quale consente un’ampia diffusione del trapianto d’organo da donatore – un progresso ostacolato dalla persistente scarsità di donatori, indotta da perplessità di tipo etico-religioso.
L’attualità: problemi metodologici, etici, professionali
Anche nella valutazione storica dei risultati ottenuti attraverso procedure chirurgiche innovative non è sempre possibile servirsi degli usuali metodi statistici e clinici per stabilire l’efficacia dei trattamenti. Ne è esempio l’analisi retrospettiva sul reale impatto dell’antisepsi listeriana, la cui efficacia nel limitare le morti da amputazione è stata attribuita al miglioramento delle condizioni generali di vita dei pazienti operati piuttosto che alla disinfezione. La discussione recente ha messo in luce la scarsa utilizzazione dei trial (test) clinici randomizzati da parte dei chirurghi per verificare l’efficacia delle loro procedure, sia di quelle innovative che di quelle divenute consuete e che potrebbero dover essere comparate con interventi terapeutici alternativi. Si è dimostrato che operazioni ormai divenute standard (la mastectomia totale per il cancro al seno e la colecistectomia laparoscopica) non presentano in realtà vantaggi terapeutici evidenti rispetto ad altre, e hanno continuato a essere applicate in mancanza di una verifica clinica dei risultati ottenuti.
Inoltre è stato dimostrato che per molte tecnologie chirurgiche innovative esiste un problema di curva di apprendimento: a causa delle abilità richieste al chirurgo, nelle prime operazioni effettuate con queste tecniche, i risultati in termini di morbilità e mortalità tendono a essere significativamente peggiori di quelli ottenuti con le stesse tecniche quando siano state apprese e applicate per un certo periodo di tempo. Ciò rende ancora più difficile adottare il trial clinico classico in chirurgia, anche a causa di ulteriori fattori: la difficoltà di ottenere il consenso dei pazienti, di reperire un campione significativo, di applicare la procedura del “doppio cieco”. Per ovviare a queste difficoltà, si è proposto di adottare sistemi complessi di raccolta e gestione statistica dei dati sui risultati degli interventi.
Anche i problemi bioetici della chirurgia sono molto diversi da quelli della medicina clinica e sperimentale. La difficoltà della relazione medico-paziente è accentuata dal fatto che spesso il chirurgo si trova a lavorare in condizioni estreme. Il chirurgo è per definizione chiamato a infliggere una violenza all’organismo del paziente, anche se il fine di questa violenza è la cura. La correlazione tra azione del curante ed efficacia della cura è (ed è sempre stata storicamente) più immediata ed evidente di quella che si ha in altri campi della pratica clinica. Il paziente richiede al chirurgo una maggiore presenza e questi assume un ruolo salvifico più frequentemente rispetto a situazioni di cura. Si accentuano così le responsabilità individuali del chirurgo, ma anche la maggiore necessità di ottenere dal paziente il consenso informato ai trattamenti, benché in molti casi di emergenza sia difficile rispettare il principio di autonomia del paziente. Tra i principali problemi etici legati all’esercizio della chirurgia, oltre alla citata questione circa la sperimentazione e la rilevazione dell’efficacia del trattamento, vi sono quelli legati alle nuove tecnologie relative ai trapianti, alle tecniche riproduttive, alla fine della vita.
La ricerca chirurgica, come altre parti della medicina, ha istituito rapporti ambivalenti, anche se efficaci sul piano dell’innovazione, con l’industria, come dimostrato ad esempio dal caso del trattamento delle fratture. Problemi deontologici ed etici sono inoltre legati alle particolarità della formazione del chirurgo, cui si richiedono non solo capacità intellettuali e conoscenze, ma anche abilità pratiche e manuali, e allo stesso carattere “di squadra” del lavoro del chirurgo. Uno dei fattori determinanti nella preminenza assunta dalla chirurgia statunitense è probabilmente la riforma dell’educazione medica voluta e attuata nel primo Novecento da Abraham Flexner che fa evolvere la medicina dall’uso erroneo dell’esperienza e delle supposizioni istintive, alle sue moderne basi scientifiche.