La circolazione delle tecnologie
Il tema della circolazione delle tecnologie è piuttosto articolato all’interno delle scienze sociali, in quanto è stato oggetto di analisi da parte di varie tradizioni di ricerca, sia teoriche sia empiriche, che hanno reso l’argomento complesso, arrivando a diverse conclusioni non sempre tra loro congruenti. Per ovviare a questo problema si farà riferimento ai risultati ormai ampiamente condivisi o considerati come punti di partenza imprescindibili, così da dare all’argomento la maggiore consistenza possibile. La circolazione delle tecnologie è un processo sociale che porta con sé una serie di variabili da non considerare in maniera isolata, ma come reciprocamente interagenti. Per cercare di elaborare un quadro generale nel quale collocare il seguente excursus si ricorrerà alla distinzione, tipicamente sociologica, fra una dimensione relativa alla diffusione delle tecnologie e una inerente all’istituzionalizzazione delle tecnologie. La prima descrive le dinamiche attraverso cui una tecnologia si diffonde all’interno del tessuto sociale e consente di tematizzare il modo con cui le tecnologie diventano strumenti alla portata della maggior parte delle persone. Quello dell’istituzionalizzazione, invece, è un processo che si occupa di descrivere le strategie mediante le quali la tecnologia entra a far parte della vita delle persone, dando origine a una serie di conseguenze sociali che possono essere comprese solo considerando i processi di riorganizzazione simbolica che le riguardano.
La tecnologia tra diffusione e istituzionalizzazione
Il diffusionismo
La prospettiva di ricerca denominata in questo modo si occupa di studiare le modalità con cui una tecnologia comincia a diffondersi all’interno di uno specifico contesto sociale, ed è storicamente la prima impostazione che tenta di elaborare un quadro nel quale collocare le forme che consentono a una tecnologia di penetrare nella società. Già il sociologo francese Gabriel Tarde nel 1903 osservò che la diffusione di un’innovazione (tecnologica, ma non solo) all’interno della società dipendeva da un processo sociale basato sull’imitazione e poteva essere descritta da una curva a forma di S (detta sigmoide), in grado di identificare tre momenti distinti dello sviluppo di una tecnologia: innovazione, crescita, maturità. Queste istanze sarebbero state oggetto di studio sistematico soltanto tra il 1940 e il 1970, dando vita a una letteratura scientifica piuttosto articolata – anche se frammentaria –, ma sistematizzata in una struttura teorica solo successivamente. Il modello più maturo in grado di descrivere le modalità attraverso cui un’innovazione di diversa natura (in particolare tecnologica) prende piede nella società è il modello di Everett Rogers, sviluppato negli anni Sessanta ma rielaborato in maniera compiuta soltanto all’inizio del 21° sec. (Rogers 20035). L’idea centrale è una concezione di tipo sociologico secondo cui l’innovazione viene comunicata utilizzando determinati canali di comunicazione (personali e mass media) dai membri di un contesto sociale, lungo un preciso arco temporale. Secondo questo modello – conosciuto con il nome di teoria della diffusione delle innovazioni – il processo che rende la società permeabile a una tecnologia si fonda su due momenti chiave: adozione e diffusione.
L’adozione di un’innovazione (tecnologica) riguarda le strategie decisionali che portano l’individuo a fare propria una particolare tecnologia. Queste dinamiche si basano su un processo a cinque fasi così organizzato: la fase di consapevolezza (awareness), in cui l’individuo prende atto dell’innovazione; la fase di interesse (interest), in cui egli si appassiona all’idea e cerca informazioni aggiuntive su di essa; la fase di valutazione (evaluation), consistente nel prefigurarsi uno scenario d’uso per spiegarne le opportunità che verranno completamente comprese poi nella fase di prova (trial); infine, la fase dell’adozione vera e propria (adoption), nella quale l’individuo diventa pienamente consapevole dei benefici apportati dalla tecnologia e in base a ciò decide di continuarne l’uso.
Se l’adozione è il momento più genuinamente individuale, la diffusione è quello profondamente sociale. È proprio in questo momento che Rogers ricorre alla metafora del contagio per spiegare come dalla dimensione legata all’individuo si passi alla dimensione legata alla società circostante. Infatti, secondo la teoria della diffusione delle innovazioni, un passaggio cruciale è quello relativo ai modi attraverso cui una tecnologia viene comunicata, che possono seguire la rete dei contatti personali (sistema più efficace), oppure l’esposizione ai mezzi di comunicazione di massa (sistema meno efficace). Una volta innescati questi meccanismi di circolazione delle informazioni relative all’innovazione, l’andamento dell’adozione della tecnologia nella società nel tempo può essere descritto da una curva a campana, la quale, non solo rende conto di quello che si può definire il ciclo di vita di un’innovazione tecnologica, ma consente di raggruppare gli utilizzatori in una serie di gruppi sociali che condividono le stesse caratteristiche sociodemografiche e gli stessi atteggiamenti verso di essa.
Questa classificazione non introduce una novità, ma Rogers ha avuto il merito di comprenderla all’interno di un meccanismo esplicativo più ampio. La curva di diffusione delle innovazioni descrive cinque diversi gruppi sociali. Gli innovatori (innovators), caratterizzati dalla voglia di assumersi dei rischi, sono molto giovani d’età, di estrazione sociale elevata e ricchi, hanno familiarità con fonti di informazione scientifica e sono in grado di interagire con altri innovatori (tutte proprietà che rivelano una forte attitudine a essere opinion leaders). Gli anticipatori (early adopters), che utilizzano i prodotti nella fase iniziale della commercializzazione, hanno anche loro uno status sociale elevato, denotano contatti intensi con agenti del cambiamento e sono opinion leaders assai forti in contesti anche molto diversi. La maggioranza iniziale (early majority) si definisce come gruppo di individui con profilo sociale caratterizzato dal fatto di considerare un’innovazione interessante soltanto dopo che altri omologhi l’hanno adottata; sono elementi appartenenti alla classe media, hanno contatti consistenti con agenti del cambiamento e con gli anticipatori, e alcuni di loro sono considerati leader d’opinione. La maggioranza tardiva (late majority), per contro, è più resistente al cambiamento non soltanto perché più scettica, ma anche perché ha bisogno di una maggiore pressione per accettare l’innovazione; appartengono a questa classe individui con status sociale un po’ più basso della media, contraddistinti da un uso limitato dei mezzi di comunicazione e dalla presenza tra loro di pochi leader d’opinione. Infine, vi sono i ritardatari (laggards), tradizionalisti e fortemente ancorati al passato; dotati di uno status sociale basso e di reddito contenuto, sono solitamente piuttosto anziani e raramente alcuni di loro sono leader d’opinione in quanto socialmente quasi isolati.
La teoria della diffusione delle innovazioni è stata criticata da molti punti di vista. Alcuni la considerano uno strumento eccessivamente generico che non rende giustizia della specificità dell’innovazione tecnologica. Altri ancora hanno posto l’accento sul fatto che questa teoria è sì in grado di spiegare il successo delle tecnologie, ma spesso non riesce a dar conto del fallimento di alcune innovazioni. Sta di fatto comunque che il libro di Rogers ha dato il via a una serie di studi e ricerche piuttosto interessanti che hanno fondato un settore ricco di risultati.
Modellamento e addomesticamento
Le critiche cui la teoria della diffusione delle innovazioni è stata sottoposta hanno spesso centrato uno degli elementi al quale si deve il successo del modello, ma anche i suoi limiti. È la dimensione macrosociale su cui si colloca che, pur essendo in grado di spiegare le forme attraverso cui le innovazioni tecnologiche penetrano nella società, non riesce a cogliere alcune caratteristiche relative al significato culturale tramite il quale una tecnologia viene collocata nel contesto sociale e che spesso ne determina il successo. Qualsiasi tecnologia riesce a integrarsi nel tessuto sociale grazie anche ai significati (latenti o manifesti) che porta con sé: non è quindi solo una questione meccanica che può essere spiegata dalla metafora del contagio a cui il diffusionismo ricorre. L’aspetto simbolico della tecnologia è molto importante, poiché è il solo veicolo in grado di farla diventare parte integrante della vita delle persone, esprimendo valori congruenti con una precisa dimensione culturale, socialmente e storicamente determinata.
Si prenda, per es., il caso della telefonia mobile: la curva a campana riesce a rendere conto dei modi e dei tempi attraverso cui il telefonino è entrato a far parte integrante della vita quotidiana di un numero sempre più grande di persone, ma se non si comprendesse la condizione culturale della contemporaneità, fondata su concetti come deterritorializzazione, spostamento continuo, necessità di un costante contatto con i propri gruppi sociali di riferimento, sarebbe impossibile comprendere i motivi che hanno spinto gli innovators ad adottare la tecnologia del telefono cellulare.
Altre teorie si sono cimentate con l’onere di spiegare la componente simbolico-culturale dell’adozione della tecnologia, mostrando come non sia la tecnologia a penetrare nella società o la società a rendere necessaria una specifica tecnologia (come vorrebbero le interpretazioni deterministe). In realtà, tecnologia e società cooperano dando vita non solo a un artefatto tecnologico, ma anche a una serie di fattori culturali nell’ambito dei quali contestualizzare l’oggetto tecnico. Una delle impostazioni più promettenti in questo senso è la teoria del modellamento sociale della tecnologia (The social shaping of technology, 19992). Anziché una teoria, tale impostazione potrebbe essere più correttamente considerata un approccio, in quanto non costituisce un modo univoco di affrontare lo studio del rapporto fra tecnologia e società, ma un punto di vista condiviso che può essere reso con due metafore. La prima è quella della scatola nera (black box), una metafora piuttosto celebre nel campo degli studi sociali della scienza. Secondo questa impostazione, le scienze sociali non possono studiare le teorie scientifiche e gli artefatti tecnologici come dati e limitarsi a identificare le conseguenze del loro impatto, bensì devono rivelare le dinamiche tecnoscientifiche, politiche, economiche e sociali che hanno reso possibile la loro accettazione. La seconda metafora è quella del giardino dei sentieri che si biforcano, seguendo il titolo di uno dei più famosi racconti di Jorge Luis Borges (El jardín de senderos que se bifurcan, 1941). Secondo tale metafora, una tecnologia prende posto all’interno della società a causa di una serie di scelte, alcune consapevoli altre meno, e delle conseguenze che esse hanno sull’organizzazione sociale. Le analisi che si riconoscono in questo approccio sono in grado di rendere conto dei processi di istituzionalizzazione meglio di altre prospettive.
Esistono molti percorsi strutturati all’interno del modellamento sociale della tecnologia che esprimono il significato culturale delle più diverse tecnologie, ma ai fini del presente saggio si esaminerà un’impostazione particolare conosciuta con il nome di teoria dell’addomesticamento (domestication theory; Silverstone, Hirsch, Morley 1992). Tale teoria parte dal presupposto che il consumo è il meccanismo sociale attraverso il quale le persone attribuiscono senso agli artefatti presenti nella vita quotidiana (in questo caso declinati come tecnologie della comunicazione). Il consumo di tecnologie, tuttavia, non avviene nel vuoto sociale e si concretizza all’interno dello spazio domestico definito economia morale. Il concetto di economia morale sta a significare che la casa è al contempo uno spazio economico e uno spazio culturale. Spazio economico perché è il luogo in cui prendono forma le risultanze delle transazioni economiche in cui sono coinvolti i membri del nucleo familiare. Spazio culturale perché è il luogo in cui avvengono scambi di significati relativi ai processi di attribuzione di senso tra gli appartenenti alla famiglia. Per questo motivo nello spazio della casa economia e cultura si fondono nel contesto sociale e simbolico dell’economia morale. La tecnologia, per poter varcare simbolicamente la soglia dello spazio domestico ed essere incorporata nella vita quotidiana dei suoi membri, è sottoposta a un processo piuttosto articolato, definito appunto addomesticamento.
La prima fase di questo processo è l’appropriazione (appropriation). Con questo termine si identifica il momento in cui l’artefatto lascia il mondo generalizzato della produzione industriale e viene acquistato da un individuo o da una famiglia entrando a far parte della vita di queste persone che, così facendo, lo possiedono. È un momento piuttosto delicato in quanto l’artefatto viene caricato di tutta una serie di significati rafforzati anche dalla scelta del tipo di contenuti di cui esso sarà veicolo (per es., il tipo di film scelto per fruire del nuovo impianto di home theatre). La seconda fase è detta oggettificazione (objectification) e consiste nell’esposizione dell’artefatto e nella sua collocazione in un punto specifico della casa. La scelta di questo punto non è mai casuale, ma sempre frutto di una serie di negoziazioni che coinvolgono il tipo di tecnologia, il suo utilizzo previsto, il tipo di valore a cui fa riferimento, l’organizzazione della casa e così via. L’incorporazione (incorporation) è, invece, la fase che definisce i modi con cui le tecnologie vengono usate e a quale membro della famiglia sarà assegnato il compito di gestirne l’accesso o l’utilizzazione. Se l’oggettificazione è una fase relativa alla dimensione spaziale, l’incorporazione è una fase inerente alla dimensione temporale, non solo perché necessita che venga stabilito un momento nella giornata in cui usare la tecnologia, ma anche perché spesso l’uso della tecnologia stessa diventa uno strumento per sincronizzare la routine quotidiana. L’incorporazione, poi, consente anche di evidenziare determinate dinamiche relazionali all’interno dello spazio domestico e la relativa divisione culturale delle aree della casa. Si pensi, per es., a come gli adolescenti usano lo stereo a tutto volume per creare un vero e proprio muro di suono fra loro e i genitori. Infine, vi è la fase della conversione (conversion) che rappresenta un momento conclusivo del processo di addomesticamento della tecnologia e serve per stabilire le particolari posizioni di status sociale che la famiglia detiene rispetto al proprio vicinato. Con la conversione si elaborano strategie per la messa in scena dell’artefatto appena entrato a far parte delle dinamiche familiari, così da trasformarsi in un veicolo di significati sociali e culturali e da rappresentare lo stile di consumo della famiglia stessa. Si considerino, per es., le complesse negoziazioni che servono per collocare l’antenna parabolica sul terrazzo in modo tale da sottolineare il possesso da parte della famiglia di una nuova tecnologia – la TV satellitare – senza che però questo intacchi il decoro della famiglia stessa come potrebbe accadere con una collocazione inelegante della parabola.
L’addomesticamento è un’ipotesi di lavoro molto interessante che consente di affrontare le forme attraverso cui le tecnologie della comunicazione entrano a far parte della vita quotidiana delle persone. Per ottenere ciò, esse vengono caricate di una serie di significati sociali molto articolati che richiedono complesse negoziazioni fra la dimensione simbolica e sociale della sfera individuale e familiare.
Meccanismi di resistenza alla tecnologia
Accettazione, resistenza e mancato uso
Una delle obiezioni avanzate nei confronti degli studi sociali sulla tecnologia è che spesso essi preferiscono concentrarsi sui casi in cui la tecnologia è riuscita con successo a inserirsi all’interno del contesto sociale, sottodimensionando o dimenticando le volte in cui ha avuto invece notevoli difficoltà nel venire accettata da uno specifico ambiente culturale. Grazie alla crescita costante di ricerche empiriche e modelli teorici che pongono al centro dell’attenzione l’importanza rivestita dall’utente nel determinare il successo (o il fallimento) di una tecnologia, sono aumentati gli studi volti a comprendere quali siano i meccanismi sociali che portano le persone a opporsi all’uso o all’introduzione di una tecnologia in un determinato gruppo (Oudshoorn, Pinch 2003). Prima di affrontare le ricerche relative alla resistenza verso la tecnologia, è bene però spendere qualche parola per descrivere quali processi sociali portano, invece, le persone ad accettarla.
Questo filone di studi – in maggioranza di stampo sociopsicologico – ha avuto un certo successo nelle ricerche relative al management e all’organizzazione aziendale, poiché spesso esse costituiscono un valido aiuto per comprendere i modi con cui una nuova tecnologia (nella fattispecie le IT, Information Technologies) prende posto all’interno di un ambiente di lavoro. Esistono varie soluzioni teoriche che cercano di illustrare tali meccanismi, ma uno in particolare sembra essere stato confermato da diverse ricerche ed è il modello di accettazione della tecnologia (TAM, Technology Acceptance Model).
Questo modello è stato introdotto verso la seconda metà degli anni Ottanta da Fred D. Davis in seguito ai suoi studi per conto dell’IBM Canada e verificato empiricamente da diversi studiosi nel corso degli anni Novanta. La letteratura scientifica che si rifà al TAM è cresciuta in modo tale da far ritornare lo stesso Davis sulla sua enunciazione iniziale, dando così origine a TAM2, una variante estesa del modello (Venkatesh, Davis 2000). La caratteristica più evidente del TAM è la sua impostazione microsociale, che lo porta a integrare diverse prospettive di ricerca psicologiche e cognitive all’interno di un quadro teorico piuttosto interessante. Il TAM parte dal presupposto che l’intenzione di un individuo, per es., di utilizzare un sistema informatico dipenda da due variabili molto importanti: l’utilità percepita e la facilità d’uso percepita. L’utilità percepita (perceived usefulness) consiste nella convinzione di una persona che un sistema informatico sia in grado di migliorare le proprie prestazioni lavorative, mentre la facilità d’uso percepita (perceived ease of use) è la fiducia nel fatto che l’utilizzo del sistema informatico sarà privo di sforzo. Il TAM ipotizza anche l’influenza della facilità d’uso percepita sull’utilità percepita: più un sistema informatico è percepito come facile da usare, più sarà avvertito come utile nel contesto lavorativo. Il TAM2, come si può immaginare, parte dalle conseguenze empiriche definite dal TAM e aggiunge ulteriori costrutti teorici relativi ai processi di influenza sociale e a quelli cognitivi strumentali che esercitano una forma di influenza sull’utilità percepita. Per quanto riguarda i processi di influenza sociale, il TAM2 presuppone l’importanza delle norme soggettive ovvero la percezione da parte di un individuo di quanto le persone considerate importanti ritengono che egli debba (o non debba) manifestare un comportamento specifico (ovvero l’adozione del sistema informatico). La volontarietà è un’altra dimensione relativa all’influenza sociale e ha un ruolo di contenimento dell’effetto delle norme soggettive in quanto è il modo con cui gli utilizzatori potenziali di un sistema percepiscono come non obbligatoria la decisione di utilizzo del sistema stesso. Infine, l’influenza sociale nell’accettazione di una tecnologia dipende anche dal modo con cui un individuo decide di mantenere una certa immagine rispetto al proprio gruppo di riferimento. In breve, l’effetto delle norme soggettive è più forte se l’individuo crede che seguirle aumenti la propria reputazione nel gruppo.
Per quanto riguarda i processi cognitivi strumentali, tre sono gli elementi determinanti per l’utilità percepita: la rilevanza per il lavoro (grado di applicabilità del sistema informatico ai compiti da svolgere), la qualità del rendimento (in che modo il sistema migliora la prestazione lavorativa), la dimostrabilità del risultato (fino a che punto è concreto l’effetto dell’innovazione sullo svolgimento del lavoro). In sintesi il TAM2, in base alla sua impostazione prevalentemente psicologico-cognitiva, cerca di elaborare uno schema maggiormente articolato in cui possono trovare spazio anche variabili prettamente sociologiche. Anche questa seconda versione del TAM è stata sottoposta al tentativo di rendere ancora più dettagliata l’analisi e la previsione dei comportamenti legati all’adozione della tecnologia informatica. Il modello scaturito costituisce la teoria unificata dell’accettazione e dell’uso della tecnologia (UTAUT, Unified Theory of Acceptance and Use of Technology), un framework teorico che si sta mostrando molto promettente nella sua capacità di gestire i processi di cambiamento tecnologico legati all’adozione delle IT in campo organizzativo e lavorativo (Venkatesh, Morris, G.B. Davis, F.D. Davis 2003).
Al di là degli studi che hanno cercato di cogliere le dinamiche sociali di incorporazione della tecnologia in un contesto così circoscritto come l’ambiente di lavoro, esistono diverse linee di ricerca piuttosto interessanti che hanno tentato di esaminare i motivi per cui una tecnologia incontra resistenze nella sua adozione. L’interesse di queste analisi sta nel considerare i meccanismi di resistenza sociale non tanto come conseguenze impreviste alla diffusione della tecnologia, quanto come una forma di negoziazione tra il sistema tecnologico stesso e i tipi di organizzazione sociale preesistenti. Secondo questo tipo di impostazione, i motivi che portano gli utenti a rifiutare la tecnologia rivelano molto sia su di essa sia sulla società. In questa sede sarebbe difficile elaborare una rassegna completa di tale letteratura che sta crescendo teoricamente ed empiricamente occupandosi di tecnologie spesso molto diverse fra loro. Ci si limiterà pertanto a portare alcuni esempi di quanto sia complesso il rapporto fra accettazione e resistenza.
Una posizione interessante è quella della resistenza trasformativa (transformative resistance). In questa prospettiva, la resistenza alla tecnologia non è un segnale dell’errore del mercato, bensì una reazione al tipo di potere di cui una tecnologia diventa veicolo. Per tale motivo la resistenza trasformativa non è priva di effetti, ma è una forma di «negoziazione tra produttori, mediatori, utenti che aiuta a creare il cambiamento sociotecnico» (Kline 2003, p. 52). Ronald Kline, nel suo studio sulle strategie di resistenza alla diffusione del telefono e dell’elettrificazione nell’America rurale tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del 20° sec., ne identifica tre diverse da parte degli utilizzatori (potenziali): l’opporsi all’introduzione di una tecnologia nella comunità, il non acquisto di una tecnologia (la cosiddetta resistenza del consumatore) e l’utilizzo di una tecnologia secondo forme non previste. Per es., l’AT&T e altre compagnie private, durante il processo di costruzione delle infrastrutture telefoniche nelle campagne del Midwest, cercarono di combattere la pratica di origliare le telefonate altrui alzando la cornetta del telefono non tanto per motivi di privacy, quanto perché così facendo le linee telefoniche risultavano intasate e le batterie delle centraline duravano molto meno. Questa pratica veniva vista di buon occhio dai contadini poiché riproduceva il rituale della visita al vicino attraverso l’apparecchio telefonico ed era considerata un’usanza amichevole socialmente accettata. La risposta delle compagnie telefoniche fu quella di sviluppare soluzioni tecniche tali da impedire che le telefonate venissero ascoltate dai vicini, migliorando, quindi, l’affidabilità del dispositivo tecnico.
Sbaglia chi pensa che il meccanismo della resistenza sia tipico solo delle fasi iniziali di introduzione di una tecnologia in un contesto sociale; infatti, anche quando una tecnologia è socialmente condivisa, esistono modelli di comportamento che in alcuni casi sono molto simili al non uso. Interessanti da questo punto di vista le ricerche relative ai cosiddetti Internet dropouts, ovvero coloro che «hanno usato Internet per un breve periodo di tempo e poi hanno smesso di usarlo» (Katz, Rice 2002, p. 67). I dropouts sono una categoria non prevista dalle classiche ricerche sull’uso di Internet, per il semplice fatto che la tipologia utilizzata in questi studi – nell’analisi del divario digitale (digital divide) – prevede solo due tipologie: utenti e non utenti. In realtà i dropouts sono una categoria ulteriore che solleva domande molto interessanti sull’uso sociale di Internet, per es. relative alle motivazioni che hanno portato a utilizzare questa tecnologia e poi ad abbandonarla. L’autore che ha identificato tale categoria e l’ha studiata accuratamente è senza dubbio James Katz (assieme ad altri quali Ronald Rice e Philip Aspden), il quale è anche riuscito a elaborare un quadro sociodemografico di questa tipologia di utenti: hanno meno di quarant’anni, non sono diplomati, è più probabile che siano donne, si considerano principianti nell’uso di Internet e i motivi del non uso dipendono dalla difficoltà tecnica del mezzo (risposta preferita dagli adulti) oppure dalla mancanza di interessi (risposta degli adolescenti). Una delle differenze più marcate con gli utenti di Internet è relativa alle strategie di alfabetizzazione digitale: i dropouts affermano di essere stati aiutati da un tutore (un amico o un familiare), mentre di solito gli utenti tipici sono autodidatti e hanno imparato a utilizzare Internet per interesse personale o per motivi di lavoro. Altri studiosi hanno contribuito a dar seguito a questo tipo di ricerche ponendo l’attenzione sul fatto che il mancato utilizzo di Internet non sempre è ascrivibile a una posizione di emarginazione dovuta a cause sociali (secondo quanto vorrebbe la posizione dell’esclusione digitale), bensì è una scelta consapevole, motivata nella maniera più varia e diversa. Esiste anche chi ha cercato di elaborare una tipologia articolata del mancato uso di Internet (Wyatt, Thomas, Terranova 2002), secondo cui si prevedono le seguenti categorie: i resistenti (resisters) che non hanno mai usato Internet e non hanno intenzione di farlo; i rifiutatori (rejecters) che hanno smesso di usarlo perché considerato noioso o costoso; gli esclusi, cioè coloro che avrebbero voluto un accesso alla rete ma non l’hanno mai avuto; gli espulsi, ovvero coloro che hanno smesso di usarlo involontariamente, perché il costo è aumentato o perché non hanno più un accesso istituzionale (come gli studenti dei campus universitari). Le conclusioni dei citati studi sono relative al modo di concettualizzare gli atteggiamenti degli utenti verso Internet – e per estensione verso la tecnologia – nel senso che fra le dinamiche di accettazione di una tecnologia e i meccanismi di resistenza esiste un vero e proprio continuum che deve considerare la dimensione sociale e simbolica dell’artefatto tecnologico.
La componente etica della tecnologia
A un’attenta disamina delle posizioni esposte, siano esse relative all’accettazione della tecnologia o al suo rifiuto, si rileva che esse hanno tutte in comune l’idea che la tecnologia stessa debba essere congruente con i valori – intesi sociologicamente come ciò che orienta l’agire umano – di uno specifico gruppo sociale, circoscritto (un contesto lavorativo, una comunità rurale) o meno (la società nel suo complesso).
La questione relativa al rapporto fra tecnologia e valori è un tema carsico della letteratura scientifica di stampo sociologico, politologico e filosofico e soltanto in tempi recenti si è andata istituzionalizzando in un’area di studi che fa del discorso etico un punto di forza piuttosto argomentato. Questo tipo di letteratura è frammentato in una serie di posizioni molto diverse che vanno dall’etica del computer (Bynum 2001) fino alla cosiddetta tecnoetica (Tecnoética. Actas del II congreso international de tecnoética, 2003). Nonostante le diversità terminologiche vi sono alcuni punti che accomunano tali studi. In primo luogo l’idea che la tecnologia sia una forma di potere (definita perciò potere tecnico) e in quanto tale in grado di modificare profondamente i rapporti sociali esistenti in un determinato contesto culturale. In secondo luogo, la tecnologia non è una forza neutrale, ma porta con sé una specifica visione del mondo, della società e della vita delle persone che ha conseguenze inattese sul vivere civile (posizioni che si sono maggiormente concentrate nella critica della nozione di progresso). In terzo luogo, la tecnologia ha un profondissimo impatto antropologico che dà luogo alla necessità di ridefinire il significato del termine essere umano e descrivere su nuove basi le componenti fondamentali di quella che consideriamo l’identità umana. Tale riflessione porta a estendere il concetto di essere vivente anche a forme diverse dall’essere umano biologicamente inteso, come i cyborgs (esseri umani in parte artificiali) e i robot (automi antropomorfi e non antropomorfi dotati di capacità cognitive rese possibili dallo sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale). In quest’ultimo significato, gli studi relativi alle conseguenze etiche e sociali delle tecnologie robotiche prendono il nome di roboetica.
Le argomentazioni etiche relative a un nuovo modo di intendere il rapporto fra tecnologia e società hanno portato la riflessione sociale e politica a elaborare posizioni molto articolate e in alcuni casi piuttosto controverse. Esse si muovono lungo due visioni del mondo diametralmente opposte: il neoluddismo e il transumanesimo, che si potrebbero paragonare alla contrapposizione fra tecnofobi e tecnofili.
Il neoluddismo è la posizione che riprende e attualizza alcune istanze antitecnologiche presenti nel movimento luddista, lo stesso che portò a una profonda reazione da parte degli operai tessili contro l’introduzione dei telai meccanici durante la prima rivoluzione industriale racchiudendo in sé, secondo alcuni, i germi del movimento operaio. In estrema sintesi, le posizioni neoluddiste esprimono una fortissima resistenza alla penetrazione della tecnologia (qualunque essa sia) in molti aspetti del vivere umano e sociale, adducendo diverse argomentazioni che vanno dalla disumanizzazione al rischio di un’umanità schiava della tecnologia, sino ad assumere posizioni che potremmo chiamare argomento della tecnologia fuori controllo. Visioni neoluddiste sono presenti in diversi nuclei attivisti riconducibili all’area dell’ambientalismo radicale (deep ecology). All’opposto, il transumanesimo sancisce il superamento della condizione umana grazie a una sempre maggiore simbiosi tra l’uomo e la tecnologia, dando origine a una nuova tipologia di esseri umani ottimizzati attraverso l’applicazione di diverse tecnologie (intelligenza artificiale, nanotecnologia, biotecnologia, informatica) che modificano profondamente la condizione esistenziale umana (Bostrom 2005). Secondo le posizioni transumaniste più estreme, l’uomo potrebbe incorporare molte di queste tecnologie, riuscendo così a combattere tutta una serie di limiti di specie: dal superamento di alcune malattie (come il cancro o diversi tipi di handicap), al miglioramento delle capacità sia fisiche sia cognitive, fino all’allungamento della vita media (mettendo addirittura in discussione il limite della mortalità, secondo alcuni). Nell’idea centrale delle posizioni transumaniste (le cui varianti meno radicali sono definite da alcuni postumane) l’uomo è sulla soglia di un salto evolutivo assolutamente importante, in prospettiva di una convergenza biomeccanica con le macchine di cui egli stesso è produttore, per dare origine a una nuova linea filogenetica i cui esiti sono di difficile previsione. C’è da dire che questa posizione al momento ha riscontrato notevole successo soprattutto nella dimensione estetica: nelle arti figurative, nel cinema e nella letteratura (in prevalenza fantascientifica) esistono diversi artisti che, ispirati dalle posizioni transumaniste, hanno prodotto opere il cui scopo è riflettere sulle nuove forme di soggettività postumana che danno vita a ibridi umani, animali e tecnologici. Famosa in questo senso la mostra collettiva curata dal gallerista e critico d’arte statunitense Jeffrey Deitch nel 1992 al FAE Musée d’art contemporain di Losanna, a cui si deve l’uso del termine post-human nel settore delle arti.
Le teorie etico-filosofiche (etica del computer, tecnoetica, roboetica) e le argomentazioni politico-sociali (neoluddismo, transumanesimo, postumanesimo) potrebbero sembrare soltanto speculazioni sulla contemporaneità e sul significato della condizione esistenziale umana in un contesto sempre più tecnologizzato, ma spesso i temi sollevati da queste riflessioni si ripercuotono sulle vicende contemporanee, come hanno mostrato – in un settore diverso ma contiguo – le problematiche bioetiche relative a concetti come nascita, vita, morte e malattia. Un caso di cronaca ha posto all’attenzione del grande pubblico la necessità di una riflessione non banale su questi temi. Oscar Pistorius, un atleta sudafricano che a causa di una grave malformazione congenita ha subito l’amputazione delle gambe all’età di 11 mesi, fin da ragazzo distintosi per aver praticato diversi sport grazie alle sue protesi in fibra di carbonio (chetaah), ha attirato l’interesse del mondo sportivo internazionale conquistando il bronzo sui 100 m piani e l’oro sui 200 durante le Paralimpiadi di Atene del 2004. Nel 2007 egli ha fatto richiesta alla Federazione internazionale di atletica leggera (IAAF, International Association of Athletics Federation) di poter gareggiare alle Olimpiadi di Pechino 2008, assieme agli atleti normodotati. In base alla norma del regolamento delle competizioni, inibente l’uso di strumenti tecnici che diano un vantaggio a un atleta rispetto agli altri, la IAAF ha in prima istanza stabilito la non iscrivibilità di Pistorius, previa perizia prodotta da Gert Peter Brüggemann dell’Istituto di biomeccanica della Universität zu Köln il quale ha accertato sperimentalmente come le protesi dell’atleta sudafricano siano tali da consentire un consumo energetico ridotto del 25%. Un successivo ricorso al Tribunale arbitrale dello sport (TAS), avvalorato da una nuova perizia di Hugh M. Herr del MIT (Massachusetts Institute of Technology), ha tuttavia decretato la legittimità della partecipazione di Pistorius alle Olimpiadi di Pechino, che l’atleta non avrebbe poi ottenuto per il mancato conseguimento del tempo di gara minimo. Al di là della vicenda specifica, è interessante notare come la IAAF abbia capovolto certe idee comuni sugli atleti con handicap: alcuni di loro grazie alle protesi hanno una forma di vantaggio competitivo rispetto agli atleti completamente biologici, ovvero – per usare un’immagine futuribile – sono cyborgs a tutti gli effetti.
Comportamenti sociali tecnologicamente modificati
Ritornando agli studi sulla tecnologia più istituzionalizzati e con una letteratura più consolidata alle spalle, è indubbio che la tecnologia ha un impatto molto profondo sulla vita quotidiana delle persone e sulle relazioni sociali. Si passerà in rassegna soltanto una piccola parte degli impatti ascrivibili al mutamento sociotecnico: lo scopo, infatti, non è quello di presentare una raccolta esaustiva, bensì una rapida carrellata di molteplici temi tutti legati a questo particolare settore delle scienze sociali.
Coordinamento
Una delle tecnologie che ha rivelato il potenziale trasformativo dei mezzi di comunicazione digitale – escludendo ovviamente Internet – è senza dubbio la telefonia mobile. Il telefono cellulare, infatti, è riuscito a riconfigurare i processi sociali alla base del rapporto con il territorio, ma anche i modi secondo cui questo rapporto modifica le relazioni sociali consentendo di descriverle. Una dimensione piuttosto interessante, che mostra come la telefonia mobile stia modificando abitudini sociali fortemente radicate, è quella delle forme di coordinamento tecnologicamente mediate. Con questa etichetta vogliamo riferirci ai modi con cui la telefonia mobile riesce a sviluppare comportamenti collettivi di tipo nuovo, che non potrebbero aver luogo se non ci fosse il tipo di legame sociale reso possibile dai telefoni cellulari e dalle tecnologie per la comunicazione in situazioni di mobilità. Molte sono le ricerche ascrivibili a quest’area di studi, ma per semplicità ci riferiremo a un esempio importante dal punto di vista sociale e politico: la protesta contro la WTO (World Trade Organization) del 1999, nota come battaglia di Seattle, che secondo diversi analisti ha portato all’attenzione del mondo quello che da lì in poi sarà indicato come il movimento no global. Qualche mese prima dell’incontro della WTO, diverse organizzazioni attiviste vicine ai movimenti anarchici e ai movimenti di salvaguardia delle foreste pluviali decisero di coordinare le attività per la pianificazione delle proteste da svolgere a Seattle, sede della conferenza. Queste organizzazioni diedero vita al DAN (Direct Action Network), il cui scopo era quello di fornire informazioni a tutti i gruppi che avessero deciso di partecipare ai cortei, alle manifestazioni e alle altre forme di disobbedienza civile, attività che vennero costantemente pianificate grazie a una rete di siti Internet e di liste di discussione on-line (newsgroup). Durante le giornate della conferenza, i gruppi diretti dal DAN riuscirono a creare una forma di coordinamento piuttosto efficace, anche se non si conoscevano fra loro, perché accomunati da un sentimento di reazione alle idee guida della conferenza, ma soprattutto grazie alla rete di telefoni cellulari, radio, scanner per le frequenze della polizia, computer portatili e palmari attraverso cui riuscivano a comunicare ai manifestanti informazioni in tempo reale sull’andamento dei cortei (de Armond 2001). Queste forme di comportamento collettivo sono da tempo studiate dal punto di vista sia strategico (netwar) sia relazionale (smart mobs).
Sociabilità
Un ulteriore elemento di trasformazione non ascrivibile a una tecnologia in particolare, ma al sistema delle tecnologie della comunicazione digitale nel suo complesso, è senza dubbio la dimensione della sociabilità. Secondo diversi autori, la dimensione relazionale degli individui ha incluso nello spazio personale anche i contatti instaurati con le persone attraverso i media digitali (principalmente la telefonia mobile e Internet). La conseguenza di questo processo è stata la necessità di ridefinire cosa debba intendersi per capitale sociale, ovvero l’insieme dei rapporti interpersonali formali e informali che fanno parte della rete sociale delle persone e con cui vengono instaurati processi di socializzazione. L’impostazione più interessante e anche quella su cui convergono diverse ricerche empiriche è il networking individualism, concetto del sociologo canadese Barry Wellman (2001). L’idea alla base di questa impostazione è che le tecnologie della comunicazione interpersonale non connettono più i luoghi (come nel caso di una telefonata tra telefoni fissi), bensì direttamente le persone in maniera delocalizzata (ne è prova la classica domanda «dove sei?» con cui si aprono le conversazioni al cellulare). La conseguenza è che le comunità si trasformano da gruppi coesi in reti individualizzate. Cruciali in tal senso sono le componenti tecnologiche che hanno portato all’esplosione di questo soggetto sociale: la crescita dell’ampiezza di banda (ovvero della capacità di trasporto dati), la sempre più diffusa portabilità delle tecnologie senza fili (telefonia mobile, collegamenti Internet wireless), la sempre maggiore presenza e specializzazione delle reti di computer (si pensi, per es., al fenomeno delle reti peer to peer utilizzate per lo scambio dei file) e infine i vari processi di personalizzazione che si stanno diffondendo sul web e che lo rendono uno spazio sempre più permeabile alla comunicazione interpersonale.
L’incorporazione di questo panorama tecnologico nei processi di socializzazione ha avuto come conseguenza il fatto che le comunità trascendono il gruppo e la dimensione locale ponendo l’individuo delocalizzato (nomade tecnologico, secondo alcuni) al centro del rapporto sociale. A questa connettività tra persone corrisponde una progressiva crescita delle reti interpersonali al posto delle reti interdomestiche, poiché lo spazio fisico che tradizionalmente ha racchiuso tali processi può ormai essere trasceso dando vita a nuove forme di socializzazione. La ricerca empirica può aiutare a dare una risposta sulle conseguenze di questo cambiamento. In primo luogo l’interazione faccia a faccia e a distanza non sembra avere caratteristiche molto originali (fermo restando la non compresenza fisica); in secondo luogo la distinzione on-line/off-line non appare fruttuosa poiché spesso i contatti sociali della vita di tutti i giorni vengono riprodotti nelle reti tecnologiche (telefonia mobile e Internet). In pratica le persone con le quali si parla al telefono e si chatta su Internet sono spesso le stesse con cui si hanno rapporti faccia a faccia durante il giorno. Una caratteristica interessante di queste forme di socializzazione è il fatto che consentono all’individuo di essere costantemente in contatto con il suo gruppo di riferimento, creando situazioni di ipersocializzazione (e non di isolamento sociale come ipotizzavano i primi studi). In sintesi, l’idea del networking individualism è quella di un soggetto il cui capitale sociale nasce dalla convergenza delle reti tecnologiche e delle reti sociali, creando così uno spazio sociale smaterializzato ma non per questo meno coinvolgente delle tradizionali forme di relazione faccia a faccia.
Mobilità
Una delle condizioni più evidenti della società contemporanea è senza dubbio relativa alla dimensione della mobilità, frutto di dinamiche congiunte che possono essere identificate nella diffusione delle reti di trasporto sempre più efficienti, nelle tecnologie della comunicazione digitale e in una nuova condizione antropologica legata al movimento e allo spostamento. Una riflessione sulla mobilità e sulle forme di riorganizzazione del tempo e dello spazio è stata fatta da quasi tutti i sociologi che hanno cercato di elaborare un framework articolato per descrivere la contemporaneità: da Anthony Giddens, a Manuel Castells a Zygmunt Bauman. Tuttavia, l’autore per il quale la mobilità costituisce la categoria fondamentale della dimensione sociologica contemporanea è senza dubbio John Urry. Egli ha elaborato un vero e proprio manifesto culturale per sviluppare una teoria sociale in grado di trascendere i classici concetti sociologici – come nazionalità, cittadinanza, stato-nazione – colpevoli a suo dire di non essere più in grado di spiegare la società tardomoderna. Per questo motivo ha messo a punto quella che lui stesso ha definito sociologia della mobilità, ovvero una sociologia in grado di porre la categoria della mobilità al centro della sua analisi.
Urry ha isolato quattro diverse tipologie con cui si presenta la mobilità nelle società contemporanee, usando la dimensione del viaggio come categoria interpretativa. In primo luogo si considera la mobilità degli oggetti, ovvero lo spostamento degli artefatti trasportati dalle persone in movimento, anche se in alcuni casi gli oggetti tracciano percorsi diversi da quelli seguiti dai viaggiatori. In secondo luogo si colloca il viaggio immaginativo (imaginative), che consiste nella sensazione di essere trasportati altrove grazie alle informazioni e alle immagini di luoghi e persone, e che è reso possibile dalla radio ma soprattutto dalla televisione la quale, grazie ai suoi network globali, è in grado di raggiungere milioni di individui simultaneamente. In terzo luogo si valuta la possibilità di trascendere la distanza sociale e geografica grazie alle reti della comunicazione digitale (come Internet) che dà forma a quello che viene definito viaggio virtuale. Infine, si considera lo spostamento delle persone sul territorio rappresentato dall’esperienza del viaggio corporeo, dimensione questa che identifica lo stile di vita di una classe di persone sempre più ampia e vasta.
Come si può notare dalla tipologia appena esposta, tutte le forme di viaggio elencate dipendono dalla dimensione tecnologica, alcune volte nel senso di reti di trasporto che consentono lo spostamento di persone e prodotti, altre volte nel senso di reti di comunicazione che rendono possibile la circolazione di simboli (messaggi audiovisivi) o flussi comunicativi (relazioni sociali mediate da Internet). Ne consegue (Urry 2000) che lo spazio, contesto classico della dimensione sociale, sembra ridimensionare il suo ruolo tradizionale in virtù dell’effetto di compressione spaziotemporale causato dalle diverse accezioni della mobilità, ma anche dell’effetto di annullamento delle distanze dovuto alla mobilità fisica (come gli spostamenti aerei) e informazionale (come il tempo reale degli eventi veicolati dai media). Molteplici sono gli esempi di nuovi processi sociali originati dall’incorporazione della dimensione fisica della mobilità con la dimensione informativa. È il caso delle culture diasporiche contemporanee, le quali, pur costituite da un insieme di persone disperse dal punto di vista territoriale che vivono in luoghi molto distanti dal proprio Paese originario, elaborano meccanismi di coesione e appartenenza grazie alle moderne tecnologie della comunicazione e del trasporto.
Conclusioni
La questione della circolazione delle tecnologie è piuttosto articolata e complessa, e necessita di diversi punti di vista per includere i processi sociali sottesi alle dinamiche attraverso cui esse entrano a far parte della vita quotidiana degli individui. Infatti, la quotidianità – qui intesa fenomenologicamente come le pratiche con cui si elaborano meccanismi di appartenenza sociale e processi di attribuzione di senso – è il contesto fondamentale rispetto al quale esaminare come il rapporto tra tecnologia e società non solo sia ricco di sfumature, ma richieda una capacità analitica in grado di coinvolgere le micro- e macrodimensioni dell’esperienza sociale. Se è vero che la tecnologia viene veicolata nel mondo sociale grazie ai processi economici soggiacenti alle dinamiche di mercato, è vero anche che la progettazione, la diffusione, l’incorporazione nello stile di vita delle persone e il successo (o il fallimento) di una determinata tecnologia sono alla mercé di complesse dinamiche le quali, pur avendo l’individuo come attore protagonista, fanno riferimento a percorsi profondamente culturali e sociali.
In estrema sintesi, la tecnologia può essere concettualmente rappresentata come un artefatto le cui regole di funzionamento sono inerenti alla dimensione scientifico-tecnica. Tuttavia, il modo con cui queste danno vita a un particolare ente in grado di far parte della quotidianità e quindi di provocare un impatto sulle forme dell’esperienza contemporanea è condizionato dal contesto sociale nel quale le diverse dimensioni (economica, storica, culturale ecc.) si manifestano. Con uno slogan, potremmo dire che la tecnologia è la forma che assume la società quando viene mediata dall’apparato tecnico-scientifico.
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