La citta tardoimperiale tra trasformazione e rinnovamento
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I profondi cambiamenti avviati con Diocleziano e Costantino incidono anche sulla vita sociale delle città e sull’urbanistica. L’evergetismo dei maggiorenti locali cede sempre più il passo a una munificenza di stato che segna l’evoluzione e lo sviluppo delle capitali amministrative e religiose del periodo, e che talora proseguirà anche dopo la caduta dell’impero, per esempio nell’attenzione tributata da Teodorico ai monumenti pagani di Roma.
Uno dei fattori che più incidono nell’evoluzione del tessuto sociale e urbanistico delle città in epoca tardoantica è costituito, come ben rilevato dall’analisi più recente, dalle riforme fiscali tetrarchiche e costantiniane. Benché forse meno appariscenti della vittoria del cristianesimo e dell’acuirsi della minaccia barbarica (cui chiaramente si collegano la comparsa di chiese e circuiti murari), queste riforme si rivelano sul lungo termine gravide di conseguenze molto pesanti.
In particolare ci si può riferire all’incameramento da parte dello stato delle tasse locali (vectigalia) e delle antiche proprietà cittadine (con le connesse rendite). Mentre prima le curie delle varie città amministravano direttamente le proprie rendite, finalizzate alla gestione delle infrastrutture e non di rado investite in forme di munificenza (giochi, costruzione o decorazioni di edifici), nel corso del IV secolo questo flusso di risorse viene dirottato verso l’autorità statale, che si incarica di effettuare una redistribuzione. Questo ulteriore passaggio comporta, fatalmente, una serie di conseguenze: ben difficilmente il totale delle risorse riversate sul territorio corrisponde al totale di quanto da esso è stato ricavato. La necessità di remunerare una burocrazia centrale sempre più pletorica e un grande esercito si fa sentire, e si ripercuote sulla determinazione dei finanziamenti da concedere alle realtà locali, che tendono ad essere drasticamente ridotti.
Se la fiscalità cittadina risulta sostanzialmente trasferita allo stato, un ulteriore cambiamento finisce per colpire anche la componente sociale che fino a quel momento si è incaricata personalmente, in un orgoglioso sfoggio di risorse, di dare lustro alle varie realtà locali: si tratta della categoria dei curiali, identificabili con i maggiorenti facenti parte del consiglio cittadino, e idealmente estendibile anche ai nouveaux riches che, facendo mostra del proprio evergetismo, aspirano ad essere cooptati nella classe sociale più prestigiosa. Nel periodo in questione, lo status di curiale diviene sempre meno un onore e sempre più un onere: i maggiorenti cittadini sono gravati da un numero sempre crescente di obblighi e responsabilità, come quella relativa al prelievo fiscale, di cui sono collettivamente garanti di fronte allo stato. Se il gettito è inferiore rispetto alla cifra preventivata, i curiali devono colmare la differenza di tasca propria: nel caso di crisi economica o annate particolarmente sfavorevoli, questo obbligo può letteralmente portarli alla rovina. Non stupisce, dunque, che questa serie di cambiamenti inneschi una vera e propria fuga (inimmaginabile in precedenza) dalla classe curiale. I suoi rappresentanti cercano in ogni modo di sottrarsi a questa imposizione, sparendo letteralmente dalla circolazione o, in maniera meno traumatica, cercando di entrare nel servizio statale, che spesso prevede l’esenzione dagli "obblighi curiali". Questo comporta tutta una serie di abusi, e la legislazione imperiale cerca spesso di limitare tali scappatoie e di tenere i curiali fissati al loro posto. Essere annoverati tra i maggiorenti cittadini non costituisce più un obiettivo allettante neanche per chi desidera fare una scalata sociale: il vero prestigio e la vera sicurezza si identificano sempre di più con l’essere al servizio dello stato.
Se già le "spese ordinarie" di gestione cittadina risultano decurtate a causa di quella che si potrebbe chiamare "centralizzazione fiscale", le sventure della classe curiale sono spesso fatali alle "spese straordinarie", a quegli atti di munificenza che caratterizzano la vita delle municipalità romane nel periodo precedente. L’erezione di statue, l’organizzazione di giochi e festività, il miglioramento dell’arredo urbano tendono a rarefarsi nel complesso delle città dell’impero. In altri termini, quando si parla di crisi della "vita urbana" (peraltro non uniforme in tutte le zone, è bene sottolineare) non si intende necessariamente una flessione economica né uno spopolamento dei centri cittadini: soprattutto nella pars Orientis, numerosi centri continuano a prosperare ancora per secoli. La crisi colpisce soprattutto, invece, le manifestazioni e gli spazi di vita collettiva, che spesso scompaiono o vengono lasciati all’incuria. Viene spesso fatto l’esempio delle grandi vie colonnate delle città orientali. Nel corso della tarda antichità queste arterie monumentali finiscono per essere intasate e soffocate da una miriade di stalli e bottegucce che si impiantano caoticamente negli intercolumni e arrivano talora a bloccare o rendere tortuosa l’intera sede stradale. A bene vedere si tratta di una manifestazione di vitalità abitativa ed economica: quello che viene meno, però, è il senso dell’ordine e della regolamentazione dello spazio pubblico, che tende a divenire sempre più spazio di nessuno. Anche le classi abbienti, all’interno delle realtà cittadine, investono le proprie ricchezze non nella munificenza pubblica ma nelle proprie dimore private, il cui lusso peraltro non ha nulla da invidiare all’epoca precedente, o al massimo nella costruzione di chiese, l’unico tipo di edificio a carattere "pubblico" che risulti in espansione nel complesso dell’impero. Senza contare che spesso la massima aspirazione dei nuovi magnati, quand’anche siano radicati nel territorio, è quello di ritagliarsi una posizione nel servizio statale.
Capita spesso che, dopo una carriera nell’amministrazione centrale o nell’insegnamento, un alto funzionario torni a passare i suoi ultimi anni nella città di origine (si può pensare tra gli altri ad Ausonio, Agostino, allo stesso Rutilio Namaziano): ciò comporta un’ulteriore diffusione delle mode e degli stilemi diffusi nell’ambiente della corte e dell’alta amministrazione e questo fatto, se favorisce l’omologazione delle classi dirigenti, contribuisce anche alla scomparsa delle peculiarità culturali che, custodite spesso proprio dalla classe curiale, avevano contraddistinto i centri urbani del periodo precedente. Tutto il processo di centralizzazione fiscale, religiosa, culturale e sociale che inizia nel periodo tetrarchico e prosegue con Costantino e i suoi successori risulta dunque chiaramente rispecchiato, come in una cartina di tornasole, dalle strutture cittadine, le cellule fondamentali dello stato romano.
La riduzione degli introiti locali e il declino della classe curiale non comportano, tuttavia, la totale cessazione di ogni aspetto di munificenza pubblica, in particolare nell’ambito dell’edilizia e degli spettacoli. Da un lato, in un territorio vasto e variegato come quello dell’impero resta spazio per realtà spesso atipiche e in controtendenza rispetto all’orientamento generale: si può ad esempio ricordare come la vita municipale nella provincia d’Africa sia in pieno fulgore fino alla conquista vandala, e come anche nell’Italia meridionale, almeno fino all’invasione di Alarico, si riscontri l’effetto della presenza di molte famiglie senatorie. Soprattutto, però, si nota come sia l’autorità imperiale ad intervenire in questo settore, utilizzando in maniera concentrata e mirata quelle risorse che prima erano a disposizione, per i medesimi fini, nell’estensione delle varie municipalità dell’impero. In altri termini, l’autorità centrale si assume l’incarico di organizzare spettacoli, erigere e restaurare edifici, garantire il decoro urbano. A beneficiare di questi interventi, la cui scala è ovviamente molto maggiore rispetto a quella concessa in precedenza dalle disponibilità delle singole curie, sono però solo alcune città, ovviamente quelle più connesse con l’autorità centrale. In primo luogo, dunque, le varie capitali tetrarchiche e imperiali: si può pensare all’imponenza e alla sontuosità degli edifici tardoantichi, ancor oggi esistenti, di Treviri e Ravenna (la cui dimensione triplica dopo il trasferimento della corte nel 402), oppure alla stessa Costantinopoli.
Secondo le parole di Gerolamo, la "Nuova Roma" viene sfarzosamente edificata da Costantino paene omnium urbium nuditate, "quasi spogliando tutte le altre città", con riferimento tanto alle numerose opere d’arte trasferite da tutto l’impero, quanto, idealmente, alla quantità di risorse locali dirottate verso la nuova capitale.
Tra le benemerenze associate alla figura dell’imperatore, acquisisce dunque particolare importanza quella dell’attività edilizia dispiegata in tutto l’impero: non è un caso che questo tratto sia associato proprio ai due sovrani che aprono e chiudono la tarda antichità, ovvero Costantino (in particolare nelle parole di Eusebio) e Giustiniano, le cui molteplici realizzazioni furono celebrate da Procopio in un’opera apposita, il De aedificiis. Altre città traggono beneficio dal potere centrale in maniera più indiretta, per il tramite degli alti funzionari civili e militari che vi risiedono e che, in una qualche misura, si rendono autori di atti di evergetismo: è il caso, ad esempio, di varie capitali provinciali. Questo ruolo di impulso attribuibile allo stato, in misura gerarchicamente variabile a seconda dell’importanza delle autorità coinvolte, è rispecchiato anche dalla sorte di uno degli spettacoli più in voga nei primi secoli dell’impero, le corse dei carri. Estinte in molte località nel corso del IV secolo, sopravvivono però nella capitale provinciale di Efeso fino agli inizi del VII secolo (ovvero l’epoca dell’invasione persiana, che per l’Oriente costituisce una cesura importante per la vita urbana di molti centri) e nella città imperiale di Costantinopoli addirittura fino alla conquista crociata nel 1204. Del resto, sempre a Costantinopoli, la munificenza imperiale permette la perpetuazione, per quanto spesso in forme alterate o vestigiali, di molte altre cerimonie pubbliche ereditate dallo stato romano, tra cui quella dei Lupercali, ancora celebrata nel X secolo.
Se dunque nella redistribuzione delle risorse dopo le grandi sedi imperiali vengono le città dotate di importanza amministrativa e militare, ne consegue che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i centri collocati in prossimità delle frontiere sono più favoriti, nonostante la posizione più esposta a rischi, rispetto a quelli dell’interno, che, se dal punto di vista geografico sono più sicuri, dall’altro non risultano interessati dalla presenza della corte, dell’esercito o di alti ufficiali e funzionari. Ovviamente, anche in questo caso, esistono eccezioni: Cartagine, ubicata in un territorio ricco e pacifico, sarà in grado di prosperare con le proprie forze; Gerusalemme, centro di secondaria importanza fino agli inizi del IV secolo, dopo la conversione di Costantino sarà oggetto di imponenti ed innovative iniziative imperiali.
L’adozione del cristianesimo da parte di Costantino, pur essendo innanzitutto una scelta privata, comporta necessariamente numerose ripercussioni anche in campo pubblico. L’imperatore si interessa, in particolare, dei luoghi connessi alla figura del Cristo e, coadiuvato in loco dalla madre Elena, si impegna in una campagna particolarmente imponente per recuperare le "testimonianze" della vicenda di Gesù ed inserirle in monumentali cornici architettoniche.
Viene così eretta la basilica della Natività a Betlemme, in gran parte ancora esistente, caratterizzata dall’imponente struttura a cinque navate, pavimentata con un mosaico variopinto, e originariamente culminante in una grande struttura ottagonale che racchiude la sacra grotta ed avrà un influsso importante anche in seguito nell’edilizia sacra della regione, fino alla Cupola della Roccia. Tra il 326 e il 336, invece, nella poco distante Gerusalemme si procede alla costruzione del grande complesso del Santo Sepolcro. Dopo aver rimosso un terrapieno e una serie di strutture che avevano obliterato l’area (volontariamente, secondo la tradizione cristiana) in età adrianea, vengono rinvenuti un sepolcreto rupestre e l’area di una cava abbandonata, dove spicca una piccola altura identificata con il Golgota. Mediante imponenti lavoro di sbancamento, quella ritenuta la tomba di Gesù viene isolata su tutti i lati e, protetta da un’edicola circondata da un grande colonnato circolare, risulta inclusa nell’edificio detto Anastasis, "Resurrezione". Quest’ultimo, tramite un grande cortile dove svetta la roccia del Golgota, è collegato con una grande basilica a cinque navate (detta martyrium), da dove si giunge all’ambiente ipogeo (un’antica cisterna) e dove Elena avrebbe rinvenuto la Vera Croce. Tutto il complesso comunica infine, attraverso una scalinata, con il cardo maximus colonnato della città, risalente all’epoca adrianea, secondo un modulo di articolazione tra spazi pubblici profani e sacri che ha paralleli pagani, per esempio, nella città di Gerasa ed a Petra. L’influsso del complesso del Santo Sepolcro, visitato da molti pellegrini e riprodotto in oggetti devozionali che i viaggiatori riportano in patria come souvenir, è senz’altro molto importante anche dal punto di vista architettonico, e la presenza di ambienti ipogei (grotte, tombe, cisterne) in connessione con le principali fondazioni costantiniane della Terrasanta è stata messa in relazione con l’origine stessa delle cripte, il cui scopo primario è quello di custodire le reliquie più importanti.
Dopo Costantino la continua attenzione imperiale verso Gerusalemme si concretizza soprattutto in donativi e in un trattamento privilegiato; ma occorre almeno ricordare che nel 444 vi si ritira l’imperatrice Eudocia, che significativamente, oltre a costruire chiese e ospizi, ne restaura le mura. Più che ad una necessità bellica, occorrerà pensare al particolare valore che le cinte difensive svolgono nell’"immaginario urbano" della tarda antichità, secondo il quale (facendo di necessità virtù, è stato detto) esse costituiscono un "ornamento in tempo di pace" (la definizione è di Cassiodoro) imprescindibile per ogni città degna di essere chiamata tale.
Anche Roma costituisce un caso per molti versi peculiare: nonostante gli imperatori la degnino sempre meno della loro presenza, rimane comunque la prima città dell’impero, costituendo contemporaneamente un’importante sede cristiana e un caposaldo del paganesimo, difeso da molti esponenti dell’influente classe senatoria. Costantino, all’indomani della vittoria di Ponte Milvio, vi costruirà due grandi basiliche a cinque navate (San Salvatore – poi San Giovanni – in Laterano e San Pietro); alla sua iniziativa si deve anche San Lorenzo fuori le Mura, a quella dei suoi familiari Santa Croce, Sant’Agnese sulla via Nomentana (fondata nel 342 da Costanza, figlia di Costantino) e i Santi Marcellino e Pietro. Occorre peraltro notare come in tal caso queste pur importanti fondazioni siano ubicate in aree cimiteriali e dunque fuori dalle mura cittadine, o comunque in aree nettamente decentrate (si pensi alla collocazione del Laterano o di Santa Croce). Ciò, più che alla mancanza di spazi disponibili, potrebbe essere attribuito ad una forma di rispetto (se non direttamente di imbarazzo) nei confronti delle parti della città più cariche di venerande tradizioni pagane: si pensi alla zona dei Fori imperiali, del Foro romano, del Campidoglio, del Campo Marzio.
Forse non è un caso che nelle medesime aree si concentrino i monumenti "laici" costruiti da Costantino o a lui dedicati dal senato: le terme sull’Esquilino, il celebre arco di trionfo, la basilica di Massenzio, lo stesso tempio rinnovato di Venere e Roma. Anche sotto i suoi successori, l’edilizia cristiana stenta ad affermarsi nel cuore della città; a Roma si sviluppa dunque una sorta di dicotomia tra la centralità dei monumenti pagani, che si continuano ad arricchire (il grande obelisco del Circo Massimo, ora in piazza del Laterano, verrà portato a Roma solo sotto Costanzo II, nel 357), e la "perifericità" di quelli cristiani, in qualche misura alternativi ai primi, come la chiesa di San Paolo fuori le Mura, sontuosamente ricostruita per interessamento di Teodosio I, Graziano e Valentiniano II sulla base di una precedente fondazione costantiniana. Con il tempo, la forza attrattiva delle grandi basiliche porta alla nascita di una sorta di nuova "via sacra": sul percorso che congiunge il centro cittadino a San Pietro verranno edificati ben due archi di trionfo oggi scomparsi, quello di Graziano, Valentiniano e Teodosio presso l’attuale Ponte Sant’Angelo e quello di Arcadio, Onorio e Teodosio nel Campo Marzio. Solo in seguito l’edilizia monumentale cristiana sarebbe arrivata a colonizzare anche il cuore della città: la basilica patriarcale di Santa Maria Maggiore viene eretta tra il 432 e il 440. Per tutto il corso del V secolo, comunque, i monumenti pagani di Roma, persino i templi pagani (rimasti sotto controllo statale anche se sconsacrati), continuano ad essere circondati da un’aura di venerando prestigio che ne favorisce la conservazione: si può pensare al Pantheon, convertito in chiesa nel 608, o allo stesso tempio di Giano, che, stando a Procopio, nel 537 non solo è perfettamente integro, ma custodisce ancora la sua statua di culto. Del resto lo stesso Teodorico, re d’Italia dal 493 al 526, si preoccupa molto di salvaguardare e restaurare gli antichi monumenti di Roma, minacciati dalla vetustà e dall’abbandono. Si tratta di un bell’esempio di quella romanizzazione culturale che spesso permea le élite dei regni barbarici sorti sulle ceneri dell’impero: il sovrano ostrogoto ha ben compreso che la cura degli edifici pubblici, per quanto sempre più difficoltosa, costituisce un compito imprescindibile per chi vuole aspirare all’eredità di Roma.