La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. Scienza e filosofia
Scienza e filosofia
Nella cultura islamica medievale manca una netta distinzione tanto tra filosofia e scienza quanto tra le 'scienze' e le 'arti': i filosofi, che con un termine derivato dal greco erano detti falāsifa, consideravano la filosofia una scienza, se non la scienza per eccellenza. Questa concezione derivava dagli Analitici secondi di Aristotele, un testo che, noto in arabo con il titolo di Kitāb al-Burhān (Libro della dimostrazione), esercitò una profonda influenza nel mondo islamico. La sovrapposizione tra filosofia e scienza ha risvolti anche esteriori: si può dire che non esista filosofo arabo-islamico che non sia al tempo stesso uomo di scienza. I nomi che la tradizione filosofica ricorda sono gli stessi delle tradizioni delle varie scienze, della matematica, dell'astronomia e, soprattutto, della medicina.
Le diverse classificazioni delle scienze che si devono all'elaborazione filosofica inseriscono in un preciso ordinamento gerarchico gli ambiti d'indagine non solo delle discipline filosofiche ma anche delle scienze naturali, della matematica, della fisica e di alcune delle più importanti 'arti' del tempo, giungendo talora a includere perfino le 'scienze religiose' islamiche (Jolivet 1996). Il principio ispiratore di tale concezione è enunciato chiaramente da al-Fārābī nel suo Kitāb al-Burhān ‒ una sorta di commento al testo aristotelico ‒ in cui, in accordo con la concezione greca, egli asserisce che "tutte le scienze particolari sono soggette alla filosofia prima" (p. 65), vale a dire alla metafisica.
L'interesse per le scienze e il legame tra scienza e filosofia facevano già parte della concezione greca: Platone, Aristotele e Galeno, i pensatori greci che più di ogni altro influenzarono i falāsifa, avevano mostrato un grande interesse per alcune discipline scientifiche e, in taluni casi, le avevano coltivate essi stessi. Platone aveva accordato una grande importanza alla geometria, mettendo in luce, nella Repubblica, la necessità di sviluppare la geometria solida, allora ai suoi esordi, e dedicando uno dei suoi dialoghi a Teeteto, un brillante studioso di geometria morto in giovane età. È proprio basandosi su una delle scoperte di Teeteto ‒ il principio secondo cui solo cinque solidi regolari possono essere inscritti in una sfera ‒ che Platone introdusse nel Timeo, certamente conosciuto in arabo grazie al compendio di Galeno, l'idea di un nesso necessario tra la forma dei solidi regolari e i quattro elementi: egli associa alle particelle elementari di ciascuno dei quattro elementi la forma di uno dei cinque solidi regolari (cubo/terra, tetraedro/fuoco, ottaedro/aria, icosaedro/acqua), mentre attribuisce, per ragioni non del tutto chiare, la forma del quinto solido ‒ il dodecaedro ‒ all'Universo. Anche Aristotele aveva dimostrato un profondo interesse per le scienze: si era recato a Lesbo per osservare gli animali marini e aveva dedicato alcuni importanti trattati, gran parte dei quali tradotti e commentati in arabo, a questioni di carattere zoologico. La tradizione araba gli attribuiva anche un trattato sulle piante (De plantis). Infine, Galeno appare la figura in cui forse ancor più compiutamente scienza e filosofia si fondono: non solo egli fu autore di un gran numero di testi medici ma compose anche opere filosofiche. Di una parte di esse, e soprattutto di alcune di carattere etico, si sono conservate soltanto le versioni arabe che così, pur essendo quasi sempre in forma di epitomi, costituiscono l'unica fonte ormai disponibile per ricostruire alcuni aspetti del pensiero di Galeno. Alla contiguità tra scienza e filosofia, già tipica del mondo greco, si aggiunse nel mondo arabo il fatto che alcuni dei più importanti traduttori, cui si devono le versioni di opere filosofiche dal greco in siriaco o in arabo, si dedicarono anche alla traduzione di testi di carattere medico o matematico. Il celebre Ḥunayn ibn Isḥāq, oltre a curare la traduzione di numerosi trattati medici di Galeno, redasse egli stesso alcune opere mediche ‒ una delle più importanti riguarda il globo oculare ‒ e compose una serie di trattati dedicati a particolari problemi scientifici (le maree, la salinità dell'acqua marina, i colori, l'arcobaleno, ecc.).
Se, in genere, seguendo l'esempio dei loro predecessori greci e dei loro traduttori, molti falāsifa composero anche trattati dedicati alle varie scienze, l'interesse per la pratica scientifica fu non di rado determinato anche da ragioni di necessità: contrariamente alla maggior parte dei filosofi greci, quelli arabi dovevano, infatti, spesso guadagnarsi da vivere. Così, all'interesse teorico per le 'scienze' e le 'arti' i filosofi arabi poterono unire spesso la competenza della professione poiché il loro era, in alcuni campi ‒ come la medicina, la matematica o la musica ‒, un vero e proprio esercizio professionale e spesso il loro contributo alle varie discipline si distingue per importanza e originalità. Al-Rāzī afferma ripetutamente che, a suo parere, la necessità di guadagnarsi da vivere non è di ostacolo all'attività filosofica e, in tal senso, appare evidente come i filosofi arabi non condividessero interamente il disprezzo ostentato dai loro predecessori greci nei confronti degli aspetti pratici delle diverse discipline.
Il rapporto tra scienza, prassi e filosofia fu spesso affrontato dai falāsifa in relazione allo statuto delle scienze; alcune questioni, in particolare, furono al centro di lunghe discussioni come, per esempio, la questione del ruolo e dell'importanza della matematica per la filosofia (fondamentale secondo al-Kindī e irrilevante per al-Rāzī) o quella dello sviluppo delle scienze e della filosofia stessa che, secondo gli aristotelici, aveva raggiunto l'apice con Aristotele, mentre per al-Rāzī, che in ciò si richiamava a Platone, a Socrate e a Galeno, il progresso filosofico e scientifico è continuo e inarrestabile. Altre questioni a lungo dibattute riguardarono le relazioni tra la teoria e la pratica e quindi tra le scienze teoriche e quelle pratiche e, infine, il valore delle predizioni astrologiche di singoli eventi.
Figura esemplare per comprendere il rapporto tra scienza e filosofia è quella del persiano al-Rāzī ‒ il Rhazes dei latini (251-313/865-925) ‒ che non fu, infatti, solo autore di originali tesi filosofiche ma anche uno dei primi rappresentanti di un sapere in cui scienza e filosofia appaiono fondersi perfettamente; anche se, a quanto sembra, egli rimase piuttosto isolato: sostenitore di posizioni eterodosse tanto in religione quanto in filosofia, al-Rāzī non ebbe mai un gran seguito di discepoli. Egli rifiutò ‒ ed è già questo un esempio di come, per il filosofo persiano, scienza e filosofia procedessero di pari passo ‒ l'idea di Aristotele di una netta distinzione tra anima animale e umana, sostenendone la scarsa plausibilità sulla base dell'osservazione del comportamento animale. Al-Rāzī riteneva inoltre che in filosofia, come nella scienza, fosse riscontrabile un progresso continuo, determinato dalla lenta ascensione che l'anima universale, grazie all'intelletto conferitole da Dio, compie verso la propria dimora originaria. Proprio questa fede nel progresso della scienza è all'origine del suo trattato Kitāb al-Šukūk ῾alā Ǧālīnūs (Libro dei dubbi su Galeno). Al-Rāzī fu anche un celebre medico e, oltre a registrare regolarmente le proprie osservazioni e le terapie cliniche praticate (si pensi al Kitāb al-Ḥāwī, il Continens dei latini), redasse uno studio estremamente dettagliato sul vaiolo e altre malattie. Al-Rāzī anteponeva, infatti, l'osservazione clinica alla teoria e riteneva che la medicina fosse strettamente legata alla filosofia: egli affermava per esempio di aver composto il Kitāb al-Ṭibb al-rūḥānī (Libro di medicina spirituale, che insegnava, cioè, a dominare le passioni) per completare l'opera intrapresa con il Kitāb al-Ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr), un trattato dedicato alla 'medicina corporea'. La sua posizione, tuttavia, appare talvolta ambigua. Verso la fine della sua vita, al-Rāzī si dedicò alla stesura di un'autobiografia, Kitāb al-Sīra al-falsafiyya (La vita filosofica), in cui, rivendicando orgogliosamente la propria identità di filosofo, asserì di aver accettato denaro per la sua pratica della medicina. Da una parte, quindi, al-Rāzī si presenta come 'filosofo' e, dall'altra, si mostra convinto che le sue opere mediche siano parte integrante della sua speculazione filosofica e sente di doversi giustificare per aver trascurato la matematica; il sapiente doveva dedicarsi a questa disciplina, escludendo però la geometria, che era invece, a suo parere, solo per i 'filosofastri', mawsūmīn bi-'l-falsafa, i quali le avrebbero a torto dedicato la maggior parte del loro tempo. Come dimostrano i titoli di una serie di trattati dedicati al moto, al-Rāzī si interessò anche di fisica e si dedicò allo studio dell'alchimia, difendendola dagli attacchi di un altro faylasūf, l'arabo al-Kindī (801 ca.-866).
Quest'ultimo, uno dei primi filosofi di tendenza decisamente peripatetica, fu nondimeno strenuo sostenitore della necessità di un nesso tra scienza e filosofia. I bibliografi arabi gli attribuiscono un'opera intitolata Fī anna-hu lā tunālu al-falsafa illā bi- ῾ilm al-riyāḍiyyāt (La filosofia non può essere acquisita che attraverso la disciplina matematica) e numerose sono le sue opere di carattere matematico: sappiamo di un suo commento a La misura del cerchio di Archimede (un testo scritto per determinare il valore approssimativo di π) e ci è giunto un gran numero di testi dedicati all'ottica, fra cui un commento all'Ottica di Euclide e alla catottrica, entrambe branche della matematica. Al-Kindī si interessò, inoltre, alla struttura concentrica dell'Universo e, probabilmente sotto l'influenza del Timeo platonico, anche alle ragioni per cui gli Antichi diedero agli elementi la forma dei cinque solidi, attribuendo, tuttavia, quella del dodecaedro non all'Universo, come Platone, ma al quinto elemento aristotelico, l'etere. I suoi interessi matematici e medici lo condussero a elaborare un sistema per valutare l'efficacia delle sostanze medicinali: l'uso dei farmaci composti richiedeva, infatti, la determinazione delle esatte proporzioni degli ingredienti semplici di cui essi erano costituiti. Al-Kindī, inoltre, difendeva la validità dell'astrologia giudiziaria, ritenendo possibile predire singoli eventi in base alla posizione delle stelle; una sua opera, al-Arba῾ūna bābau (I quaranta capitoli), fu uno dei testi astrologici che eserciteranno maggiore influenza nel mondo medievale arabo e latino. I fondamenti teorici di quest'opera sono, tuttavia, piuttosto carenti: imperniata sull'astrologia catartica, essa si riduce a un tentativo di individuare i periodi più favorevoli per intraprendere una serie di attività, dai matrimoni ai viaggi, dallo scavo di canali d'irrigazione o di pozzi alla costruzione di dighe. Sul piano teorico è invece più interessante un testo conservato soltanto in traduzione latina, il De radiis, in cui al-Kindī espone la propria teoria dell'influsso universale e celeste sulle cose del mondo sublunare.
Ad al-Fārābī (m. 339/950), detto 'il secondo maestro' ‒ il primo fu Aristotele ‒ va assegnato un posto particolare. Celebre, nel mondo islamico e in quello latino medievale, oltre che per le sue opere filosofiche, per il suo Iḥṣā᾽ al-῾ulūm (Enumerazione delle scienze), un importante testo in cui troviamo una classificazione delle scienze e 'arti' dell'epoca, al-Fārābī fu anche autore di un'importante opera, il Kitāb al-Mūsīqī al-kabīr (Il grande libro della musica), che rappresenta uno dei più significativi contributi, sul piano scientifico, del mondo arabo all'arte o 'scienza' della musica (al-Fārābī non sempre opera una netta distinzione tra 'scienza' e 'arte', anche in riferimento alla musica). L'Iḥṣā᾽ al-῾ulūm, tuttavia, non offre un'idea adeguata del suo originale e vasto contributo in questo campo. La musica vi si trova inserita tra le sette scienze matematiche, dopo l'aritmetica, la geometria, l'ottica, la catottrica e l'astronomia e prima della scienza dei pesi e della meccanica. Come l'aritmetica e la geometria, la musica viene divisa in teorica e pratica. La musica pratica studia le melodie sia nelle loro esecuzioni vocali e strumentali, sia in quanto immaginate nel corso della composizione di brani destinati a essere interpretati vocalmente o strumentalmente. La musica teorica, invece, prende in esame le melodie ascoltate astraendole da qualsiasi 'materia', che si tratti della voce o di uno specifico strumento; la prima parte esamina i principî fondamentali della musica, mentre la seconda riguarda le conseguenze di questi principî, mostrando la concordanza di ciò che è stato dimostrato con le applicazioni ai diversi strumenti e alla voce. In queste due parti è affrontato anche il tema del ritmo. La terza e ultima parte studia la composizione in generale (senza far riferimento a uno specifico strumento o alla voce), dimostra che le composizioni vocali e strumentali raggiungono la perfezione quando sono al servizio della poesia e discute infine l'impatto emotivo dei diversi generi di melodia. Della fabbricazione degli strumenti musicali si occupa invece la settima disciplina matematica, la meccanica. Nell'Iḥṣā᾽ al-῾ulūm la musica è presa in esame come parte integrante delle scienze matematiche, benché l'osservazione che la musica teorica riguardi le melodie ascoltate più che le proporzioni matematiche delle lunghezze delle corde, secondo l'analisi del Timeo, tenda a distinguerla dalla scienza dei numeri.
Nel Kitāb al-Mūsīqī al-kabīr al-Fārābī rivela invece il suo interesse per l'unicità della musica e tende a ridimensionarne le relazioni con le scienze matematiche. Tra le opere di al-Fārābī che ci sono giunte, questa è di gran lunga la più estesa. In essa si trovano numerosi passi molto tecnici sugli strumenti musicali e sulle forme di composizione del mondo islamico. Benché non possano essere considerati del tutto affidabili, i racconti secondo cui lo stesso al-Fārābī sarebbe stato un brillante musicista suggeriscono che egli sia stato almeno un appassionato ascoltatore di esecuzioni musicali, se non un competente cultore di musica. Il punto essenziale è, comunque, che al-Fārābī affrontò da filosofo il problema dell'inserimento della musica nel quadro della scienza aristotelica così come questa era stata sistematizzata negli Analitici secondi, mentre, quale appassionato o praticante di musica, tentò di illustrarne la specificità e l'unicità. Una delle sue prime preoccupazioni è quella di spiegare perché, malgrado le sue reiterate affermazioni che gli Antichi, vale a dire i Greci e in particolare Aristotele, avessero portato tutte le scienze e le arti alla perfezione, egli avesse deciso di scrivere un trattato tanto vasto sulla musica. Così, dopo aver sostenuto che la maggior parte delle opere antiche dedicate alla musica era molto probabilmente andata perduta o che soltanto una parte di esse era stata tradotta in arabo, al-Fārābī annuncia di aver deciso, per colmare le lacune determinate dall'assenza di queste opere, di scoprire i principî della musica e ciò che da essi discende attraverso un metodo di sua ideazione. Nell'introduzione 'il secondo maestro' presenta questo metodo; nel Libro I enuncia i principî generali della musica ‒ il solo tema parzialmente trattato sia dagli autori antichi sia da quelli moderni; nel II spiega in quale modo questi principî debbano essere applicati agli strumenti musicali della sua cultura e, nel III, prende in esame i diversi generi di melodia, con particolare riferimento alle melodie vocali, quelle considerate più vicine alla perfezione, e ai modi in cui esse colpiscono gli ascoltatori.
Il principale problema di al-Fārābī è quello di scoprire e definire i principî fondamentali della musica a partire dalla pratica musicale e non da una serie di assiomi, come quelli della maggior parte delle scienze matematiche. Di un tale problema era perfettamente consapevole dal momento che egli stesso aveva dedicato una serie di scritti alla geometria e aveva commentato una parte degli Elementi di Euclide. Secondo al-Fārābī gli Antichi non avevano correttamente stabilito i principî della musica, benché ne avessero scoperti alcuni. Dal momento che l'arte della musica concerne le melodie e ciò che ne rende alcune più armoniose, ossia più piacevoli, di altre, la musica deve essere basata sull'abilità di discernere a orecchio ciò che è armonioso. Quest'abilità è innata oppure può essere acquisita con il frequente ascolto delle esecuzioni musicali; essa non è quindi un'arte, ma una disposizione comune a tutti gli esseri umani. L'arte stessa richiede non solo un eccellente orecchio ma anche un elemento razionale che consente di padroneggiare l'esecuzione e di raggiungere la perfezione nella composizione. Partendo da questa base saldamente ancorata alla pratica musicale, al-Fārābī giunge a sostenere che nel comporre un brano musicale il buon musicista non ha alcun bisogno di suonare uno strumento o di cantare, ma riesce a ragionare su di esso, limitandosi a immaginare i suoni. Il raggiungimento di questo livello implica la scoperta di alcune cause secondarie, così come di un certo numero di cause formali, ma l'arte teorica diviene veramente una scienza soltanto nei casi in cui può spiegare i 'perché' di una serie di procedimenti. Al-Fārābī illustra questa progressione ripercorrendo lo sviluppo storico della musica, dall'istintività delle prime forme di canto alla musica strumentale professionale, all'invenzione delle note e della notazione musicale e raffronta le scoperte della musica con quelle dei fonemi e dei metri, effettuate nel campo della poesia.
La teoria musicale è esaminata sulla base degli Analitici secondi di Aristotele. Essendo una scienza matematica, la musica può indagare solo le cause formali: essa, infatti, come l'astronomia, non studia le cause efficienti e, come l'aritmetica e la geometria, è riconducibile a cause materiali solo per via analogica, ossia attraverso procedimenti logici come quello secondo cui i punti compongono le linee che, a loro volta, compongono le superfici, ecc., e ciò esattamente come nel campo della poesia, in cui i piedi sono le unità di base dei metri. Quanto alle cause finali, per esse non vi è spazio nella teoria matematica. Sono le sensazioni, quelle immediate o quelle ottenute dopo numerose osservazioni, che conducono alla scoperta dei principî fondamentali della musica, attraverso l'esperienza (taǧriba), che si distingue dall'induzione (istiqrā᾽), per uno speciale atto (fi῾l) dell'intelletto, il solo che possa assicurare universalità e certezza. Questa fiducia nel ruolo svolto dall'esperienza attraverso le sensazioni spiega perché al-Fārābī abbia asserito che la pratica musicale debba precedere la teoria e che raggiunga la sua perfezione prima che quest'ultima possa avere inizio. Ed è naturale e giusto, quindi, che la musica sia fonte di piacere per l'orecchio e che questa raffinata capacità di apprezzare la pratica musicale guidi la teoria, un'opinione piuttosto inusuale che conduce al-Fārābī a criticare quei filosofi che, chiedendo troppo alla filosofia, hanno pensato che da essa fossero desumibili i principî fondamentali della musica e di altre scienze e arti. Tuttavia, il suo rispetto per il quadro delineato da Aristotele lo porta a precisare che, benché debbano dedicarsi all'ascolto di molte esecuzioni musicali e alla loro analisi, i teorici della musica non devono necessariamente essere interpreti musicali o compositori, così come i teorici dell'astronomia non devono osservare personalmente il cielo attraverso una serie di strumenti, ma possono fare affidamento sulle informazioni fornite dai praticanti. Egli giunge quindi ad asserire che per le sue ricerche sugli animali e le piante Aristotele si era basato su osservazioni di altri studiosi, come, del resto, Tolomeo e Temistio, che dedicarono alcuni dei loro scritti alla musica pur non essendo dotati di una grande sensibilità musicale. In alcuni casi, quindi, il modo di operare dei teorici della musica è analogo a quello dei metafisici che trattano di oggetti inaccessibili ai sensi, come l'anima, l'intelletto, la materia prima e le sostanze separate dalla materia.
La preoccupazione di precisare le relazioni esistenti tra la teoria e la pratica conduce al-Fārābī a spiegare come si può fabbricare uno strumento musicale che consenta di confermare la teoria. Il ritorno al primato della pratica lo induce a concedere un certo spazio all'esame dell'impatto psicologico o emotivo determinato dalle esecuzioni musicali e dei modi in cui un impatto di questo tipo, come quello volto a incoraggiare i soldati nel corso della battaglia, possa essere deliberatamente prodotto. Dal momento che questo tema implica l'esame delle cause finali, che non sono ammesse nel campo della matematica, al-Fārābī ricollega la musica, e in particolare quella vocale, alla poesia e alla retorica, studiate nell'ambito della logica.
Due elementi devono ancora essere ricordati per quanto riguarda il pensiero del 'secondo maestro': autore di diverse opere filosofiche, egli mostra, in primo luogo, un'inclinazione all'osservazione e alla pratica di cui sono un esempio le considerazioni che si trovano in un breve trattato sul vuoto, nel quale è descritto un esperimento (si vuole dimostrare l'inesistenza del vuoto attraverso l'immersione di un recipiente nell'acqua); in secondo luogo, al-Fārābī si preoccupa di separare sul piano scientifico l'astronomia matematica e lo studio dell'influenza esercitata dalle stelle sul clima, e quindi sulla flora e sulla fauna, e conseguentemente sulla vita degli esseri umani, dall'astronomia giudiziaria o astrologia, vale a dire dalla predizione di particolari eventi futuri, cui egli non riconosceva alcuno statuto scientifico.
A conferma dello stretto rapporto tra filosofia e scienza vi sono poi le opere degli Iḫwān al-Ṣafā᾽, i Fratelli della purezza, un nome dietro al quale sembra che si nascondesse una sorta di comunità segreta ismailita di carattere filosofico-religioso, fondata a Bassora in Iraq e attiva tra il X e l'XI sec.; quattordici delle loro cinquantadue Rasā᾽il (Epistole) sono dedicate alle scienze matematiche, oltre che alla geografia, all'etica e alla logica, la cui conoscenza era considerata indispensabile per poter accedere allo studio della filosofia. Diciassette di queste epistole sono dedicate alla fisica e prendono in esame anche la mineralogia, la botanica e le cause della diversità delle lingue parlate nel mondo. Altre invece affrontano temi quali il moto e la causalità.
Avicenna (980-1037) incluse nella sua enciclopedia filosofica, il Kitāb al-Šifā᾽ (Libro della guarigione), molti libri dedicati alla matematica. Grande filosofo, egli fu anche un celebre medico a corte e inoltre scrisse un trattato, al-Qānūn fī 'l-ṭibb (Canone della medicina), destinato a diventare un classico per molti secoli tanto in Oriente quanto in Occidente.
Anche i filosofi andalusi si mostrarono interessati alle scienze e alle arti. Avempace (tra 1070 e 1080-1139) in un primo momento si dedicò allo studio dell'esecuzione musicale, alla composizione musicale e poetica e alla stesura di un commento al Kitāb al-Mūsīqī al-kabīr di al-Fārābī. In seguito si concentrò sulla filosofia, componendo diverse opere ispirate ad Aristotele, e sulla medicina e compilò alcuni trattati dedicati alla matematica, alle piante ‒ tra cui un testo sui gigli d'acqua ‒ e alla farmacologia. Scrisse inoltre un commento alle opere zoologiche di Aristotele e, nei suoi testi filosofici, mostrò un grande interesse per il comportamento animale, a cui fece ricorso per dimostrare la validità di alcune delle sue tesi. Ad Avempace, celebre per il suo Tadbīr al-mutawaḥḥid (Il regime del solitario), viene anche attribuita la formulazione di una teoria sull'impetus.
Ibn Ṭufayl (1116 ca.-1185), l'autore del romanzo filosofico Ḥayy ibn Yaqẓān, esercitava la professione medica e scrisse un lungo poema mnemonico sulla medicina oltre ad alcuni testi dedicati all'astronomia.
Averroè (1126-1198) il commentatore per eccellenza dei testi aristotelici, operò sia nel campo del diritto sia in quello della medicina; oltre a redigere alcune vaste opere di carattere giuridico, egli compilò diversi trattati medici, così come una serie di testi di astronomia e di cosmologia, tra cui va ricordato il Muḫtaṣar al-Maǧisṭī (Compendio dell'Almagesto). Averroè sembra ritornare a una più stretta adesione al modello dimostrativo delle scienze di Aristotele; egli inoltre sembra essere meno interessato di al-Fārābī all'osservazione e alla pratica.
I falāsifa non si limitarono a contribuire allo sviluppo della scienza, ma spesso si impegnarono direttamente nelle ricerche scientifiche. È per questo che molti di loro finirono per modificare o porre in discussione alcuni aspetti della concezione aristotelica della scienza.
Gutas 1998: Gutas, Dimitri, Greek thought, Arabic culture. The Graeco-Arabic translation movement in Baghdad and early Abbasid society (2nd-4th/8th-10th centuries), London-New York, Routledge, 1998.
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Shehadi 1995: Shehadi, Fadlou, Philosophies of music in medieval Islam, Leiden, E.J. Brill, 1995.