La civilta islamica: osservazioni, calcolo e modelli in astronomia. Alternative all'astronomia tolemaica
Alternative all'astronomia tolemaica
Fu relativamente facile trovare difetti e sollevare critiche all'astronomia tolemaica, fin da quando fu tradotta in arabo; ma reperire alternative a questo sistema era impresa di altro calibro. Tale ricerca fu ulteriormente complicata dal fatto che non aveva motivazioni troppo cogenti. Infatti, l'astronomia tolemaica poteva, grosso modo, predire le posizioni dei pianeti con un livello di accuratezza tale da soddisfare la maggior parte degli astrologi che ne erano i principali fruitori e che avevano bisogno soltanto di alcuni valori numerici fondamentali per poter trarre i loro oroscopi.
La questione era assai più intricata per gli astronomi, dato che essa metteva in gioco su più livelli le fondamenta stesse dell'astronomia teorica greca. Un primo problema era quello della coerenza della teoria con la cosmologia dominante ‒ quella aristotelica ‒ esplicitamente accettata da Tolomeo stesso. C'era poi il problema di quanto l'astronomia tolemaica fosse adatta a descrivere gli aspetti reali della cosmologia. L'Universo aristotelico è formato da sfere che si muovono con moto uniforme intorno al loro asse e che esibiscono tutta una varietà di fenomeni osservabili. L'astronomia tolemaica ‒ che rappresentava queste sfere per mezzo delle loro proprietà matematiche ‒ poteva fornire un'immagine coerente delle sfere di quel mondo reale immaginato da Aristotele e, al tempo stesso, spiegare anche la varietà dei fenomeni osservati? C'era, infine, il problema di dar conto dei fenomeni osservati usando in modo coerente lo stesso linguaggio matematico adoperato per descrivere il moto delle sfere, e di riuscire a farlo in maniera tale da non violare la loro definizione matematica. Per esempio, una definizione matematica di sfera in movimento consisteva nel rappresentare ogni punto della sua superficie come descrivente un cerchio il cui centro doveva trovarsi sull'asse di rotazione, il quale a sua volta doveva passare per il centro della sfera, se questa doveva muoversi intorno a sé stessa. Allora, se si utilizzava un certo insieme di definizioni matematiche per descrivere una sfera in movimento e le sue proprietà (che erano rappresentate da modelli matematici del tipo di quelli che descriveremo in seguito), si potevano usare quelle stesse definizioni per descrivere come un pianeta fosse mosso su tale sfera nel modo in cui appare a un osservatore sulla Terra?
Il compito di trovare un'astronomia alternativa doveva essere svolto nel quadro di questo problemi. È facile rendersi conto del perché questo scopo non potesse essere raggiunto limitandosi ad additare le contraddizioni interne all'astronomia tolemaica, come molti fecero dal IX sec. in poi. Per parafrasare al-῾Urḍi, un astronomo del XIII sec., era necessario creare una nuova astronomia che non fosse afflitta dagli stessi difetti che tormentavano quella tolemaica e non ci si poteva accontentare delle critiche fatte dai primi astronomi. Ciò non vuol dire che questi primi critici non si fossero resi conto essi stessi della necessità di formulare una nuova astronomia. In effetti, uno dei critici più intransigenti di Tolomeo, Ibn al-Hayṯam, aveva avuto occasione di ripetere varie volte, nel contesto delle sue argomentazioni contro l'astronomia tolemaica, che era necessario trovare un'astronomia che non riproponesse gli stessi problemi. Il suo argomento era semplice: poiché il mondo è reale, ci deve essere un'astronomia che possa descriverne il comportamento in modo tale da non trasformarlo da reale in immaginario. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che questi primi critici stavano cercando di disegnare i contorni di una nuova astronomia, anche se non riuscirono a produrla.
Prima di esporre i modelli attraverso i quali i vari astronomi che raccolsero la sfida di creare nuove alternative all'astronomia tolemaica arrivarono a concepire le loro teorie originali, è opportuno passare brevemente in rassegna le strutture matematiche fondamentali del sistema di Tolomeo, difetti compresi, in modo da poter valutare le modificazioni che furono proposte per esse.
Le strutture matematiche tolemaiche, o modelli planetari, possono essere divise in due categorie: quelle che rappresentano i vari moti dei pianeti in longitudine e quelle che li rappresentano in latitudine. Quanto alle prime, Tolomeo aveva proposto quattro modelli fondamentali per rappresentare, rispettivamente, i moti del Sole, della Luna, dei pianeti superiori (Saturno, Giove, Marte e Venere; il moto longitudinale di quest'ultimo condivideva le sue caratteristiche con quello dei primi tre) e di Mercurio. Per le strutture relative al moto in latitudine, Tolomeo distinse fra i pianeti il cui moto in latitudine derivava dal moto dei loro piani inclinati e quelli il cui moto dipendeva da quello dei loro epicicli. Distinse così fra il moto dei pianeti superiori (questa volta soltanto Saturno, Giove e Marte), che mostravano una variazione del loro moto in latitudine dipendente dal moto dei loro epicicli, mentre i loro piani inclinati rimanevano fissi rispetto all'eclittica, e i pianeti inferiori (Venere e Mercurio), che esibivano una simile variazione, dipendente però dal moto sia dei loro epicicli sia dei piani inclinati che trasportavano questi epicicli. L'orbita della Luna, centrata intorno alla Terra, e il suo epiciclo erano entrambi fissi rispetto all'eclittica e dunque non c'erano variazioni in latitudine da giustificare con un nuovo modello matematico, necessario per gli altri pianeti. In effetti la componente principale della variazione lunare in latitudine è simile a quella della declinazione solare e può essere calcolata in modo analogo prima di aggiungere le altre variabili.
Il moto del Sole
La descrizione del moto solare è esposta da Tolomeo nel Libro III dell'Almagesto. Poiché esso segna l'inizio della trattazione dei moti planetari, Tolomeo lo utilizzò per esporre le regole generali che soggiacciono alla sua astronomia, enunciando le assunzioni cosmologiche fondamentali che la governano. Data la rilevanza di queste assunzioni per il complesso del suo sistema astronomico e i problemi che ne derivano, vale la pena di esaminarle nonché di dare uno sguardo al modo proposto da Tolomeo per incorporarle nelle sue strutture matematiche.
La discussione del moto del Sole inizia con un'analisi della lunghezza dell'anno solare, nel tentativo di stabilire un moto periodico medio del Sole che possa costituire un parametro fondamentale per il resto della sua astronomia. Al tempo stesso tale discussione è anche una componente fondamentale per lo sviluppo di uno specifico modello del moto solare. Tolomeo affrontava il problema su due livelli: (a) forniva al lettore alcune tavole, basate sul moto periodico predeterminato, che potevano essere usate per calcolare la posizione media del Sole in ogni momento dell'anno; (b) offriva altre tavole numeriche da utilizzarsi per calcolare le variazioni effettive del moto solare.
In entrambi i casi, tuttavia, voleva assicurarsi che il moto rappresentato numericamente nelle tavole rispettasse gli assunti cosmologici che aveva ereditato da Aristotele. Su questo punto, egli afferma esplicitamente che: "il compito e lo scopo del matematico dovrebbero essere di mostrare che tutti i fenomeni celesti possono essere riprodotti da moti circolari uniformi [risultanti ovviamente dal moto delle sfere] e che le tavole più appropriate e adatte a questo compito sono quelle che separano i singoli moti uniformi da quelli non uniformi [anomalistici] che sembrano aver luogo e che sono invece dovuti a modelli circolari; e i luoghi in cui appaiono i pianeti sono poi illustrati dalla combinazione di questi due moti in uno solo" (Almagesto, III, 3).
Da queste affermazioni è chiaro che Tolomeo concepiva i moti celesti come il risultato di due tipi di moto: i moti medi periodici che possono essere precalcolati per un qualsiasi momento, e i moti irregolari anomalistici dei singoli pianeti che possono essere sommati o sottratti ai moti medi in questione per determinare le posizioni reali dei pianeti. Entrambi i tipi di moto devono essere spiegati in termini di moti di sfere reali che si muovono uniformemente girando intorno a sé stesse, producendo in tal modo un moto circolare uniforme reale, a dispetto del fatto che esso non sembri tale a un osservatore sulla Terra. Inoltre, i moti che a un tale osservatore sembrano irregolari devono essere spiegati anch'essi in termini di queste sfere, i cui moti uniformi possono essere calcolati e tabulati per comodità d'uso.
Successivamente, Tolomeo passa a considerare la natura del moto uniforme. E qui si scontra con problemi cosmologici di cui deve dar conto. Egli concorda con Aristotele che tutti i moti uniformi devono appartenere a sfere che girano su sé stesse: "Ma dobbiamo in primo luogo asserire in generale che i moti retrogradi dei pianeti rispetto al cielo sono, in ogni caso, per loro natura moti uniformi e circolari, esattamente come il moto del cielo stesso" (ibidem). Tolomeo però non è del tutto d'accordo con il secondo requisito della cosmologia aristotelica, e cioè che tutte le sfere in movimento debbano essere concentriche con la Terra, il centro della pesantezza posto al centro del mondo. Bisognava, infatti, tener conto delle osservazioni. Se il Sole si muovesse uniformemente su una sfera concentrica con la Terra, non ci sarebbero variazioni stagionali, ossia il Sole non sembrerebbe muoversi più velocemente durante l'autunno e l'inverno, e più lentamente durante la primavera e l'estate, ma le osservazioni confermavano tale variazione. Questa si può spiegare assumendo che il Sole sia mosso da una sfera leggermente eccentrica rispetto alla Terra, rappresentata nella fig. 1 dal cerchio ABCD, ma ciò significa dover abbandonare il requisito aristotelico della concentricità. In alternativa, si può immaginare che il Sole sia mosso uniformemente da una piccola sfera, denominata 'epiciclo' (che nella figura è rappresentata dal cerchio di centro E), la quale a sua volta è trasportata da un'altra sfera, detta 'deferente', concentrica con la Terra. Tuttavia, anche questa seconda possibilità viola la cosmologia aristotelica, sebbene in un altro senso. In tal modo, infatti, essa introduce la sfera dell'epiciclo, che dovrebbe essere fatta di quell'etere imponderabile di cui sono costituite le altre sfere celesti e i pianeti; inoltre E, il centro del suo moto, non è il centro della pesantezza, che secondo la cosmologia aristotelica dovrebbe essere il centro di ogni sfera mobile.
In entrambi i modelli (che Tolomeo chiama 'ipotesi'), dunque, si può assumere che l'osservatore si trovi in O, sulla Terra, e che il Sole si muova o secondo il modello eccentrico lungo il cerchio ABCD (e quindi sembrerà muoversi più lentamente all'apogeo A e più velocemente in prossimità di C, a causa della diversa distanza dalla Terra), o secondo il modello dell'epiciclo con centro E, nella direzione indicata dalla freccia e con il centro dell'epiciclo in movimento intorno alla Terra lungo il cerchio concentrico nella direzione indicata. Entrambi i modelli danno conto assai bene del moto osservabile del Sole e ‒ come aveva già dimostrato Apollonio ‒ sono matematicamente equivalenti, come Tolomeo sottolinea nell'Almagesto. Tuttavia, entrambi violano, ciascuno a suo modo, i principî cosmologici aristotelici. Dovendo scegliere tra queste due opzioni, ossia fra due violazioni di quei principî che ha appena accettato così enfaticamente, Tolomeo opta per il male minore e si dichiara a favore del modello eccentrico a causa della sua 'semplicità' (Almagesto, III, 4). I principî cosmologici sono lasciati da parte senza nessuna ulteriore discussione, salvo per dire che nel caso del Sole ci sono queste due ipotesi alternative per dar conto del suo moto, mentre nel caso degli altri pianeti, che saranno discussi più avanti, le osservazioni richiedono che le due ipotesi siano entrambe utilizzate per poter spiegare i loro complessi movimenti. Con le parole di Tolomeo: "per i corpi che esibiscono una doppia anomalia, dovranno essere combinate entrambe le ipotesi, come dimostreremo nella nostra discussione di questi corpi" (ibidem, III, 3). Il resto del Libro III è dedicato alla dimostrazione dell'equivalenza delle due ipotesi, al calcolo numerico delle tavole dell'anomalia solare e a una discussione della variazione del giorno solare.
Nell'Almagesto, alla discussione del modello solare segue quella del modello lunare, per motivi che hanno a che fare con la disposizione didattica degli argomenti del trattato e perché i modelli matematici sono legati ai principî cosmologici (cosa che generò tante discussioni fra gli astronomi islamici). Tuttavia è più semplice per noi presentare in primo luogo il modello per i pianeti superiori, dato che esso incorpora entrambe le ipotesi appena discusse, lasciando per ultimi i complicati moti della Luna e di Mercurio.
Il moto dei pianeti superiori
Tolomeo descrive il moto dei pianeti superiori (Saturno, Giove e Marte) e quello di Venere nel Libro IX dell'Almagesto. Seguendo l'esposizione sommaria del capitolo 6, il moto di questi pianeti può essere descritto nel modo seguente (fig. 2). Per un osservatore che si trovi in O, centro dell'eclittica o del mondo, il pianeta P appare come se fosse mosso dal suo epiciclo di centro C con velocità anomalistica uniforme γ. La direzione del moto è data dalla freccia sull'epiciclo ed è in genere indicata come la direzione dell'ordine dei segni zodiacali (in senso antiorario nella figura). Il punto sulla circonferenza dell'epiciclo a partire dal quale viene misurata questa anomalia è definito dal prolungamento della retta che congiunge il centro dell'epiciclo con un punto fittizio, E, che sarà poi detto 'equante': esso non è né il centro del mondo O, né il centro T della sfera deferente che trasporta l'epiciclo.
L'assunto di Tolomeo è che l'epiciclo di centro C sia trasportato nella stessa direzione dell'ordine dei segni zodiacali, indicata con una freccia nella figura, da una sfera deferente di centro T che risulta eccentrica rispetto all'osservatore in O. È questa la combinazione dell'ipotesi eccentrica e di quella epiciclica di cui parlavamo poc'anzi come moto alternativo per il Sole, qui usata per descrivere i moti dei pianeti superiori. Come vedremo in seguito, un doppio uso di questo tipo è utilizzato anche per il caso del moto della Luna e per quello di Mercurio.
Nonostante questa costruzione funzionasse abbastanza bene per descrivere il moto longitudinale dei pianeti superiori, presentava alcuni gravi inconvenienti. Consideriamo prima gli aspetti positivi. Essa permetteva ai pianeti di avanzare nel loro moto medio da occidente a oriente, in senso contrario cioè al moto diurno dei cieli, seguendo la direzione dei segni zodiacali, Ariete, Toro, Gemelli, ecc. Il moto del pianeta, tuttavia, era misurato dal moto medio del centro C dell'epiciclo lungo la circonferenza del deferente di centro T, eccentrica rispetto all'osservatore, il che permetteva un moto più lento o più veloce a seconda che il moto medio del centro dell'epiciclo lo avvicinasse o lo allontanasse rispetto all'apogeo A. Inoltre, il moto lungo gli epicicli permetteva di dar conto dei moti retrogradi e delle stazioni dei pianeti. Vi era, però, anche un lato negativo. Il deferente con centro T, per come è costruito, è costretto a muoversi uniformemente non intorno all'asse che passa per il suo centro T ma intorno a un asse che passa per l'equante E. È questo il motivo per cui il prolungamento della retta che congiunge E con il centro C dell'epiciclo determina l'apogeo epiciclico medio a partire dal quale è misurata l'anomalia del pianeta. Inoltre, questa stessa linea EC è usata per misurare il moto medio del centro C dell'epiciclo, cioè il moto medio uniforme del pianeta.
Da un punto di vista cosmologico ‒ assumendo che le sfere del deferente e quelle dell'epiciclo siano sfere reali che ubbidiscono a leggi fisiche coerenti con le proprietà delle sfere, come Tolomeo accetta esplicitamente e implicitamente ‒ questa costruzione matematica tradisce una contraddizione, avvertita come fondamentale. Questa contraddizione comporta l'assurdità di avere una sfera fisica (in questo caso il deferente con centro T) che si muove uniformemente intorno a un asse che passa non per il suo centro ma per un punto E fittizio, designato come 'l'equalizzatore del moto' e poi come 'equante', in forma abbreviata. In termini di moti uniformi, è del tutto ovvio che, in questa costruzione, il punto C non descriverà archi uguali in tempi uguali intorno al centro T della sfera che lo trasporta ma che si comporterà così rispetto al punto E, il centro equante, che non ha di per sé alcuna realtà fisica.
È questo, essenzialmente, il difetto fondamentale che contraddistingue l'astronomia tolemaica, perché esso si manifesta in modo simile anche nelle costruzioni che descrivono il moto della Luna e di Mercurio.
Il moto della Luna
Il moto lunare è più complicato di quelli che abbiamo descritto finora. Nel Libro IV dell'Almagesto, Tolomeo fece un debole tentativo di adattare il moto lunare a un modello che combinasse le principali caratteristiche del modello solare con l'aggiunta di un epiciclo; di proporre cioè una costruzione simile a quella trovata per i pianeti superiori. Tuttavia, dovendo spiegare le variazioni delle posizioni delle eclissi, il moto apparente della Luna sul suo epiciclo e la variazione apparente delle dimensioni dell'epiciclo della Luna, Tolomeo si rese ben presto conto che vi erano troppe variabili derivanti dall'osservazione per poterne dar conto utilizzando un modello relativamente semplice. Nel Libro V egli elaborò un modello assai complesso per poter spiegare tutte le variazioni che abbiamo appena ricordato, ma dovette pagare un prezzo molto alto.
Per un osservatore che si trovi in O, il centro del mondo, e per la posizione del Sole medio in S (fig. 3), la Luna appare come se si muovesse nel seguente modo. Per dar conto delle variazioni delle coordinate eclittiche delle eclissi, i nodi lunari ‒ cioè i due punti in cui l'orbita della Luna interseca l'eclittica ‒ devono essere trasportati da una sfera che abbraccia l'intero sistema, detta 'sfera dei nodi' (non mostrata in figura), la quale si muove uniformemente intorno al centro del mondo trasportando l'apogeo del deferente, A. A sua volta il deferente si muove nella direzione opposta intorno al suo centro F in modo tale che gli angoli SOA e SOC siano uguali e opposti. Un'altra sfera (la più esterna in figura) di raggio R e inclinazione fissa rispetto all'eclittica si muove nella direzione indicata dalla freccia, in senso opposto a quello della successione dei segni zodiacali.
Questa sfera inclinata si muove con una velocità pari a 12° al giorno, con tutto ciò che contiene, compresa la sfera deferente, il cui centro F è eccentrico per una distanza e rispetto al centro del mondo e il cui apogeo rimane equidistante dall'osservatore posto in O. La sfera deferente, poi, si muove di moto proprio in direzione opposta, seguendo cioè l'ordine dei segni, con velocità doppia, trasportando con sé l'epiciclo lunare che ha centro in C. Il moto medio del deferente non è misurato rispetto al suo centro F, ma rispetto al centro del mondo, O. Da questi due moti consegue che il Sole medio S dovrebbe rimanere a metà strada fra l'apogeo A e il centro dell'epiciclo C. A sua volta, l'epiciclo lunare trasporta la Luna in direzione opposta a quella della successione dei segni zodiacali (come è indicato nella figura), ma il suo moto medio è misurato dal prolungamento della retta HC, che non è diretta né verso F, il centro del deferente, né verso O, il centro del mondo. Tale retta è diretta verso un punto N, detto 'punto di prosneusi', diametralmente opposto a F rispetto a O. Questa specie di meccanismo 'a manovella' permetteva di spiegare un'ulteriore variazione individuata dalle osservazioni di Tolomeo e, precisamente, la variazione delle dimensioni apparenti dell'epiciclo quando esso si sposta dalla congiunzione con il Sole medio fino a un punto che si trovi a 90° da esso. Si produceva così una variazione del raggio apparente dell'epiciclo di 5;15 parti per un raggio R uguale a 60 parti; per un osservatore in O ciò comportava una variazione massima che andava da 5° per l'epiciclo in congiunzione con il Sole medio fino a 7;40° quando l'epiciclo raggiungeva un punto che si trovava a una distanza di 90° da tale posizione.
Al tempo stesso, però, il modello lunare produceva tre importanti incoerenze. In primo luogo, condivideva gli stessi difetti del modello per i pianeti superiori, in quanto richiedeva che il moto uniforme di una sfera (il deferente con centro F) avvenisse intorno a un asse passante non per il suo centro ma per il centro del mondo O. In secondo luogo, richiedeva che la misura del moto medio della Luna fosse calcolata dal prolungamento della retta che congiunge il punto di prosneusi con il centro dell'epiciclo. Infine, questo complesso meccanismo ‒ che avrebbe dovuto dar conto delle variazioni delle misure apparenti dell'epiciclo ‒ faceva sì che la Luna si sarebbe dovuta avvicinare alla Terra così tanto che nelle quadrature le sue dimensioni apparenti sarebbero dovute essere il doppio di quelle che avrebbe dovuto avere in opposizione o in congiunzione con il Sole: una conseguenza vistosamente contraria all'osservazione.
Tolomeo tacque su queste discrepanze e la maggior parte delle obiezioni sollevate in seguito contro il suo modello lunare si appuntò proprio su di esse.
Il moto di Mercurio
La vicinanza di Mercurio al Sole e il suo moto relativamente veloce hanno sempre reso tale pianeta difficile da osservare. Tolomeo, di conseguenza, disponeva di osservazioni difettose, che lo portarono a credere che il moto apparente di Mercurio fosse simile a quello della Luna, in quanto nel corso del suo giro annuale intorno alla Terra esso esibisce due perigei, che si verificano perché il suo epiciclo si avvicina alla Terra due volte ‒ formando ogni volta un angolo di 120° con l'apogeo ‒ e non una sola, come nel caso della Luna. Per spiegare ciò, Tolomeo fece ricorso a un meccanismo molto simile a quello che aveva usato per la Luna; ed è per questo motivo che abbiamo scelto di presentare il modello di Mercurio immediatamente dopo quello lunare.
Nell'Almagesto, tuttavia, il moto di Mercurio è descritto nel Libro IX, subito dopo quello dei pianeti superiori. Esso comporta il meccanismo descritto nella fig. 4. Una sfera esterna, analoga alla sfera inclinata della Luna, si muove in direzione opposta a quella della successione dei segni zodiacali, come è indicato nella figura. La differenza fra questa sfera e quella lunare inclinata sta nel fatto che, nel caso di Mercurio, questa sfera, detta il 'direttore', è eccentrica rispetto al centro del mondo mentre, nel caso della Luna, è concentrica. Il centro del direttore è collocato nel punto B, spostato verso l'apogeo A "che si muove lentamente". Tutto ciò che è contenuto nel direttore è mosso dal suo moto uniforme, compreso il deferente di centro G, eccentrico rispetto al centro B del direttore per un'eccentricità pari a ε. Di conseguenza, il moto del direttore costringe il centro del deferente a descrivere un cerchio di raggio uguale all'eccentricità ε intorno al suo centro B.
Il deferente, poi, si muove con un suo moto indipendente da quello del direttore ma uguale a esso e diretto in senso contrario; con questo moto esso trasporta l'epiciclo del pianeta il cui centro si trova in C. Il pianeta, infine, è mosso da questo epiciclo secondo la direzione dei segni zodiacali, come indicato nella figura. Il moto medio uniforme del pianeta sul suo epiciclo è però misurato ‒ come nel caso della Luna ‒ dalla retta che congiunge il centro dell'epiciclo con un fittizio punto E, detto 'equante': E non è né il centro del deferente che trasporta l'epiciclo, né il centro del mondo dove è collocato l'osservatore, e nemmeno il centro del direttore, che genera il moto del deferente che abbiamo descritto. Per di più, in modo simile a quanto avveniva con il modello per i pianeti superiori, in cui il centro del deferente era posto senza prova alcuna a mezza strada fra il centro del mondo e il punto equante, anche in questo caso il nuovo equante è posto senza dimostrazione nel punto di mezzo della retta che congiunge l'osservatore e il centro del direttore.
Tenendo conto di quello che già sappiamo a proposito delle tesi cosmologiche fondamentali che Tolomeo accettava, dovrebbero essere chiari i problemi che pone questo modello. Anche in questo caso il moto uniforme del deferente non è misurato né rispetto al suo centro G, né rispetto al centro B del direttore che lo trasporta con il suo moto. È misurato, invece, rispetto all'equante E, posto, come abbiamo detto, a mezza strada fra l'osservatore O e il centro del direttore B. Di conseguenza, come nei due casi precedenti ‒ la Luna e i pianeti superiori ‒ anche qui Tolomeo suppone l'esistenza di una sfera che si muove su sé stessa senza ruotare intorno a un asse passante per il suo centro: un'assurdità dal punto di vista fisico. La maggior parte delle obiezioni a questo modello era incentrata su questa incongruenza.
Per i moti planetari in latitudine, Tolomeo distinse fra i pianeti superiori (in questo caso, come abbiamo detto, soltanto Saturno, Giove e Marte) e quelli inferiori, Venere e Mercurio. Come nel caso dei moti longitudinali, la maggior parte dei risultati numerici derivata da questi modelli si accordava abbastanza bene con quelli delle osservazioni; tuttavia, i modelli contenevano incongruenze cosmologiche, alcune delle quali avevano implicazioni sui moti longitudinali stessi. Fino a oggi sono state identificate e studiate ben poche alternative sviluppate dall'astronomia islamica in cui entrino in gioco i modelli per i moti in latitudine (ma si veda il caso, per ora isolato, della teoria della latitudine di Ibn al-Šāṭir, esaminato in Roberts 1966). Non ce ne dovremo quindi preoccupare se non in quanto questi modelli hanno implicazioni per quelli longitudinali, che sono maggiormente conosciuti.
La latitudine dei pianeti superiori
Per i pianeti superiori, Tolomeo propose la configurazione schematizzata nella fig. 5. L'osservatore si trova nel centro O dell'eclittica e il piano del deferente di ciascuno dei tre pianeti superiori è inclinato rispetto all'eclittica di un angolo i1 fissato. La retta d'intersezione (linea dei nodi) fra il piano del deferente e quello dell'eclittica individua la posizione dei due nodi: l'ascendente (detto il 'capo') e il discendente (detto la 'coda'). Il capo si trova nel punto in cui il centro dell'epiciclo interseca il piano dell'eclittica nel suo moto verso nord, mentre la coda è il punto diametralmente opposto rispetto al centro del mondo. La retta perpendicolare alla linea dei nodi passante per il centro del mondo è indicata in figura come NS ed è la linea che individua le parti settentrionale e meridionale del deferente.
All'estremità nord del deferente, il piano dell'epiciclo risulta inclinato di un angolo i2, detto 'deviazione', rispetto al piano del suo deferente; quindi è in questa estremità che l'epiciclo raggiunge la sua deviazione massima verso nord. All'estremità sud avviene lo stesso fenomeno, in direzione opposta, che produce la deviazione massima verso sud, designata anch'essa con i2. Il valore apparente di quest'ultima deviazione è maggiore però di quello della deviazione verso nord, perché questa parte del deferente è più vicina all'osservatore. Al contrario, sulla linea dei nodi, il piano dell'epiciclo si trova su quello dell'eclittica. In effetti, il piano dell'epiciclo sembra essere sottoposto a una sorta di moto alternato intorno all'asse TNR che rimane sempre parallelo al piano dell'eclittica: per dar conto di questo moto alternato, del tutto 'innaturale' per la cosmologia accettata da Tolomeo, questi propose di collocare su un piano perpendicolare al piano del deferente due 'circoletti' posti nel perigeo reale dell'epiciclo P1. Se il raggio di questi circoletti fosse uguale alla deviazione massima, P1 compirebbe il moto alternato nello stesso periodo impiegato dall'epiciclo per fare un giro completo del deferente. La parte nord del deferente però non è uguale a quella sud, per la ragione che abbiamo appena detto, e quindi il moto dell'estremità del diametro P1 intorno al circoletto non sarebbe uniforme e richiederebbe un suo equante come nel caso del moto longitudinale.
Inoltre, il moto di P1 lungo la circonferenza di un cerchio, se da un lato crea il richiesto effetto alternato in latitudine, dall'altro determina anche un effetto di oscillazione in longitudine. Questa discrepanza fu notata in epoca islamica e sembra che il primo a sollevare tale obiezione sia stato Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, proprio in un commento all'Almagesto scritto nel 1247, in cui era proposta tale costruzione. Discuteremo in seguito dell'opera di al-Ṭūsī ma è interessante osservare che, in questa occasione, egli accusò Tolomeo di dire cose inaccettabili nell'arte astronomica (ḫāriǧ ῾an al-ṣinā῾a) e si spinse a proporre la sua soluzione del problema. Egli faceva muovere P1 su un cerchio P1GE, il cui centro Z si muove su un altro cerchio uguale ZLKS che, a sua volta, si muove in direzione opposta a velocità doppia (fig. 7). Questi due cerchi, in seguito detti la 'coppia di al-Ṭūsī', con i loro moti relativi opposti e disuguali avevano il pregio di far sì che P1 oscillasse in su e in giú lungo l'asse TNR (fig. 5), permettendogli però di rimanere lungo la retta P1E formata dal diametro del cerchio primario, invece di oscillare lungo la circonferenza (come nel modello proposto da Tolomeo).
La latitudine dei pianeti inferiori
Il moto latitudinale dei pianeti inferiori è molto più complicato di quello dei pianeti superiori. Lo illustreremo per il pianeta Venere, dato che Mercurio è ritenuto il suo simmetrico. Nelle figure 8a, 8b e 8c l'osservatore si trova sempre in O, centro del mondo. Tuttavia, l'inclinazione del piano del deferente di Venere rispetto al piano dell'eclittica non è fissata come nel caso dei pianeti superiori. Secondo il modello tolemaico, quando l'epiciclo è nell'estremità nord del deferente (fig. 8a) il piano inclinato raggiunge la sua massima inclinazione i0 in direzione nord. In quello stesso punto, il piano dell'epiciclo è anch'esso inclinato rispetto al piano del deferente per una deviazione in direzione est che raggiunge il suo valore massimo i2, mentre il suo asse nord-sud, NI, giace sul piano del deferente. Via via che l'epiciclo si muove lungo il deferente verso la linea dei nodi, il piano del deferente si abbassa, fino a coincidere con il piano dell'eclittica (fig. 8b). Soltanto il piano dell'epiciclo mantiene una deviazione, indicata nel disegno con i1. Quando l'epiciclo raggiunge l'estremità sud (fig. 8c), l'intera configurazione si inclina producendo un'inclinazione verso nord del piano deferente pari al valore massimo i0 e il piano dell'epiciclo torna indietro, deviando dal piano del deferente di un angolo i2, mentre il suo asse nord-sud continua ancora a giacere nel piano del deferente.
In effetti questa configurazione richiede due moti alternati, uno per il piano del deferente e l'altro per quello dell'epiciclo. Anche in questo caso tali due moti sono trattati introducendo gli stessi circoletti di cui abbiamo parlato nel caso dei pianeti superiori. E, come prima, bisogna immaginarsi che, in aggiunta al circoletto che permette all'epiciclo di muoversi con moto alternato, ci sia un altro circoletto, come QHF (fig. 9), che permetta al piano del deferente di muoversi analogamente. Pure in questo caso, fu Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī il primo a sviluppare la sua 'coppia' per spiegare questo moto senza produrre effetti oscillatori longitudinali. La fig. 9 permette di avere un'idea del modello proposto da al-Ṭūsī, oggi chiamato coppia di al-Ṭūsī. La coppia si trova attaccata al centro C del diametro e dovrebbe rimpiazzare il cerchio tolemaico QHF producendo gli stessi effetti alternati sul piano del deferente. Anche se al-Ṭūsī non lo affermò esplicitamente, si può supporre che avesse in mente un sistema simile da aggiungere all'estremità R del diametro dell'epiciclo, per produrre un effetto alternato anche per il moto epiciclico.
Per riassumere: i moti latitudinali, proposti da Tolomeo per i cinque pianeti, introducevano nuove incoerenze nel moto longitudinale. Oltre al moto lungo i circoletti, che hanno bisogno dei loro equanti, appaiono infatti nuovi moti incompleti, come quello alternato che non poteva esistere nel contesto della cosmologia aristotelica, in cui si richiedeva che tutti i moti fossero circolari uniformi e prodotti da sfere rigide ruotanti intorno agli assi passanti per i loro centri.
Quando ci si rese conto di tutti questi problemi riguardanti l'astronomia tolemaica, gli astronomi si trovarono di fronte a una sfida ben precisa: creare nuove costruzioni matematiche capaci di descrivere quegli stessi movimenti, dar conto delle osservazioni in modo corretto e rispondere alle pesanti richieste della cosmologia di Aristotele. Non era facile riuscire in tutti questi obiettivi, come vedremo, ma la ricerca del successo in tale direzione sembra aver fornito forti stimoli all'astronomia teorica araba durante tutto il corso della sua storia. Furono così inventate, una dopo l'altra, varie astronomie alternative, più o meno eleganti. Alcuni dei risultati matematici sviluppati per rispondere ai problemi tolemaici ‒ come la coppia di al-Ṭūsī di cui abbiamo parlato o 'il lemma di al-῾Urḍī', di cui parleremo in seguito ‒ trovarono la strada per raggiungere l'astronomia copernicana, che sviluppò gli stessi teoremi per i medesimi scopi anche se con costruzioni matematiche proprie.
Dato che abbiamo alterato l'ordine con cui l'Almagesto presenta i suoi modelli per mettere in evidenza la somiglianza delle tecniche usate per ogni modello o insieme di modelli, continueremo a seguire quest'ordine nel descrivere i modelli alternativi sviluppati in epoca islamica. Cominceremo perciò con il modello del Sole, cui seguirà la discussione di quelli per i pianeti superiori, data la loro somiglianza. Da ultimo, tratteremo i modelli della Luna e di Mercurio.
Poiché gli astronomi che contribuirono alla creazione di questi modelli alternativi sono molti e appartengono a vari periodi della storia dell'Islam, l'approccio tematico che abbiamo scelto di seguire implica anche la necessità di non presentare l'opera di ogni singolo astronomo. Considereremo, invece, cronologicamente ogni singolo modello, mostrando come gli astronomi successivi, trattando lo stesso insieme di fenomeni per un certo pianeta, costruirono la loro opera ciascuno su quella dei suoi predecessori.
Il modello solare
Nessuna delle due ipotesi proposte da Tolomeo era esente da problemi cosmologici. L'ipotesi eccentrica richiedeva un centro del movimento diverso da quello della Terra che, per definizione, era il centro del mondo; quella epiciclica richiedeva un centro della pesantezza dove doveva invece esserci soltanto l'etere celeste e dove quindi tali concetti non potevano essere, a rigor di termini, nemmeno pensati.
Sembra che gli astronomi che operarono nel mondo islamico accettassero l'argomentazione di Tolomeo: dato che la cosmologia di Aristotele doveva essere violata in un modo o nell'altro, era meglio optare per il male minore e scegliere la più semplice delle due ipotesi. Tuttavia, la 'più semplice' per loro era soltanto quella che richiedeva il minor numero di sfere e un solo moto invece di due: l'ipotesi eccentrica. Non si conosce nessuna seria obiezione a questo criterio da parte di astronomi islamici, almeno fino al XIV secolo.
È solamente allora, infatti, che l'astronomo ῾Alā᾽ al-Dīn ibn al-Šāṭir (m. 1375) trovò che l'argomento di Tolomeo era a suo avviso difettoso e che tali erano anche i dati osservativi tolemaici relativi al modello solare. Secondo Ibn al-Šāṭir, i problemi legati all'ipotesi eccentrica non potevano essere messi da parte tanto facilmente. Da 'vero' aristotelico, egli sottolineava che l'esigenza di concentricità delle sfere andava salvata. Questa linea di pensiero lo portò al cuore del problema che Apollonio e, dopo di lui, Tolomeo si erano trovati di fronte: se non va bene l'ipotesi eccentrica, cosa le si può sostituire? La sola alternativa matematicamente equivalente che i due greci erano riusciti a ideare era quella epiciclica, che comportava l'uso di un maggior numero di sfere e di due moti, oltre a presentare problemi da un punto di vista cosmologico. Tuttavia, per Ibn al-Šāṭir il problema della semplicità non poteva venire prima di quello cosmologico. Se si fosse riusciti a trovare una giustificazione cosmologica per l'ipotesi epiciclica, la si sarebbe dovuta accettare nonostante la sua maggiore complessità. Tentando di trovare tale giustificazione, Ibn al-Šāṭir notò che lo stesso Aristotele non si esprimeva in modo chiaro sul problema dei corpi celesti e sul fatto se gli epicicli potessero o meno essere inclusi nel loro novero. Infatti, anche se ci si poteva trovare d'accordo con le obiezioni all'esistenza di epicicli nei cieli a causa dell'introduzione di centri della pesantezza nel regno dell'etere, bisognava però studiare bene gli assunti di Aristotele prima di aderire all'una o all'altra ipotesi. Ibn al-Šāṭir propose il seguente ragionamento: sappiamo che i cieli contengono stelle fisse, pianeti, sfere e anche epicicli che causano i vari moti osservabili dalla Terra, posta al centro del mondo a causa della sua pesantezza. Aristotele, tuttavia, ci insegna anche che tutti questi oggetti celesti sono fatti della medesima sostanza, l'etere. Eppure alcune parti del cielo ‒ le stelle ‒ emettono luce; altre, come i pianeti, la ricevono; altre ancora, come le sfere, non emettono né riflettono luce alcuna. Bisogna dunque concludere che persino Aristotele avrebbe ammesso che nei cieli vi deve essere un qualche tipo di composizione e che essi non possono essere fatti di quella semplice quintessenza che il filosofo aveva proposto.
Corollario di questa dottrina è che, dovendo esistere un qualche tipo di composizione nei cieli, quella stessa composizione può comprendere i corpi delle sfere epicicliche che, complessivamente, sono assai più piccole della maggior parte delle stelle che conosciamo e che irraggiano la loro luce nei cieli, contribuendo alla composizione celeste. Di conseguenza, optare per l'ipotesi epiciclica, nonostante la sua complessità, vorrebbe dire poter rimanere su basi aristoteliche, cosa che l'ipotesi eccentrica non permette.
Nel caso del Sole, però, Ibn al-Šāṭir aveva altre obiezioni da fare, e precisamente su base osservativa. Infatti, egli aveva scoperto, con le sue osservazioni di eclissi e di altri fenomeni, che il diametro apparente del disco solare non resta sempre uguale a 0;31,20°, come aveva detto Tolomeo, ma appare di 0;36,55° al perigeo, per scemare fino a 0;29,5° all'apogeo e il suo valore alla distanza media è di 0;32,32°. Nessuna delle due ipotesi proposte da Tolomeo per il Sole poteva dar conto di risultati del genere.
Ibn al-Šāṭir propose un suo nuovo modello (fig. 10), costituito dai seguenti elementi: per un osservatore che si trovi in O, il Sole deve apparire mosso da un insieme di sfere costituito da
1) una sfera che abbraccia tutto l'insieme, concentrica con la Terra, che muove l'apogeo solare secondo la direzione dei segni zodiacali di circa 1° ogni sessant'anni persiani;
2) una sfera pareclittica, che segue immediatamente la prima, anch'essa concentrica con la Terra, il cui raggio è di 60 parti e che muove il Sole nella stessa direzione della prima grazie al suo moto diurno;
3) una sfera deferente, trasportata dalla pareclittica come se quest'ultima fosse un deferente, il cui raggio è di 4;37 parti, uguali a quelle che misurano la sfera precedente: il deferente si muove in direzione opposta a quella della successione dei segni zodiacali ma con la stessa velocità della pareclittica;
4) infine, il Sole, mosso da un piccolo epiciclo di centro B, secondo la direzione della successione dei segni zodiacali, con una velocità doppia rispetto a quella del moto medio diurno del Sole mentre viene trasportato dal deferente stesso.
Con questo meccanismo Ibn al-Šāṭir riusciva a dar conto sia di tutti i risultati osservati relativi al disco solare che abbiamo appena citato, sia dell'equazione solare. Anche su quest'ultima, infatti, aveva trovato da obiettare rispetto a quella proposta da Tolomeo. Dovrebbe essere ovvio che gli effetti cinematici di questo modello permettevano a Ibn al-Šāṭir di utilizzare l'equazione di Apollonio, che era stata usata prima di Tolomeo, in modo da rimpiazzare l'eccentricità OT con un deferente epiciclico matematicamente equivalente e parallelo, il cui raggio AB era uguale e parallelo all'eccentricità nell'equazione di Apollonio. L'aggiunta dell'epiciclo minore di centro B permetteva a Ibn al-Šāṭir d'impiegare il lemma di al-῾Urḍī (che discuteremo fra poco) per introdurre l'equivalente del punto equante (indicato nel disegno come il punto C), senza cadere nelle assurdità cosmologiche che l'equante stesso produceva nei modelli per i pianeti superiori. Gli permetteva inoltre di assegnare alla nuova eccentricità un valore di 2;7 parti, secondo le sue moderne osservazioni, il che produceva una nuova equazione solare massima di 2;2,6°, anch'essa confermata dalle sue osservazioni. In questo modello, il punto C diventa il centro apparente intorno al quale il Sole sembra muoversi con velocità uniforme, mentre in realtà viene trasportato da molte sfere, ciascuna delle quali ruota uniformemente intorno al suo asse.
I modelli per i pianeti superiori
Come abbiamo visto, il principale problema dell'astronomia tolemaica stava nella sua dipendenza da una caratteristica come l'equante, impiegato per dar conto delle variazioni esibite dai moti dei pianeti. Non soltanto gli astronomi professionisti ma, a quanto pare, anche i filosofi erano al corrente di questo problema. Stranamente, sembra che i primi tentativi di creare alternative all'equante siano venuti proprio da questi ultimi. In particolare, fu Abū ῾Ubayd al-Ǧūzǧānī (m. 1070) il primo a menzionare il fatto che tale problema era stato discusso nel circolo di Avicenna, di cui fu allievo, il quale pretendeva di aver trovato una soluzione, ma che non l'avrebbe comunicata ai suoi discepoli per stimolarli a trovarne una per conto loro. È sempre al-Ǧūzǧānī a informarci che egli non credeva che il suo maestro avesse effettivamente risolto la questione e che anzi riteneva di essere stato lui il primo ad averlo fatto.
Al-Ǧūzǧānī proponeva di risolvere il problema dell'equante con un'applicazione piuttosto ingenua di ciò che abbiamo chiamato equazione di Apollonio (fig. 11). L'osservatore si trova nel centro del mondo, nel punto Q. L'idea è di rimpiazzare D, il punto equante, con un epiciclo collocato sulla circonferenza del deferente nel punto H e di raggio HB uguale all'eccentricità TD. L'ordine del moto e la disposizione delle sfere erano analoghi alla disposizione e all'ordine usati da Tolomeo nel caso della doppia ipotesi per il Sole con l'uso dell'equazione di Apollonio.
In effetti la disposizione di al-Ǧūzǧānī traslerebbe il moto medio uniforme dal fittizio punto D al vero centro dell'epiciclo H; ma così facendo si traslerebbe anche l'intero deferente nella misura in cui il centro dell'epiciclo del pianeta si muove lungo il cerchio tratteggiato AB invece che sul deferente EH originario, come voleva Tolomeo. Se il deferente fosse stato fittizio come l'equante, questa disposizione avrebbe potuto funzionare; ma il deferente tolemaico aveva una sua realtà osservativa e non poteva essere traslato senza che ne derivassero seri inconvenienti. Probabilmente furono considerazioni di questo genere a indurre l'astronomo Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī (m. 1311) a dire che al-Ǧūzǧānī con questo suo tentativo si era disonorato da sé (faḍaḥa nafsa-hu).
Il primo astronomo a tentare una soluzione più valida del problema dell'equante di Tolomeo fu Mu᾽ayyad al-Dīn al-῾Urḍī di Damasco, vissuto nella prima metà del XIII secolo. Verso la fine della sua vita, quando ormai la sua fama di astronomo serio e di abile costruttore di strumenti era ben consolidata, fu chiamato dal famoso Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī ad assumere la direzione della progettazione e della costruzione degli strumenti di un osservatorio astronomico che al-Ṭūsī aveva fondato a Marāġa, nell'Iran nordoccidentale, nel 1259. La collaborazione fra i due all'Osservatorio di Marāġa, che attirava studiosi e collaboratori desiderosi di lavorare con loro, costituisce uno dei periodi più fecondi della storia dell'astronomia araba.
In un testo dedicato a una completa rivisitazione dell'astronomia tolemaica, dal semplice titolo Kitāb al-Hay᾽a (Libro dell'astronomia), al-῾Urḍī proponeva un modello per i pianeti superiori. Il Kitāb al-Hay᾽a fu scritto prima che si trasferisse all'Osservatorio di Marāġa e al-῾Urḍī vi si lamenta di non disporre di osservazioni su cui basare le sue teorie. Il modello proposto avrebbe dovuto spazzar via le assurdità fisiche e cosmologiche che affliggevano quello tolemaico. In effetti esso propone (fig. 12) d'introdurre nel modello tolemaico un nuovo deferente di centro K, che ha lo stesso raggio del deferente di Tolomeo e che può muoversi ruotando intorno al suo centro K con un moto medio del pianeta uguale a quello tolemaico intorno all'equante D. Il deferente trasporta un piccolo epiciclo, il cui centro è indicato con N, che ruota nella stessa direzione e con la stessa velocità intorno al suo centro. Ciò comporta che il raggio NO, che prima puntava verso K, faccia ora un angolo con NK uguale al moto medio del pianeta, come è illustrato nella fig. 12. Il centro dell'epiciclo tolemaico è poi collocato nel punto O del piccolo epiciclo. A questo punto al-῾Urḍī asserisce che il moto combinato di queste due sole sfere basta a portare il punto O che si trova sulla circonferenza del piccolo epiciclo molto vicino al punto Z che, per Tolomeo, era originariamente il centro dell'epiciclo. In effetti, i due punti si avvicinano in modo tale da identificarsi in corrispondenza della linea degli apsidi ed essere praticamente indistinguibili altrove.
Anche se questa disposizione riusciva a eliminare l'assurdità fisica dell'equante, perché ora entrambe le sfere ‒ il nuovo deferente e l'epiciclo ‒ ruotavano uniformemente intorno ai loro centri, rimaneva da dimostrare che il punto O ‒ il centro dell'epiciclo del pianeta, che in questo modello si trova molto vicino al punto Z ‒ sarebbe apparso all'osservatore come se si stesse muovendo con lo stesso moto uniforme rispetto al punto D, l'equante di Tolomeo. Si trattava di un fenomeno che aveva una realtà osservativa e non poteva essere lasciato da parte. Per fornire questa dimostrazione al-῾Urḍī elaborò un teorema matematico, detto oggi 'lemma di al-῾Urḍī' (fig. 13), in cui dimostrava semplicemente che, se due rette di uguale lunghezza AG e DB incontrano la retta AB in modo da formare angoli interni o esterni uguali, la retta DG che congiunge i loro estremi è parallela ad AB. Applicando il lemma al suo modello, al-῾Urḍī riusciva a dimostrare che la retta DO rimane sempre parallela alla retta NK (fig. 12) e che l'angolo ODE, che nel modello tolemaico era l'angolo del moto medio, era uguale a quello corrispondente NKD che indica la velocità del nuovo deferente. In questo modo al-῾Urḍī riusciva a dar conto di tutti i moti previsti dal modello tolemaico senza dover far ricorso all'equante.
In effetti, il successo di questo modello attirò l'attenzione di al-Šīrāzī, il quale l'adottò come il suo modello preferito nella Nihāyat al-idrāk e nella Tuḥfa al-šāhiyya (Il dono regale): i commenti che al-Šīrazī scrisse a proposito dellaTaḏkira fī ῾ilm al-hay᾽a (Memorandum di astronomia), il capolavoro del suo maestro al-Ṭūsī. Inoltre, trecento anni dopo anche Copernico, per costruire il suo modello dei pianeti superiori, utilizzò la stessa tecnica di al-῾Urḍī di bisecare l'eccentricità. Copernico lasciò però incompiuta la dimostrazione finale, che fu ridiscussa in seguito da Maestlin nella corrispondenza con il suo discepolo Kepler.
Abbiamo già discusso il modello solare di Ibn al-Šāṭir e le argomentazioni a suo favore. Vedremo ora un'ulteriore caratteristica di questo modello, grazie al quale egli riuscì a risolvere non soltanto i problemi del modello solare tolemaico ma anche a generalizzarlo in modo da trattare i movimenti di tutti gli altri pianeti, a eccezione di Mercurio che invece necessitava di una piccola modifica. I suoi modelli per i pianeti superiori e per la Luna erano essenzialmente uguali a quello utilizzato per il Sole, salvi, naturalmente, i necessari aggiustamenti di parametri e di velocità.
Nella fig. 14 si può vedere che le principali caratteristiche del modello solare di Ibn al-Šāṭir furono utilizzate per rappresentare il moto di uno qualunque dei pianeti superiori. Consideriamo Saturno, come esempio. Ibn al-Šāṭir supponeva l'esistenza delle seguenti sfere e dei seguenti movimenti:
1) una prima sfera, che abbraccia tutto il sistema e che non è rappresentata nel disegno, si muove alla stessa velocità con cui si muovono gli altri apogei planetari;
2) una seconda sfera, detta 'sfera inclinata', di raggio QH, concentrica come la prima con il centro del mondo Q, si muove secondo l'ordine di successione dei segni zodiacali con la stessa velocità del moto medio del pianeta. Poiché questa sfera appartiene al pianeta Saturno, la sua inclinazione è fissata a 2;30°;
3) una terza sfera, detta 'deferente', si muove in direzione opposta alla prima e con la stessa velocità, facendo sì che HN rimanga sempre parallelo a QD grazie all'equazione di Apollonio. Nel caso di Saturno il raggio di questa sfera è di 5 e 1/8 parti, mentre il raggio della sfera inclinata è di 60 delle stesse parti;
4) una quarta sfera, denominata 'direttore', di raggio NO costituito da 1;42,30 parti, che si muove secondo l'ordine della successione dei segni con la stessa velocità delle due sfere precedenti;
5) una quinta sfera, di centro O, che è l'usuale epiciclo del pianeta e che non è rappresentata nel disegno in quanto coincide con l'epiciclo tolemaico; il corpo del pianeta è immerso in quest'ultima sfera che si muove con il suo moto anomalistico.
Dalle dimensioni assegnate per il caso di Saturno possiamo concludere che HN, di 5 e 1/8 parti, è di fatto uguale a 5;7,30 parti e quindi a 3e/2, dove e rappresenta l'eccentricità tolemaica di Saturno (3;25 parti). Il direttore misura 1;42,30 parti ed è dunque esattamente uguale alla metà di e. Le dimensioni riportate nella figura (HN=3e/2 e NO=e/2) si applicano pertanto a tutti gli altri pianeti superiori, a seconda del valore dell'eccentricità fornito da Tolomeo per ciascuno di essi.
Il vantaggio del modello di Ibn al-Šāṭir rispetto a quello tolemaico è evidente. Infatti, egli non soltanto riuscì a fare a meno degli eccentrici, ma fece in modo che tutte le sfere si muovessero a velocità uniformi intorno ai loro assi, liberandosi così dell'assurdità fisica che derivava dall'equante di Tolomeo. Ovviamente, questo modello si adattava alle osservazioni altrettanto bene quanto quello tolemaico. A un esame approfondito, sul piano tecnico, esso rivela l'uso di due teoremi già descritti in precedenza. Il primo è il teorema che abbiamo chiamato 'equazione di Apollonio', che riguarda l'equazione fra i moti lungo un eccentrico di centro K e un concentrico con un epiciclo il cui raggio HN è uguale all'eccentricità QK. L'altro teorema è il cosiddetto 'lemma di al-῾Urḍī', che qui è rappresentato schematicamente dalle linee parallele DO e KN, come nel caso del modello di al-῾Urḍī. Grazie a questo parallelismo e ai moti che lo producono, il punto O è portato a coincidere con il centro dell'epiciclo tolemaico Z lungo la linea degli apsidi e i due punti risultano indistinguibili altrove, salvando così l'effetto del deferente tolemaico. Grazie a tale lemma, il punto O sembra muoversi uniformemente intorno all'equante tolemaico D (come richiesto dai dati osservativi), mentre in effetti si muove come tutti gli altri punti intorno agli assi che passano per i centri delle sfere che producono il moto. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il modello elaborato da Ibn al-Šāṭir rappresenti un miglioramento rispetto a quello di al-῾Urḍī e, al pari di quest'ultimo, riesca a evitare le assurdità cosmologiche del modello tolemaico.
Inoltre, la costruzione adottata da Ibn al-Šāṭir per spiegare il moto dei pianeti superiori si rivela, tecnicamente, equivalente a quella usata da Copernico, come risulta evidente dalla fig. 15. La sola eccezione è che, nel caso del modello copernicano (rappresentato con linee tratteggiate), il Sole medio è fisso mentre la Terra si muove. Tutte le altre caratteristiche sono identiche, come risulta chiaro dalle linee parallele che, come vettori, conducono alla posizione del pianeta P in tutti e quattro i modelli rappresentati in figura. Gli ultimi tre sono privi dei problemi presenti in quello tolemaico, anche se l'ipotesi eliocentrica introdusse, per l'epoca di Copernico, un nuovo problema cosmologico.
Come abbiamo visto in precedenza, Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī aveva sviluppato un teorema matematico, denominato oggi 'coppia di al-Ṭūsī', per evitare i problemi posti dal modello tolemaico per i moti planetari latitudinali. Il suo teorema dimostrava essenzialmente che una combinazione di moti circolari uniformi può effettivamente produrre un moto rettilineo oscillatorio; egli aveva stabilito i principî di questa scoperta nel 1247, nel suo commento all'Almagesto. Qualche anno dopo cominciò a rendersi conto di tutte le potenzialità del suo teorema e di come potesse essere impiegato anche in altri casi. In particolare, il teorema poteva essere utilizzato quando c'era la necessità che un punto si muovesse intorno al centro di una sfera, ma al tempo stesso potesse avvicinarsi e allontanarsi rispetto al centro. Un caso ideale per usare questo teorema era il moto della Luna. In questo caso il meccanismo a manovella ideato da Tolomeo permetteva il verificarsi stesso del fenomeno in questione; il centro dell'epiciclo, infatti, alla quadratura poteva avvicinarsi alla Terra in modo tale che l'epiciclo apparisse più grande (producendo così un angolo maggiore per l'anomalia epiciclica) e poteva allontanarsi dalla Terra alle sizigie.
Anche nel caso dei pianeti superiori al-Ṭūsī si rese conto che poteva sfruttare lo stesso teorema per risolvere il problema dell'equante. Nella fig. 16 al posto del deferente tolemaico si trova ora una nuova sfera centrata nell'equante D. Sul bordo di questa sfera è montata una coppia di al-Ṭūsī, che inizialmente si trova nell'apogeo A. La sfera maggiore della coppia si muove con la stessa direzione e velocità del deferente, velocità che è a sua volta uguale al moto medio del pianeta; la sfera minore, invece, si muove a velocità doppia, in direzione opposta. L'effetto della coppia di al-Ṭūsī sarà allora di far sì che il punto di tangenza più interno delle due sfere oscilli lungo l'asse della sfera maggiore, arrivando così nel punto C, che è la posizione generica rappresentata nel disegno. Il punto C è così vicino al centro Z dell'epiciclo tolemaico che la linea tratteggiata può essere utilizzata, a scopo pratico, al posto del deferente tolemaico.
I vantaggi di questo modello consistono nel fatto che esso preserva la base osservativa del modello tolemaico, dato che ne conserva il deferente, ma permette al centro dell'epiciclo C (che è molto vicino a Z, grazie al meccanismo della coppia di al-Ṭūsī) di muoversi uniformemente intorno al centro della sua sfera, il quale a sua volta si muove uniformemente intorno al centro della propria. L'unico problema cosmologico che rimane aperto è che l'eccentricità deve essere presa uguale al doppio di quella prevista da Tolomeo. Del resto, come abbiamo visto in precedenza, l'unico ad avere problemi con le eccentricità era Ibn al-Šāṭir. Gli altri astronomi, infatti, le accettavano, probabilmente pensando che, al bisogno, si sarebbe comunque potuto rimediare utilizzando un modello epiciclico simile a quello di Apollonio, come in effetti fece Ibn al-Šāṭir.
Intorno alla metà del XVI sec., Šams al-Dīn al-Ḫafrī (m. 1525 ca.) mise in atto un tentativo allo scopo di rendere conto degli stessi risultati osservativi spiegati da Tolomeo, preservando tanto il deferente quanto l'equante. Sulla base dell'esperienza di altri astronomi (e in particolare di al-῾Urḍī), egli costruì un modello costituito da numerose nuove sfere, il cui moto si svolgeva rigorosamente intorno ai loro assi. Il moto combinato di queste sfere (fig. 17) faceva apparire il centro dell'epiciclo C‴ come se si stesse muovendo, intorno al punto equante, con velocità uniforme lungo il deferente tolemaico. Questa struttura richiedeva ovviamente svariate applicazioni del lemma di al-῾Urḍī.
Nella fig. 17 si vede anche come al-Ḫafrī introduce un nuovo deferente, simile a quello di al-῾Urḍī in quanto condivide con quest'ultimo il centro K, che biseca l'eccentricità tolemaica. Anche il modello di Copernico, contemporaneo di al-Ḫafrī, segue la stessa strada. Questo nuovo deferente si muove con la stessa velocità del moto medio del pianeta e nella stessa direzione, trasportando il centro dell'epiciclo dall'apogeo A al punto C′. Al-Ḫafrī postula l'esistenza di un altro eccentrico centrato nel punto K′, con KK′=e; si tratta di una tecnica molto simile a quella impiegata da al-῾Urḍī per la Luna, come vedremo. Questo secondo eccentrico si muove in direzione opposta al primo, cioè in direzione opposta a quella della successione dei segni zodiacali, con una velocità doppia di quella del moto medio del pianeta, il che porta il punto C′ nella posizione C″.
A questo punto al-Ḫafrī aveva due opzioni, che conducevano entrambe allo stesso risultato. Poteva introdurre un piccolo epiciclo di raggio uguale all'intera eccentricità tolemaica (che al-Šīrāzī, seguito qui da al-Ḫafrī, chiamava al-muḥīṭa, lett. il compendio), oppure introdurre due epicicli ancora più piccoli, di raggio uguale a metà dell'eccentricità e con i diametri allineati, dei quali soltanto il primo fosse mobile. In entrambi i casi il moto risultante avrebbe dovuto essere lo stesso di quello proposto da al-῾Urḍī per il suo epiciclo: cioè muoversi alla stessa velocità del moto medio del pianeta seguendo la direzione della successione dei segni zodiacali. L'effetto di tutti questi moti era di portare il punto C‴, che si supponeva giacesse sulla retta K′C″, ad avvicinarsi moltissimo al centro C dell'epiciclo tolemaico, tanto vicino che nemmeno un abilissimo osservatore avrebbe potuto rilevare la differenza fra i due, come aveva detto al-῾Urḍī. Diventava allora evidente che il punto C‴ si sarebbe trovato ad abbracciare il deferente tolemaico, salvando così questa parte delle osservazioni dell'astronomo alessandrino. Inoltre, applicando il lemma di al-῾Urḍī alle rette EC‴ e K′C″ ‒ si poteva facilmente dimostrare che esse restavano parallele ‒, che il punto C‴ sarebbe apparso muoversi di moto uniforme intorno all'equante tolemaico E, salvando in tal modo anche questa parte delle osservazioni.
Modelli lunari
Nella nostra rassegna dei modelli tolemaici, abbiamo visto che il modello lunare possedeva caratteristiche molto più complicate di quelle dei pianeti superiori. Per dar conto di questi movimenti Tolomeo aveva dovuto introdurre una sorta di meccanismo a manovella che si sommava alle ipotesi dell'eccentrico e dell'epiciclo. Abbiamo anche visto però che questa nuova disposizione introduceva nuovi problemi e nuove contraddizioni cosmologiche. Per quanto è noto, il primo astronomo che riuscì a risolvere i problemi del modello lunare di Tolomeo fu Mu᾽ayyad al-Dīn al-῾Urḍī.
Nella fig. 18 abbiamo sovrapposto il modello di al-῾Urḍī a quello di Tolomeo. Si possono osservare alcune variazioni di rilievo; al-῾Urḍī sostenne infatti che il modello tolemaico dovesse essere invertito e cambiato nelle sue dimensioni, in maniera tale che le cose potessero apparire come Tolomeo aveva determinato sulla base delle osservazioni.
Al-῾Urḍī propone una sfera inclinata che si muove intorno al centro del mondo secondo la direzione della successione dei segni zodiacali e con una velocità tripla rispetto a quella richiesta dal modello tolemaico per l'elongazione, originariamente indicata con l'angolo α. Introduce poi una nuova sfera deferente, di centro P invece di F come nel modello tolemaico, che si muove all'indietro in direzione opposta; ma il moto è uniforme intorno al suo centro e avviene a una velocità doppia invece che tripla. Il risultato complessivo è portare la retta PI nella stessa direzione della retta OC, facendo sì che il centro dell'epiciclo lunare sia ora in I e appaia avere un moto medio diretto secondo l'ordine della successione dei segni, con una velocità pari a quella dell'elongazione determinata dalle osservazioni tolemaiche.
In questo modo al-῾Urḍī riuscì a risolvere non soltanto il problema dell'equante lunare ‒ il deferente ora ruota intorno al suo centro, invece che intorno al centro del mondo ‒ ma anche a trattare la questione del punto di prosneusi: infatti la retta PI, che nel suo modello congiunge il centro dell'epiciclo con il centro del deferente che lo trasporta, passa molto vicino al punto K, che nel modello tolemaico era appunto il punto di prosneusi, come deve avvenire e come risulta chiaro dalla figura.
Al-Ṭūsī inventò la sua coppia, come abbiamo visto, per risolvere i problemi legati ai moti in latitudine dei pianeti, ma l'utilizzò anche per trattare il modello lunare. Almeno per quanto riguarda il problema dell'equante lunare, la nuova disposizione proposta da al-Ṭūsī si avvicinò molto a una risoluzione appropriata del problema. Nella fig. 19 il modello di al-Ṭūsī (disegnato con tratto continuo) è sovrapposto a quello di Tolomeo (tratteggiato). Il deferente di al-Ṭūsī si muove intorno al centro del mondo con la stessa velocità dell'elongazione tolemaica e seguendo la direzione della successione dei segni zodiacali. Per permettere al centro dell'epiciclo C′, trasportato da questo deferente, di avvicinarsi alla Terra e di allontanarsene secondo un moto rettilineo, interviene la coppia di al-Ṭūsī. Il moto risultante, come si può vedere nella figura, porta in effetti il punto C′ molto vicino al punto C, il centro dell'epiciclo tolemaico.
Il modello di al-Ṭūsī risolveva il problema dell'equante lunare, ovviamente, e rispondeva abbastanza bene a quello della variazione delle dimensioni dell'epiciclo, ossia al problema che aveva indotto Tolomeo a introdurre il meccanismo a manovella precedentemente descritto. Tuttavia, esso non risolveva il problema del punto di prosneusi per il quale al-Ṭūsī aveva fatto ricorso ad alcune sfere poste intorno all'epiciclo, di cui qui non trattiamo.
Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī, allievo e collaboratore di al-Ṭūsī, sviluppò un suo modello autonomo che si basava sostanzialmente sul lemma di al-῾Urḍī, piuttosto che sulla coppia di al-Ṭūsī. La fig. 20 mostra il modello di al-Šīrāzī sovrapposto a quello di Tolomeo. È introdotto un nuovo deferente di centro F, posto nel punto mediano del segmento che congiunge il centro del mondo con il centro J del deferente tolemaico; tale deferente si muove uniformemente intorno al suo centro, invece che intorno al centro del mondo come nel caso del modello tolemaico: ciò risolve il primo problema cosmologico, quello dell'equante. Il moto del deferente porta il punto D, che originariamente si trova sulla retta congiungente il centro del mondo con l'apogeo lunare tolemaico, fino al punto H, che viene ora preso come centro di un altro epiciclo di raggio uguale alla metà dell'eccentricità tolemaica. Questo nuovo epiciclo si muove nella stessa direzione e con la stessa velocità del deferente di centro F e porta ‒ come richiesto dalle osservazioni ‒ il punto E, centro dell'epiciclo di al-Šīrāzī, molto vicino al punto C, centro dell'epiciclo tolemaico. Applicando il lemma di al-῾Urḍī alle linee OE e FH, si può dimostrare che esse rimangono sempre parallele; ciò fa sì che il punto E, centro dell'epiciclo di questo modello, appaia muoversi uniformemente intorno al centro del mondo, come vuole l'osservazione. Così, come nel caso del modello di al-῾Urḍī, sul quale sembra costruito questo di al-Šīrāzī, il problema dell'equante e della variazione dell'epiciclo sembrerebbero risolti. Rimaneva da trattare il problema del punto di prosneusi, che al-Šīrāzī non riuscì ad affrontare con successo ma che fu risolto da astronomi successivi, come Ṣadr al-Šarī῾a al-Buḫārī (m. 1347), di cui vedremo ora il modello lunare.
La fig. 21 mostra il modello lunare di Ṣadr al-Šarī῾a sovrapposto a quello di Tolomeo (tratteggiato). Questo modello si rifà sostanzialmente a quello di al-Šīrāzī, che permetteva di risolvere i problemi dell'equante e della variazione delle dimensioni dell'epiciclo. Ṣadr al-Šarī῾a, infatti, cercò soltanto di aggiustare il problema del punto di prosneusi lasciato irrisolto dal suo predecessore, che egli criticò severamente. Il metodo seguito per cercare di arrivare a tale compensazione è quello di aggiungere all'epiciclo lunare (nella figura rappresentato con una curva continua di centro E) un altro epiciclo di centro H, che si deve muovere con velocità doppia rispetto a quella dell'elongazione di Tolomeo e secondo la stessa direzione. Secondo Ṣadr al-Šarī῾a, però, questa velocità doveva essere misurata dal raggio medio anomalistico dell'epiciclo. Attribuendo al raggio di questo epiciclo aggiuntivo una lunghezza appropriata, egli poteva introdurre una correzione nel moto medio anomalistico dell'epiciclo lunare, approssimativamente uguale a quella che risultava dall'introduzione del punto di prosneusi tolemaico. In questo modello, posto il raggio del deferente pari a 60 parti, il raggio dell'epiciclo di centro H è di 0;52 parti.
Come si vede nella fig. 22, il modello di Ibn al-Šāṭir presenta le stesse caratteristiche dei precedenti due presi in esame, ossia è formato da una sfera principale inclinata, che si muove uniformemente intorno al centro del mondo e che a sua volta è contenuta all'interno di un'altra sfera a essa concentrica. Tutti gli altri moti sono spiegati con l'introduzione di due sfere del tipo degli epicicli, dotate di raggi e velocità opportuni. In questo modello lunare Ibn al-Šāṭir fornisce le dimensioni delle varie sfere che si trovano dentro alla sfera più esterna (che possiamo ora trascurare, in quanto era responsabile soltanto del moto regolare dei nodi lunari a una velocità di 0;3,10,38,27° al giorno). La prima sfera concentrica è qui rappresentata dal raggio r1, al quale è data l'usuale lunghezza di 60 parti. La seconda sfera, chiamata epiciclica, ha un raggio r2 uguale a 8;16,27 parti. La terza sfera, detta 'direttore' (al-mudīr), ha raggio r3 costituito da 1;41,27 parti. La rappresentazione circolare di queste sfere, illustrata in figura, va modificata per tenere conto delle dimensioni della Luna, il cui raggio corrisponde a 0;16,27 parti e che si considera contenuta all'interno dell'ultima sfera (il direttore). In questa situazione il raggio della sfera epiciclica è di 6;35 parti, mentre quello del direttore di 1;25.
Lasciando da parte il moto della sfera più esterna, i moti delle altre sfere possono essere descritti nel modo seguente:
1) la sfera inclinata si muove intorno al centro del mondo con una velocità di 13;13,45,39,40° al giorno, che è uguale alla somma di quelle del moto dei nodi lunari e del moto longitudinale medio della Luna;
2) la sfera epiciclica si muove intorno al suo centro C in direzione opposta a quella della successione dei segni zodiacali, con una velocità anomalistica di 13;3,53,46,18° al giorno;
3) il direttore si muove in direzione opposta rispetto alla successione dei segni zodiacali, con una velocità pari al doppio di quella stimata da Tolomeo per l'elongazione della Luna dal Sole medio.
Questa combinazione di moti e di direzioni ha come effetto quello di dare all'epiciclo lunare, trasportato sull'estremità del raggio r3, un'equazione di circa 5;10° all'apogeo e di farlo crescere fino a 7;40° alla quadratura, come richiesto dalle osservazioni. Naturalmente, il modello ha il vantaggio che tutti i moti avvengono intorno ad assi che passano per i centri delle rispettive sfere. Oltre a ciò, esso riesce a compensare l'altro difetto osservativo che presentava il modello tolemaico e che derivava dall'aver adottato il meccanismo a manovella per ottenere che l'epiciclo producesse un angolo di 7;40° alla quadratura. Quel meccanismo, inoltre, faceva sì che la Luna sembrasse quasi il doppio più grande alle quadrature, cosa smentita da semplici osservazioni. Il modello di Ibn al-Šāṭir ‒ con le sue ben scelte dimensioni ‒ ha l'ulteriore vantaggio di correggere anche questo difetto. Con le dimensioni assegnate, il corpo lunare dovrebbe apparire a una distanza dall'osservatore compresa fra 1,5;10 e 54;50 parti alle sizigie e fra 1,8;0 e 52;0 parti alle quadrature. Quest'ultima variazione di distanza alle quadrature, che diventa di 52 parti alla distanza più vicina, rappresenta un notevole miglioramento rispetto alle distanze stimate dal modello di Tolomeo, che prevedeva una distanza alla quadratura di 34;7 parti, ossia circa la metà della distanza alle sizigie, cosa che dovrebbe far apparire la Luna quasi due volte più grande. Potrebbe essere stato proprio quest'ultimo vantaggio ad aver spinto Copernico ad adottare nel suo De revolutionibus il modello e le dimensioni proposti da Ibn al-Šāṭir.
Il modello lunare di al-Ḫafrī seguiva la stessa tradizione di quelli di al-῾Urḍī e di al-Šīrāzī: esso utilizzava le loro stesse tecniche per correggere i difetti del modello tolemaico. Come è illustrato nella fig. 23, il modello di al-Ḫafrī (tratto continuo) introduce un nuovo deferente, simile a quello di al-Šīrāzī. Il centro di tale deferente, che ha raggio R−s, è posto in F1, a metà strada fra il centro del mondo e il centro del deferente tolemaico. Il deferente si muove intorno al suo centro con una velocità pari al quadruplo di quella dell'elongazione tolemaica (una supposizione simile a quella fatta da al-῾Urḍī).
All'interno di questo deferente si trova un altro eccentrico, centrato in F2 e di raggio R−2s, che si muove in direzione opposta a quella del primo deferente, cioè in direzione contraria a quella della successione dei segni zodiacali, ma con una velocità doppia rispetto a quella dell'elongazione tolemaica. Questo moto ha l'effetto di portare il centro dell'epiciclo lunare ad allinearsi con OC, che era la direzione richiesta nel modello tolemaico. Inoltre, è ovvio che il centro dell'epiciclo C2 adottato da al-Ḫafrī coincide esattamente con il centro C dell'epiciclo del modello tolemaico nei punti più critici, e cioè nelle sizigie e nelle quadrature. Si allontanerà da esso per una distanza così piccola che il suo effetto per un osservatore posto in O non supererà il valore di 0;8,29 gradi di arco. Tale valore rientrava molto bene nei 10 minuti di arco accettati da tutti gli studiosi premoderni, Tolomeo compreso, in quanto ‒ come diceva al-῾Urḍī ‒ sarebbero sfuggiti anche all'attenzione dei più abili osservatori.
Questa disposizione, ovviamente, risolveva i due problemi del modello lunare: quello dell'equante e quello del punto di prosneusi. Rimanevano però le distorsioni delle osservazioni, che modelli del genere introducevano per la Luna alle quadrature. Tali distorsioni, già presenti nel modello tolemaico, furono corrette, per quanto è attualmente noto, soltanto dal modello di Ibn al-Šāṭir.
Modelli per il moto di Mercurio
La vicinanza di questo pianeta al Sole e il suo periodo relativamente breve lo rendono molto difficile da osservare. Il modello tolemaico che abbiamo descritto risentiva sia di una scarsa accuratezza nella descrizione del suo moto, sia del problema cosmologico del punto equante. Inoltre, il moto di Mercurio descritto da Tolomeo richiedeva anche che l'epiciclo del pianeta si avvicinasse alla Terra due volte nel corso della sua rivoluzione, producendo così un apogeo (posto nel decimo grado della Bilancia, ai tempi di Tolomeo) che si muoveva con il moto delle stelle fisse e due perigei posti a 120° da una parte e dall'altra dell'apogeo. Per dar conto di queste variazioni della distanza dell'epiciclo del pianeta dall'osservatore, Tolomeo aveva proposto un meccanismo a manovella simile a quello usato nel caso della Luna. Ma anche qui il meccanismo richiedeva il moto uniforme di una sfera che girasse su sé stessa intorno a un asse che non passava per il suo centro: una vera e propria assurdità.
Tutti i tentativi di riforma del modello di Mercurio si focalizzarono su questo punto, che è essenzialmente lo stesso discusso per gli altri modelli planetari. Il primo studioso che abbia cercato di trovare un'alternativa al modello tolemaico di Mercurio fu, per quanto è noto, il solito Mu᾽ayyad al-Dīn al-῾Urḍī. Egli affrontò il problema ispirandosi alle somiglianze fra il modello lunare e quello di questo pianeta. Si prese ampie libertà per ciò che riguardava le direzioni e le ampiezze delle velocità delle sfere, concentrandosi sulla difficoltà di riuscire a evitare che le sue sfere dovessero muoversi intorno ad assi che non passassero per il loro centro.
Nella fig. 25, che mostra il modello di al-῾Urḍī sovrapposto a quello tolemaico, osserviamo che il direttore di Tolomeo, centrato nel punto B, è lasciato dov'era. Tuttavia, il suo moto è ora in direzione della successione dei segni zodiacali (opposto quindi a quello tolemaico) e la sua velocità è tripla rispetto a quella che Tolomeo aveva assegnato al suo direttore. Di conseguenza, l'apogeo che il direttore tolemaico faceva muovere verso il punto T è fatto muovere dal direttore di al-῾Urḍī verso il punto S. Egli utilizzò poi un nuovo deferente, avente le stesse dimensioni di quello tolemaico, ma centrato nel punto K invece che in G. Il moto di questo nuovo deferente avviene in senso contrario a quello del direttore che lo trasporta e la sua velocità è il doppio di quella del moto medio del pianeta assegnato al direttore tolemaico. La combinazione del moto del nuovo direttore e del nuovo deferente fa spostare all'indietro il punto I (che nel modello di al-῾Urḍī è ora il centro dell'epiciclo), che recede dall'apogeo S in modo che la retta KI diventa parallela alla retta EC, come richiesto. In conseguenza di questo parallelismo si può facilmente dimostrare che, per un osservatore sulla Terra, il punto I apparirà muoversi di moto uniforme intorno al punto E, perché la retta che congiunge il centro dell'epiciclo con il centro del deferente che lo trasporta, se prolungata, forma con la retta OB un angolo uguale a quello formato dalla retta OC nel modello tolemaico. Anche se la differenza fra i punti I e C è stata esagerata in figura per maggior chiarezza, in realtà le due rette EC e KI sono così vicine che sarebbe stato assai difficile distinguerle se fossero state disegnate in scala. Anche così, tuttavia, come nel caso della Luna, la loro differenza risulta talmente trascurabile per un osservatore posto in O, che sarebbe difficilissima da rilevare. D'altronde, il vantaggio di questo modello, rispetto a quello di Tolomeo, è che esso si adegua ai principî cosmologici che abbiamo già più volte enunciato.
Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī dimostrò notevole indipendenza di pensiero e ingegnosità nel trattare il modello tolemaico di Mercurio. Date le circostanze della sua vita, si può supporre che quando si trovò ad affrontare per la prima volta questo problema aveva a disposizione solamente la soluzione proposta da al-῾Urḍī appena descritta. Il suo maestro al-Ṭūsī, che era riuscito a trovare soluzioni alternative ai modelli planetari di Tolomeo, aveva dovuto dichiarare il suo fallimento di fronte a Mercurio. Nella sua opera più influente e famosa non aveva potuto fare altro che augurarsi che Dio gli potesse accordare l'intuizione necessaria per riuscire in futuro a superare le complessità del modello di Mercurio. Scriveva così verso il 1260, e morì nel 1274 senza ‒ a quanto pare ‒ aver ricevuto l'ispirazione. Tuttavia, le fatiche di al-Ṭūsī per risolvere i problemi degli altri modelli, e in particolar modo l'utilizzazione della sua coppia, non furono del tutto vane. Infatti quel teorema si rivelò molto utile quando il suo allievo al-Šīrāzī raccolse la sfida di completare l'opera del maestro e iniziò a cercare una soluzione per il modello di Mercurio.
La fig. 26 illustra la costruzione proposta da al-Šīrāzī, così come è stata interpretata da Edward S. Kennedy (1966) nel suo lavoro ‒ un classico in questo campo ‒ sulle teorie planetarie islamiche. Al-Šīrāzī affronta il problema in modo completamente nuovo, abbandonando sia il direttore sia il deferente di Tolomeo. Propone invece una nuova sfera eccentrica deferente centrata nel punto B, il centro del vecchio direttore. Questo deferente, rappresentato dal vettore r1, si muove in direzione della successione dei segni zodiacali con la stessa velocità del moto medio del pianeta. Esso trasporta, insieme all'epiciclo di centro C, due coppie di al-Ṭūsī (che al-Šīrāzī chiama le grandi e le piccole sfere), indicate rispettivamente con i raggi r2 e r3 e con i raggi r4 e r5. Le posizioni e le direzioni del moto di tutte queste sfere sono indicate in figura. Il loro effetto complessivo è quello di far apparire il punto C come se si stesse muovendo uniformemente intorno all'equante E. Al tempo stesso, il punto C ha due perigei, nei punti in cui la linea BG forma angoli di 120° da una parte e dall'altra della linea degli apsidi OEB. Una volta di più, questa soluzione riesce a evitare tutti quei problemi cosmologici coinvolti nel modello tolemaico.
Non fu questo, però, l'unico modello sviluppato da al-Šīrāzī. Nei due lavori che abbiamo citato precedentemente, i commenti Nihāyat al-idrāk e al-Tuḥfa al-šāhiyya, ne propose altri, addirittura nove in una volta, segnalando i difetti di alcuni e lasciandone altri senza descrizioni per mettere alla prova l'intelligenza del lettore. Si decise infine per il modello che abbiamo appena descritto, presentandolo come la sua alternativa preferita al modello tolemaico. Leggendo le sue descrizioni dei vari modelli alternativi si avverte con chiarezza che al-Šīrāzī credeva fermamente nell'esistenza di una soluzione 'giusta' a questo problema e che era convinto di averla trovata. Questo atteggiamento è molto importante, soprattutto in vista dei lavori che Šams al-Dīn al-Ḫafrī sviluppò sul modello di Mercurio qualche secolo dopo.
La complessità del moto di Mercurio costrinse Ibn al-Šāṭir a effettuare alcune modifiche alla struttura basilare che gli era servita per elaborare i modelli degli altri pianeti. In questo caso, introdusse nel corpo della sfera epiciclica due sfere aggiuntive che formavano una coppia di al-Ṭūsī. Questa stessa tecnica fu adottata anche da Copernico, che utilizzò la medesima coppia per ottenere gli stessi risultati. Le somiglianze fra l'opera di questi due astronomi sono in effetti notevoli, come la ricerca recente ha abbondantemente dimostrato (Swerdlow 1984).
Nella fig. 27 si può vedere come Ibn al-Šāṭir adotti per Mercurio la stessa disposizione che aveva usato per gli altri pianeti: una sfera inclinata concentrica e due epicicli, che chiama deferente e direttore. Queste sfere sono indicate con i vettori r1=60 parti (la sfera inclinata); r2=4;5 parti (il deferente); r3=0;50 parti (il direttore). All'estremità del direttore è attaccata la sfera dell'epiciclo (r4=22;46 parti); e all'estremità di quest'ultima sono aggiunte due sfere identiche r5 e r6 sistemate in modo tale da far sì che la combinazione dei loro moti costituisca una coppia di al-Ṭūsī. Il corpo del pianeta è posto all'estremità dell'ultima sfera, come indicato nella figura in cui sono mostrati anche i movimenti di queste sfere. La sfera inclinata si muove con la velocità del moto medio del pianeta e secondo il verso della successione dei segni zodiacali. Il deferente si muove con la stessa velocità ma in verso opposto, mantenendo così il suo raggio sempre parallelo alla linea degli apsidi, trasformando l'ipotesi eccentrica in epiciclica. Il direttore si muove con velocità doppia, ma nello stesso verso della successione dei segni. Applicando il lemma di al-῾Urḍī, si può dimostrare che l'estremità di r3 appare come se si stesse muovendo intorno a un punto posto lungo la linea degli apsidi, in direzione dell'apogeo e a una distanza dal punto O pari a 4;5−0;50=3;15 parti. Poiché l'estremità di r3 era il centro dell'epiciclo tolemaico, il moto qui descritto rappresenta il moto dell'epiciclo intorno al punto equante del modello tolemaico, risolvendo dunque il problema dell'equante. Infine, la coppia di al-Ṭūsī assicura che Mercurio oscilli avanti e indietro, facendo così apparire l'epiciclo più grande ai due perigei e più piccolo all'apogeo, risolvendo quindi anche questo ulteriore problema.
Come aveva fatto nel caso della Luna, Ṣadr al-Šarī῾a utilizzò estensivamente il lavoro di al-Šīrāzī anche per trattare il problema di Mercurio. La fig. 28 illustra schematicamente il suo modello, sovrapponendolo alle principali caratteristiche di quello tolemaico. Ṣadr al-Šarī῾a, infatti, sembra aver ripreso il modello che al-Šīrāzī aveva sviluppato per la Luna adattandolo a Mercurio. La sola eccezione è che nel caso della Luna i moti risultanti indicati in figura farebbero diventare la retta FK (che congiunge il centro F del deferente con il centro K dell'epiciclo) parallela alla retta OC, che congiunge il centro del mondo con il centro dell'epiciclo, mentre qui essa diventa parallela alla retta EC. Secondo il giudizio di Ṣadr al-Šarī῾a, questo sarebbe dovuto bastare a spiegare il moto dell'epiciclo intorno all'equante nel caso di Mercurio, ma egli non si accorse che forse avrebbe dovuto abbandonare completamente anche il deferente.
È noto un solo lavoro di ῾Alā᾽ al-Dīn al-Qušǧī (m. 1474), inerente ai difetti dell'astronomia di Tolomeo sul piano teorico che stiamo discutendo. L'opera in questione è un trattato che affronta specificamente la soluzione dei problemi posti dal modello di Mercurio. Le fonti biografiche menzionano anche un altro testo, che avrebbe dovuto occuparsi dei problemi relativi al modello lunare e che non è stato ancora rinvenuto; potrebbe in effetti trattarsi di una falsa indicazione e queste fonti potrebbero in realtà fare riferimento al trattato su Mercurio, viste le somiglianze fra i due modelli che abbiamo più volte segnalato.
In questo stesso testo dedicato a Mercurio apprendiamo che al-Qušǧī aveva imparato le arti matematiche alla corte del famoso monarca Uluġ Beg (1393-1449); altre fonti ci informano che nella Scuola di Uluġ Beg a Samarcanda furono spesso discussi i problemi posti dall'astronomia tolemaica (Saliba 1994a). Proponendo le sue soluzioni del problema di Mercurio, al-Qušǧī fu influenzato da al-῾Urḍī (in particolare dal suo lemma) e ‒ consapevolmente o meno ‒ nel suo modello lunare adottò largamente le tecniche impiegate da al-Šīrāzī. Al-Qušǧī non fa menzione di alcuno di questi due astronomi nel suo trattato; ma un esame attento del modello proposto mostra chiaramente la loro influenza.
Nella fig. 29 vediamo che al-Qušǧī propone un nuovo direttore con centro nel punto N, posto nel punto di mezzo fra l'equante tolemaico E e M, il centro del direttore tolemaico. Il nuovo direttore, rappresentato nella figura soltanto con il suo raggio NA′, deve muoversi con la stessa velocità e nello stesso verso del direttore tolemaico, che è disegnato a sua volta con tratto continuo. Egli introduce anche un deferente eccentrico di centro H (mentre nel modello tolemaico esso ha centro F). Il deferente di al-Qušǧī si muove nel verso opposto rispetto al direttore e con velocità doppia, ma ruota intorno al suo centro H, invece che intorno all'equante come voleva Tolomeo. All'estremità di questo nuovo deferente sono collocati due piccoli epicicli, con centro in B e D e raggio uguale a metà dell'eccentricità tolemaica di Mercurio. L'epiciclo di centro B si muove nello stesso verso del deferente che lo trasporta e con la stessa velocità, mentre il secondo si muove nel verso opposto con una velocità pari alla metà di quella del primo. Grazie al moto del primo epiciclo e applicando il lemma di al-῾Urḍī, il centro del secondo epiciclo sembrerà muoversi uniformemente intorno al centro del nuovo direttore N con velocità uguale a quella del moto medio del pianeta.
Applicando nuovamente il lemma di al-῾Urḍī, il moto del secondo epiciclo porterà G, il nuovo centro dell'epiciclo planetario, molto vicino a C, centro dell'epiciclo tolemaico, e farà apparire G come se si stesse muovendo intorno all'equante E, come richiesto dalle osservazioni. In effetti la differenza fra i punti G e C è stata esagerata in figura per rendere più chiaro il disegno, ma i due punti risultano indistinguibili l'uno dall'altro. Se si calcola questa differenza per l'osservatore posto in O, si trova che raggiunge un angolo massimo di 0;4,57°, ossia meno di 5 minuti di arco, che nessuno strumento medievale era in grado di rilevare, ed era ampiamente entro lo standard di 10 minuti di arco, variazione accettata in tutta l'Antichità e nel Medioevo.
È chiaro che questo modello ottenne un successo notevole. Al-Qušǧī riuscì a evitare le assurdità dell'equante e al tempo stesso a dar conto delle osservazioni tolemaiche altrettanto bene che Tolomeo stesso. In effetti il modello di al-Qušǧī predice esattamente le stesse posizioni per il centro dell'epiciclo planetario previste dal modello di Tolomeo, in particolare un apogeo e due perigei. La variazione di cui abbiamo appena parlato, che sottende un angolo massimo di 5 minuti di arco per un osservatore al centro del mondo, si verifica in punti prossimi a una distanza di 58° dall'apogeo, punti che non erano mai stati considerati da Tolomeo nella costruzione del suo modello. Inoltre, questo nuovo modello arriva persino a mantenere le proprietà dei perigei tolemaici di Mercurio, come si può facilmente provare grazie al fatto che i punti G e C coincidono a distanza di 120° dall'apogeo. Questo successo deve aver influenzato le generazioni successive, come è provato dal fatto che il modello di al-Qušǧī fu citato e adottato nel secolo successivo nei lavori di al-Ḫafrī.
šams al-Dīn al-Ḫafrī fu il primo, per quanto è noto a tutt'oggi, a rendersi finalmente conto che nessuna delle alternative proposte ai modelli tolemaici poteva essere considerata 'vera'. Come abbiamo visto, questa idea di 'verità' era stata al centro delle preoccupazioni di al-šĪrāzī; per al-Ḫafrī vi erano invece molti modi di risolvere questi problemi. Alcuni più accettabili di altri, certamente, ma un buon numero di essi matematicamente equivalenti. Soltanto per Mercurio egli arrivò a proporre quattro nuovi modelli; il quarto è proprio il modello di al-Qušǧī, attribuito a "uno dei moderni", che al-Ḫafrī si limita ad adottare come se fosse uno dei suoi. La cosa notevole in questa impresa non è tanto o soltanto l'abilità dimostrata da al-Ḫafrī di inventare costruzioni così complesse, ma anche quella di stabilire che esse erano matematicamente equivalenti. Poiché il quarto modello, quello di al-Qušǧī, è già stato trattato (in effetti al-Ḫafrī glielo attribuisce, pur senza fare esplicitamente il nome del suo autore), rimangono solamente tre modelli inventati da al-Ḫafrī in persona, che li introduce dicendo semplicemente "eccone un altro".
4. Conclusioni
In questa rapida rassegna dei modelli alternativi a quello tolemaico, sviluppati dall'astronomia islamica in un arco di tempo di oltre quattro secoli, abbiamo presentato molti elementi che sono stati scoperti grazie alla ricerca negli ultimi quarant'anni. Il primo di questi elementi è lo stretto legame fra matematica e astronomia che permise agli astronomi islamici di concepirli. Fondamentale, da questo punto di vista, fu l'introduzione dei due teoremi matematici, detti oggi 'coppia di al-Ṭūsī' e 'lemma di al-῾Urḍī'. Pur nella loro semplicità matematica, furono estremamente fecondi nelle loro applicazioni a problemi astronomici, come è stato più volte illustrato.
Il secondo elemento è intimamente legato al primo e riguarda il ruolo attribuito alla matematica. Quale posto essa deve avere in una scienza come l'astronomia? Ho sostenuto altrove che nei lavori di al-Ḫafrī, nel suo uso di costruzioni geometriche diverse ‒ ma matematicamente equivalenti ‒ per risolvere lo stesso problema, si può individuare il primo uso della matematica come linguaggio descrittivo di ciò che fino ad allora era stato considerato come un'indiscutibile realtà cosmologica. Vale la pena di chiarire meglio tale risultato. Nella fig. 30 i quattro modelli di al-Ḫafrī sono sovrapposti l'uno all'altro. Esaminandoli con attenzione, si può vedere che in tutti e quattro l'interesse dell'autore era concentrato su due problemi. In primo luogo, egli voleva che tutte le sfere dei suoi modelli si muovessero uniformemente intorno ad assi passanti per i loro centri, in modo da rispondere alle obiezioni cosmologiche sollevate contro l'astronomia tolemaica. In secondo luogo, egli desiderava conservare la realtà osservativa del centro C dell'epiciclo tolemaico: esso deve apparire come se si muovesse intorno all'equante e mantenere la stessa distanza dalla Terra prevista dal modello di Tolomeo. Al-Ḫafrī ‒ come tutti gli astronomi che l'avevano preceduto ‒ avrebbe ammesso senza esitare che queste due condizioni erano entrambe sostenute dalle osservazioni.
Per ciò che riguarda poi l'equivalenza dei quattro modelli, si può facilmente dimostrare che essi producevano tutti lo stesso valore per la distanza fra il centro C dell'epiciclo di al-Ḫafrī e l'equante E di Tolomeo, ossia, in tutti e quattro i casi: EC=R+e[cos(2α)+cos(α)], dove R=60 ed e=3 parti.
Infine, questa indagine dovrebbe aver chiarito che la tradizione di ricerca di alternative all'astronomia di Tolomeo fu lunga e feconda e che, a partire dall'XI sec., la maggior parte degli autori che scrisse di astronomia in arabo dovette in qualche modo occuparsene. Non vale nemmeno la pena di sottolineare che essi lavorarono tutti elaborando i risultati degli autori precedenti. Ma altrettanto chiaro è il fatto che, ciascuno a modo suo, diedero tutti un notevole contributo alla continua crescita del corpus arabo di scritti astronomici. Gli storici moderni hanno una sola grave difficoltà: i lavori astronomici in arabo scritti dopo il XVI sec. devono ancora essere identificati e studiati. È una ricerca senza la quale nessuna rassegna dell'astronomia araba potrà dirsi completa.
Grafton 1973: Grafton, Antony, Michael Maestlin's account of Copernican planetary theory, "Proceedings of the American philosophical society", 117, 1973, 6, pp. 523-552.
Kennedy 1966: Kennedy, Edward S., Late medieval planetary theory, "Isis", 57, 1966, pp. 365-378.
‒ 1983: Kennedy, Edward S. [et al.], Studies in the islamic exact sciences, Beirut, American University of Beirut, 1983.
Neugebauer 1975: Neugebauer, Otto, A history of ancient mathematical astronomy, Berlin-New-York, Springer, 1975, 3 v.
Roberts 1966: Roberts, Victor, The planetary theory of Ibn al-Shāṭir: latitudes of the planets, "Isis", 57, 1966, pp. 208-219.
Saliba 1979: Saliba, George, The original source of Quṭb al-Dīn al-Shīrāzī's planetary model, "Journal for the history of Arabic science", 3, 1979, pp. 3-18.
‒ 1980: Saliba, George, Ibn Sīnā and Abù ῾Ubayd al-Jùzjānī: the problem of the Ptolemaic equant, "Journal for the history of Arabic science", 4, 1980, pp. 376-403.
‒ 1987: Saliba, George, Theory and observation in islamic astronomy: the work of Ibn al-Shàöir of Damascus, "Journal for the history of astronomy", 18, 1987, pp. 35-43.
‒ 1994a: Saliba, George, A history of Arabic astronomy. Planetary theories during the golden age of Islam, New York, New York University Press, 1994.
‒ 1994b: Saliba, George, A sixteenth-century Arabic critique of Ptolemaic astronomy: the work of Shams al-Dīn al-Khafrī, "Journal for the history of astronomy", 25, 1994, pp. 15-38.
‒ 1997: Saliba, George, A redeployment of mathematics in a sixteenth-century Arabic critique of Ptolemaic astronomy, in: Perspectives arabes et médiévales sur la tradition scientifique et philosophique grecque. Actes du colloque de la SIHSPAI, Paris 1993, édités par Ahmad Hasnawi, Abdelali Elamrani-Jamal et Maroun Aouad, Leuven, Peeters; Paris, Institut du Monde Arabe, 1997, pp. 105-122.
‒ 1999: Saliba, George, Rethinking the roots of modern science: Arabic manuscripts in European libraries, Washington D.C., Center for Contemporary Arab Studies, Georgetown University, 1999.
Swerdlow 1984: Swerdlow, Noel M. - Neugebauer, Otto, Mathematical astronomy in Copernicus' De revolutionibus, New York, Springer, 1984, 2 v.