La civilta islamica: osservazioni, calcolo e modelli in astronomia. Le origini dell'astronomia arabo-islamica
Le origini dell'astronomia arabo-islamica
Si può cominciare a parlare di astronomia arabo-islamica a partire dall'VIII sec., quando fiorirono i primi studi nelle zone orientali dell'Impero musulmano, dove coesistevano diverse e fiorenti tradizioni astronomiche, tutte o quasi derivanti dalla scienza ellenistica; infatti, la tradizione mesopotamica più antica sopravviveva soltanto nella misura in cui era stata inglobata in quella greca. L'astronomia tolemaica era stata trasmessa in Mesopotamia e in Iran all'inizio del periodo sasanide (III e IV sec.) e dal V al VII sec. si fuse con l'astronomia indiana, la quale a sua volta era una propaggine della scienza ellenistica. Dall'Iran dei Sasanidi giunsero in Siria nel VII sec. alcuni elementi dell'astronomia indiana; in Siria e in Egitto, d'altra parte, l'astronomia tolemaica continuava a essere oggetto di studio. Queste varie tradizioni contribuirono a dar vita a partire dall'VIII sec. a una scienza astronomica araba. Nell'area culturale di lingua latina l'astronomia matematica non era mai stata studiata approfonditamente: a parte un modesto tentativo di spiegare le Tavole manuali di Tolomeo in latino, avvenuto a Roma probabilmente intorno al 535 d.C., non esistono infatti tracce di trattati latini inerenti l'astronomia. Nell'Andalus e nel Maghreb, dunque, mancava del tutto una tradizione locale che fungesse da punto di riferimento e soltanto a partire dal secondo quarto del IX sec., quando furono portati in Spagna i testi della tradizione del sindhind (calco in arabo del sanscrito siddhānta, che designa certi testi astronomici in sanscrito, v. oltre), l'astronomia matematica diventò oggetto di studi nell'Occidente musulmano.
Le prime testimonianze dell'interesse arabo per l'astronomia matematica sono rappresentate da un cospicuo numero di oroscopi basati su tavole astronomiche, i quali costituivano una tra le principali applicazioni dell'astronomia matematica. I primissimi oroscopi in arabo pervenuti fino a noi sono un gruppo di quindici riportati da Aḥmad al-Siǧzī (XI sec.) nel suo Kitāb al-Qirānāt wa-taḥāwīl sinī 'l-῾ālam (Libro delle congiunzioni e delle rivoluzioni degli anni del mondo). Questi oroscopi delle eclissi lunari e solari e di altri eventi significativi nella fase iniziale della storia islamica sono datati, nel calendario siriaco seleucide, tra il 20 aprile 571 e il 22 dicembre 679. L'ultima data si riferisce a un'eclissi lunare che indicava l'ascesa al trono del califfo omayyade Yazīd I (680-683); gli oroscopi furono eseguiti probabilmente durante il suo regno, usando ‒ in assenza di tavole astronomiche in arabo ‒ tavole in siriaco o in pahlavico. Il secondo gruppo di oroscopi storici, anch'esso riportato da al-Siǧzī, fu elaborato durante il regno del califfo abbaside Hārūn al-Rašīd (786-809) e contiene trentacinque oroscopi degli equinozi di primavera relativi agli anni in cui ebbero luogo le congiunzioni di Saturno e Giove, i decessi dei califfi o altri eventi significativi. Le date spaziano dal 19 marzo 571 al 20 marzo 786 e riflettono la diversità delle tradizioni astronomiche presenti nell'Impero orientale durante il califfato di Hārūn al-Rašīd: agli oroscopi, che cominciano con quello per l'anno in cui il Profeta morì, 20 marzo 632, sono assegnate date rispettivamente nel calendario musulmano che prende inizio dall'egira (hiǧra), nel calendario persiano (corrispondente agli anni dell'ascesa al trono del sovrano sasanide Yazdagird III, data che coincide con l'inizio dell'invasione islamica, nel 632) e nel calendario siriaco seleucide. Lo stesso gruppo di oroscopi fu usato da Kanaka, astrologo alla corte di Hārūn al-Rašīd, nel Kitāb al-Qirānāt al-kabīr (Il grande libro delle congiunzioni), ultimato durante il califfato di al-Ma᾽mūn (813-833).
di David Pingree
Le prime opere contenenti tavole astronomiche (zīǧ, derivato dal termine pahlavi zīk) composte in arabo provengono dalle aree più orientali dell'Impero musulmano, dall'Afghanistan e dal Sind, regione lungo il corso meridionale del fiume Indo (in sanscrito Sindh) e dipendono fortemente dai trattati indiani. Così gli Zīǧ al-Arkand (arkand è la traslitterazione nella lingua pahlavi del sanscrito ahargaṇa, che indica il numero di giorni trascorsi da un'epoca, ossia da un punto convenzionale a partire dal quale inizia il conteggio), scritti nel Sind poco dopo il 735, subirono gli influssi del sistema indiano ardharātrikapakṣa nonché di un trattato in pahlavi, probabilmente gli Zīk-i Arkand che a loro volta avevano esercitato un influsso sugli Zīk-i Šahriyārān (Tavole astronomiche dei Re) composti per il sovrano sasanide Cosroe I Anushirwan nel 556. Gli Zīǧ al-Arkand sindici conoscono le epoche dell'era Śaka (78), dell'egira (622), dell'era Yazdagird (632), del trattato di calcolo astronomico Khaṇḍakhādyaka (Bocconcini; 665) dell'autore indiano Brahmagupta e del regno (mulk) del Sind (735).
῾Alī ibn Sulaymān al-Hāšimī menziona due epitomi di questi Zīǧ al-Arkand scritte a Qandahar, nell'Afghanistan sudorientale, vicino al Sind: al-Zīǧ al-ǧāmi῾ (Tavole astronomiche universali) e Zīǧ al-Hazār (Tavole astronomiche dei Mille). L'ultimo nome si riferisce agli yuga (età) indiani, dove un mahāyuga (grande yuga) corrisponde a 4.320.000 anni. La lunghezza dell'anno che al-Hāšimī ascrive a questi due zīǧ ‒ 6,5;15.32.30 giorni in notazione sessagesimale, il che fa in modo che vi siano 1.577.919.000 giorni in notazione decimale in un mahāyuga ‒ è quella dei citati Zīk-i Šahriyārān scritti per il sovrano Cosroe e risale quindi probabilmente al trattato in pahlavi Zīk-i Arkand. Sugli Zīǧ al-Arkand si basano anche gli zīǧ di Sim῾ān ibn Sayyār al-Kābulī; questo autore può essere identificato con il Sim῾ān che, insieme ad Ayyūb, tradusse gli zīǧ di Tolomeo, cioè le Tavole manuali, per il ciambellano della famiglia barmecide Muḥammad ibn Ḫālid ibn Yaḥyā ibn Barmak, ma l'identificazione resta dubbia dal momento che la traduzione fu eseguita dal greco.
Nel 742 furono composti, presumibilmente sempre nella regione del Sind, gli Zīǧ al-Harqan (harqan, come anche arkand, è la deformazione del sanscrito ahargaṇa) che denotano l'influsso dell'Āryabhaṭīya (Trattato di Āryabhaṭa), il trattato di astronomia indiana scritto da Āryabhaṭa intorno al 500. Infine al-Bīrūnī sostiene di aver trovato tra gli oggetti personali di un certo ῾Alī ibn Muḥammad al-Wīšǧardī nella città di Ghazna, nell'Afghanistan orientale, zīǧ scritti su un'antica pergamena basati sull'era di Diocleziano (r. 284-305), che discutevano le date delle eclissi solari tra il 90 e il 100 dell'egira: di questo esemplare, che può esser stato tradotto dal greco o dal siriaco, non si conoscono le date né il luogo di composizione della versione araba.
Tra il 747 e il 754 Sa῾īd ibn Ḫurāsānḫurrah tradusse dal pahlavi all'arabo cinque testi astrali attribuiti a Zoroastro. Il primo, intitolato Kitāb Hay᾽at al-falak (Libro della configurazione della sfera celeste), era un trattato sull'astronomia teoretica e ricorda le opere arabe più tarde di ῾ilm al-hay᾽a (scienza della struttura [dell'Universo], dunque l'astronomia) che erano usate come manuali nelle scuole musulmane. Gli altri testi zoroastriani tradotti da Sa῾īd presuppongono la disponibilità di tavole astronomiche, poiché assumono per certa la possibilità da parte dei lettori di fare oroscopi. Presumibilmente, in questa fase iniziale i lettori utilizzavano un trattato pahlavi del periodo di Yazdagird III, gli Zīk-i Šahriyārān, tradotti in arabo con il titolo Zīǧ al-Šāh (Tavole astronomiche reali) da al-Tamīmī, forse prima dell'800.
Ai più antichi Zīk-i Šahriyārān di Cosroe I si rifece Māšā᾽-allāh (m. 815), un persiano d'origine ebraica della città irachena di Bassora, che eseguì molti oroscopi tra il 765 e l'809. Costui, insieme a Muḥammad ibn Ibrāhīm al-Fazārī, al persiano Abū Sahl ibn Nawbaḫt e a ῾Umar ibn Farruḫān al-Ṭabarī, contribuì a compilare l'oroscopo per fissare la data più propizia per la fondazione di Baghdad (30 luglio 762), nuova capitale dell'Impero musulmano durante il califfato abbaside. Māšā᾽allāh scrisse anche un libro di ῾ilm al-hay᾽a che sopravvive soltanto nella traduzione latina, forse di Gherardo da Cremona, databile a prima della metà del XIII sec., in quanto è citata nel De caelo et mundo di Alberto Magno, composto a Colonia tra il 1251 e il 1254. In quest'opera, De scientia motus orbis (o De elementis et orbibus coelestibus), Māšā᾽allāh descrive la fisica di un Universo aristotelico modificato così da consentire a un Creatore di intervenire nella sua Creazione ogniqualvolta e in qualunque modo voglia (l'autore in quest'ottica critica il concetto indiano di Creatore). Come trattato elementare di astronomia, questo testo ha un carattere eclettico: combina le dieci sfere delle Ipotesi planetarie di Tolomeo con modelli dei moti planetari identici a quelli descritti in sanscrito da Āryabhaṭa; tratta inoltre il valore della precessione attribuito a α Leonis nelle Tavole manuali di Tolomeo calcolato a partire dall'epoca sasanide del Diluvio, e riporta i nomi siriaci dei mesi. Māšā᾽allāh apprese la tradizione tolemaica in Siria anche grazie a Teofilo di Edessa, un erudito siriaco educato in Mesopotamia settentrionale, a Edessa e forse anche a Ḥarrān, dove dalla fine del 750 fino alla morte, nel 785, prestò la sua opera presso la corte abbaside in qualità di consulente astrologico e militare. Teofilo aveva certamente familiarità con l'Almagesto e con l'astrologia sia greca sia pahlavica; tra le fonti greche che egli usò maggiormente figurano anche i Thesauroi composti da Retorio d'Egitto tra il 625 e il 630 ca. e largamente utilizzati da Māšā᾽allāh nei suoi trattati astrologici. L'opera di Māšā᾽allāh, un compendio che fonde tradizioni differenti, testimonia pienamente la pluralità di influssi confluiti a Baghdad nel corso del primo periodo abbaside.
Gli astronomi di Baghdad ebbero l'opportunità di un contatto diretto con le fonti sanscrite in occasione della visita di una delegazione inviata dal Sind alla corte del califfo al-Manṣūr avvenuta nel 771, secondo al-Bīrūnī, o nel 773, secondo Ibn al-Adamī. Un astronomo indiano, che faceva parte della delegazione, lavorò con al-Fazārī e Ya῾qūb ibn Ṭāriq, i quali avevano quasi sicuramente qualche conoscenza dell'Āryabhaṭīya, benché l'opera di Āryabhaṭa sembra sia stata tradotta in arabo da al-Ahwāzī con il titolo Zīǧ al-Arǧabhar solo dopo l'830 circa. Entrambi gli astronomi (o forse il solo al-Fazārī) tradussero dal sanscrito all'arabo il Mahāsiddhānta (Grande Siddhānta), uno dei testi fondamentali della tradizione astronomica del Sind, che ebbe una notevole influenza nell'Islam orientale e servì a introdurre l'astronomia matematica nell'Andalus e nell'Europa occidentale. Il Mahāsiddhānta è un'opera composta da 12 capitoli e fondata sul Brāhmasphuṭasiddhānta (Siddhānta corretto di Brahmā), ultimato nel 628 da Brahmagupta. Intorno al 775, al-Fazārī, basandosi su questa traduzione del Mahāsiddhānta, sugli Zīǧ al-Šāh e sulle Tavole manuali di Tolomeo (che egli probabilmente conosceva nella versione siriaca o pahlavi), completò un'opera eclettica, intitolata Zīǧ al-Sindhind al-kabīr (Le grandi tavole astronomiche indiane), nella quale era adottato il calendario persiano prendendo come epoca quella del trattato Zik-i Šahriyārān di Yazdagird III, 16 giugno 632; intorno al 788 pubblicò un nuovo insieme di tavole astronomiche, Zīǧ ῾alā sinī 'l-῾Arab (Le tavole astronomiche secondo gli anni degli Arabi), in cui era utilizzato il calendario musulmano. Sempre verso il 775 Ya῾qūb ibn Ṭāriq, usando una commistione leggermente diversa di fonti indiane e persiane, aveva scritto alcuni zīǧ impiegando il calendario persiano. Sotto la guida di Māšā᾽allāh, anche Ya῾qūb compose intorno al 777-778 un'opera di cosmologia, il Kitāb Tarkīb al-aflāk (Libro sulla struttura delle sfere celesti), in cui calcolò, senza attingere né alla tradizione tolemaica né a quella indiana, la distanza che intercorre tra la Terra e le sfere celesti, e fornì un metodo per calcolare l'ahargaṇa che poggia in gran parte sulle teorie di Brahmagupta. Ya῾qūb fu anche l'autore di un Kitāb fī 'l-῾ilal (Libro delle cause) concernente l'uso dello gnomone per la determinazione del tempo.
In questo periodo, accanto allo gnomone, furono introdotti nell'astronomia araba l'astrolabio e altri strumenti astronomici greci probabilmente provenienti dalla Siria, dove il vescovo di Qanneshrin, Severo Sebokht (m. 666), aveva scritto un testo sull'astrolabio intorno alla metà del VII secolo. In generale esistono sull'argomento varie teorie, tutte però difficili da verificare poiché nessuno dei testi cui si fa riferimento ci è pervenuto. Si crede infatti che al-Fazārī sia stato il primo astronomo musulmano a costruire un astrolabio piano in ambiente islamico e che abbia scritto trattati sull'uso di tale strumento nonché su quello di una sfera armillare; vi è anche un testo latino sull'astrolabio da alcuni attribuito a Māšā᾽allāh; inoltre, diversi bibliografi arabi menzionano un Libro sull'uso dell'astrolabio piano composto all'inizio del periodo islamico da Abiyūn (Apiōn) o Anibūn (Anebōn) al-Biṭrīq (Patricius) che, a quanto pare, fece le sue osservazioni astronomiche a Ḥarrān. Alcune testimonianze riportano una misurazione dell'obliquità dell'eclittica eseguita nella città persiana di Marw nel 776; mentre altre sostengono che Aḥmad al-Nihāwandī (m. 790) abbia utilizzato le sue osservazioni effettuate a Jundishapur prima dell'800 per comporre la sua opera andata perduta, al-Zīǧ al-muštamil (Tavole astronomiche complete), e che abbia redatto un'introduzione all'astronomia basata sulle teorie di Tolomeo.
Dopo oltre un secolo caratterizzato da un forte eclettismo e da una cospicua attività di traduzioni, a partire dal IX sec. l'astronomia araba si orientò sempre di più verso l'opera di Tolomeo, considerata, insieme all'osservazione, quale base dell'astronomia matematica. L'influsso dell'eredità indiana continuò a farsi sentire soprattutto per quanto riguarda l'uso della matematica nell'indagine astronomica.
di Miquel Forcada
L'astronomia popolare araba fece il suo ingresso nella tradizione erudita intorno all'VIII sec., quando i filologi arabi cominciarono a compilare lessici nei quali fecero confluire la conoscenza tradizionale preislamica relativa a molti aspetti dei fenomeni celesti (cosmologia, computo del tempo, orientazione, meteorologia). Da allora in poi, l'astronomia popolare araba divenne parte della cultura umanistica (adab) e dell'astronomia applicata al culto islamico (mīqāt) trasformandosi in una disciplina sistematica: lo schema concettuale a essa sotteso è il sistema degli anwā᾽, che è a sua volta all'origine di una tradizione di testi, i kutub al-anwā᾽. Il termine arabo anwā᾽, plurale di naw᾽, deriva dalla radice nw᾽, che ha significati apparentemente contraddittori: descrive le azioni sia dell'alzarsi sia del cadere, quanto succede, per esempio, a chi sta cercando di sollevarsi con un carico che lo fa ricadere a terra. Quindi, nel senso astronomico, il verbo na᾽a significa il tramontare a ovest di una stella o di una costellazione sul fare dell'alba, che coincide con il sorgere di un'altra stella o costellazione a est, detto raqīb.
Nel sistema trasmesso dalle fonti di anwā᾽ compaiono ventisette costellazioni più un altro spazio senza stelle: sono i 28 luoghi dove la Luna dovrebbe trovarsi nel corso delle 28 notti del mese lunare, detti 'case' o 'stazioni' (manāzil al-qamar), perché si diceva che la Luna stazionasse (nazala) ogni notte del mese lunare in una di esse. Le stazioni lunari definiscono ventotto divisioni dello Zodiaco lunare che appaiono nei libri di anwā᾽ e in altre fonti astronomiche legate allo Zodiaco solare, cosicché ogni segno corrisponde a due case e un terzo. Il sistema degli anwā᾽ forniva agli Arabi una sorta di calendario solare approssimativo, perché tra il simultaneo sorgere e tramontare di due costellazioni e la successiva coincidenza del sorgere e tramontare di un altro paio di costellazioni trascorre un periodo di 13 giorni (naw᾽). Moltiplicando 13 per 28, si ottengono 364 giorni, che diventano un anno completo con l'aggiunta di un giorno extra a uno di questi periodi. Il ruolo delle 'case lunari' in un calendario lunisolare è attestato nel Kitāb al-Āṯār al-bāqiya ῾an al-qurūn al-ḫāliya (Libro delle vestigia superstiti dei secoli passati) di al-Bīrūnī, il quale afferma che l'osservazione del sorgere e del tramontare delle case lunari aiutò gli Arabi a sistemare il mese intercalare.
L'effettiva importanza del sistema degli anwā᾽ risiede però nell'associazione delle sue costellazioni con fenomeni meteorologici, soprattutto la pioggia. Il termine naw᾽, infatti, riferito al tramonto delle costellazioni, significa non solo il lasso di tempo di 13 giorni summenzionato, ma anche un periodo più breve all'interno di questi 13 giorni in cui si verificano pioggia, vento, caldo e freddo. Per ciascuna delle 28 costellazioni determinanti le case lunari, i libri di anwā᾽ contengono alcune frasi in rima relative agli eventi della vita beduina (molti dei quali legati al tempo atmosferico) che si attuano in occasione del loro sorgere. Vi sono anche frasi in rima per altre stelle importanti quali Sirio e Canopo; quest'ultima, in arabo Suhayl, svolge un ruolo significativo sia nel segnare il corso delle stagioni sia nell'ambito del mīqāt, poiché l'asse maggiore della Ka῾ba, il santuario situato nella grande moschea della Mecca, è orientato verso il punto in cui essa sorge, che determina la direzione per la preghiera, ovvero la qibla. Anche se le fonti non forniscono materiale sufficiente per un'analisi completa, le stelle del sistema degli anwā᾽ sembrano appartenere al mondo delle credenze preislamiche, in cui esse non rivestono un ruolo di meri indicatori, ma sono considerate cause dei fenomeni meteorologici (per es., la pioggia è attribuita al tramonto di una costellazione). Naturalmente queste credenze sono omesse nei libri di anwā᾽, che furono scritti nel periodo islamico (il termine naw᾽ non figura nel Corano), ma in essi spesso si trova traccia di moniti contro la pratica di auspicare le piogge invocando le stelle.
Alcuni elementi inducono a ritenere che lo Zodiaco lunare, probabilmente attinto dall'astronomia indiana (dove le case lunari sono chiamate nakṣatra), sia stato introdotto come un'aggiunta a una procedura ‒ legata a credenze pagane ‒ che serviva a determinare i periodi stagionali e le piogge per mezzo di cicli stellari. A conferma di tale tesi, le fonti ricordano almeno un sistema di anwā᾽, attribuito ai Banū Qušayr, che non prende in considerazione le 28 case lunari, di cui peraltro nella poesia preislamica non si trova alcun riferimento come a un insieme e dove anzi molte di esse non sono nemmeno menzionate; inoltre, soltanto ad alcune case è attribuito un ruolo effettivo come indicatori stagionali e meteorologici, mentre altre stelle, quali Canopo e Sirio, che hanno invece un tale ruolo, non sono considerate case. Tuttavia, la presenza del termine manāzil nel Corano, con esplicito riferimento al computo del tempo, farebbe ritenere che l'associazione delle stelle e costellazioni del sistema di anwā᾽ con le case lunari possa aver avuto luogo in tempi preislamici: "Egli è colui che fece del Sole uno Splendore e della Luna una Luce, e ne stabilì le dimore [manāzil] nel cielo perché voi sapeste il numero degli anni e il computo del tempo" (X, 5); e ancora: "E alla Luna fissammo dimore [manāzil] nel cielo, finché torna ricurva come un vecchio ramo di palma" (XXXVI, 39). I testi che ci sono pervenuti sembrano però confermare che l'introduzione dei manāzil nel sistema anwā᾽ sia stato un prodotto diretto dell'influsso dell'astronomia indiana, le cui fonti cominciarono a essere tradotte in arabo nel tardo VIII sec., quando furono compilati i primi trattati di anwā᾽.
I trattati della tradizione di anwā᾽ e gli almanacchi
I primi autori di trattati di anwā᾽, andati però quasi totalmente perduti, appartenevano a una seconda generazione di filologi e lessicografi che, dopo il Kitāb al-῾Ayn (Libro della lettera ῾ayn) di Ḫalīl ibn Aḥmad, non intrapresero il lavoro di un lessico generale ma si concentrarono su opere monografiche: Mu῾arriǧ al-Sadūsī (m. 195/810); al-Naḍr ibn Šumayl (m. 203/818); Quṭrub (m. 206/821), autore di una delle rare opere a noi pervenute, il Kitāb al-Azmina (Libro dei tempi), che appartiene a un genere affine, i kutub al-azmina, ovvero 'trattati sul computo del tempo', in cui sono fornite anche informazioni sugli anwā᾽; Ibn Kunāsa (m. 208/823 o 209/824); al-Aṣma῾ī (m. 216/831); Ibn al-A῾rābī (m. 231/846); Ibn al-Sikkīt (m. 244/858). Comunque il più antico trattato di astronomia popolare araba che ci è giunto fu scritto da un giureconsulto (faqīh) andaluso, ῾Abd al-Malik ibn Ḥabīb (m. 238/853), che nella sua Risāla fī ma῾rifat al-nuǧūm (Epistola sulla conoscenza delle stelle) trasmette la lezione di Mālik ibn Anas (m. 179/795 o 796) sull'argomento e mira a sottolineare l'importanza di una tradizione astronomica arabo-islamica in confronto a quella greca, considerata pericolosa per le sue relazioni con l'astrologia. Delle opere di epoche successive restano invece esemplari che sintetizzano i generi anwā᾽ e azmina: il Kitāb al-Anwā᾽ di Ibn Qutayba (m. 276/889), in cui il materiale azmina è povero, il Kitāb al-Anwā᾽ wa-'l-azmina (Libro degli anwā᾽ e dei tempi) di Ibn ῾Āṣim (m. 403/1013) e il Kitāb al-Azmina wa-'l-amkina (Libro dei tempi e dei luoghi) di al-Marzūqī (m. 421/1030). A questi trattati se ne aggiungono altri non integralmente conservati, quali quelli di Abū Isḥāq al-Zaǧǧāǧ (m. 311/923), di al-Zaǧǧāǧī (m. 337/949) e di Abū Ḥanīfa al-Dīnawarī (m. 282/895), il cui libro, parzialmente confluito nelle opere di Ibn ῾Āṣim, di al-Marzūqī, di Ibn Sīda (m. 458/1066), e di altri, esercitò un grande influsso sull'argomento e fu considerato tra i migliori dall'astronomo ῾Abd al-Raḥmān al-Ṣūfī.
Questi trattati sono ricchi di elementi importanti: oltre alla descrizione del cielo, presente nei commenti ai vari termini utilizzati per menzionarlo (samā᾽ 'cielo', falak 'sfera', quṭb 'polo', burǧ 'segno'), essi introducono i termini naw᾽ e manzil (sing. di manāzil 'case') e forniscono una dettagliata esposizione, spesso utilizzando frasi in rima, delle costellazioni del sistema di anwā᾽, nonché di stelle circostanti e di altre costellazioni quali la Via Lattea o le Orse (così da essere una delle principali fonti per i nomi arabi di stelle), e dei fenomeni atmosferici attribuiti a esse. Si trovano inoltre informazioni preziose sull'astronomia popolare e sul mīqāt, che indica concetti relativi ai tempi della preghiera, quali zawāl 'mezzogiorno', faǧr e šafaq 'mattino' e 'crepuscolo serale', sui venti considerati punti cardinali per stabilire la qibla, e sulla determinazione della qibla e dei tempi per la preghiera notturna attraverso l'osservazione dei manāzil. Alcuni capitoli sono dedicati agli argomenti relativi agli azmina e spiegano quindi i mesi, le settimane, i periodi stagionali, il mese sinodico che è diviso in gruppi di 3 notti o descritto da proverbi in rima, le ore diurne e notturne. Infine, altri capitoli trattano dei fenomeni atmosferici dalle nuvole al vento, dalla pioggia ai periodi di caldo e freddo.
Fra i trattati di anwā᾽ di epoche successive, sono andate perdute le opere di al-Ḥasan ibn Sahl ibn Nawbaḫt, Abū Ma῾šar al-Balḫī (m. 271/885-886) e Ṯābit ibn Qurra (m. 289/901), mentre ci sono pervenuti il Kitāb al-Azmina del medico Abū Zakariyyā ibn Māsawayh (m. 243/857) e il Kitāb al-Anwā᾽ di Sinān ibn Ṯābit (m. 331/942), scritti all'incirca tra la fine del X e l'inizio dell'XI sec., e riassunti da al-Bīrūnī nel Kitāb al-Āṯār al-bāqiya. Entrambi questi trattati sono almanacchi che devono molto alla tradizione greca dei parapégmata, calendari astronomico-agricoli. Il libro di Ibn Māsawayh è un calendario che presenta materiali relativi alla salute, alla dieta, alla vita economica (mercati), all'agricoltura, al tempo, alle feste (soprattutto cristiane e persiane) e alla navigazione; abbonda inoltre di informazioni astronomiche relative al sorgere e al tramontare delle stelle del sistema di anwā᾽, al segno zodiacale proprio di ogni mese e alla durata della luce diurna. A sua volta, il calendario di Sinān ibn Ṯābit si spinge oltre nell'assimilazione dei modelli greci: segue infatti le Fasi, il trattato meteorologico di Tolomeo, e omette quasi completamente i materiali astro-meteorologici arabi. Note anche come 'almanacchi iracheni', queste opere, il cui modello fu adottato in altre regioni, ebbero un discreto successo. Un altro almanacco è quello scritto da Abū Ḥanīfa al-Dīnawarī che si trova nel Kitāb al-Azmina wa-'l-amkina di al-Marzūqī.
Nel tardo X sec. nell'Andalus cominciò la tradizione di anwā᾽ con il Kitāb al-Anwā᾽ di ῾Arīb ibn Sa῾d (m. 370/980), scritto probabilmente intorno al 363/973-974. Benché questo libro abbia la struttura di un trattato di anwā᾽ e sia in gran parte dedicato a materiali filologici, in realtà risulta strettamente legato alla tradizione degli almanacchi iracheni. Ancora più evidente è il legame con tale tradizione nel cosiddetto Calendario di Cordova: una sintesi del trattato di ῾Arīb e di un lavoro del vescovo Rabī῾ ibn Zayd, il Kitāb Tafṣīl al-zamān (Trattato sulla divisione del tempo), che aggiungeva al lavoro di ῾Arīb informazioni sulle feste cristiane ispaniche nonché alcuni materiali astronomici. Il Calendario di Cordova è probabilmente l'opera che maggiormente ha influito sulla ricca mole di almanacchi e di trattati di anwā᾽ appartenenti alla tradizione andalusa a noi pervenuta, fra cui il Muḫtaṣar min al-anwā᾽ (Compendio sugli anwā᾽), scritto alla fine del X sec. da Aḥmad ibn Fāris, un astrologo al servizio dei sovrani omayyadi cordovani; una fonte anonima attinta da un manoscritto maghrebino, la Risāla fī awqāt al-sana (Registro degli eventi dell'anno), che è simile al trattato di ῾Arīb; il trattato di anwā᾽ incluso nel Kitāb al-Muḫaṣṣaṣ (Dizionario analogico) di Ibn Sīda; e infine il Kitāb al-Anwā᾽ di Abū ῾Alī al-Ḥasan al-Umawī al-Qurṭubī (m. 602/1205-1206). Quando l'Andalus divenne parte di un più vasto impero maghrebino, la sua tradizione di anwā᾽ influenzò gli autori nordafricani, come risulta in alcuni trattati relativi al mīqāt, ed è ancora più evidente nella Risāla fī 'l-anwā᾽ di Ibn al-Bannā᾽ al-Marrākušī (m. 721/1321), che scrisse questo almanacco seguendo le opere di ῾Arīb, di Ibn ῾Āṣim e di al-Umawī al-Qurṭubī. A sua volta, l'opera di Ibn al-Bannā᾽ venne presa a modello da Abū Zayd al-Ǧādirī (m. 818/1416) per la stesura del trattato Tanbīh al-ayyām ῾alā mā yaḥduṯu fī ayyām al-῾ām (Nota su quanto avviene nei giorni dell'anno). Nel Maghreb è sopravvissuta sino a tempi recenti una tradizione popolare di calendari anonimi affiancata dalle conoscenze relative al sistema degli anwā᾽.
Un'altra famiglia di almanacchi e di materiali di argomento anwā᾽ si ritrova in Egitto, dove la tradizione astronomica popolare si è mantenuta viva fino al XVIII sec., come testimoniano alcuni esemplari a stampa di tale periodo. In base a quanto si riscontra negli almanacchi contenuti nel Minhāǧ (Metodo) di al-Maḫzūmī (m. dopo il 580/1185), nei Qawānīn al-dawāwīn (Norme per l'amministrazione) di Ibn al-Mammātī (m. 606/1209) e nel Ḫiṭaṭ (Topografia) di al-Maqrīzī (m. 845/1442), questa longeva tradizione apparteneva soprattutto alla letteratura amministrativa, che si prefiggeva di registrare ogni avvenimento importante riguardante l'agricoltura, la vita economica, le feste (soprattutto cristiane), il tempo e la salute. Un altro trattato che può essere ascritto alla tradizione egiziana è il Kitāb al-Azmina wa-'l-anwā᾽ (Libro dei tempi e degli anwā᾽ ) del libico Ibn al-Aǧdābī, attivo nella prima metà del XIII secolo. Infine, una tradizione locale di almanacchi che comprende il sistema degli anwā᾽ è presente nei testi scientifici dello Yemen di epoca rasulide, a partire dall'almanacco contenuto nel trattato astronomico Kitāb al-Tabṣira fī ῾ilm al-nuǧūm (Libro del chiarimento dell'astronomia) di al-Malik al-Ašraf ῾Umar ibn Yūsuf (m. 696/1296) e in altre fonti anonime. Insieme a notizie dettagliate relative al clima locale, alla salute, alla navigazione, alle celebrazioni e così via, gli almanacchi yemeniti si occupano di aspetti di interesse agricolo, la maggior parte dei quali riguarda il sorgere e il tramontare delle stelle (comprese le stelle anwā᾽) in relazione alla semina e alla raccolta. La presenza di notizie provenienti da regioni diverse indica l'influsso di altre tradizioni, in particolare di quella egizia.
di Jean-François Oudet, Régis Morelon
L'astronomia, nei principali periodi della sua storia, si è basata sulla quantificazione delle osservazioni; la crescente precisione con cui esse sono state effettuate ha rappresentato quindi uno dei fattori più importanti nello sviluppo di tale scienza. In questo paragrafo sono illustrate le differenze tra le condizioni dell'attività di osservazione all'epoca di Tolomeo (II sec.) e i modi in cui essa fu ripresa dagli astronomi arabi, a partire dal IX secolo.
Un'osservazione astronomica si presenta sempre nel modo seguente: un certo giorno di un certo mese di un certo anno, all'ora tale, nel posto tale, è stato osservato un dato fenomeno. Per esempio, ci è giunto il resoconto della seguente osservazione, effettuata in una data corrispondente al 1° maggio dell'anno 832 d.C., alle ore 20 e 20: "Abbiamo constatato a Baghdad che il Sole è entrato nella metà del Toro, l'anno 201 dell'era di Yazdagird, nel mese di Farwardīn, la notte che precede l'alba del sesto giorno, circa tre ore equinoziali e due terzi prima della mezzanotte" (Ṯābit ibn Qurra, Œuvres d'astronomie, p. 49).
Tolomeo, con le sue due opere, l'Almagesto e il Libro delle ipotesi, rappresenta l'apice della tradizione astronomica greca. I modelli geometrici per la stesura delle tavole sulle posizioni degli astri descritti nell'Almagesto sono costruiti sulla base di una raccolta di novantaquattro osservazioni, trentasette delle quali effettuate dallo stesso Tolomeo ad Alessandria (le ultime nel 141 d.C.), mentre le rimanenti ‒ le più antiche effettuate in Mesopotamia nel 721 a.C. ‒ furono riprese da Tolomeo dalle opere dei suoi predecessori. Tutte le osservazioni raccolte nell'opera, compiute da osservatori isolati, sono presentate in modo indipendente e discontinuo, senza alcun legame reciproco.
Per quanto riguarda l'area del Mediterraneo, nei sette secoli successivi, abbiamo notizia soltanto di qualche osservazione isolata; occorre attendere il IX sec. per vedere riprendere a Baghdad e a Damasco, ma su basi interamente nuove, l'attività di osservazione degli astri: è allora che fu scoperto e applicato per la prima volta il principio della continuità delle osservazioni, a cui si dedicò la massima cura per poter ottenere una precisione sempre maggiore; ed è allora che questa attività cominciò ad assumere un carattere collettivo, essendo svolta da studiosi avvezzi a scambiarsi i risultati delle osservazioni, che effettuavano a volte in luoghi distanti tra loro, come Baghdad e Damasco. Per illustrare questi sviluppi ci riferiremo principalmente alla storia delle osservazioni dei moti del Sole, che faremo precedere da una breve descrizione dell'evoluzione dei metodi di misura e di calcolo della circonferenza terrestre.
Le dimensioni della Terra
La prima stima della circonferenza terrestre che conosciamo con una certa precisione è quella effettuata da Eratostene ad Alessandria nel III sec. a.C. Egli osservò che il Sole, a mezzogiorno del solstizio d'estate, transitava allo zenit di Syene (la moderna Assuan), una città situata esattamente a sud di Alessandria, a una distanza di 5.000 stadi. Avendo osservato che nello stesso momento, ad Alessandria, il Sole si trovava a una distanza di 7;12° (equivalenti alla cinquantesima parte di un cerchio) dallo zenit, l'astronomo ne dedusse che la circonferenza terrestre doveva avere un'ampiezza di 250.000 stadi. Tuttavia, poiché non conosciamo il valore esatto di uno stadio al tempo di Eratostene, è difficile giudicare la precisione della sua stima.
Nel Libro delle ipotesi Tolomeo afferma che la lunghezza della circonferenza terrestre è di 180.000 stadi. Questa misura fu ripresa nel IX sec. da Qusṭā ibn Lūqā, che la tradusse in miglia arabe, ottenendo il valore di 66 miglia e 2/3 per un grado terrestre. Il calcolo fu rifatto poco dopo per ordine del califfo al-Ma᾽mūn (che regnò a Baghdad dall'813 all'833), misurando la distanza tra due città del deserto siriano, Palmira e Raqqa, di cui erano state in precedenza calcolate con la massima accuratezza le rispettive latitudini. L'incarico fu affidato a due gruppi di studiosi, uno dei quali, guidato da Sanad ibn ῾Alī e al-Marwarrūḏī, si recò da Palmira a Raqqa, mentre l'altro, guidato da ῾Alī ibn ῾Īsā e da ῾Alī ibn Buḫtarī, effettuò il tragitto in senso opposto. Le due spedizioni ottennero risultati leggermente diversi: 56 miglia e 1/4 per grado terrestre la prima e 57 miglia la seconda. Fatta la media tra le due misurazioni, il valore di un grado terrestre fu fissato a 56 miglia e 2/3.
Un metodo alternativo, più matematico, per calcolare le dimensioni della Terra fu proposto da Qusṭā ibn Lūqā e ripreso due secoli dopo da al-Bīrūnī. La sua applicazione pratica appare piuttosto problematica, poiché i valori ottenuti dipendono da una misurazione angolare particolarmente delicata, ma merita comunque di essere menzionato per il suo interesse teorico. L'osservatore si reca su una montagna, di cui conosce con precisione l'altezza h, situata a poca distanza dal mare. Dal punto in cui si trova, misura l'angolo α tra l'orizzonte (preso sul mare) e il nadir. Se chiamiamo R il raggio terrestre, allora avremo: senα=R/(R+h), che ci consente di calcolare R, dato che α e h sono noti.
L'obliquità dell'eclittica
L'obliquità dell'eclittica, ossia l'angolo tra il piano dell'equatore celeste e quello su cui avviene lo spostamento del Sole nel corso del suo moto annuale apparente, è il primo parametro che occorre stabilire se si vuole studiare il movimento del Sole. Per determinare il suo valore, è necessario osservare la culminazione al meridiano del Sole nelle sue posizioni estreme, ossia nel momento dei solstizi estivo e invernale. L'obliquità corrisponde alla metà dell'arco compreso tra queste due altezze. Con lo stesso procedimento è possibile misurare la latitudine φ del luogo di osservazione.
È molto più facile determinare con precisione l'obliquità dell'eclittica che stabilire l'istante esatto dei solstizi, poiché in questo periodo dell'anno e per la durata di una settimana, lo scarto tra i tragitti giornalieri del Sole è quasi impercettibile.
Nelle pagine dedicate allo studio del moto del Sole, Tolomeo menziona ventisei osservazioni di questo astro (Libro III dell'Almagesto). La prima è quella effettuata dai discepoli della scuola degli astronomi Metone ed Euctemone, che osservarono il solstizio d'estate all'alba del 27 giugno del 432 a.C. Tolomeo sottolinea (come aveva fatto già la sua fonte, Ipparco) il carattere approssimativo di questa osservazione, che contiene soltanto l'indicazione del momento del giorno, ma aggiunge che è più difficile determinare l'istante preciso del solstizio che quello dell'equinozio. L'autore menziona quindi l'osservazione del solstizio estivo della scuola di Aristarco (nel 280 a.C.), poi una ventina di osservazioni equinoziali e una solstiziale, condotte dall'astronomo Ipparco tra il 160 e il 128 a.C., infine quattro osservazioni solari effettuate di persona, quelle degli equinozi d'autunno del 132 e del 139, dell'equinozio di primavera e del solstizio d'estate del 140 d.C. L'istante di quest'ultimo è determinato con grande accuratezza e fissato a due ore dopo la mezzanotte (forse per un'interpolazione lineare attuata sulla base delle osservazioni meridiane che permettevano di inquadrare questo istante).
Nell'Almagesto Tolomeo fornisce un valore dell'obliquità equivalente a 23;51,20°, ottenuto attraverso il confronto delle osservazioni solstiziali ripetute per molti anni consecutivi, ma non dà indicazioni riguardo all'altezza delle culminazioni. In definitiva, egli riprende il valore fissato da Eratostene circa tre secoli e mezzo prima, ma nel frattempo la variazione secolare aveva fatto diminuire di circa tre minuti d'arco questo parametro e aumentato di altrettanto il suo errore di valutazione, che giunge così a sfiorare i dieci minuti d'arco.
Poco dopo la traduzione in arabo dell'Almagesto, eseguita da al-Ḥaǧǧāǧ nell'826-827, furono costruiti a Baghdad e a Damasco due osservatori, con i quali ci si riproponeva, tra l'altro, di giungere a una nuova determinazione dell'obliquità dell'eclittica. La prima campagna di osservazioni continuative fu condotta a Damasco da Yaḥyā ibn Abī Manṣūr a partire dall'828, mentre la seconda fu realizzata da Ḫālid al-Marwarrūḏī a partire dall'831. La fig. 11 illustra in modo schematico il grande quadrante murale (con un raggio di 5 m) utilizzato per le osservazioni.
Nel KitābTaḥdīd nihāyāt al-amākin li-taṣḥīḥ masāfāt al-masākin (Libro sulla determinazione delle coordinate delle località per rettificare il valore delle distanze fra loro), al-Bīrūnī descrive la seconda serie di osservazioni condotta da Ḫālid al-Marwarrūḏī, che migliorò in misura notevole i risultati ottenuti in precedenza: "Ḫālid osservò [il cielo] con il quadrante libna ogni giorno, per un intero anno [solare], compreso tra l'anno 216 e il 217 dell'egira [ossia dal febbraio 831 al gennaio 833 d.C.]. Ma, per quanto riguarda la declinazione, è riportato che l'altezza minima misurata da Ḫālid nel 216 è stata di 32;56°, l'altezza massima nel 217, di 80;3,55°, e la minima nel 218, di 32;55°. Tuttavia quest'ultimo valore non è affidabile, poiché il periodo di osservazione è stato soltanto approssimativamente di un anno".
Quest'analisi riassume i principali risultati ottenuti, senza però sviluppare l'intera argomentazione (Oudet 2000). Il primo fattore che ha contribuito al miglioramento della precisione dei risultati è stato l'introduzione di metodi di osservazione sistematici, ovvero di osservazioni effettuate quotidianamente per un anno, a partire dal solstizio d'inverno dell'831; d'altra parte, da questo momento le tracce che ci sono pervenute divengono molto più numerose. Risulta interessante notare con l'occasione che la pratica delle osservazioni regolari e sistematiche fu introdotta nell'astronomia occidentale soltanto alla fine del XVI sec. dall'astronomo danese Tycho Brahe.
Nell'831 erano trascorsi solo pochi anni dalla prima campagna di osservazioni, condotta da Yaḥyā ibn Abī Manṣūr nell'828. La validità dei suoi risultati era stata però messa in dubbio, probabilmente perché la latitudine ottenuta non si accordava con quella determinata nel corso delle misurazioni precedenti. Questo parametro è calcolato a partire dalle culminazioni solstiziali, come l'obliquità, ma per addizione, il che amplifica l'impatto degli errori di osservazione. Una seconda campagna di osservazioni, condotta l'anno successivo, permise tuttavia a Yaḥyā di ottenere risultati più precisi. Si può notare un primo salto di qualità nella precisione dell'obliquità ottenuta nell'829, con uno strumento ancora poco perfezionato, un'armilla dotata di una graduazione di 5′ di arco, che consentiva di leggere le altezze con un margine di errore di circa 2′. Essa tuttavia era già due volte più precisa di quella utilizzata nella campagna precedente (graduata a intervalli di 10′ di arco). Questo risultato appare quasi 'troppo buono' e potrebbe essere almeno in parte dovuto al caso, se lo confrontiamo con quello di Tolomeo, che disponeva probabilmente di uno strumento di analoga precisione. Tuttavia l'obliquità apparente, corretta della rifrazione, era di 1/4 di grado minore di quella trasmessa da To- lomeo (51′−34′45″ 16′ 1/4°), uno scarto che difficilmente poteva passare inosservato sull'armilla di Yaḥyā. "In seguito, dopo la morte di Yaḥyā ibn Abī Manṣūr, al-Ma᾽mūn si recò a Damasco, dove incontrò Yaḥyā ibn Akṯam e al-῾Abbās ibn Sa῾īd al-Ǧawharī, per scegliere una persona in possesso di una profonda conoscenza dei corpi celesti, della loro osservazione e del loro studio. Essi gli indicarono Ḫālid al-Marwarrūḏī. Al-Ma᾽mūn gli ordinò di apprestare alcuni strumenti della massima precisione e di osservare i corpi celesti per un anno intero a Dayr Murrān [nei pressi di Damasco]" (Ḥabaš al-Ḥāsib, al-Ziǧ al-dimašqī, ed. Sayılı, pp. 146-151).
Dunque è in quest'epoca che il califfo al-Ma᾽mūn ordinò ai suoi astronomi la fabbricazione di strumenti della massima precisione, probabilmente per evitare che incorressero negli stessi inconvenienti incontrati da Yaḥyā. Questo fu il secondo fattore che, congiuntamente alla sistematicità delle osservazioni, contribuì al miglioramento della loro precisione.
Possiamo notare un secondo salto qualitativo nella precisione del valore dell'obliquità ottenuto nell'832, durante la seconda campagna di osservazioni condotta da Ḫālid al-Marwarrūḏī a Damasco, che contiene un errore compreso circa tra un quarto e un quinto di minuto d'arco (−11″±5″). Lo strumento utilizzato non è indicato chiaramente, ma dai valori pervenutici si può ipotizzare che il lembo consentisse di leggere le altezze osservate con una precisione di ±2″ di arco. Si potrebbe pensare al quadrante murale gigante di cinque metri di lato, ma il Taḥdīd lo pone in relazione con la prima serie di osservazioni, che aveva dato risultati incompatibili con quelli della seconda. Non siamo a conoscenza di quanto fossero frequenti le osservazioni di Yaḥyā, ma il fatto che Ḫālid effettuasse le sue quotidianamente contribuì probabilmente al miglioramento dei risultati.
Senza generalizzare, possiamo notare che entrambi gli astronomi ottennero i loro risultati migliori durante la seconda campagna di osservazioni, il che sembrerebbe dimostrare l'importanza della mes-sa a punto delle procedure e degli strumenti per il conseguimento di risultati di alta precisione (anche quando gli strumenti siano modificati oppure sostituiti in corso d'opera).
L'evoluzione degli strumenti
Il quadrante murale (libna) appare lo strumento più adatto a determinare con grande precisione l'obliquità dell'eclittica. Dato che il raggio di un quadrante corrisponde al diametro di un'armilla delle stesse dimensioni, il lembo graduato del quadrante poteva essere suddiviso in segmenti due volte più piccoli. Il primo esempio conosciuto di quadrante murale di grandi dimensioni è lo strumento utilizzato da Ḫālid, che aveva un'altezza di circa 5 metri. Questo modello, tuttavia, ebbe una scarsa diffusione e, a quanto ci risulta, tra il IX e l'inizio dell'XI sec. gli esemplari costruiti si potevano contare sulle dita di una mano. Gli ultimi astronomi ottennero risultati meno soddisfacenti dei loro predecessori, e in particolare al-Ḫuǧandī, che pure poté servirsi di uno strumento monumentale.
Nel 988 Abū Sahl al-Qūhī, su incarico del principe Šaraf al-Dawla, costruì a Baghdad quello che può essere considerato il primo edificio chiuso, progettato appositamente per l'osservazione astronomica. Dopo aver brevemente descritto questi primi esempi, vedremo su quali principî si basava la nuova tipologia di edifici degli osservatori astronomici. Quello costruito da Abū Sahl era un locale chiuso da ogni lato, dal pavimento concavo, a forma di segmento di una sfera di 12 m circa di diametro. Il tetto era perforato da un oculo, coincidente con il centro della sfera, che lasciava penetrare la luce del Sole e le permetteva di proiettarsi in basso sul pavimento. A quanto pare, l'osservatorio fu utilizzato per un tempo piuttosto breve e i pochi parametri che ci sono pervenuti non sono del tutto coerenti, in particolare per ciò che riguarda l'obliquità; ma le informazioni di cui disponiamo sono troppo scarse per consentirci di fornirne una descrizione più precisa.
Il secondo osservatorio di cui ci è giunta notizia è quello costruito qualche anno più tardi, nel 994, da al-Ḫuǧandī nei pressi della città di Rayy, grazie a una sovvenzione del principe Faḫr al-Dawla, allo scopo di determinare con maggiore precisione l'obliquità dell'eclittica. Vi era infatti ancora una relativa incertezza intorno a questo parametro, nonostante alcune osservazioni condotte negli anni precedenti sembrassero convergere tutte verso un valore di 23;35° (al-Ṣūfī nel 969-970; Abū 'l-Wafā᾽ al-Būzǧānī intorno al 975-976; al-Ṣāġānī nel 985). Al-Ḫuǧandī pensava che l'obliquità diminuisse nel corso dei secoli e forse fu questa supposizione a convincerlo della necessità di costruire uno strumento di dimensioni colossali. Le notizie sull'Osservatorio di Rayy e sulle culminazioni dell'anno 994 di cui disponiamo ci sono giunte in gran parte attraverso l'opera di due autori dell'epoca. Grazie anche a uno scritto dello stesso al-Ḫuǧandī, più volte parzialmente ripreso da al-Bīrūnī, siamo quindi in grado di ricostruire in modo relativamente preciso sia l'edificio sia il suo funzionamento.
Il sestante di al-Ḫuǧandī, al-suds al-faḫrī, come viene chiamato nei testi, era un arco di misura meridiano con un'ampiezza di 60°. L'edificio si trovava in parte sotto il livello del suolo, dato che, in corrispondenza del meridiano, era stata scavata una fossa a forma di arco di cerchio, destinata a sostenere il lembo di questo gigantesco strumento, il cui raggio misurava 20 metri. La parte esterna era costituita da due muri paralleli alti circa 10 m, terminanti in una copertura a volta. Sul lato meridionale era stata praticata un'apertura, posta al centro dello strumento, che lasciava entrare la luce del Sole, come nel caso precedente. Per stabilire la curvatura dell'arco di misura era stato utilizzato un gigantesco braccio di compasso, sospeso a una trave infilata nell'oculo, che svolgeva la funzione di centro. Il lembo era inciso su piastre di rame applicate alle tavole di legno poggiate sul fondo incurvato della fossa. Era graduato con grande finezza, con incisioni poste a intervalli di 10″ di arco, equivalenti a circa un quarto di millimetro, anche se limitate probabilmente alle zone solstiziali ed equinoziali della scala di misura. Poco prima del mezzogiorno, una macchia luminosa appariva sull'arco di misura. Dopo averla localizzata sul terreno con l'aiuto di un anello dello stesso diametro, attraversato da due fili incrociati che ne indicavano il centro (come nei reticoli degli strumenti moderni), si annotava l'altezza osservata al momento in cui il centro della macchia coincideva con la linea meridiana del lembo graduato. Al-Bīrūnī aggiunge di aver raccolto alcune voci circa un cedimento dell'oculo centrale tra le due osservazioni estive e invernali, che avrebbe compromesso la precisione dei risultati finali; ma non è affatto certo che questo strumento, quattro volte più grande di quello di Ḫālid, fosse anche più preciso.
I dispositivi di mira
Dato che tutti gli strumenti di cui ci siamo occupati erano dotati di pinnule perforate, ci sembra utile procedere a uno studio più approfondito di questi dispositivi.
Ḫālid al-Marwarrūḏī fu il primo, a quanto sembra, a dotare di una pinnula perforata il sistema di puntamento di un quadrante murale di grandi dimensioni (al-Battānī ne installò due sul suo, che però era molto più piccolo). Vi erano due alternative: il foro poteva essere praticato nella pinnula inferiore, come nel caso di Ḫālid, oppure in quella superiore, come nel caso degli osservatori di al-Qūhī e di al-Ḫuǧandī, dove l'oculo aperto nel tetto svolgeva la funzione di pinnula superiore. Vedremo che questa differenza avrà una grande influenza sulla precisione delle osservazioni.
La pinnula inferiore perforata del quadrante di Ḫālid serviva a 'guardare', allineando su una stessa linea di mira la caviglia centrale del quadrante e il Sole, operazione che comportava evidentemente un rischio per la retina dell'osservatore. È quindi lecito supporre che il dispositivo di puntamento consentisse di occultare il disco solare dietro la caviglia, quando l'operazione di regolazione dello strumento era terminata, in modo da proteggere automaticamente gli occhi dell'osservatore.
Può darsi che l'uso di perforare la pinnula inferiore sia stato una conseguenza dell'allungamento del raggio dei quadranti. In effetti, a 5 m di distanza diveniva quasi impossibile distinguere l'ombra prodotta dalla caviglia centrale come si faceva sul plinto di Tolomeo, a cui si ispiravano gli strumenti posteriori. Il perforamento della pinnula consentiva invece, gettando lo sguardo da un lato all'altro, di osservare il Sole direttamente, a patto di rispettare le condizioni strumentali summenzionate.
Il funzionamento dei grandi osservatori avveniva in modo del tutto diverso. Possiamo considerare questi ultimi come strumenti dotati di una lunghissima alidada virtuale (o immateriale) che si trova all'interno di uno spazio chiuso. L'oculo fa le veci della pinnula superiore, ma l'apertura è più larga del caso precedente, per permettere l'ingresso di una quantità sufficiente di luce. L'astronomo non osserva più direttamente il Sole, ma una macchia luminosa che si sposta sul pavimento graduato, che svolge la funzione di lembo dello strumento. Ci troviamo insomma di fronte a uno strumento paragonabile a una gigantesca camera oscura e la macchia luminosa che si proietta sul terreno non è altro che l'immagine del Sole, dai contorni più o meno sfocati, a seconda del rapporto delle dimensioni angolari tra l'apertura e il disco solare.
Per ottenere condizioni di osservazione soddisfacenti, è necessario disporre di una luminosità e di un contrasto sufficienti. Da qui la necessità di dotare di misure adeguate i diversi parametri: l'apertura deve essere abbastanza grande da assicurare una buona luminosità, ma non troppo, per limitare al massimo l'imprecisione dell'immagine. L'allungamento dell'alidada produce un ingrandimento della macchia luminosa, ma anche un'attenuazione della sua luminosità, ed è stato probabilmente per questo motivo che si è scelto di collocare gli strumenti monumentali all'interno di edifici chiusi. Questo accorgimento consente infatti di mantenere un contrasto sufficiente ad assicurare una buona visibilità della macchia luminosa sulla scala graduata senza pregiudicare la nettezza dei suoi contorni, che può essere ottenuta soltanto utilizzando un'apertura di piccole dimensioni, cioè in condizioni di scarsa luminosità. Uno spazio chiuso rappresenta dunque la soluzione migliore per armonizzare tra loro questi fattori dagli effetti contrastanti.
L'introduzione di una piccola apertura nel sistema di mira, unita all'allungamento dell'alidada, ha svolto quindi un ruolo fondamentale nella nascita dell'osservatorio. All'origine di questo nuovo tipo di edificio vi era la necessità di porre a confronto tra loro queste due scale di grandezza, il molto piccolo e il molto grande. Il quadrante libna di Ḫālid con la sua pinnula inferiore perforata rappresenta la prima tappa, o meglio, il primo muro di un proto-osservatorio. I successivi strumenti monumentali possono essere considerati come i primi osservatori veri e propri, collocati in un punto della Terra posto "all'incrocio dei punti cardinali", per riprendere un'espressione già utilizzata in un contesto diverso.
Precisione degli strumenti
In base ai risultati ottenuti, si evince che sono sempre gli stessi fattori a determinare un miglioramento significativo della precisione delle osservazioni. Come abbiamo visto, la posizione della pinnula perforata riveste un'importanza cruciale, e il suo collocamento all'estremità inferiore del sistema di mira rappresenta indubbiamente la soluzione più efficace. Limitando il problema dell'imprecisione dei contorni dell'immagine luminosa, essa consente di effettuare osservazioni più precise, come dimostrano quelle eseguite da Ḫālid nell'831-832.
Al contrario, la sostituzione della pinnula superiore con un oculo limita la precisione delle osservazioni, a causa della relativa estensione dell'alone sfocato che circonda la macchia luminosa proiettata a terra. Ed è stato probabilmente questo, insieme al cedimento dell'oculo, il fattore che ha più disturbato le osservazioni di al-Ḫuǧandī.
Così, la ricerca di una maggiore precisione nella determinazione dell'obliquità dell'eclittica a partire dalle culminazioni solstiziali, quando la variazione giornaliera del tragitto del Sole è minima, ha portato alla costruzione di strumenti di grandi dimensioni. Pur non avendo avuto un notevole seguito, come abbiamo visto, il modello del quadrante murale aprì senza dubbio la strada alla costruzione, verso la fine del X sec., dei due grandi strumenti-osservatori summenzionati. Anche se i risultati ottenuti furono meno soddisfacenti di quanto si sperava, questi edifici ebbero il merito di inaugurare una nuova tipologia, destinata a durare nel tempo. Negli anni successivi, a cavallo dell'XI sec., l'attività di osservazione proseguì con grande intensità, grazie soprattutto all'impegno di al-Bīrūnī e di Ibn Yūnus, ma non esistono indizi riguardo la costruzione di nuovi osservatori. Il primo parla a volte di strumenti di grandi dimensioni, che però poté utilizzare soltanto per poco tempo, per motivi di instabilità politica. Non abbiamo alcuna notizia riguardo al periodo immediatamente successivo, fino alla costruzione dell'Osservatorio di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī a Marāġa, intorno al 1260.
Parlare per quest'epoca di una teoria degli errori propriamente detta sarebbe prematuro, benché se ne cominci a intuire l'esistenza. Al-Bīrūnī, per esempio, nel Taḥdīd nihāyāt al-amākin, procede a una valutazione di alcune serie di osservazioni dell'obliquità e della latitudine, studia i differenti errori di osservazione, discute le loro possibili combinazioni con alcuni errori di calcolo, prende anche in considerazione le caratteristiche degli errori aleatori usuali, ma senza applicare a essi alcun calcolo statistico. Tuttavia le premesse per la definizione di un metodo di valutazione degli errori erano già state poste dagli astronomi di al-Ma᾽mūn all'inizio del IX sec., con l'inaugurazione della pratica dell'osservazione quotidiana del Sole e della Luna per il periodo di un anno. Gli stessi studiosi erano giunti a respingere, in quanto inattendibile, il valore dell'obliquità ottenuto da Yaḥyā ibn Abī Manṣūr, probabilmente in correlazione a un altro parametro conosciuto, quello della latitudine.
Un nuovo modo di utilizzare le osservazioni
Con la pratica delle osservazioni continue e sistematiche si profila una nuova possibilità, quella di sottoporle a un'analisi di tipo matematico. Un esempio assai significativo del modo in cui alcuni risultati delle osservazioni potevano essere introdotti nel corso di un ragionamento matematico particolarmente sofisticato è quello riguardante uno dei più difficili problemi dell'astronomia antica: la visibilità della falce lunare. Tale problema fu affrontato nel IX sec. da un grande matematico, attivo poco tempo dopo la ripresa della pratica di osservazione a Baghdad e a Damasco, Ṯābit ibn Qurra. Questi, come la maggior parte degli astronomi arabi, si interessò al calcolo dell'eventuale visibilità della falce lunare sopra l'orizzonte occidentale, subito dopo il tramonto del Sole, la sera del ventinovesimo giorno del mese lunare. Considerato particolarmente difficile a causa della quantità dei parametri coinvolti, questo calcolo non era mai stato effettuato nella tradizione astronomica ellenistica; tuttavia, sin dalla fine dell'VIII sec., gli astronomi arabi disponevano di alcuni metodi indiani che permettevano di calcolarlo. Ṯābit compose due trattati su questo argomento, l'uno puramente teorico e l'altro, molto più breve e di carattere pratico, mirante a semplificare, con il ricorso a una serie di tabelle, l'applicazione del suo metodo generale.
La soluzione proposta consiste nell'applicare al caso della Luna il metodo messo a punto da Tolomeo per studiare la visibilità sull'orizzonte delle stelle fisse e dei pianeti dopo il tramonto del Sole: il cosiddetto 'arco di visibilità' di un determinato astro, valore limite dell'arco di depressione del Sole sotto l'orizzonte, dopo il suo tramonto, dato il quale, l'astro in questione si trova al limite della visibilità sull'orizzonte. Tolomeo aveva misurato i diversi valori di questo arco per i pianeti e per le stelle fisse. L'argomento discusso da Ṯābit è quindi l''arco di visibilità della falce lunare', un problema molto più complesso del caso degli altri pianeti. Questo arco non ha infatti un valore costante, poiché la luminosità della falce della Luna dipende dalla sua distanza angolare dal Sole. Il metodo seguito da Ṯābit consiste nel cercare di calcolare il rapporto tra la luminosità della Luna e quella del cielo sopra l'orizzonte.
Il primo passo è la definizione di quattro variabili. Le variabili principali sono tre archi, corrispondenti ai lati di un triangolo rettangolo sferico i cui vertici sono costituiti da: il Sole, al di sotto dell'orizzonte, la Luna, al di sopra dell'orizzonte, e il piede della perpendicolare condotta dal Sole alla linea dell'orizzonte. Chiamiamo le tre variabili, rispettivamente, α1, α2, α3, dove α1 è la distanza angolare tra il Sole e la Luna, da cui dipende la porzione della superficie visibile della Luna illuminata dal Sole e, di conseguenza, la luminosità della falce lunare; α2 è l'arco di depressione del Sole sotto l'orizzonte al momento del tramonto della Luna, da cui dipende la luminosità del cielo sopra l'orizzonte dopo il tramonto del Sole; α3 è la distanza della Luna al tramonto dal 'punto più luminoso del cielo', situato sulla verticale del Sole. Quest'ultima variabile riveste un'importanza minore delle precedenti.
Questa figura di base ammette due situazioni limite: la fig. 14a si riferisce al caso in cui la Luna si trovi al limite della visibilità mentre tramonta in corrispondenza della verticale del Sole; in questo caso si ha α1=α2=α0 e α3=0, dove α0 rappresenta il valore limite delle prime due variabili.
La fig. 14b si riferisce invece al caso in cui la Luna si trovi al limite della visibilità, mentre tramonta nello stesso momento del Sole. In questo caso si ha α1=α3=A e α2=0. A è il valore della distanza angolare oltre la quale la falce lunare rimane visibile durante il giorno. Ṯābit afferma, sulla base delle sue personali osservazioni, che quando α1>25° la falce lunare rimane visibile durante il giorno e pertanto il suo arco di visibilità è nullo. In effetti, si può constatare che quando la distanza tra la Luna e il Sole in mezzo al cielo è superiore a 25°, la Luna rimane visibile durante il giorno; l'autore traspone tuttavia questo valore sulla linea dell'orizzonte, trasformando il risultato dell'osservazione in uno degli elementi del suo ragionamento.
La quarta variabile è legata alla posizione della Luna sul suo epiciclo, da cui dipende la distanza Terra-Luna, cioè l'angolo a della fig. 15.
Tolomeo aveva definito in questo modo la situazione della Luna sulle sue differenti orbite all'approssimarsi della congiunzione Sole-Luna; l'osservatore è posto sulla Terra in T, C è il centro dell'eccentrico di raggio R, con TC=e, l'eccentricità; l'epiciclo con centro B e raggio r è situato in modo tale che la retta TCB incontra il Sole in posizione media. L'angolo a determina la posizione della Luna D sul suo epiciclo e la distanza della Luna dalla Terra varia da R+e+r a R+e−r, quando a passa da 0 a 180°. Quanto minore è la distanza della Luna dalla Terra, tanto maggiore è la sua luminosità apparente. Le due variabili più importanti, ovvero quelle che ne determinano la visibilità, sono α1 e α2, mentre le altre due influiscono marginalmente sui risultati.
Senza soffermarsi lungamente sui dettagli, ci limiteremo a dire che il metodo proposto da Ṯābit consiste nel calcolare in primo luogo i valori di α1, α2, α3 e a per la sera del ventinovesimo giorno del mese lunare, per cercare poi di stabilire, per approssimazioni successive, il valore dell'arco di visibilità della falce lunare in funzione delle tre variabili α1, α3 e a, confrontandolo con quello di α2. Se quest'ultimo, che rappresenta l'arco di depressione del Sole sotto l'orizzonte, è superiore all'arco di visibilità calcolato, nella sera in questione sarà possibile vedere la falce lunare. Dopo la definizione delle quattro variabili, la teoria di Ṯābit prende in considerazione altri sei elementi. Il primo riguarda un'osservazione, condotta dallo stesso autore o da un suo contemporaneo, secondo cui A=25°, il valore di elongazione Sole-Luna al di là del quale la Luna rimane visibile durante il giorno. Il secondo elemento concerne un rapporto costante tra 'l'accrescimento' di α1 e la corrispondente 'diminuzione' di α2; infatti, dato che l'aumento dell'elongazione Sole-Luna coincide con un aumento della luminosità della falce, l'arco di depressione del Sole sotto l'orizzonte, da cui dipende la luminosità del cielo visibile, può diminuire, senza compromettere la visibilità della falce lunare. Ṯābit stabilisce quindi Δα1/Δα2=k, deducendo probabilmente il valore di questa costante da uno studio sui valori numerici contenuto nella prima parte del Libro delle ipotesi di Tolomeo. Il terzo elemento riguarda una corrispondenza puntuale tra due progressioni, una geometrica e l'altra aritmetica, calcolate sui risultati delle osservazioni di Venere condotte da Tolomeo, concernenti i valori estremi della sua distanza dalla Terra e dei suoi 'archi di visibilità', trasposti al caso della Luna. Il quarto elemento riguarda la situazione delle tre variabili principali in rapporto ai loro valori limite: α0≤α1≤A; 0≤α2≤α0; 0≤α3≤A. Il quinto elemento si basa su una formula d'interpolazione semplice, tratta dall'Almagesto, che consentiva di tenere conto della distanza tra la Terra e la Luna, in funzione dell'angolo a. Il sesto elemento, infine, si fonda sulla formula, messa a punto da Tolomeo nelle Phaseis, per modificare il valore dell'arco di visibilità delle stelle fisse in funzione della loro posizione sull'orizzonte, facendo intervenire α3 nel caso della Luna.
L'acquisizione dell'insieme di questi risultati è preceduta dunque da uno studio matematico delle cifre ottenute in base alle osservazioni relative alla visibilità di tutti gli astri, di qualunque genere. In questo modo le osservazioni entravano a far parte degli elementi presi in considerazione in un ragionamento di questo tipo, alla stregua di qualunque oggetto matematico.
Conclusioni
Gli esempi che abbiamo descritto dimostrano sufficientemente come, a partire dall'inizio del IX sec., vi sia stato un grande progresso nella pratica delle osservazioni seguita dagli astronomi arabi, in confronto al modello 'tolemaico' a cui si ispiravano. Occorre aggiungere inoltre che questi astronomi, da una parte, erano pienamente coscienti della possibilità degli errori, come abbiamo visto, e dall'altra non ignoravano del tutto quello che oggi si è soliti chiamare l'equazione personale di un osservatore. Secondo il biobibliografo al-Qifṭī (metà del XIII sec.), autore del Kitāb Aḫbār al-῾ulamā᾽ bi-aḫbār al-ḥukamā᾽ (Storie dei dotti e dei saggi), al-Ma᾽mūn apprezzava molto la qualità della vista di Sanad ibn ῾Alī. Ibn Yūnus consigliava agli astronomi di abituarsi a maneggiare gli strumenti d'osservazione e riteneva che per raggiungere buoni risultati fosse necessario disporre di uno sguardo particolarmente acuto. Ṯābit ibn Qurra affermava che è bene sapere quali sono le situazioni in cui la falce si trova proprio al limite tra visibilità e invisibilità, poiché in questo caso non è possibile pronunciarsi con certezza: l'intervento di una cosa qualsiasi ‒ un po' di vapore nascosto o una maggiore densità dell'atmosfera ‒ può modificare il giudizio, come le differenze della vista degli osservatori o elementi di altro tipo. Notiamo infine che le procedure di osservazione e gli strumenti elaborati dagli astronomi ‒ come i valori teorici delle osservazioni e la possibilità di un loro trattamento matematico ‒ ebbero conseguenze importanti sullo sviluppo di altre discipline e, in particolare, dell'ottica.
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