La civilta islamica: scienze della vita. Agronomia
Agronomia
All'agronomia (dal greco agrós 'campo' e nómos 'legge'), ossia l'insieme delle scienze applicate all'agricoltura, in arabo ῾ilm al-filāḥa (scienza dell'agricoltura), gli autori musulmani hanno dedicato fra l'VIII e il XIV sec. una grande attenzione che ha portato alla stesura di una cinquantina di opere, la metà delle quali risale al periodo antecedente al XIII secolo. Molte regioni del mondo arabo-islamico hanno contribuito ad alimentare la riflessione sull'agronomia araba: in particolare al-Andalus, che con i suoi studi conobbe una vera e propria età dell'oro tra l'XI e il XIII sec., Yemen, Siria, Iran, Iraq ed Egitto. I Greci utilizzavano il termine 'geoponica' per indicare tutto ciò che riguardava la coltivazione della terra, mentre i Romani usavano l'espressione de re rustica e de agricoltura per designare il vasto campo dell'economia rurale. Gli autori arabi di trattati di agronomia erano sostanzialmente concordi nel considerare l'agricoltura (al-filāḥa) un'attività professionale, il cui esercizio doveva basarsi sull'accumulazione di un sapere specifico. Alcuni di essi ‒ come Ibn Baṣṣāl, autore andaluso dell'XI sec. ‒ si occupano dell'agricoltura in quanto tecnica e di conseguenza si dedicano allo studio dei fattori che influiscono sulla produzione agricola (acqua, terra, concime), alla descrizione delle piante alimentari e aromatiche e all'arboricoltura; sono rare le digressioni su questioni relative ai rapporti giuridici e alle interazioni fra specie vegetali e animali, in quello che nel linguaggio moderno descriviamo con il termine 'ecosistema'. Altri autori considerano, invece, il contesto rurale in senso ampio; è il caso di Ibn al-῾Awwām (XII-XIII sec.), autore di un Kitāb al-Filāḥa (Libro dell'agricoltura), un'opera enciclopedica nella quale l'agricoltura viene presa in esame in relazione ad attività a essa connesse, come l'allevamento, la medicina veterinaria, gli animali da cortile, l'apicoltura, le industrie agroalimentari e così via.
Nei testi di eruditi andalusi (v. oltre) è contenuta una riflessione sulla natura dell'agronomia come scienza (῾ilm), come mestiere o professione (ṣan῾a) e nel contempo come arte (fann). Ibn Baṣṣāl concentra il suo interesse sull'agricoltura come tecnica e non considera la possibilità di fondarla sulla conoscenza scientifica. Secondo Ibn Ḥaǧǧāǧ, altro autore dell'XI sec., l'attività agricola è un mestiere (ṣan῾a, ṣinā῾a), ma anche una scienza, imperniata sull'analisi delle terre coltivabili. Alla stessa epoca appartiene Abū 'l-Ḫayr al-Išbīlī, il quale afferma che il fallāḥ (contadino) deve essere intelligente, astuto, capace di impiegare al meglio le conoscenze elementari relative all'agricoltura (῾ārif bi-uṣūl al-ṣinā῾a) e in grado di individuare le cause e i segreti di quest'attività. Fra gli autori più tardi (XIII-XIV sec.), Ibn Luyūn scrive che, per dedicarsi all'agricoltura, è necessario studiare i quattro fattori che si trovano alla sua base, vale a dire: il terreno, l'acqua, i concimi e il lavoro; Ibn al-῾Awwām riprende la stessa terminologia, aggiungendovi la parola arte (fann), impiegata per designare il mestiere dell'agricoltore. Tuttavia, la definizione più chiara dei rapporti tra agricoltura e conoscenza scientifica si ritrova nell'opera di al-Ṭiġnārī (XII sec.), il Kitāb Zuhrat al-bustān wa-nuzhat al-aḏhān (Libro dello splendore del giardino e del diletto della mente), che, infatti, afferma: "chiunque ne abbia l'attitudine ha il dovere di dedicarsi all'apprendimento della scienza di cui ha bisogno per esercitare il proprio mestiere. Coloro che sono privi di tale attitudine, devono invece ricorrere al consiglio dei sapienti per tutto ciò che riguarda le loro colture o i prodotti di altri mestieri" (p. 6). Benché sia rivolta a tutte le attività professionali, questa esortazione ad associare arte e scienza sembra applicarsi in particolare all'agricoltura che riunisce in sé almeno tre tipi di sapere: tecnico, scientifico e giuridico. Infatti, tra gli agronomi arabi, al-Ṭiġnārī si è rivelato il più attento nell'uso delle definizioni e della terminologia agraria. Con la sua opera l'agronomia acquisì la precisione necessaria a una scienza che studia l'insieme delle regole e delle leggi su cui si basa lo sfruttamento dei terreni agricoli, senza però dimenticare (ispirato forse ad Abū 'l-Ḫayr) di mettere in luce l'aspetto ricreativo di un'attività che sembra avere tra i suoi scopi quello di dilettare la vista.
Attraverso queste riflessioni sul significato dell'agricoltura, gli agronomi andalusi giunsero a definire e a precisare il profilo di un'agricoltura generale, in cui erano integrati diversi aspetti dell'economia rurale. Tali dissertazioni erano volte a definire l'esatta posizione dell'agricoltura nell'ampia gamma delle attività umane. Su questa scia, un autore più tardo quale Ibn Ḫaldūn (m. 808/1406) definì nella Muqaddima (Introduzione) la scienza dell'agricoltura come una branca della fisica che "studia la coltura e la conoscenza delle piante, l'irrigazione e la loro cura, il miglioramento dei terreni, la scelta delle stagioni propizie e l'applicazione regolare dei mezzi atti a farli prosperare" (ed. Monteil, III, pp. 1082-1083). Lo scopo dell'agricoltura è quindi quello di produrre gli alimenti e le sementi. Abū 'l-Ḫayr ṭĀŠköprüzāda (m. 961/1554) adotta lo stesso schema di classificazione, ma nel suo testo Miftāḥ al-sa῾āda (La chiave della felicità) definisce l'agronomia in modo più preciso e completo, affermando che si tratta di "una scienza che consente di conoscere le procedure di coltura dei vegetali, dalla germinazione fino alla maturazione. Tuttavia, quest'obiettivo può essere raggiunto solamente grazie al miglioramento del terreno, sia attraverso l'irrigazione, sia attraverso la concimazione o seguendo altri modi di coltivazione che assicurano la protezione del terreno dai fattori di degradazione e i rigori del freddo. Le leggi dell'agronomia variano, in conseguenza dei cambiamenti del clima, da un luogo all'altro, a seconda delle province e dei paesi" (I, p. 308). In tal modo, l'agronomia, oltre ad assicurare la crescita dei cereali, degli alberi da frutta e di altri vegetali, costituisce anche un'occupazione indispensabile per l'uomo e per la sua sussistenza: il suo nome, infatti, deriva dalla stessa radice della parola falāḥ che significa perennità. Aspetti più singolari di questa attività sono invece, secondo ṭĀŠköprüzāda, la produzione di frutti fuori stagione e la diversificazione delle colture grazie alle operazioni di innesto.
Gli Arabi hanno subito l'influenza di due importanti tradizioni agronomiche: da un lato, quella greco-romana e bizantina, e, dall'altro, quella mesopotamica. Le fonti agronomiche da cui gli Arabi hanno tratto le loro prime traduzioni sono estranee alla letteratura degli agronomi romani dell'età classica (Catone, Virgilio, Columella, Varrone). Si tratta di fonti che non risalgono a un'antichità troppo remota e furono probabilmente compilate nel corso di un arco di tempo piuttosto breve (tra il III e il IV sec.), abitualmente considerato un periodo di rinascita dei trattati di agricoltura redatti in greco.
L'eredità greco-bizantina è rappresentata dalla traduzione di due opere di diverso valore scientifico: Kitāb Filāḥat al-arḍ (Libro della coltura dei terreni) compilato da Vindanio Anatolio di Berito (l'attuale Beirut) nel IV sec. e il Kitāb al-Filāḥa al-rūmiyya (Libro dell'agricoltura bizantina) attribuito a Qusṭūs (Cassiano Basso). Sono inoltre note due traduzioni in arabo dell'opera di Anatolio, una dal greco e l'altra dal siriaco. La prima, in cui è indicato il nome di Anatolio (Anaṭūliyūs), realizzata nel 795, è frutto della collaborazione del monaco Eustachio, del patriarca di Alessandria e del vescovo di Damasco. La seconda, invece, fu eseguita a partire dalla versione siriaca di Sergio di Reshaina (m. 536) e reca il nome di Yūniyūs. L'indicazione di questo nome ha indotto molti storici a identificare l'autore del trattato con l'agronomo latino Giunio Moderato Columella (I sec. d.C.), ma oggi l'accertamento di due circostanze ha consentito di stabilire la falsità di quest'ipotesi: in primo luogo, Yūniyūs era ben noto agli storici bizantini, in particolare a Fozio (IX sec.) che ne parla diffusamente nella sua Biblioteca e, in secondo luogo, il raffronto tra i testi dimostra che ci troviamo in presenza di due tradizioni indipendenti.
La seconda fonte d'origine bizantina, conosciuta con il nome di Kitāb al-Filāḥa al-rūmiyya, fu tradotta in arabo per la prima volta nell'827 circa. Sono note molte versioni arabe di questo trattato, ma la più riuscita sembra essere quella eseguita dal traduttore Halyā ibn Sarǧūn. Ḥāǧǧī Ḫalīfa (m. 1067/1657) nel Kitāb Kašf al-ẓunūn (Libro del chiarimento delle incertezze) parla di una traduzione in persiano di quest'opera, nota con il titolo di Warz-nāma, che fu a sua volta tradotta in arabo e poi rifiutata a causa delle sue lacune. La terza fonte fondamentale dell'agronomia araba appartiene invece alla tradizione babilonese. Si tratta del Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya (Libro dell'agricoltura nabatea), attribuito all'agronomo babilonese Qūṯāmī (III-IV sec.) e tradotto dal siriaco all'arabo nel 902, che contiene le conoscenze economiche, agronomiche e tecniche della Mesopotamia preislamica. Oltre a queste tre opere, diverse per ampiezza e valore scientifico, è possibile individuare altre influenze greco-bizantine (Pseudo-Democrito, ecc.), senza dimenticare la trasmissione delle conoscenze locali e delle tradizioni orali.
All'interno del vasto processo di evoluzione dell'agricoltura arabo-musulmana medievale, spicca per il livello di sviluppo raggiunto e per il suo influsso il grande movimento agronomico, una vera e propria 'età dell'oro' della creatività, che si sviluppò nell'Andalus tra l'XI e l'inizio del XIII secolo. Le origini di questo movimento risalgono al X sec. quando a Cordova, capitale del califfato occidentale, iniziò a prendere forma la scuola agronomica andalusa, vale a dire una vera e propria comunità scientifica, caratterizzata da un'unità di criteri e schemi di pensiero. L'impulso decisivo alla nascita della scuola agronomica andalusa fu dato dalla stesura del Kitāb al-Anwā᾽, noto con il titolo di Calendario di Cordova, scritto da ῾Arīb ibn Sa῾d. Quest'opera, redatta in arabo e in latino, rientra nel genere letterario degli anwā᾽, opere in cui venivano riuniti materiali tra loro molto diversi (astronomici, astrologici, relativi a feste religiose e profane, nautici, agricoli, fiscali, ecc.). Pur non essendo un trattato dal punto di vista agronomico e botanico, questo testo ha un'importanza capitale, poiché contiene informazioni estremamente utili ed esaurienti su molte specie vegetali ‒ all'incirca centoventi ‒ coltivate o silvestri, che crescevano nel territorio dell'Andalus nel X secolo. Altre opere del periodo sono il Muḫtaṣar kitāb al-filāḥa (Compendio del libro dell'agricoltura), attribuito al celebre medico della corte cordovana Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī, noto come Abulcasis (o Albucasis), anche se tale ipotesi è stata abbandonata poiché non confermata da un numero sufficiente di prove; e il Kitāb fī tartīb awqāt al-ġirāsa wa-'l-maġrūsāt (Libro dell'ordinamento dei tempi della coltivazione e delle piante), che si ritiene sia stato redatto alla fine del X sec. e che quindi, molto probabilmente, è il primo dei trattati agronomici andalusi. La sezione più interessante di quest'opera è quella dedicata alle piante da giardino, in cui troviamo la descrizione delle principali piante ornamentali coltivate in quell'epoca nel territorio dell'Andalus.
Il nucleo principale dei trattati di agronomia della scuola andalusa fu redatto nell'XI sec., nell'epoca delle Taifas, un periodo di rinascita dell'agricoltura che portò allo sviluppo della cosiddetta 'rivoluzione agricola andalusa' o 'rivoluzione verde'. Le cause di tale sviluppo, sia nella teoria sia nella pratica, sono molteplici: il decentramento politico realizzato nel corso del periodo delle Taifas, la crescita della popolazione urbana, il perfezionamento delle tecniche agrarie, l'introduzione di nuove specie coltivate, l'estensione delle superfici irrigate e l'uso intensivo dei concimi, l'importante ruolo svolto dalla razionalizzazione della gestione delle aziende agricole, e infine il progresso compiuto dagli studi medici, farmacologici, botanici, ecc. A Toledo l'emiro al-Ma᾽mūn (m. 467/1075), riallacciandosi alla tradizione inaugurata alcuni secoli prima a Cordova dal primo emiro omayyade, ῾Abd al-Raḥmān I (m. 172/788), fece costruire un giardino, noto anche con il nome di Huerta de la Noria, in cui gli aspetti ornamentali si coniugavano con quelli sperimentali. Questo e gli altri nuovi orti botanici creati nel corso di tutta la storia dell'Andalus per volontà di vari sovrani e statisti, in particolare nel periodo delle Taifas, assunsero con il tempo un ruolo di primo piano nell'introduzione di nuove piante. In questi giardini, che potrebbero essere definiti 'sperimentali', grazie ai semi, alle radici e alle barbatelle portati nell'Andalus dai luoghi più remoti del Vicino Oriente, si acclimatavano nuove piante e si miglioravano varietà già esistenti nel territorio peninsulare; tradizione questa che sarà ripresa in seguito e si diffonderà anche in Oriente.
Le informazioni sui numerosi agronomi andalusi attivi in quel periodo sono scarse. Tra le figure più note spiccano Ibn Wāfid (m. 467/1074, noto come Abenguefith ai farmacologi medievali) e Ibn Baṣṣāl (m. 499/1105), entrambi direttori dell'orto botanico della corte di Toledo. Il primo fu autore del trattato Maǧmū῾ fī 'l-filāḥa (Compendio di agricoltura) che, seguendo la tradizione ormai consolidata dei trattati di agricoltura, si apre con alcuni capitoli relativi a questioni generali sull'acqua, sul terreno e sui diversi tipi di letame. Seguono poi alcune indicazioni di economia domestica e un certo numero di norme sui criteri di cui tenere conto nella scelta dei lavoratori e dei responsabili delle aziende agricole. Si giunge così ai capitoli relativi alla cerealicoltura e ad altre indicazioni concernenti la conservazione dei semi, la panificazione, l'arboricoltura e l'orticoltura. Il trattato si chiude con un calendario agricolo e con alcuni brevi paragrafi dedicati alla zootecnia. Come dimostrano le traduzioni in catalano e castigliano, e la sua influenza sulla grande opera agronomica del Rinascimento, Agricultura general, redatta nel 1513 da Gabriel Alonso de Herrera, quest'opera ebbe una larga diffusione e godette di grande notorietà nella Spagna cristiana. Essa circolò anche nell'Africa del Nord e, in particolare, a Tunisi, dove nello stesso secolo fu pubblicato un testo intitolato Kitāb Muḫtaṣar al-filāḥa al-ifrīqiyya (Compendio di agricoltura tunisina), il cui autore è indicato come Ibn al-Ṣawwām al-Andalusī; in realtà nonostante le indicazioni del titolo, questo testo è del toledano Ibn Wāfid.
Anche il trattato scritto da Ibn Baṣṣāl, Kitāb al-Filāḥa (Libro dell'agricoltura), fu tradotto in castigliano medievale; dell'originale arabo ci è pervenuto solo un riassunto. Questo testo riprende lo schema adottato dalle opere agronomiche del periodo, ma secondo la maggior parte degli studiosi si distingue dagli altri testi andalusi per il costante riferimento all'esperienza personale dell'autore. La presunta originalità di Ibn Baṣṣāl deve però essere considerata con una certa cautela, dal momento che nel suo trattato è individuabile l'influenza di testi anteriori e, in particolare, quella del Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya, anche se questi riferimenti esterni sono così fusi con lo stile personale dell'autore che è molto difficile identificarli precisamente. Nel testo non si riscontrano riferimenti agli aspetti magici che abbondano in alcune opere andaluse, in particolare quelle di Ibn Wāfid e di Ibn al-῾Awwām (attivo intorno al 1203), e neppure temi non specificamente agricoli, come quelli medico-dietetici, o strettamente botanici. Quando Toledo cadde nelle mani dei cristiani (478/1085), Ibn Baṣṣāl si trasferì a Siviglia, che, a partire da questo momento, svolgerà il ruolo di sede della scuola agronomica.
Nell'XI sec., vissero a Siviglia Abū 'l-Ḫayr al-Išbīlī e Ibn Ḥaǧǧāǧ, due agronomi sui quali le notizie sono scarse. Il primo redasse un Kitāb al-Filāḥa (Libro dell'agricoltura), nel quale si affrontano diversi temi seguendo un ordine tutt'altro che logico, forse imposto dal copista. La prima parte, in cui si succedono disordinatamente riferimenti ai periodi in cui piantare le diverse specie, consigli di carattere magico-superstizioso e descrizioni di tipi di flagelli e di letame, è seguita da un certo numero di capitoli dedicati alla messa a dimora degli alberi e degli arbusti e da alcuni suggerimenti di economia domestica; il trattato si chiude con l'esame di due specie recentemente introdotte nell'Andalus, la canna da zucchero e il banano. L'opera illustra bene come lo studio dei manoscritti agronomici andalusi e soprattutto la loro attribuzione siano stati ostacolati dallo stato frammentario ed eterogeneo in cui ci sono pervenuti, oltre che dalla loro riduzione in forma sintetica. Questi testi, infatti, entrarono a far parte di un corpus di agronomia andalusa (più che sivigliana), nel quale furono confusi e mescolati tra loro, in modo da rendere impossibile una chiara e precisa distinzione delle diverse paternità. Tali circostanze hanno fatto sì che testi agronomici redatti da persone diverse fossero pubblicati sotto il nome di un solo autore, come nel caso dell'opera miscellanea costituita da frammenti di differenti trattati andalusi, pubblicata a Fez sotto il nome di Abū 'l-Ḫayr.
L'altro agronomo sivigliano dell'XI sec. è Ibn Ḥaǧǧāǧ, uno degli autori più rappresentativi degli interessi teorici dell'agronomia andalusa. Il suo trattato, al-Muqni῾ fī 'l-filāḥa (Tutto ciò che occorre sapere sull'agricoltura), redatto nel 1074, è costituito da un vero e proprio mosaico di citazioni di opere antiche, che a volte l'autore arricchisce con riferimenti alla propria esperienza. A proposito di quest'opera si è parlato di una continuità con la tradizione agronomica latina e, in particolare, si è riscontrata un'influenza diretta del De re rustica di Columella.
L'ultimo autore di questo periodo è al-Ṭiġnārī, agronomo, letterato e poeta, originario di un villaggio vicino Granada, che nei primi anni del XII sec. redasse la già citata Zuhrat al-bustān wa-nuzhat al-aḏhān. Del testo originale, incompleto, ci è pervenuto un solo manoscritto, mentre esistono numerose copie del suo compendio, in gran parte conservate nelle biblioteche nordafricane. Alcune di queste si aprono con l'indicazione del nome di Ḥamdūn al-Išbīlī, frequentemente identificato con lo stesso al-Ṭiġnārī, ma che probabilmente è l'autore del riassunto. Il lungo prologo, in cui sono affrontati temi diversi, è seguito da sezioni dedicate ad argomenti presi in esame anche in altri trattati, fra le quali sono di grande interesse quelle consacrate alla vite e all'olivo e, in particolare, al tema degli innesti, dove vengono introdotte nuove questioni tecniche e linguistiche. Questo trattato, ordinato e sistematico, riesce ad armonizzare la teoria con la pratica vissuta e sperimentata, e riflette fedelmente la realtà dell'agricoltura andalusa, grazie alle frequenti citazioni delle pratiche adottate dall'autore e di quelle che quest'ultimo ha raccolto dai contadini.
Un'opera più tarda, il Kitāb al-Filāḥa redatto tra la fine del XII e l'inizio del XIII sec. da Ibn al-῾Awwām, è stata per un lungo periodo l'unica fonte disponibile sull'agricoltura andalusa. La sua pubblicazione fu promossa dall'economista spagnolo Campomanes: l'iniziativa, che si iscrive nell'ambito della politica utilitarista illuminata, sviluppatasi nella Spagna della seconda metà del Settecento, aveva lo scopo di indurre gli agricoltori a seguire le pratiche contenute in quest'opera. Si pensava, infatti, che utilizzandole si potesse ottenere uno sfruttamento più razionale dei terreni agricoli, che avrebbe dovuto tradursi in una rinascita e in un grande sviluppo dell'agricoltura. L'opera di Ibn al-῾Awwām (figura peraltro scarsamente conosciuta, vissuta probabilmente a Siviglia) raccoglie tutto il sapere agricolo e zootecnico della sua epoca. In essa è forse riassunta, criticata e rielaborata tutta la precedente tradizione agronomica arabo-musulmana, anche attraverso un gran numero di citazioni di testi andalusi e orientali.
Due opere minori del periodo successivo, che si limitano a presentare riassunti di altri testi, sono la Ḫulāṣat al-iḫtiṣār fī ma῾rifat al-quwā wa-'l-ḫawāṣṣ (Quintessenza del compendio della conoscenza delle forze e delle proprietà) di Abū Muḥammad ibn Ibrāhīm al-Awsī, noto anche come Ibn al-Raqqām al-Mursī (m. 715/1315), e un poema didascalico (urǧūza) di Ibn Luyūn (m. 750/1349), autore originario di Almeria. Il primo è una riduzione in forma sintetica del Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya, mentre il secondo contiene alcune cognizioni agricole riprese dai trattati di Ibn Baṣṣāl e di al-Ṭiġnārī, senza però mostrare una grande ispirazione poetica, tranne nei passi relativi alle disposizioni dei giardini, delle abitazioni e delle case di campagna.
L'agronomia andalusa del periodo compreso tra l'XI e il XIII sec. ebbe una grande importanza e diffusione nel mondo musulmano di quell'epoca: le opere di alcuni agronomi ispano-arabi (Ibn Baṣṣāl, Abū 'l-Ḫayr e Ibn al-῾Awwām) erano conosciute in Oriente sin dal XIV sec., e nella maggior parte dei casi nel testo originale completo; il trattato di Ibn al-῾Awwām fu tradotto in turco alla fine del XIV secolo. Tutto ciò conferma l'importanza e la larga diffusione di cui godette l'agricoltura andalusa, almeno nei suoi aspetti teorici, nelle regioni più orientali del mondo islamico medievale. Un fenomeno simile si verificò nell'Africa del Nord e, in particolare, in Marocco, dove l'opera agronomica di Ibn Luyūn fu ampiamente utilizzata da al-Šuṭaybī (881-963/1477-1556), la cui famiglia verso la metà del Trecento aveva lasciato l'Andalus per trasferirsi nella regione del Rif. Al-Šuṭaybī riassunse e riscrisse in prosa il poema agricolo di Ibn Luyūn per renderlo più accessibile e utilizzabile, intitolandolo Kitāb ṣan῾at al-filāḥa (Libro sul lavoro agricolo). Oltre ad alcuni temi già trattati da Ibn Luyūn, l'opera presenta elementi originali, come le traduzioni in dialetto marocchino di termini botanici e tecnici, rivelando la volontà di diffondere i principî agronomici e renderli accessibili a un pubblico più vasto dell'ambiente rurale.
Per quanto riguarda la produzione delle opere agronomiche, si può affermare che, nel corso del periodo compreso tra l'VIII e il XII sec., l'Oriente musulmano abbia vissuto dell'eredità delle traduzioni greco-romane, bizantine e babilonesi. Per trovare un centro autonomo di sviluppo del pensiero agronomico, bisogna guardare allo Yemen e, in particolare, alla fase del dominio della dinastia dei Rasulidi (626-844/1228-1441). È in questa regione, nota in epoca preislamica per la prosperità della sua agricoltura, infatti che, dopo lo sviluppo dell'Andalus musulmano, il movimento agronomico conobbe una nuova rinascita. All'origine di questo sviluppo si trovano gli stessi fattori che portarono alla rivoluzione agricola dell'Andalus: un potere forte, una certa stabilità politica, la valorizzazione dell'agricoltura promossa da sovrani appassionati di agronomia e lo sviluppo delle scienze connesse all'agricoltura (botanica, farmacologia, medicina, calendaristica). Anche la moda dei giardini reali trovò nello Yemen nuove condizioni di crescita e sviluppo. Prima del XV sec., Saladino aveva inviato dalla Siria diverse varietà di alberi da frutta che furono piantate nei giardini di Ṯa῾bat, mentre si attribuisce ad al-Malik al-Muǧāhid il merito di aver introdotto nel suo giardino di Zabīd alcune varietà del noce. In seguito, durante il regno di al-Malik al-Afḍal, si svolse un intenso traffico di piante esotiche: è durante questo periodo che il mango, proveniente da Ceylon, fu introdotto nello Yemen.
I sultani rasulidi, così come i loro predecessori andalusi, si dedicarono alla creazione sperimentale di nuove piante e varietà di rose, e tutte le opere agronomiche di questo periodo furono scritte dai sovrani. Il primo autore di testi agronomici appartenente alla dinastia dei Rasulidi fu al-Malik al-Ašraf ῾Umar ibn Yūsuf (m. 696/1297) noto per la redazione di un trattato di agricoltura intitolato Milḥ al-malāḥa fī ma῾rifat al-filāḥa (La quintessenza della bellezza nella conoscenza dell'agronomia). Allo stesso autore è attribuito anche al-Tuffāḥa fī ma῾rifat al-filāḥa (Il pomo della conoscenza dell'agronomia); sembra che quest'ultimo, tuttavia, sia una semplice riscrittura del primo. L'autore presenta la sua opera come un compendio dei precetti agronomici seguiti dai contadini dello Yemen, frutto delle sue lunghe discussioni con gli esperti di agricoltura della regione. Il libro è diviso in sette capitoli dedicati al calendario dei lavori agricoli, alla coltura dei cereali, delle leguminose, degli alberi da frutta, delle piante aromatiche, odorifere e dei legumi, ai mezzi cui ricorrere per tenere lontani dalle coltivazioni e dalle vigne gli animali nocivi, e infine ai metodi di conservazione dei cereali. Il trattato di al-Malik contiene effettivamente gran parte dell'esperienza agricola dello Yemen e non si escludono legami con la scuola agronomica dell'Andalus. Per la qualità della sua riflessione agronomica e l'estensione del suo sapere, che abbraccia diversi campi (farmacologico, medico, astronomico, veterinario), l'autore deve essere considerato il principale esponente della scuola agronomica yemenita.
Di altri due trattati yemeniti di economia rurale non è stata rinvenuta finora nessuna copia: Iḫtiṣār kitāb al-ǧamhara fī 'l-filāḥa (Compendio all'enciclopedia dell'agricoltura), attribuito ad al-Mu᾽ayyad Dāwūd ibn Yūsuf che regnò sul paese dal 1297 al 1321; e Kitāb al-Išāra fī 'l-῾imāra (Libro delle prescrizioni riguardo alla valorizzazione agricola), compilato da al-Malik al-Muǧāhid ῾Alī ibn Dāwūd (r. 1321-1363). L'ultima opera yemenita conosciuta è Buġyat al-fallāḥīn fī 'l-ašǧār al-muṯmira wa-'l-rayāḥīn (Il desiderio degli agricoltori per quanto riguarda gli alberi da frutta e le piante aromatiche), redatta da al-Malik al-Afḍal al-῾Abbās ibn ῾Alī, il quale nell'introduzione cita tra le sue fonti l'opera di al-Malik al-Ašraf, insieme ad altri testi di tradizioni agronomiche diverse (babilonese, bizantina e andalusa). Dal 1295 al 1376 gli eruditi yemeniti compilarono quattro trattati di agricoltura che attestano la nascita nella regione di un nuovo centro di creatività agronomica.
Fino al Trecento, la Siria, l'Iran e l'Egitto rimasero ai margini del movimento agronomico arabo. Nel periodo preislamico la Siria era nota per la prosperità della sua agricoltura e, in particolare, per lo sviluppo di una viticoltura molto avanzata. Il Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya testimonia la nascita nella regione di una scuola agronomica; bisogna inoltre segnalare l'importante ruolo svolto da Magone il Cartaginese (IV sec. a.C.), considerato dagli agronomi latini un maestro, oltre che il padre dell'economia rurale antica, tanto che il suo trattato, diviso in ventotto libri, venne tradotto per ordine del Senato romano, in greco e in latino. Tuttavia, le prime compilazioni di carattere agronomico del periodo islamico iniziarono a vedere la luce solamente sei secoli dopo la conquista araba. Sembra risalire al XIV sec. il trattato Miftāḥ al-rāḥa li-ahl al-filāḥa (La chiave del riposo offerta a coloro che praticano l'agricoltura), redatto da un autore siriano anonimo, e composto da un'introduzione e da dieci capitoli dedicati ai seguenti temi: fisiologia vegetale; i diversi tipi di terreno e di concime; i modi di lottare contro le erbacce; coltura dei cereali e delle leguminose; coltura dei legumi; coltura delle piante i cui frutti sono dotati di buccia; coltura degli alberi i cui frutti presentano un nocciolo; coltura dei vegetali privi sia di buccia sia di nocciolo; coltura delle piante aromatiche e dei fiori; coltura delle piante medicinali; infine brani miscellanei contenenti la descrizione di alcuni giardini celebri e la storia divertente e poetica dei fiori. Il piano dell'opera è decisamente metodico e lo stile semplice e accessibile. Tuttavia, l'originalità del Miftāḥ al-rāḥa risiede nel modo di affrontare i temi agronomici, integrando le fonti della poesia e del folklore a una materia considerata scientifica e arida.
Il secondo libro, al-Durr al-multaqaṭ min ῾ilm al-filāḥatay al-Rūm wa-'l-Nabaṭ (Brani scelti di agronomia bizantina e nabatea) è, come indica lo stesso titolo, una compilazione. Il suo autore, Muḥammad ibn Abī Bakr al-Anṣārī al-Dimašqī (m. 727/1327), non cercava di mostrarsi originale, quanto di rendere accessibile al pubblico una scelta di insegnamenti agronomici greco-bizantini e mesopotamici relativi sia all'agricoltura sia all'allevamento. Di epoca più tarda è il trattato Ǧāmi῾ farā᾽id al-malāḥa fī ǧawāmi῾ fawā᾽id al-filāḥa (Raccolta delle perle della bellezza sui vantaggi dell'agronomia), composto da Muḥammad ibn Muḥammad al-Ġazzī (m. 935/1529). Si tratta di una summa agricola, importante per le sue dimensioni, in cui prevale il carattere di compilazione. ῾Abd al-Ġānī al-Nābulūsī (m. 1143/1731) ne redasse una versione abbreviata, metodica e sobria, senza frequenti ripetizioni, dal titolo ῾Alam al-malāḥa fī ῾ilm al-filāḥa (Lo stendardo della bellezza della scienza agricola). L'opera comprende un'introduzione, dieci capitoli e una conclusione, in cui sono affrontati i seguenti temi: la conoscenza dei diversi tipi di terreno; l'irrigazione delle terre; la messa a dimora degli alberi, delle piante aromatiche e dei fiori; la potatura, la fecondazione e il miglioramento del rendimento degli alberi; i diversi tipi di innesto; la simpatia e l'antipatia degli alberi; la forma dei frutti; la coltura dei cereali e dei legumi; i cereali panificabili; una raccolta di talismani e di ricette utili e, come conclusione, un capitolo dedicato alla descrizione dei metodi di conservazione dei cereali e dei semi.
Malgrado la prosperità della sua economia rurale, l'Iran preislamico non sembra aver dato origine a un'opera in cui si possa leggere l'evoluzione dell'agricoltura sul piano tecnico e agronomico. L'inclusione di questa regione nell'area geografica e culturale islamica diede origine a una letteratura specificamente agricola redatta in persiano, il cui sviluppo è spesso stato considerato una produzione autonoma che, tuttavia, può essere inserita nella cornice della storia agronomica islamica. La traduzione in pahlawi del Kitāb al-Filāḥa al-rūmiyya, con il già citato titolo Warz-nāma, rese disponibile in questa regione una parte dell'eredità greco-bizantina. Nelle enciclopedie persiane compilate tra il X e il XIV sec. sono contenuti insegnamenti agricoli; tuttavia, la produzione propriamente agronomica è costituita da due opere: il trattato anonimo Dar Ma῾rifat-i umūr ki ahl-i filāḥat-rā bi-kār āyad (Sulla conoscenza delle cose che riguardano il lavoro degli agricoltori), e Iršād al-zirā῾a (La guida dell'agricoltura), redatto da Qāsim ibn Yūsuf Abū Nāṣir Harawī nel 1515. Quest'ultimo, compilato a Herat tra la fine dell'epoca timuride e l'inizio della dominazione safavide, è considerato la più importante opera agronomica redatta in persiano. Il testo è diviso in sette capitoli chiamati rawḍa (giardino) in cui vengono studiate le conoscenze pedologiche, il calendario dei lavori agricoli, la coltura dei cereali, la viticoltura, la coltura dei giardini, la propagazione degli alberi attraverso il seme, la riproduzione per talea e, infine, gli innesti, la distillazione, l'allevamento del baco da seta e l'apicoltura. L'autore riconosce il suo debito nei confronti di alcuni autori greci (Platone e Galeno); ma nella sua compilazione si può facilmente ravvisare l'influenza della tradizione agronomica babilonese (Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya) e di quella araba (Ibn al-῾Awwām). Il ricorso alla poesia ricorda invece lo stile del Miftāḥ al-rāḥa. Tali influenze non tolgono però nulla al valore dell'Iršād che riesce a fondere in un tutto compiuto un considerevole numero di esperienze e tradizioni locali e che può essere considerato una delle testimonianze più importanti dell'agricoltura persiana all'inizio del regno dei Safavidi.
Infine, numerose informazioni sulle piante e sulle pratiche agricole sono presenti in alcune enciclopedie scientifiche redatte in Egitto: Kitāb Qawānīn al-dawāwīn (Libro delle norme dell'amministrazione) di Ibn Mammātī (m. 606/1209); Kitāb Mabāhiǧ al-fikar wa-manāhiǧ al-῾ibar (Libro delle delizie dei pensieri e delle esperienze) di Ǧamāl al-Dīn al-Waṭwaṭ (m. 718/1318); Nihāyat al-arab fī funūn al-adab (Il conseguimento dello scopo nelle discipline letterarie) di al-Nuwayrī. L'opera di Ibn Mammātī, l'esempio più riuscito di questo genere letterario, contiene una serie di informazioni utili concernenti la situazione agricola dell'Egitto tra la fine della dinastia fatimide e l'inizio del regno degli Ayyubidi. Tuttavia, lasciando da parte questi testi di carattere geografico-letterario e amministrativo, non è stato ancora rinvenuto un trattato specificamente dedicato all'insegnamento della scienza agricola.
La pubblicazione di opere agronomiche è stata storicamente un indizio certo del rinnovamento dell'attività agricola e del progresso dell'economia rurale nelle regioni del mondo islamico. Lo studio di questi testi è fondamentale per comprendere l'evoluzione dell'agricoltura e rende possibile, attraverso una migliore conoscenza di questo patrimonio culturale, la sua applicazione allo sviluppo dell'agricoltura tradizionale nel mondo arabo. Ne è un esempio il libro dell'egiziano Aḥmad Nadā (m. 1876) intitolato Ḥusn al-ṣinā῾a fī ῾ilm al-zirā῾a (La perfezione dell'industria nella scienza agricola) pubblicato nel 1873, nel quale egli riesce a fondere l'eredità agricola araba medievale, cui rimane fedele e che considera un punto di riferimento, ai contributi dell'agronomia europea del XIX secolo.
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